Confronti - deistituzionalizzazione

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Confronti - deistituzionalizzazione
6,00 EURO - TARIFFA R.O.C.: POSTE ITALIANE SPA - SPED. IN ABB. POST. D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/04 N.46) ART.1 COMMA 1, DCB ROMA
Iran:
una nuova
«guerra
preventiva»?
MARZO
3
2010
CONFRONTI
3/MARZO 2010
Anno XXXVII, numero 3
Confronti, mensile di fede, politica, vita quotidiana, è proprietà della cooperativa di lettori Com
Nuovi Tempi, rappresentata dal Consiglio di Amministrazione: Ernesto Flavio Ghizzoni (presidente), Stefano Toppi (vicepresidente), Rosario Garra,
Gian Mario Gillio, Rita Maria Maglietta.
Le immagini
Iran: una nuova «guerra preventiva»? · Umberto Gillio, copertina
La speranza africana · Archivio dell’associazione Itinerari africani 3
Gli editoriali
Regionali: votare per i meno raccapriccianti · Felice Mill Colorni, 4
Ricordando Basaglia, a 30 anni dalla morte · Giuseppe Dell’Acqua 5
L’islam «alla Maroni» · Mostafa El Ayoubi, 6
Manovre in Curia, conclave sullo sfondo · David Gabrielli, 7
Direttore Gian Mario Gillio
Caporedattore Mostafa El Ayoubi
In redazione
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Di Grazia, Jayendranata Franco Di Maria, Piero Di
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Redazione tecnica e grafica
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Se le virtù private non bastano ad un papa · David Gabrielli, 9
Wojtyla e il caso Ior: quale «fortezza»? · Giovanni Franzoni, 12
«Occorre continuare a dialogare» · (intervista a) Renzo Gattegna, 13
Il papa in visita alla Sinagoga. Cui prodest? · Bruno Segre, 15
La guerra che l’Occidente ha già deciso? · Franco Cardini, 16
Tensioni e speranze nella regione dei tuareg · Donato Cianchini, 19
Una Repubblica fondata sugli affari? · Nicola Tranfaglia, 21
Quando di lavoro si muore · (intervista a) Mimmo Calopresti, 22
I conflitti nella regione dei Grandi Laghi · Giusy Baioni, 24
Pace precaria tra cattolici e protestanti · Donato Di Sanzo, 26
Attese, speranze e ostacoli alla pace · Francesco Farina, 29
Costruire il futuro investendo sui giovani · (intervista a) Massimo Gnone, 31
Quando le parole uccidono più della spada · Azzurra Carpo, 33
Le notizie
Cdb
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Iran
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Cultura
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Società
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Politica
Chiesa italiana
Eluana Englaro
Dossier
«Berlusconi non vede il muro? Regaliamogli un paio di occhiali», 35
A Guantanamo prosegue la linea Bush, nonostante le promesse di Obama, 35
Giustiziati due manifestanti delle proteste post-elettorali, 35
La popolazione danneggiata da miniere e raffinerie, 36
Una mostra fotografica per raccontare rom e sinti, 36
Un romano su dieci è di origine immigrata, 36
Un incontro per conoscere la comunità cinese a Roma, 37
A Milano la XV Giornata della memoria contro le mafie, 37
Legambiente si mobilita contro il ritorno al nucleare, 37
M’illumino di meno, per il risparmio energetico, 38
Giovani per la Costituzione compie cinque anni, 38
L’appello dell’Associazione vittime dell’uranio impoverito, 39
A Firenze il secondo incontro dei cattolici autoconvocati, 39
Bonafede: «Basta con l’uso politico della vicenda», 40
Su «Riforma» un approfondimento a cura della Fcei sui temi dell’immigrazione, 40
Le rubriche
Osservatorio sulle fedi
Note dal margine
Opinione
Opinione
Cinema
Libro
«Tranquilli, è in arrivo l’Apocalisse» · Antonio Delrio, 41
Il vero volto di Eluana · Giovanni Franzoni, 42
«Se Dio è maschio, il maschio è Dio» · Stefania Sarallo, 43
Haiti: i dannati della Terra · Giuliano Ligabue, 44
Se il tagliatore di teste si toglie la corazza · Umberto Brancia, 45
La lettura del Corano e le domande del nostro tempo · Giorgio Piacentini, 46
Hanno collaborato a questo numero:
G. Baioni, M. Bevilacqua, M. Calopresti, F. Cardini,
A. Carpo, D. Cianchini, G. Dell’Acqua, D. Di Sanzo,
A. Esposito, F. Farina, R. Gattegna, M. Gnone, G.
Piacentini, B. Segre, N. Tranfaglia.
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LE IMMAGINI
LA SPERANZA AFRICANA
Tra dittature e colpi di Stato militari vari, il Niger resta oggi
uno dei paesi più poveri e martoriati del mondo: reddito annuo per persona,
700 dollari; speranza di vita, 52,6 anni; tasso di alfabetizzazione, 28,7%.
La sua unica via d’uscita sono i suoi «figli»,
ma sulla loro istruzione sono in pochi a investire.
Le immagini che illustrano questo numero sono dell’archivio
dell’associazione Itinerari africani (www.itinerariafricani.net)
fondata da Donato Cianchini e Monica Pellegrino e si riferiscono al servizio a pagina 19.
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GLI EDITORIALI
Regionali: votare per
i meno raccapriccianti
Felice Mill Colorni
E’
una pietosa bugia, ripetuta da quando furono istituite con un ritardo più che ventennale le Regioni a statuto ordinario, che il
potere politico sia tanto più controllabile dai
cittadini quanto più è loro vicino geograficamente. La
prossimità della politica non dipende dalla distanza fisica ma dai media. E i media più influenti e potenti si
strutturano al più alto livello geografico utile alla politica e consentito dalla raccolta della pubblicità: nel
caso italiano, dall’area di diffusione della lingua italiana, ancor oggi miglior veicolo pubblicitario dei vernacoli locali. Non che i media nazionali più diffusi e
decisivi – in particolare la televisione, che è il principale canale di informazione politica per l’80 % dei nostri concittadini – siano ormai molto più che protuberanze della politica; ma insomma un minimo di informazione, per quanto in prevalenza deferente e devota,
sono pur sempre obbligati a fornirla. E quindi il potere politico nazionale un minimo di visibilità, non sempre al cento per cento idolatrante e sottomessa, è pur
sempre obbligato a sopportarla.
Il potere regionale no. Le Regioni sono il più potente canale di redistribuzione di risorse pubbliche sottratto a un vero controllo democratico diffuso. Una redistribuzione delle risorse che, per conseguenza, tende a funzionare all’inverso rispetto alle previsioni costituzionali: a vantaggio di clienti, postulanti e amici
della politica molto più che secondo i virtuosi criteri
equitativi fissati dai costituenti nel ’48. Se molti sono
almeno i cittadini informati su chi li governa a livello nazionale, molto pochi fra i non addetti ai lavori (e
fra i non appartenenti a corporazioni e gruppi di potere o di pressione) potrebbero anche solo ricordare i
nomi di qualche politico regionale di rilievo, oltre magari a quello del presidente della propria Regione.
Semmai, in un paese che da sempre riconosce come
dimensione identitaria principale quella campanilistica, un minimo di interesse è ancora capace di suscitarlo la politica municipale.
Per questo è vero che le elezioni regionali sono sempre, molto più delle amministrative, un test per gli
equilibri politici nazionali. Un test di quel mistero
sempre più doloroso che appare la politica italiana, a
patto di guardarla come fa il resto del mondo democratico anziché attraverso il filtro della sua rassicurante rappresentazione televisiva italiana.
Dobbiamo purtroppo riconoscere che, secondo tut-
Le Regioni sono
il più potente canale
di redistribuzione
di risorse pubbliche
sottratto a un vero
controllo
democratico diffuso.
Una redistribuzione
che tende a funzionare
a vantaggio di clienti,
postulanti e amici
della politica molto
più che secondo
i virtuosi criteri
equitativi fissati
dai costituenti nel ’48.
Le elezioni del 28
e 29 marzo saranno –
come sempre –
un test per gli equilibri
politici nazionali
e nell’Italia dove
trionfano il malaffare
e una barbarie ormai
apertamente razzista
non ci si può proprio
permettere di essere
«schizzinosi»: andare
a votare è un triste
obbligo morale e civile.
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ti i sondaggi, la maggioranza degli italiani ha accettato l’idea di farsi governare da un tycoon [il magnate Berlusconi] che, chiamato a testimoniare in un processo di mafia, si è avvalso della facoltà di non rispondere; da uno che non solo non pretende, come la
legge gli consentirebbe, di difendersi nel merito contro le imputazioni infamanti pendenti sul suo capo,
ma che anzi fa di tutto per cavarsela con proscioglimenti per prescrizione: cose che nessun governante
occidentale si permetterebbe mai di fare. Di farsi governare da uno che ha assecondato le peggiori inclinazioni della società italiana e imposto mentalità e
stili di vita e di governo da basso impero. Pare che ai
nostri concittadini non faccia senso.
Naturalmente non è solo colpa loro, ma anche, certamente in misura maggiore, di chi dall’opposizione
ha «responsabilmente» accettato questo andazzo, e,
persa con le certezze del passato anche ogni bussola
per valutare i comportamenti propri e altrui, tratta da
anni B come se fosse la versione italiana di Merkel,
Sarkozy, Cameron, Rajoy o McCain.
È per questo che i test più significativi saranno quelli delle Regioni in cui ai rappresentanti della maggioranza di governo nazionale non si contrappongono
normali politici di partito, ma esponenti di una politica insolita rispetto all’opposizione mainstream. Non
a caso è proprio nelle due importanti Regioni in cui
la battaglia è più aperta che il Partito democratico, per
avere qualche minima chance, ha finito per accettare
di sostenere candidati eccentrici.
Il Lazio, innanzitutto. Subìta più che ricercata, la
candidatura di Emma Bonino, nella Regione in cui il
Pd credeva già di avere perso in partenza e sembrava
ritenere solo possibile farsi rappresentare da un cattolico ratzingeriano, potrebbe essere la chiave di volta di
un generale e salutare ripensamento. Un ripensamento su chi siano oggi gli elettori cattolici, su che cosa significhi fare i conti con la modernità, su che cosa comporti adottare standard di trasparenza amministrativa finora sconosciuti alle nostre latitudini.
Altrettanto significativo sarà il risultato del tentativo di assalto leghista al Piemonte, la Regione in cui il
Pd si presenta forse con il suo volto migliore e più solidamente laico, con serie e buone amministrazioni
della Regione e del capoluogo (che non possono essere giudicate solo per la vicenda dell’alta velocità), e la
destra con quello più aggressivamente populista della
Lega, proprio nella culla della laicità e della modernità italiane. Si spera in una ripetizione del fallimento leghista di qualche anno fa in Friuli.
Tuttora purtroppo scontati, a giudicare dai sondaggi, il radicamento del granducato ciellino in Lombardia e di qualunque destra si presenti in Veneto, sarà interessante misurare l’appannamento del centrosinistra nelle sue Regioni, tradizionalmente rosse o dal Pd
GLI EDITORIALI
conquistabili a intermittenza, a cominciare da quelle
in cui sembra intenzionato a presentarsi con i volti,
per ragioni in parte diverse assai logori, di Liguria e
Calabria: in quest’ultima Regione, sarà significativo
indice della volontà di superare lo sfacelo il risultato
di Pippo Callipo, sulla carta per ora sostenuto solo da
Idv e radicali. E sarà interessante vedere come andrà
in Puglia Nichi Vendola, esponente di una sinistra che
nel Centro-nord probabilmente sembrerebbe alla maggior parte degli elettori del centrosinistra eccessivamente onirica, ma cui ha conferito credibilità e prestigio l’ostilità manifestata dalla nomenklatura di
partito. Di incerta interpretazione, invece, sarà comunque il risultato della Campania, dove Pd e Idv
marcano una doverosa rottura di continuità con un
passato indecoroso, ma affidandosi ai modi maneschi
di un sindaco cui piace atteggiarsi a sceriffo.
In ogni caso, nell’Italia di B non ci si può proprio
permettere di essere schizzinosi: davanti al trionfo del
malaffare e a una barbarie ormai apertamente razzista, andare a votare comunque è un triste obbligo morale e civile. Se sulla scheda non vi riesce proprio di
trovare il male minore, vedete di accontentarvi del meno raccapricciante.
Ricordando Basaglia,
a 30 anni dalla morte
Giuseppe Dell’Acqua
Q
uasi 6 milioni di persone hanno visto in televisione «C’era una volta la città dei matti». Il
racconto del lavoro di Franco Basaglia nei manicomi di Gorizia e Trieste ha illuminato 30
anni di storia del nostro paese: il ritorno nel contratto
sociale dei «malati di mente», la chiusura dei manicomi, la consapevolezza che un altro modo di curare è
possibile. Della storia dei manicomi e della loro fine
non possiamo perdere la memoria. Il ritorno di quella
memoria ha fatto affiorare domande che sembravano
ormai improponibili, datate, ideologiche. Per 30 anni,
mentre faticosamente i cambiamenti avviati da quelle
coraggiose scelte andavano avanti, e le persone tra infiniti ostacoli e resistenze conquistavano margini di
possibilità, una pesante coltre ha coperto la molteplicità e la diversità delle esperienze, singolari o collettive, di grandi istituzioni o di piccole imprese sociali,
gioiose o dolorose che fossero, col luogo comune della
«legge da cambiare».
Basaglia quando entra per la prima volta nel manicomio di Gorizia, di fronte alla violenza e all’orrore che scopre è costretto a chiedersi angosciato: «che
Ad agosto ricorrerà
il trentennale della
morte del «padre»
della legge 180
sui manicomi.
Negli anni Settanta,
Peppe Dell’Acqua
era un giovane
psichiatra
che collaborava
con Basaglia.
Di quella rivoluzione,
cui partecipò in prima
persona, resta una
testimonianza ricca
e complessa nel suo
libro «Non ho l’arma
che uccide il leone».
Oggi è direttore
del Dipartimento
di salute
mentale di Trieste.
5
cos’è la psichiatria?». Da qui la spinta formidabile ad
«aprire le porte», al rifiuto di qualsiasi complicità con
quelle istituzioni, all’irreparabile rottura del paradigma psichiatrico. Dopo quasi duecento anni, per la prima volta dalla sua nascita, il manicomio, le culture e
le pratiche della psichiatria vengono toccate alle radici. È un capovolgimento che presto si rivelerà irreversibile: «il malato e non la malattia».
La legge 180 non è altro che questo. Non è più lo
Stato che interna, che interdice per salvaguardare l’ordine e la morale; non più il malato di mente «pericoloso per sé e per gli altri e di pubblico scandalo», ma
una persona bisognosa di cure. Un cittadino cui lo
Stato deve garantire, e rendere esigibile, un fondamentale diritto costituzionale.
I cambiamenti legislativi, culturali e istituzionali,
che malgrado tutto sono avvenuti, hanno restituito
nella ruvidezza della vita, ora reale, la possibilità ai
«malati di mente», ovvero alle persone, di sperare di
rimontare il corso delle proprie esistenze, di trovare
identità differenti, perfino di guarire.
Lo scorso ottobre, prima del Basaglia televisivo, una
dichiarazione del ministro della Salute Ferruccio Fazio al Convegno della Società italiana di psichiatria
ha sorpreso tutti: «Al momento attuale non pensiamo
ci siano delle grosse modifiche da fare alla legge 180,
piuttosto pensiamo sia opportuno fare una revisione
della situazione territoriale di tutta l’assistenza per la
salute mentale in Italia. Come tutte le leggi anche in
quelle buone come la legge Basaglia ci sono a volte
delle criticità. In questo caso la situazione delle strutture psichiatriche del nostro paese non è uniforme».
E tutti abbiamo pensato che forse, finalmente, cominceremo a lavorare sulle organizzazioni, sulle risorse, sulle buone pratiche, sulla formazione, su una
efficace comunicazione sociale.
Molte cose sono accadute in questi anni e di recente il «cambiamento» ha trovato ulteriori conferme. La
presenza dei servizi è ormai diffusa in tutto il territorio nazionale. Malgrado spesso funzionino poco e male. Le persone sono finalmente consapevoli dei loro diritti e pretendono cure e trattamenti appropriati. Molte resistenze ancora persistono. Le risposte dei servizi
sono spesso improntate a un modello medico che propone ambulatori, farmaci, ricoveri, trattamenti sanitari obbligatori, reparti psichiatrici, porte chiuse, contenzione, residenzialità senza fine. Le amministrazioni regionali e aziendali (e la psichiatria) fanno fatica
a concretizzare risposte efficaci intorno alle persone,
alle famiglie, ai loro bisogni e ai loro affetti.
Eppure di recente atti di indirizzo sono stati prodotti dai governi che si sono succeduti e dal Parlamento
europeo perché fosse sempre più chiara la scelta a sostegno di una salute mentale comunitaria. Richiamando i governi locali, le Regioni, alle loro responsa-
GLI EDITORIALI
bilità nella programmazione, nella disposizione delle
risorse, nell’offerta di servizi vicini alle persone. In occasione delle imminenti elezioni regionali bisognerà
esercitare ogni forma di pressione sui candidati presidenti perché costringano i loro programmi a una attenta definizione dei servizi, delle risorse, dei dispositivi che solo le Regioni possono mettere in atto e che
– per carità! – non parlino più della legge 180. In tal
senso è in atto un’iniziativa del Forum Salute Mentale (www.forumsalutementale.it) che suggerisce di inviare una lettera programma ai candidati presidenti.
I familiari e le loro associazioni, spesso inascoltati
o peggio manipolati, sanno bene che il cambiamento
avviene attraverso l’impegno e la programmazione regionale. Essi sono stati nella fase iniziale i più forti sostenitori del cambiamento e hanno creduto fino in
fondo al diritto riconquistato, alla possibilità di ripresa, alla speranza di una vita che possa, malgrado tutto, essere vissuta. Ora cominciano a essere sulla scena
le persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale. Hanno cominciato ad associarsi, a riconoscersi e
a parlare. Non più con un filo di voce per «ringraziare il bravo dottore», né con urla di disperazione e di
dolore, ma con parole esperte che pretendono di essere ascoltate. E questa è la cosa più meravigliosa che
mai avremmo potuto immaginare.
Le persone che vivono questa esperienza parlano di
futuro, di desideri, di lavoro, di amore, di protagonismo. Di guarigione.
Francesco, 23 anni, studente di architettura, da 4
anni cerca di farcela. «Quando è cominciata la malattia – ha detto al gruppo del Centro di salute mentale – sentivo un muro davanti a me. Un muro che mi
impediva di incontrare gli altri. Ero sempre più
schiacciato da questo muro. E sempre più solo. Ho
provato a scavalcarlo più volte e sempre mi sono fatto male. Molto male. Adesso ho cominciato, piano piano, a picconarlo».
L’islam
«alla Maroni»
Mostafa El Ayoubi
N
el bene o nel male, il governo italiano riapre
il dossier «Islam in Italia». Un nuovo organo
consultivo, battezzato «Comitato per l’islam
italiano», è stato istituito all’inizio di febbraio
scorso dal ministro dell’Interno Roberto Maroni. Il suo
compito, secondo una nota del Viminale, sarà quello di
esprimere pareri e proposte su temi indicati dal ministro con «l’obiettivo di migliorare l’inserimento socia-
Il Ministero dell’Interno
ha istituito il Comitato
per l’islam italiano.
Tra i suoi esperti,
accanto a nomi
autorevoli, spiccano
anche alcuni noti fan
di Oriana Fallaci,
decisamente ostili
al mondo musulmano.
6
le e l’integrazione delle comunità musulmane nella società nazionale, anche nell’ottica di sviluppare la coesione e la condivisione di valori e diritti nel rispetto della Costituzione e delle leggi della Repubblica». I temi
che stanno a cuore – si fa per dire – a Maroni sono in
sostanza due: moschee/imam e velo islamico. Il neo
comitato, che dovrà fornire delle indicazioni su questi
delicati argomenti, è composto da 19 membri.
Che cosa contraddistingue questo Comitato per
l’islam italiano dalla Consulta islamica creata da Pisanu nel 2005, confermata da Amato e poi affossata
da Maroni stesso?
Un primo elemento che differenzia i due organi è che
la squadra di Maroni, come è stato chiaramente dichiarato, non ha pretese di rappresentatività della complessa comunità islamica in Italia (8 dei 19 membri del comitato sono italiani non musulmani), cosa che per la
Consulta (dei 16 musulmani) non era così specificato.
Un secondo elemento è che la Consulta non aveva
un mandato preciso – ha cercato di elaborarne uno,
ma ha finito per creare quel pasticcio della cosiddetta
«Carta dei valori» – mentre il neo comitato avrà un
ruolo ben definito: fungere da supporto politico al ministro nelle più che probabili future normative sulla
formazione degli imam e sul velo.
Riguardo la prima questione, l’orientamento pare
sia quello di conferire al Viminale l’autorità di decidere a chi assegnare la «patente» di imam e, di conseguenza, disporre del controllo totale dei luoghi di
culto islamico. Un’azione in piena violazione della
Costituzione italiana. La stessa Costituzione che il ministro vuol far rispettare ai musulmani, nel suo articolo 8 afferma che le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i
propri statuti. Maroni invece intende istituire un albo degli imam gestito dallo Stato.
E se così sarà, una data comunità islamica potrà
avere qualche chance di avere una sala di preghiera
solo se è rappresentata da un imam «benedetto» dal
ministro dell’Interno. E chissà, il sermone del venerdì
potrebbe anche essere faxato all’imam dal Viminale
stesso, proprio come avviene nelle dittature arabe. In
sostanza l’orientamento sarà: moschee poche e addomesticate; stessa sorte anche per gli imam.
Quanto alla seconda questione, è evidente che lo scopo principale è quello di creare i presupposti per una
legge che vieti il velo integrale – per motivi puramente ideologici – nei luoghi pubblici. In effetti, per la
maggioranza attuale (spronata dalla Lega), la preoccupazione principale non è tanto il serio nodo della discriminazione della donna musulmana «burqata»,
quanto i musulmani stessi, la cui presenza sul territorio italiano rappresenta un problema. C’è da osservare
che il comitato chiamato a pronunciarsi su una questione fondamentale quale quella del velo comprende
GLI EDITORIALI
una sola donna, il che fa molto riflettere sulla vera motivazione di una eventuale legge in materia.
In merito alla questione, gli effetti di una simile legge saranno dannosi in primo luogo per le donne che
indossano il velo integrale, le quali saranno costrette
a rimanere chiuse in casa e quindi ulteriormente isolate; in secondo luogo, una tale normativa potrebbe
scatenare una smisurata reazione della comunità islamica e contribuire alla sua radicalizzazione. Ed è proprio quello a cui qualcuno vuole arrivare, ovvero: dimostrare che i musulmani non sono integrabili.
I criteri di scelta dei componenti del Comitato per
l’islam italiano sono in perfetta linea con questa tesi.
Vediamo allora per sommi capi chi sono i nuovi consulenti del ministro. Alcuni membri – pochi – sono
rappresentanti di comunità e di organizzazioni islamiche in Italia, ma tutti «area establishment». L’Ucoii
– di cui fa parte un significativo numero di centri islamici – come era prevedibile, è stata esclusa. Altri sono cittadini di origine straniera di cultura islamica
– in maggioranza marocchini – anch’essi uomini di
corte: uno ha anche vinto nel 2007 il premio Oriana
Fallaci (promosso dall’associazione «Una via per
Oriana»). Altri ancora, pescati tra gli «esperti», sono
dichiaratamente «fallacisti» e islamofobi: Carlo Panella e Andrea Morigi. Panella, per chi non lo sa, è
l’autore del libro Fascismo islamico, in cui afferma
che il mondo musulmano è fondamentalmente fascista, anzi nazista! Morigi, giornalista del quotidiano Libero, è noto per le sue crociate contro i musulmani:
egli sostiene che «l’islam vuole la conquista dell’Occidente con il suo cavallo di Troia che è il Corano, da
imporre gradualmente ma inesorabilmente anche ai
cristiani». Un’altra presenza ambigua all’interno di
questo gruppo di lavoro è quella di Massimo Introvigne, membro del direttivo dell’associazione Alleanza
Cattolica nella quale milita anche il sottosegretario
Mantovano, indirettamente compartecipe nell’istituzione del suddetto comitato. Riguardo alle polemiche
sulle moschee, Introvigne ritiene di non aver bisogno
di lezioni sulla libertà religiosa né da Fini né da Rosy
Bindi e che «si può essere a favore della libertà religiosa ma contro le autorizzazioni indiscriminate a costruire moschee e minareti».
In questo team di Maroni, in effetti, pochi si intendono della questione islamica e del suo collocamento
nel quadro della libertà religiosa in Italia. Sono persone sicuramente in grado di dare un serio contributo a far progredire il dibattito sull’integrazione
dell’islam in Italia. Ma i presupposti di questa operazione del Viminale lasciano supporre che essi non
avranno voce in capitolo e che in realtà le loro serietà
e competenze servono solo per non far sembrare poco
credibile e poco competente il neo comitato per l’islam
italiano.
Manovre in Curia
conclave sullo sfondo
David Gabrielli
L’evidente distonia
tra «Avvenire»
e «Osservatore
romano»
sul caso Boffo è solo
la punta dell’iceberg
di una battaglia
che vede contrapposti
i cardinali Bertone
e Ruini e la cui vera
posta in gioco
è il futuro conclave.
Di qui le pressioni
sul papa in attesa
del concistoro
per la creazione
di nuovi porporati.
7
I
l contrastato dibattito sul sistema di governo ai
vertici della Chiesa cattolica romana e, indirettamente, le manovre in vista del futuro conclave
sono lo sfondo, a nostro parere, nel quale vanno
situate, per essere comprese, le tensioni tra le gerarchie vaticane delle quali la vicenda Boffo, con annessi e connessi, è solo la piccola punta visibile di un
grande iceberg sommerso.
I fatti più recenti sono noti: il 9 febbraio la Sala
stampa della Santa Sede rendeva noto un comunicato che, su L’Osservatore romano del pomeriggio (datato 10), è stato posto, in prima pagina, con la premessa: «Il Santo Padre ha approvato il seguente comunicato e ne ha ordinato la pubblicazione». Il testo
smentiva fermamente le ricostruzioni di molti media
che, a partire dal 23 gennaio, avevano sostenuto che
il direttore del quotidiano vaticano, Gian Maria Vian,
era implicato nella vicenda che il 3 settembre scorso
aveva portato alle dimissioni di Dino Boffo, direttore
di Avvenire, quotidiano controllato dalla Conferenza
episcopale italiana. Alcuni media, cioè, avevano affermato che, quest’estate, era stato lo stesso Vian a
passare a Vittorio Feltri, direttore de Il Giornale, un
foglio anonimo che in sostanza accusava Boffo di aver
molestato una signora perché egli voleva avere rapporti sessuali con il marito (sulla vicenda, si veda
Confronti 10/2009). Il comunicato vaticano definiva
«azione immotivata, irragionevole e malvagia» quella dei propagatori di calunnie tali da dar luogo «ad
una campagna diffamatoria contro la Santa Sede, che
coinvolge lo stesso Romano Pontefice».
Avvenire, scontento – si vede – del comunicato, lo
ha pubblicato senza commento, e non in prima pagina (come invece campeggiava sui principali giornali nazionali). Ma perché mai questa distonia tra i
vertici della Cei, presieduta dal cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova, e la Segreteria di Stato vaticana guidata dal cardinale Tarcisio Bertone?
Per decifrarla, è necessario fare un passo indietro.
Giovanni Paolo II, nel 1991, nominò presidente della Cei il cardinale Camillo Ruini, da lui scelto anche
come vicario di Roma. Cinque anni dopo, alla scadenza del suo mandato, Wojtyla lo rinnovò, e per la
terza volta lo fece nel 2001. Da qualche parte dell’episcopato si levò sommessamente la richiesta che fossero i vescovi stessi a scegliere il presidente della Cei,
analogamente a quanto accade in tutte le Conferen-
GLI EDITORIALI
vista al Corriere della Sera, Vian criticava (cosa mai
vista!) il giornale della Cei, non parlava a caso: egli
era, nei fatti, il portavoce di Bertone che aveva convinto Ratzinger a scegliere lui come direttore dell’Osservatore. Dunque, silurando per interposta persona
la barchetta di Boffo, il segretario di Stato tentava di
colpire anche la corrazzata Ruini (orgoglioso poi di
annunciare urbi et orbi di aver invitato a pranzo, il
20 gennaio scorso, Silvio Berlusconi) e la nave scorta Bagnasco. E perché mai?
Perché – e qui, ci sembra, si apre il vero scenario
– Bertone pensa anche al futuro conclave, dove spera, se non proprio di essere eletto, di diventare almeno il king maker, l’uomo decisivo per convincere gli
eminentissimi colleghi a scegliere, come nuovo papa, quello che lui indicherà. In tale contesto, cruciale sarà il concistoro, certo entro un anno, per la creazione di nuovi cardinali. Se rimane in vigore l’attuale normativa (i cardinali ad 80 anni perdono il diritto di entrare in conclave, e il «tetto» dei votanti è di
120), a fine marzo i porporati «votanti» sarebbero
108: dunque, per ora, sarebbero solo dodici i posti «liberi». Ma se il pontefice darà la porpora a quella decina di monsignori che al momento reggono dicasteri curiali che di norma dovrebbero essere guidati
da un cardinale, al papa resterebbero solo un paio di
posti per premiare ben più numerosi vescovi che reggono importanti diocesi del mondo, da Hanoi a Kinshasa, da Washington a Varsavia, da Antananarivo a
Brasilia, da Westminster a Tokyo, da Monaco a Quito, per non parlare di diocesi italiane «cardinalizie»,
come Firenze e Palermo.
A fine 2010 Ratzinger avrebbe più posti (altri sette
porporati compiranno 80 anni), ma non sufficienti
a... coprire tutte le caselle. La vera «battaglia»
all’ombra del cupolone è dunque quella di cercare –
soavemente – di sollecitare Ratzinger a dare la porpora a Tizio ma non a Caio. In quest’opera si stanno spendendo Bertone e Ruini, ciascuno per i suoi
scopi e per i propri uomini. E i cardinali di Curia non
italiani, mentre assistono silenti allo sconcertante
scambio di sgarbi tra Osservatore e Avvenire, segno
di torbide manovre italiote, si danno anch’essi da fare, come possono, per prepararsi all’ora in cui il conclave dovrà decidere se scegliere un pontefice che prosegua nella linea del tandem Wojtyla-Ratzinger – restrittiva, per molti aspetti, nell’interpretazione del Vaticano II – oppure rilanciare il Concilio. Dunque,
ogni cardinale può essere decisivo per scegliere l’una
o l’altra strada. Perciò, pur sempre fiduciosi nell’opera dello Spirito santo, alcuni prelati operano per alleviarGli il compito favorendo alcune promozioni e
impedendone possibilmente altre. Alla maggior gloria di Dio.
ze episcopali del mondo. Ma Wojtyla rifiutò, adducendo come motivo che il papa è vescovo di Roma e
primate d’Italia, e come tale ha il diritto naturale di
scegliere il presidente della Cei.
Nella Chiesa italiana serpeggiava un crescente malessere per lo strapotere di Ruini, delegato da Wojtyla anche a guidare la politica (politica) della Cei, e
dunque a trattare con il governo, oltre che a lanciare le parole d’ordine alla cattolicità italiana. Queste
grida di dolore furono ignorate da Giovanni Paolo II
che, tramite Ruini, di fatto «commissariava» la Cei.
Con questo vento in poppa il cardinale vicario coltivava l’ambizione suprema: essere eletto successore di
Giovanni Paolo II. Ma il 19 aprile 2005 il conclave
elesse papa il cardinale Joseph Ratzinger, anch’egli
del resto da tempo in corsa per il soglio di Pietro. Ruini non si scoraggiò e, proprio nel passaggio da un
pontificato all’altro, guidò la Cei all’ultima battaglia:
impedire, nel giugno 2005, che passasse un referendum che avrebbe allargato la possibilità della procreazione assistita. La scelta di Ruini (e della Cei che,
improvvida, lo seguì) fu di invitare caldamente tutti,
e dunque non solo i cattolici, ad astenersi dall’andare al voto, così da far mancare il quorum e rendere
nullo il risultato del referendum. E accadde proprio
così. Al di là del peso effettivo (millantato?) del proclama di Ruini, un dato era chiaro: la «presenza»
della Chiesa (cattolica) nella società italiana significava che spettava ai vescovi dare la linea, al paese intero, sui temi etico-politici.
Benedetto XVI era della stessa idea; tuttavia sapeva
anche che una parte notevole dell’episcopato era stufa di Ruini. Ma chi, allora, porre al suo posto? Sarebbe stata l’occasione di affidare all’assemblea della Cei
la scelta, finalmente attuando la tanto proclamata
collegialità episcopale e il tanto annunciato «nuovo
modo» di esercitare il ministero petrino; ma anche
Ratzinger rifiutò. E dopo contrastanti pareri giuntigli da più parti, infine (marzo 2007) si orientò su Bagnasco. A favorire questa scelta – non proposta dalla
maggioranza delle Conferenze episcopali regionali –
fu proprio Bertone. Il quale, segretario di Stato
dall’estate 2006, mise subito in chiaro, al neo-eletto,
che spettava a lui stesso, e non già al presidente della Cei, gestire la politica della Chiesa cattolica in Italia. Era la fine, formalmente, dell’era Ruini, rafforzata dal fatto che il papa scelse poi come vicario a
Roma il cardinale Agostino Vallini. Il «pensionato»
riusciva però a rientrare in orbita facendosi nominare a capo del «Progetto culturale» dalla Cei corposamente finanziato.
Ma a guidare Avvenire rimaneva Boffo, pedina di
Ruini non solo là, ma anche in altre importanti cariche. Allora, quando nell’estate scorsa, in un’inter-
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SANTITÀ
Se le virtù private
non bastano ad un papa
David Gabrielli
La proclamazione delle «virtù eroiche» di Pio XII e Giovanni Paolo
II – il passo che apre la via alla loro beatificazione – ha riaperto
il dibattito sul «silenzio» di Pacelli a proposito della Shoah,
e su alcuni aspetti del pontificato di Wojtyla. La questione teologica
sul fondamento biblico della canonizzazione in se stessa.
L
a proclamazione delle «virtù eroiche» di Pio
XII e di Giovanni Paolo II ha riaperto un dibattito che, partendo dai casi singoli, si allarga all’istituto stesso delle beatificazioni e delle canonizzazioni, cioè al gradino meno solenne, e
più solenne, sul quale una persona viene proposta ai
fedeli cattolici, dal papa, come esempio da imitare, e,
con la canonizzazione almeno, affermando con assoluta certezza che quella tal persona è stata salvata
ed è nel regno di Dio. Un dibattito che investe una
questione di fondo: che cosa significa, per la Chiesa
cattolica, indicare a modello di tutti i fedeli una persona? E, per chi ha avuto in vita grandi responsabilità di governo, ed ha compiuto scelte che hanno diviso l’opinione pubblica e il giudizio degli storici, come distinguere le intenzioni soggettive dalle oggettive conseguenze (positive, discutibili o negative) di
certe sue scelte? Interrogativi di sempre ma che, oggi,
per la maturazione di sensibilità un tempo meno evidenti, si ripropongono in maniera più alta e forte.
È lecito anticipare sulla terra,
qui e ora, il giudizio di Dio?
Di solito – nei tempi recenti, almeno – è nei giorni
prima di Natale che ogni anno la Congregazione delle cause dei santi (il dicastero della Curia romana che
si occupa di tali problematiche) promulga, su mandato del papa, decreti che riguardano appunto l’iter
cui sono giunti alcuni candidati/e per essere proposti
alla pubblica venerazione. Così, il 19 dicembre scorso Benedetto XVI ha autorizzato monsignor Angelo
Amato, prefetto del citato organismo, a promulgare
decreti riguardanti miracoli attribuiti all’intercessione di dieci uomini e donne, di vari paesi, vissuti in secoli assai differenti, dal Quattrocento al Novecento;
alcuni, già beati, con l’attribuzione del nuovo miracolo saranno canonizzati; altri, solamente «servi-serve di Dio», diverranno beati. È stato quindi proclamato un martirio (quello del «servo di Dio» Jerzy Popieluszko, «ucciso in odio alla Fede», nel 1984, da
agenti del regime comunista polacco); e, quindi, le
«virtù eroiche» di dieci persone, otto delle quali del
9
tutto sconosciute al grande pubblico; ma due notissime: Eugenio Pacelli, nato a Roma nel 1876, eletto papa Pio XII il 2 marzo 1939 e morto il 9 ottobre 1958;
e Karol Wojtyla, nato a Wadowice, in Polonia, il 20
maggio 1920, eletto papa Giovanni Paolo II il 16 ottobre 1978, morto il 2 aprile 2005.
Proclamare le «virtù eroiche» significa, nel linguaggio curiale, affermare che una determinata persona ha vissuto in modo eminente le tre virtù teologali (fede, speranza e carità) e poi le quattro cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza):
cioè, sempre volendo compiere solamente la volontà
di Dio e servire al bene delle anime, e mai lasciandosi guidare dallo spirito mondano o dal tornaconto
personale. Una tale proclamazione è l’ultimo passaggio prima della beatificazione, ed è il pontefice che
decide quando fissare la data della relativa cerimonia
e dove tenerla (Ratzinger si è riservato le canonizzazioni, di solito a Roma, mentre usualmente delega un
cardinale a presiedere la cerimonia della beatificazione, nel paese ove il beato ha operato ed è morto.
Wojtyla, invece, di solito faceva anche le beatificazioni).
L’istituto delle canonizzazioni pone naturalmente
problemi teologici cruciali, ai quali qui accenniamo
soltanto: infatti, nelle parabole e nelle similitudini che,
nell’Evangelo di Matteo (capo 13), Gesù usa per descrivere il Regno – il campo ove crescono il frumento
buono e la zizzania, la rete che raccoglie pesci buoni
e pesci cattivi – Egli rinvia alla fine dei tempi la separazione del buono dal tristo e il giudizio del Signore
sull’uno e sull’altro. Dunque, se le autorità di una
Chiesa (il discorso vale anche per l’Ortodossia, perché
anch’essa, con una sua autonoma procedura, «canonizza») proclamano con certezza che una determinata persona è salva, di fatto anticipano qui e ora il giudizio di Dio. Per evitare questo azzardo, da qualche
parte si suggerisce che, invece che usare la categoria
di «santo canonizzato» (ma nella prima Chiesa con
«santo» si intendeva ogni seguace del messaggio di
Cristo), si preferisca quella di «testimone». Il che significa che una comunità di cristiani ritiene di aver
sentito risuonare l’Evangelo in modo particolare nella vita, le opere e/o gli scritti di una determinata persona. Però, dicendo «testimone», la comunità ritiene
che quella persona le ha parlato di Dio in modo coinvolgente, ma non anticipa il giudizio escatologico. Del
resto, nei primi secoli della Chiesa era chiamato esattamente «martire», che in greco significa «testimo-
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marzo 2010
confronti
Santità.
Se le virtù private
non bastano ad un papa
ne», chi avesse affrontato la morte pur di non venir
meno alla propria fede nel Dio di Gesù.
Tra convinzioni soggettive
e conseguenze oggettive
A prescindere da tali considerazioni, che sollevano un
problema generale, vediamo più da vicino che cosa
possa significare, per un papa, aver vissuto in modo
«eroico» le virtù teologali e cardinali (mutatis mutandis, analogo problema si porrebbe per un re o un
uomo politico che ha guidato un paese). In questione non è, ovviamente, l’intima convinzione di coscienza e la motivazione interiore, sulle quali solo Dio
può giudicare; in questione sono le conseguenze oggettive e pubbliche – umane, sociali, ecclesiali, geopolitiche – di certe scelte, di certe affermazioni, di
certi atti. E qui si pone una domanda inevitabile: se
un pontefice fa una scelta che ha gravi conseguenze
su alcune persone, queste la patiscono anche se egli
ha agito in buona fede. Perciò quale senso ecclesiale
e «geoecclesiale» può avere porre sugli altari questa
persona? Se la «prudenza» e la «fortezza» di un papa non sono state all’altezza di ciò che la situazione
richiedeva e, anzi, il suo deficit di discernimento pone dubbi fondati sul suo agire obiettivo, come ci si potrebbe riparare semplicemente sostenendo che quel
papa aveva una grande pietà, o era convinto di fare il
bene operando come ha operato, o omettendo come
ha omesso?
In dicembre sono state
proclamate le «virtù
eroiche» di Pio XII
e di Giovanni Paolo II:
significa,
nel linguaggio curiale,
che i due papi hanno
vissuto al massimo
grado la fede,
la speranza e la carità,
e poi la prudenza,
la fortezza, la giustizia
e la temperanza.
Perché, piuttosto
che di «santi»,
sarebbe più opportuno
parlare di «testimoni».
10
Nei tempi recenti, la questione è esplosa con il caso
di Pio IX. Il 20 dicembre 1999, su mandato di Giovanni Paolo II, la Congregazione per le cause dei santi
aveva promulgato un decreto su un miracolo attribuito all’intercessione del «servo di Dio» Pio IX (†1878),
e un altro sulle «virtù eroiche» di Giovanni XXIII
(†1963). L’annuncio attirò l’attenzione sul papa
dell’Ottocento e, tra l’altro, fonti ebraiche riaprirono
una pagina non ignota, ma quasi dimenticata dal
grande pubblico: quel pontefice, nel 1858 aveva benedetto il rapimento, a Bologna (allora negli Stati pontifici), di un ragazzino ebreo, Edgardo Mortara, perché questi era stato battezzato di nascosto da una cameriera cattolica. Dunque, ormai il piccolo doveva essere sottratto alla famiglia per essere portato a Roma
ed educato cattolicamente. «I diritti del Padre celeste
vengono prima dei diritti del padre terreno», sostenne
Pio IX che, malgrado le proteste innescate dalla vicenda, anche in Europa, difese a spada tratta il suo
operato (vedi Confronti, 3/2000).
Pio IX agì, si può presumere, in perfetta buona fede, e traendo le conseguenze dalla teologia che gli
avevano insegnato; e con ciò, si porta ad esempio dei
fedeli un papa che benedisse il rapimento di un bambino? La questione si arroventò ancor più quando fu
annunciato che papa Wojtyla il 3 settembre del 2000
avrebbe beatificato, contemporaneamente, Pio IX e
Giovanni XXIII: un papa che negava il principio della libertà religiosa e fomentava il disprezzo dell’ebraismo, e un altro papa che aveva voluto
il Concilio Vaticano II anche per affermare il principio della libertà religiosa e recidere, nella Chiesa cattolica, il disprezzo teologico verso l’ebraismo. Cattolici critici e comunità
ebraiche – partendo da punti di vista
differenti, ma infine convergenti –
protestarono. Ma Wojtyla tirò dritto.
Rispondendo ai critici, il giorno della
beatificazione puntualizzò: «La santità vive nella storia e ogni santo non
è sottratto ai limiti e condizionamenti propri della nostra umanità. Beatificando un suo figlio la Chiesa non
celebra particolari opzioni storiche da
lui compiute, ma piuttosto lo addita
all’imitazione e alla venerazione per
le sue virtù, a lode della grazia divina che in esse risplende». Insomma,
quello che conta sono le virtù private;
se un papa, in buona fede, benedice il
rapimento di un bambino, non esiste
problema e, in un tempo nel quale tale decisione appare intollerabile, lo si
propone a modello.
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confronti
Santità.
Se le virtù private
non bastano ad un papa
Il «silenzio» di Pio XII sulla Shoah
La questione del comportamento di Pio XII riguardo alla Shoah – la decisione nazista di sterminare programmaticamente il popolo ebraico – è ormai posta da
tempo nelle sue linee essenziali. Senza riandare ad una
polemica quarantennale (innescata nel 1963 dall’opera teatrale di Rolf Hochhuth, Il Vicario, che accusava
appunto Pio XII per il suo «silenzio»), riprendiamo la
questione così come è stata condensata il 17 gennaio
scorso, in occasione della visita di Benedetto XVI al tempio maggiore (la grande sinagoga) di Roma.
Il presidente della comunità ebraica romana Riccardo Pacifici, dopo aver ricordato «con immensa riconoscenza» un istituto di suore che, durante la guerra,
salvò alcuni della sua stessa famiglia, disse a Ratzinger:
«Questo non fu un caso isolato né in Italia né in altre
parti d’Europa. Numerosi religiosi [cattolici] si adoperarono, a rischio della loro vita, per salvare dalla morte certa migliaia di ebrei, senza chiedere nulla in cambio. Per questo, il silenzio di Pio XII di fronte alla Shoah
duole ancora come un atto mancato. Forse non avrebbe fermato i treni della morte, ma avrebbe trasmesso un
segnale, una parola di estremo conforto, di solidarietà
umana, per quei nostri fratelli trasportati verso i camini di Auschwitz. In attesa di un giudizio condiviso, auspichiamo, con il massimo rispetto, che gli storici abbiano accesso agli archivi del Vaticano che riguardano
quel periodo e tutte le vicende successive al crollo della
Germania nazista».
E il pontefice, nella sua risposta: «In questo luogo,
come non ricordare gli ebrei romani che vennero strappati da queste case, davanti a questi muri, e con orrendo strazio vennero uccisi ad Auschwitz? Come è possibile dimenticare i loro volti, i loro nomi, le lacrime, la disperazione di uomini, donne e bambini? Lo sterminio
del popolo dell’Alleanza di Mosè, prima annunciato, poi
sistematicamente programmato e realizzato nell’Europa sotto il dominio nazista, raggiunse in quel giorno
tragicamente anche Roma. Purtroppo, molti rimasero
indifferenti, ma molti, anche fra i cattolici italiani, sostenuti dalla fede e dall’insegnamento cristiano, reagirono con coraggio, aprendo le braccia per soccorrere gli
ebrei braccati e fuggiaschi, a rischio spesso della propria
vita, e meritando una gratitudine perenne. Anche la Sede apostolica svolse un’azione di soccorso, spesso nascosta e discreta».
Il papa si è riferito alla deportazione degli ebrei romani (e prima di entrare in sinagoga aveva deposto una
corona di fiori davanti alla lapide che ricorda il tragico
evento del 16 ottobre 1943), ma su Pio XII ha glissato.
Comunque, sembrerebbe scelta prudente e saggia, per
la Santa sede, il non procedere alla beatificazione di Pio
XII fino a che non siano aperti e studiati tutti gli archivi che lo riguardano: l’analisi di questo vastissimo materiale potrebbe – in teoria – portare motivi per confer-
In un uomo
di governo (papa o re),
è possibile distinguere
tra scelte soggettive,
pur in buona fede,
e gravi conseguenze
negative
che oggettivamente
possono derivare
da decisioni
storicamente
inadeguate
o sbagliate?
Pio XII fu «prudente»
nel non denunciare
la Shoah, o non
piuttosto mancò
alla virtù
della fortezza?
E Giovanni Paolo II,
che impedì
alla giustizia italiana
di accertare
le responsabilità
dello Ior (la banca
vaticana) nel crack
del Banco
Ambrosiano?
mare, o per smentire, la plausibilità del suo «silenzio».
Perché affrettarsi, dunque? Ma se, tra qualche anno, dopo l’analisi degli archivi, il giudizio degli storici e
dell’opinione pubblica, dentro e fuori la Chiesa romana, fosse incomponibile esattamente come lo è oggi?
Replicando alle critiche per la possibile beatificazione di Pio XII, il Vaticano ha, in sostanza, ripreso la tesi
che Wojtyla apportò a proposito di Pio IX. Ma regge, una
tale, distinzione? Anche dal punto di vista strettamente
teologico intra-cattolico pende un dilemma: Pacelli, con
il suo «silenzio», visse in modo «eroico» la virtù della
prudenza (se avesse denunciato i nazisti – questa la tesi vaticana – avrebbe peggiorato ulteriormente la sorte
degli ebrei), o mancò alla virtù della fortezza (che, ad
esempio, avrebbe forse suggerito un gesto semplice ma
decisivo: il papa che si reca al Portico di Ottavia, dove il
16 ottobre del’43 furono radunati gli ebrei romani da
mandare ai lager nazisti, e là si inginocchia e prega in
silenzio).
Naturalmente, la questione degli ebrei non è l’unica
che, nel pontificato di Pio XII, pone problemi. Nota, ad
esempio, Ettore Masina: «Il papa che con pronta generosità aveva trasformato le sue ville di Castelgandolfo in
bivacco di profughi dai bombardamenti romani, pochi
mesi più tardi con i decreti del suo Sant’Offizio [riferimento alla scomunica dei comunisti, del primo luglio
1949] espulse, o fece espellere, dalle chiese italiane, milioni di operai, contadini, pensionati accusandoli di essere “senza Dio” mentre era evidente che la stragrande
maggioranza di loro aveva scelto di dare il proprio voto
alle forze di sinistra soltanto per ottenere, per sé, per i figli ma anche per tutti i poveri, una vita più degna».
Luci ed ombre di Wojtyla
La questione delle virtù della prudenza e della fortezza
si ripropone – in altro contesto – anche per Giovanni
Paolo II. Fu, il suo, un pontificato multiforme, non riassumibile in poche parole. Si stanno moltiplicando libri
e scritti che esaltano la sua figura, e lo reclamano «santo subito», come recitava un grande cartello innalzato
in piazza san Pietro l’8 aprile 2005, il giorno del suo funerale. In tale clima di apoteosi le voci problematiche,
che cercano di indicare luci e ombre, aspetti coraggiosi
e flagranti contraddizioni delle sue scelte, sono state tacitate. Ma alcune domande restano, come quelle poste
(vedi articolo seguente) da Giovanni Franzoni quando
fu convocato al Vicariato di Roma per deporre davanti
alla Postulazione per la causa di beatificazione di Karol
Wojtyla. Una, in particolare: esercitò egli in grado «eroico» la virtù della prudenza, quando impedì che la giustizia italiana indagasse su personalità vaticane connesse con i torbidi rapporti tra il Banco Ambrosiano di
Roberto Calvi e lo Ior (Istituto per le opere di religione,
la banca che è in Vaticano, guidato da monsignor Marcinkus), o, al contrario, venne sostanzialmente meno
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i servizi
marzo 2010
confronti
Santità.
Se le virtù private
non bastano ad un papa
alla virtù della fortezza, che avrebbe dovuto dargli il coraggio di accettare che si facesse luce su uno scandalo
che ancora oggi turba molte coscienze?
Non vi è bisogno di ribadire la complessità dei pontificati di Pacelli e di Wojtyla, nei rispettivi contesti storici. Proprio tenendo conto di essi, sorge l’impressione che,
elevandoli agli onori degli altari, si voglia sorvolare sulle loro contraddizioni, per esaltare l’istituzione papale in
sé. Negli ultimi 150 anni si sono susseguiti, escluso il
pontefice regnante, dieci papi: tra essi vi è un santo (Pio
X, canonizzato nel 1954), due beati (Pio IX e papa Giovanni), e due possibili prossimi beati (Pacelli e Wojtyla).
Una media alta di «santità» che, però, finisce per... mettere a disagio il papa non proclamato beato/santo.
Una regia istituzionale guida la «politica» di certe beatificazioni: Pio X fu esaltato sottacendo le sue responsabilità nella repressione esasperata del Modernismo; Wojtyla «accoppiò» Pio IX e papa Giovanni per sottolineare la
continuità del magistero ecclesiastico, anche quando sostiene tesi contrapposte, e fare così contenti «conservatori» e «progressisti». E, adesso, la proclamazione contemporanea delle «virtù eroiche» di Pacelli e di Giovanni Paolo II obbedisce alla stessa logica. A ben scavare non
sarebbe così, ma i lefebvriani esulterebbero se fosse beatificato Pio XII. E invece rimarrebbero sconcertati i diciotto accademici cattolici – statunitensi, tedeschi ed australiani – che a metà febbraio hanno scritto a Benedetto XVI «implorandolo» di soprassedere a quella beatificazione fino a che non siano studiati tutti i documenti
d’archivio su Pacelli. Ma, per ora, sembra estranea nel
palazzo apostolico vaticano, l’idea che sia opportuno lasciare questi pontefici nel loro «chiaroscuro» e che possa essere saggio non elevare alla gloria degli altari papi
Wojtyla e il caso Ior:
quale «fortezza»?
Giovanni
Franzoni
Convocato
dal Vicariato di Roma
per una deposizione
di testimonianza
nel processo
di beatificazione
di Giovanni Paolo II,
Franzoni ha espresso
motivati dubbi
sulle virtù
della prudenza
e della fortezza
del pontefice,
in particolare
per aver
egli obiettivamente
impedito
l’accertamento
delle responsabilità
dello Ior (la banca
vaticana) nel crack
del Banco Ambrosiano.
la cui eredità è oggetto di contrapposte valutazioni, e le
cui virtù private hanno talora avuto, volenti essi o nolenti,
gravi conseguenze pubbliche che ancora costituiscono
scandalo per molti, cattolici e non.
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L’apertura ufficiale, il 25 giugno 2005, del processo
di beatificazione di Giovanni Paolo II innescò un coro di voci osannanti; tuttavia alcuni teologi e teologhe
europei, nel dicembre successivo, in un pubblico appello espressero voci dissonanti. Nel piccolo gruppo vi
era Giovanni Franzoni che, il 7 marzo 2007, fu convocato dal Vicariato di Roma per rendere la sua deposizione giurata in merito all’avviato processo. L’ex
abate di san Paolo fuori le Mura, e padre conciliare,
ha mantenuto il segreto sulla sua deposizione, fino a
che la causa, nel novembre scorso, non è stata chiusa, per la fase che riguardava il Vicariato. Dopo di allora, diversi prelati hanno espresso alla stampa testimonianze di fatti che, a loro giudizio, dimostrano appunto la santità di Wojtyla. Nessun cenno era fatto alle voci critiche emerse in sede di Tribunale contro la
beatificazione. In tale contesto Franzoni ha ritenuto
di non essere più tenuto al segreto e ai primi di dicembre rendeva nota la sua testimonianza, dalla
quale qui riportiamo solo il punto che riguarda il caso Ior-Banco Ambrosiano (per il testo completo, si veda il sito www.confronti.net).
Sul pontificato di Giovanni Paolo II incombe un’ombra
nera che, a mio parere, mostra come quel pontefice violò
gravemente le virtù della prudenza e della fortezza: mi
riferisco a come egli gestì la vicenda dell’Istituto per le
opere di religione [Ior, la banca vaticana] in connessione con il crack del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi.
Non è, questo, il luogo per esaminare in lungo e in largo la complessa vicenda; mi limito a rilevare che giudici italiani erano giunti alla conclusione che monsignor
Paul Marcinkus, presidente dello Ior, aveva avuto gravissime responsabilità per il crack dell’Ambrosiano e,
dunque, dalla Città del Vaticano doveva essere estradato in Italia per essere arrestato e interrogato. Del resto,
questa era anche la possibilità, per lui, di dimostrare limpidamente la sua innocenza e l’infondatezza delle accuse addebitategli.
La linea difensiva della Santa Sede, in tale vicenda,
non fu quella di accertare se le accuse a Marcinkus fossero fondate, ma solamente quella di respingere, in
quanto a suo parere contrastanti con i Patti lateranensi,
le richieste della magistratura italiana, perché queste
avrebbero interferito in un àmbito e in uno Stato (Vaticano) in cui l’Italia non poteva entrare. In effetti, dopo
una lunga schermaglia giuridica e diplomatica, la stessa Corte di Cassazione nel luglio 1987 diede ragione alle tesi vaticane. Senza entrare in questioni giuridiche, la
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marzo 2010
confronti
Santità.
Se le virtù private
non bastano ad un papa
domanda da porsi è la seguente: Giovanni Paolo II favorì l’accertamento della verità sul caso Ior? La risposta,
mi pare, è negativa. Infatti, il papa decise, o lasciò che
decidessero, di impedire, con pretesti giuridici, l’accertamento della verità. Infatti, ammesso e non concesso che
i giudici italiani non avessero titolo a chiedere l’estradizione di Marcinkus, nessun processo pubblico si è tenuto nella Città del Vaticano per accertare i fatti. Wojtyla
diede allora, e offre anche oggi, motivi fondatissimi per
dubitare dell’innocenza di Marcinkus e, anche, della trasparenza della gestione economica della Santa Sede. Pochi mesi dopo i fatti sopra citati (l’appello ai Patti lateranensi per evitare l’estradizione di monsignor Marcinkus), Wojtyla, il 26 novembre 1982, così affermava
alla conclusione di una plenaria del Collegio cardinalizio che aveva discusso anche dello Ior: «La Santa Sede è
disposta a compiere ancora tutti i passi che siano richiesti per un’intesa da entrambe le parti perché sia posta in
luce l’intera verità. Anche in questo, essa vuole solo servire la causa dell’amore».
Mai parole tanto impegnative sono state altrettanto
contraddette: infatti, pubblicamente, nulla ha fatto Wojtyla per fare accertare la verità. È vero, ha poi riformato lo
Ior e allontanato Marcinkus: ma la verità sui rapporti tra
il prelato e Calvi, e il crack dell’Ambrosiano, non si è potuta sapere, da parte vaticana. E il fatto che la Santa Sede, pur dicendosi estranea al crack dell’Ambrosiano, abbia dato, a titolo di buona volontà, un sostanzioso contributo per aiutare chi da quel crack aveva subito ingenti danni economici, non risolve affatto, ma rende più
aspro, il problema di fondo. Beatificare un papa che, su
un tema tanto scottante, non ha fatto luce, mi sembrerebbe assai grave. L’impressione – dall’esterno – che
molti hanno è che, al dunque, Wojtyla abbia sacrificato
l’accertamento della verità per non compromettere l’istituzione ecclesiastica che avrebbe subito danni rilevantissimi se il mondo intero avesse scoperto trame incredibili
e imbrogli economici inimmaginabili. Per non parlare
dello sbigottimento di milioni di semplici fedeli cattolici
nel mondo intero. Dal punto di vista religioso, a me pare che, nel caso citato, Wojtyla sia venuto meno, in modo obiettivamente gravissimo, alle virtù della prudenza e
della fortezza: la prudenza che avrebbe dovuto imporgli,
come capo della Chiesa cattolica romana, di salvaguardare il buon nome di tale Chiesa, e dunque di fare ogni
cosa per accertare la verità; la fortezza, che avrebbe dovuto spingerlo ad opporsi alle prevedibili resistenze
dell’apparato ecclesiastico della Curia romana restia a
«scoprire gli altarini». Quali che siano state le motivazioni soggettive per cui il papa agì come agì (motivazioni che io non so), il risultato pubblico di tale decisione è
aver obiettivamente impedito l’accertamento della verità.
Come persona il papa forse non ha fatto nulla di male o,
soggettivamente, ha creduto di non farlo; ma come pontefice ha compiuto un gesto gravido di conseguenze.
«Occorre continuare
a dialogare»
Renzo
Gattegna
«È opinione diffusa
che probabilmente
papa Pio XII avrebbe
potuto fare di più.
Ma per una
valutazione storica
seria, condivisa
e completa, occorre
a nostro avviso
attendere la possibilità
di visionare
i documenti contenuti
negli archivi vaticani.
È un lavoro
che dovranno fare
gli storici».
Gattegna è presidente
dell’Ucei, l’Unione
delle comunità
ebraiche italiane.
Una questione preliminare: molti ambienti ecclesiastici ritengono che nessuno, al di fuori della
Chiesa cattolica, possa interferire nella decisione del
papa di beatificare o canonizzare una persona. Le
riserve di larga parte del mondo ebraico – in Italia, in Israele e nel mondo – alla possibile beatificazione di Pio XII non sono dunque – in linea di
principio – passibili di essere respinte dal Vaticano
al mittente?
Nel dicembre scorso, con un comunicato congiunto firmato assieme a me dal Rabbino Capo di Roma rav Riccardo Di Segni e dal presidente della Comunità ebraica
di Roma Riccardo Pacifici, abbiamo avuto occasione di
esprimere con chiarezza la nostra posizione: «Noi non
possiamo in alcun modo interferire su decisioni interne
della Chiesa, che riguardano le sue libere espressioni religiose. Se tuttavia la decisione dovesse implicare un giudizio definitivo e unilaterale sull’operato storico di Pio
XII, ribadiamo che la nostra valutazione rimane critica».
In sintesi, sappiamo bene che si tratta di un procedimento sul quale non abbiamo alcuna voce in capitolo.
Ma si tratta di un atto pubblico, e beatificare vuol dire
anche «mostrare ad esempio», dare un giudizio positivo sull’operato di qualcuno. Il comportamento di Pio XII
nei confronti degli ebrei durante l’occupazione nazista,
a giudizio di molti storici, ha lasciato diverse ombre, per
questo sono in molti ad esprimere le proprie riserve.
È per il «silenzio» di Pio XII sulla Shoah che molti
ebrei, pur evitando ovviamente di entrare nelle
questioni canoniche legate ai processi di beatificazione, ritengono del tutto legittimo esprimere opinioni assai critiche sulla possibile «promozione» di
Pio XII?
Sì. È opinione diffusa che probabilmente papa Pio XII
avrebbe potuto fare di più. Ma per una valutazione
storica seria, condivisa e completa, occorre a nostro
avviso attendere la possibilità di visionare i documenti contenuti negli archivi vaticani. È un lavoro che dovranno fare gli storici.
Le gerarchie vaticane – e il 17 gennaio lo ha ribadito Benedetto XVI nella grande sinagoga di Roma
– insistono nel ribadire due tesi, strettamente legate: 1) molti cattolici – preti, laici, suore – durante la Seconda guerra mondiale aiutarono molti ebrei, spesso salvandoli da sicura morte, e questo fecero con grande generosità, e anche a rischio
della vita; 2) Pacelli scelse la strada di un aiuto discreto proprio perché convinto che, in quelle dram-
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marzo 2010
confronti
Santità.
Se le virtù private
non bastano ad un papa
matiche circostanze, quello fosse il modo più opportuno per aiutare gli ebrei e non offrire pretesti
di ulteriori ritorsioni a Hitler.
Nella Polonia occupata, per fare un esempio, c’erano
oltre due milioni di ebrei: sono stati quasi tutti sterminati, in una carneficina senza precedenti e con la connivenza o il silenzio di parte della popolazione polacca, all’epoca fortemente e violentemente antisemita. In
Italia, prima della guerra, vivevano circa 50mila ebrei,
di mai più «restituiti» alla comunità ebraica?
Certo è che la visita alla sinagoga si è svolta in un’atmosfera di amicizia, di franchezza e di sincerità. Abbiamo la certezza che anche gli argomenti più delicati e spinosi potranno essere affrontati e chiariti. Se su
qualche tema non si giungerà ad opinioni condivise,
il confronto sarà chiaro, sincero e rispettoso delle opinioni altrui. Dialogo vuol dire colloquio, scambio,
confronto.
e ne furono deportati circa ottomila; certo, in Italia le
leggi antiebraiche furono recepite negativamente da
buona parte della popolazione. E molti ebrei si salvarono grazie al comportamento, all’aiuto e all’ospitalità
di parte del clero cattolico. Trovarono rifugio e protezione presso i singoli cittadini e in tanti conventi, e ciò
è stato sempre riconosciuto. Alcuni preti e suore, che
per salvare un ebreo hanno messo a rischio la propria
vita, sono stati riconosciuti come «Giusti fra le Nazioni», un riconoscimento dato da Yad Va-shem, il memoriale della Shoah di Gerusalemme.
L’aspetto meno chiaro della vicenda è l’atteggiamento complessivo del papa. Perchè non portò avanti i progetti del suo predecessore di una pronuncia
pubblica contro il nazismo? Perché non levò la sua voce e non espresse pubblicamente il suo sdegno?
La beatificazione di Pio XII è problema dirimente tale che, se essa fosse attuata, voi interrompereste ogni
dialogo con la Santa Sede, oppure tale evento, pure
da voi indesiderato, almeno fino a che non siano esaminati tutti gli archivi, sarebbe infine tollerato?
Ebraismo e cristianesimo sono fedi unite inscindibilmente e accomunate dalla comune visione monoteista: esse hanno pari dignità e senza dubbio il cammino verso il futuro avverrà, noi auspichiamo, in comune e nella concordia. Affinché ciò avvenga, occorre
chiarezza. Non si possono prevedere ora le future decisioni della Santa Sede su Pio XII, e quindi neppure
le nostre eventuali possibili risposte. Il 17 gennaio abbiamo avuto la conferma che su qualche punto, anche importante, non abbiamo la stessa opinione. Ma
che sono molti i temi che ci uniscono, e sui quali possiamo e vogliamo continuare a dialogare e a lavorare
insieme. Se vogliamo, guardiamo al passato: prendiamo atto di quanto la situazione è cambiata negli
ultimi 60 anni e di quanti progressi ha fatto il dialogo tra gli ebrei e la Chiesa cattolica. E cerchiamo di
lavorare insieme per il futuro.
In concreto, quali sono le rassicurazioni che papa
Ratzinger vi ha dato durante la sua visita alla sinagoga: quando saranno aperti tutti gli archivi vaticani riguardanti il cardinale Pacelli e papa Pio XII?
E, a proposito delle ricerche dei bambini e ragazzi
ebrei salvati da istituzioni cattoliche, durante la
guerra, ma anche convertiti al cristianesimo, e quin-
(intervista a cura di Gian Mario Gillio)
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i servizi
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confronti
Santità.
Se le virtù private
non bastano ad un papa
Il papa in visita alla
sinagoga. Cui prodest?
Nell’agosto 2005 Joseph Ratzinger, pontefice da soli quattro mesi, compì una storica visita alla sinagoga di Colonia. Amos Luzzatto, che all’epoca presiedeva l’Unione
delle comunità ebraiche italiane, stimò quell’iniziativa
un evento ricco di significato, destinato ad aprire una
prospettiva «radicalmente diversa per gli ebrei d’Europa». Nelle parole e nei gesti di un papa tedesco che si diceva preoccupato per il risorgente antisemitismo e che
stringeva le mani ai sopravvissuti dei lager, Luzzatto vide un segnale positivo per le comunità ebraiche del Vecchio continente. Significava che gli ebrei potevano impegnarsi a fianco dei cattolici nelle battaglie di civiltà,
contro ogni discriminazione razziale e religiosa e ogni
negazione della dignità umana.
Ben diverso è stato l’umore con il quale lo stesso Luzzatto ha salutato l’incontro che Benedetto XVI ha avuto
con gli ebrei romani il 17 gennaio scorso: «Non vado in
sinagoga per un imbarazzante vertice diplomatico che
nulla ha a che fare con il dialogo interreligioso – ha affermato –, su che cosa potrei confrontarmi con Ratzinger? Sulla riesumazione della preghiera per la conversione degli ebrei, sul ritorno nella Chiesa dei lefebvriani
che negano la Shoah, sulla beatificazione di Pio XII che
scomunicò i comunisti ma ignorò le persecuzioni naziste?». E ha aggiunto: «Incontro ogni giorno cattolici
amareggiati quanto me per i passi indietro della Chiesa
rispetto al Concilio. Wojtyla in sinagoga nel 1986 recitò
un salmo e fu un gesto storico. Questa visita è una copia
dannosa, una ripetizione inservibile».
Alle manifestazioni di dissenso, non numerose fra gli
ebrei italiani ma tutte ampiamente motivate, hanno fatto séguito alcune defezioni clamorose. Oltre a quelle di
Luzzatto e di Piero Terracina, un romano superstite della «retata» del 16 ottobre 1943, l’assenza più notevole è
stata quella di Giuseppe Laras, presidente dell’Assemblea
dei rabbini italiani: una personalità che in qualità di
rabbino capo di Milano ebbe a svolgere una funzione rilevante nel dialogo ebraico-cristiano quando alla guida
della diocesi ambrosiana era il cardinale Martini. In
un’intervista al giornale tedesco Jıdische Allgemeine Zeitung rav Laras ha ricordato, stigmatizzandola, la causa
di beatificazione di Pio XII, il papa del quale la Curia
vanta ora le «eroiche virtù», e ha tra l’altro affermato di
ritenere che nel breve periodo l’incontro fra Ratzinger e
gli ebrei romani «non avrà conseguenze positive sul dialogo ebraico-cattolico, e solo la Chiesa ne trarrà dei benefici, soprattutto con uno sguardo ai propri ambienti
più retrivi. Potrà servirsi dell’evento per esibire la propria
“sincera amicizia” nei nostri confronti».
Bruno
Segre
Amos Luzzatto,
Giuseppe Laras,
Piero Terracina:
pur se non
maggioritarie,
all’interno
del mondo ebraico
non mancano certo
le voci critiche
sull’incontro
che Benedetto XVI
ha avuto con
gli ebrei romani,
il 17 gennaio scorso,
nel Tempio maggiore
(la grande sinagoga
di Roma).
Lo storico Bruno Segre
è direttore di «Keshet»,
rivista di vita
e cultura ebraica.
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Quali spinte, allora, hanno mai indotto la comunità
ebraica di Roma a compiere la scelta unilaterale di confermare l’invito a Ratzinger, pur dopo la decisione della
Sede apostolica di procedere alla beatificazione di papa
Pacelli? Probabilmente Amos Luzzatto ci ha offerto la
chiave di lettura corretta allorché ha bollato la visita come «un imbarazzante vertice diplomatico che nulla ha
a che fare con il dialogo interreligioso».
In realtà la visita papale si è tradotta in una grandiosa passerella mediatica, proprio come desideravano i registi e i vari figuranti che vi hanno preso parte: un’iniziativa di facciata seguita a raggio mondiale da seicento giornalisti, nella quale si sono sciorinati molti discorsi e la retorica ha fatto ampio sfoggio di sé. Ma si badi,
non tutti i discorsi intendevano essere «aria fritta». Benedetto XVI, mediante sapienti citazioni bibliche, ha
esposto la sua agenda per il «dialogo con i fratelli maggiori» fissandola attorno ai nuclei tematici che più gli
sono congeniali: difesa della vita, sviluppo della famiglia, lotta al relativismo. Sull’altro versante si è presentato – quale portavoce della classe dirigente politica
israeliana, oggi più isolata che mai – il vice primo ministro d’Israele Silvan Shalom, scortato dagli ambasciatori Mordechai Levy e Gideon Meir. Shalom, venuto a
Roma per preparare gli incontri israeliani di Silvio Berlusconi, ha affermato che quella di Benedetto XVI era
«una visita di importanza storica». E con ciò ha lasciato intendere che il peso dell’evento era tale da investire
globalmente l’intero mondo ebraico, al centro del quale sta Israele che è impegnato da anni a portare avanti
con la Santa Sede un negoziato privo per ora di sbocchi.
A giocare di sponda con Shalom ha provveduto Riccardo Pacifici, presidente degli ebrei di Roma, che ha ricordato al papa i principali temi sui quali Israele intende richiamare l’attenzione della diplomazia vaticana: la
minaccia dell’Iran, il terrorismo, il fondamentalismo
islamico, le sorti del caporale israeliano Gilad Shalit, prigioniero di Hamas a Gaza da oltre milletrecento giorni.
IRAN
La guerra che
l’Occidente ha già deciso?
Franco Cardini
Senza dubbio – sostiene lo storico Cardini – il governo iraniano
abusa dei suoi poteri e non rispetta alcuni diritti umani.
Questo va denunciato con forza, ma occorre anche fare chiarezza
su alcuni luoghi comuni e alcune semplificazioni di comodo
veicolate dai media occidentali per conto di Usa e alleati.
Q
ualcosa di molto grave si sta profilando in
Occidente: qualcosa che forse minaccia il
mondo. È uno scenario che purtroppo abbiamo già visto. Tra 2002 e 2003 i governi statunitense e britannico inscenarono una pietosa e vergognosa commedia cercando di far credere al mondo
che l’Iraq di Saddam Hussein fosse in possesso di pericolose armi segrete di distruzione di massa. Era incredibile: e infatti chi aveva capacità di comprendere
e di assumere informazioni precise si rese subito conto che si trattava di una colossale e infame menzogna.
Ma i mass media insistevano, i politici – anche italiani – erano già decisi a seguire il sentiero tracciato
dal sinistro signor Bush: il risultato fu la guerra e
un’occupazione che perdura e dalla quale gli stessi
italiani non sanno come fare a uscire.
I media ci hanno poi informati che le armi di distruzione di massa non c’erano: ma nessun governante, nessun politico di quelli che a suo tempo avevano stragiurato sulla loro esistenza, nessun intellettuale o pubblicista di quelli che immaginavano scenari festosi (tipo i liberatori che arrivano a Baghdad
in mezzo ai fiori e alle bandiere del popolo iracheno
liberato...), nessun mezzobusto televisivo o opinion
maker ha fatto ammenda dell’errore in cui aveva tentato d’indurci, o meglio della menzogna proferita. Anzi, a dimostrazione della longevità dei falsi miti, l’ex
premier britannico Tony Blair, nel corso della sua pietosa autocritica che sigilla il fallimento della sua carriera di politico (dopo i danni che ha fatto, e che purtroppo paghiamo e pagheremo noi), è tornato sulle armi di distruzione saddamiste come se fossero davvero
esistite, «dimenticando» la figuraccia sua e di altri.
Sette anni dopo, siamo alle solite: analogo scenario, analoghe sfrontate bugie. La vittima designata,
ora, è l’Iran. Auguriamoci che le dissennate dichiarazioni dei politici e dei mass media non preludano a
qualcosa di simile al pasticcio iracheno: stavolta sarebbe molto più grave.
La Repubblica islamica dell’Iran è una società molto complessa (vedi «Iran. Democrazia velata?» su Confronti 7-8/2009; L’Iran e il tempo. Una società com-
16
plessa, a cura di A. Cancian, Roma, Jouvence 2008; A.
Negri, Il turbante e la corona. Iran trent’anni dopo,
Milano, Tropea 2010), che non è certo retta da un regime totalitario, bensì da un sistema assembleare per
certi versi paragonabile a una repubblica protosovietica controllata da un «senato» di teologi-giuristi. Nata
da uno strappo violento che ha sottratto trent’anni fa
agli Stati Uniti il suo più sicuro e fedele alleato-subordinato e che ha fatto tabula rasa d’importanti interessi petroliferi occidentali, è strutturalmente avversaria della superpotenza americana: dal momento che essa individua il principale supporto della politica statunitense nel Vicino Oriente in Israele, essa avversa radicalmente anche quest’ultimo. Non c’è dubbio che il governo iraniano attuale abusi dei suoi poteri, a cominciare da quello che gli consente di comminare pene capitali, e che non rispetti alcuni diritti della persona
umana [vedi notizia a pagina 35, ndr]. Non è l’unico
a far certe cose (tali diritti non sono rispettati nemmeno nell’illegale campo di detenzione di Guantanamo,
tenuto aperto dalla «Prima democrazia» del mondo):
ma le fa, e ciò dev’essere denunziato con deciso rigore.
Ciò non toglie che sull’Iran il mondo occidentale
in genere, e italiano in particolare, sia malissimo
informato. Esaminiamo sinteticamente i quattro fondamentali capi d’accusa che vengono ormai rivolti
abitualmente al governo di Ahmadinejad: si sarebbe
reso responsabile di gravi brogli elettorali durante le
ultime elezioni e di una pesante repressione delle proteste da parte dell’opposizione; minaccerebbe e programmerebbe un attacco contro Israele, con l’intenzione di distruggerlo; starebbe fabbricandosi un potenziale nucleare militare; sarebbe candidato a cedere, in quanto isolato internazionalmente.
Si tratta sostanzialmente di quattro calunnie, per
quanto ciascuna di esse riposi su un qualche elemento di verità. Vediamole in ordine.
Prima. In una recente intervista (consultabile nella versione telematica di Panorama del 30/12/2009)
una delle maggiori esperte di cose iraniane, Farian
Sabahi, non ha escluso che vi siano stati brogli elettorali, ma ha sottolineato che essi non possono aver
falsato sostanzialmente il responso delle urne, che è
stato comunque con certezza largamente favorevole
ad Ahmadinejad in quanto egli, a differenza dei suoi
avversari, ha saputo guadagnarsi la fiducia della
maggioranza degli iraniani non grazie alle sue tracotanti minacce contro Israele, bensì con una politica sociale che ha costantemente messo a disposizione
i servizi
marzo 2010
confronti
Iran.
La guerra che
l’Occidente ha già deciso?
dei ceti più deboli una massa ingente di pubbliche risorse, ha consentito a 22 milioni d’iraniani di accedere a efficaci cure mediche gratuite, ha aumentato
molti stipendi (per esempio del 30% quello degli insegnanti), ha aumentato del 50% l’entità delle pensioni. Al contrario i suoi avversari, pur abilissimi a
mobilitarsi su Twitter e forti nei ceti medi, specie della capitale, hanno fatto ben poca breccia nei centri
minori e praticamente nessuna nelle campagne. I nostri mass media insistono sui deliri oratori hitleriani
di Ahmadinejad (che peraltro riassumono sistematicamente, senza darci modo di capire che cosa effettivamente egli dica, e a chi, e in quali contesti), ma
non ci informano per nulla della sua politica sociale,
impedendoci di farci un’idea di che cosa realmente
sia l’Iran di oggi.
Seconda. Quanto all’atteggiamento di Ahmadinejad
contro Israele, è indubbiamente una maldestra e
odiosa misura propagandistica da parte sua la contestazione della Shoah; ma, quanto alle minacce, chi
non si limita al materiale scaricato da Twitter si è reso facilmente conto che il presidente iraniano non ha
mai affermato che Israele vada distrutta (cioè che gli
israeliani siano eliminati o cacciati), bensì che la pretesa di uno stato ebraico che si presenti come etnocratico e confessionale, ma che nello stesso tempo pretenda di essere un modello di democrazia all’occidentale, è evidentemente
insostenibile in quanto
costituisce una contraddizione in termini. Oltretutto, nell’ormai radicato
immaginario occidentale
Ahmadinejad starebbe
minacciando di distruzione nucleare Israele: ora, si
domanda come può il
leader di uno stato che
non è ancora arrivato
nemmeno al nucleare civile minacciare di distruzione nucleare un paese
che invece dispone sul serio di un nucleare militare. Tutto ciò è assurdo.
Terza, la questione nucleare. Qui siamo al ridicolo
e all’infamia al tempo stesso. L’11 febbraio scorso,
trentennale della rivoluzione khomeinista, l’ambasciatore iraniano presso la Santa Sede Alì Akbar Naseri indiceva una conferenza stampa. Visto il momento «caldissimo» nell’opinione pubblica, si potrebbe
supporre che essa sia stata presa d’assalto dai media.
Macché. Né un Tg importante, né una testata di rilievo: è così che da noi si fa informazione. Tuttavia, le
Il presidente iraniano
non ha mai affermato
che Israele vada
distrutta (cioè che
gli israeliani siano
eliminati o cacciati),
bensì che la pretesa
di uno stato ebraico
che si presenti come
etnocratico
e confessionale,
ma che nello stesso
tempo pretenda
di essere un modello
di democrazia
all’occidentale,
è evidentemente
insostenibile
in quanto costituisce
una contraddizione
in termini.
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pacate dichiarazioni del diplomatico hanno richiamato un’ennesima volta a una verità obiettiva che ormai conosciamo. Il 4 febbraio scorso, il governo iraniano ha formulato alla authority internazionale nucleare, l’Aiea, una proposta molto flessibile e ragionevole: accettazione della prassi elaborata dal gruppo
dei 5+1 (Usa, Russia, Cina, Francia e Germania)
nell’ottobre scorso, sulla base della quale l’Iran consegnerà delle partite di uranio arricchito al 3,5% alla
Russia, che lo porterà al 20% e lo passerà alla Francia
incaricato di restituirlo all’Iran. Date però le circostanze e il macchinoso sistema elaborato, il governo
dell’Iran – temendo evidentemente che l’uranio gli
venga sottratto – chiede semplicemente che lo scambio avvenga in territorio iraniano e che ad ogni cessione di partita di uranio al 3,5% l’Iran venga risarcito con la consegna di una pari quantità arricchita al
20%. Non si capisce perché il governo statunitense abbia rifiutato come «non interessante» una proposta
del genere e si ostini a pretendere dall’Iran la pura e
semplice cessione del minerale, senza contropartite né
garanzie. Ciò corrisponde solo a un vecchio e abusato trucco diplomatico: formulare pretese assurde e irricevibili per poi accusare l’avversario, reo di non
averle accettate. Bisogna al riguardo tener presente
due cose: primo, per avviare la costruzione del nucleare militare è necessario un arricchimento
dell’uranio all’80%, mentre l’Iran non è ancora in
grado nemmeno di arricchirlo al 20%, limite indispensabile per gli usi civili. E di sviluppare un nucleare civile l’Iran ha diritto, in quanto paese firmatario del trattato di
non-proliferazione (gli
unici tre stati che non
hanno firmato sono Israele, India, Pakistan). Il
punto è che sembra proprio che i soggetti occidentali più importanti
(quindi il governo statunitense e la Nato, che da
esso è largamente controllata) siano ben decisi a procedere su una strada pregiudizialmente tracciata. In
un’intervista concessa a Luigi Offeddu del Corriere
della sera, Adres Fogh Rasmussen, segretario generale della Nato dall’agosto 2009, ha proferito affermazioni allucinanti nella sostanza non meno che nel tono: «Al momento dovuto, noi prenderemo le decisioni necessarie per difendere i paesi della Nato», ha dichiarato (L. Offeddu, «L’iran si fermi sul nucleare o
i servizi
marzo 2010
confronti
Iran.
La guerra che
l’Occidente ha già deciso?
la Nato dovrà difendersi», Corriere della sera,
20/2/2010). Ha parlato di un sistema missilistico difensivo, risultato di una triplice collaborazione tra
Usa, Nato e Russia, fingendo di non sapere che in
realtà la Russia è preoccupata delle installazioni missilistiche Usa-Nato in Romania e in Polonia, non è
soddisfatta dei chiarimenti fornitile (secondo i quali
esse sarebbero dirette contro la minaccia iraniana) e
la sua richiesta di «collaborazione» a tale sistema è,
in realtà, una richiesta di controllo. Rassmunsen,
ignorando del tutto le proposte iraniane, continua a
proporre un diktat: l’Iran consegni tutto il suo uranio
che verrà arricchito all’estero, senza alcuna possibilità di controllarne il destino, senza alcun controimpegno e senza alcuna contropartita. C’è da chiedersi
chi mai potrebbe accettare imposizioni del genere.
Quarto. Si continua acriticamente a ripetere, da
noi, che ormai l’Onu sarebbe pronta a inasprire l’embargo all’Iran e che lo stesso Consiglio di sicurezza sarebbe d’accordo: si tratterebbe solo di convincere la Cina a non usare il suo diritto di veto e a studiare sanzioni che colpiscano il governo iraniano, ma non la
popolazione. Quest’ultimo proposito è manifestamente ipocrita: le sanzioni colpiscono sempre le popolazioni, e in genere rinsaldano la loro solidarietà
con i propri governi (a parte l’ipocrisia del governo
italiano, che sostiene di preoccuparsi per ragioni
umanitarie mentre in realtà è in ansia per il grosso
business iraniano dell’Eni, che potrebbe essere compromesso dalle sanzioni con un forte danno agli interessi italiani). Ad ogni modo, le sanzioni contro
l’Iran non funzioneranno, perché il governo iraniano è a vari livelli in contatto positivo con molti paesi
e ha stipulato o sta stipulando accordi non solo con
Cina e Russia, ma anche con la Siria, col Venezuela e
con la Turchia. È del 19 febbraio, stando a due «lanci» Agi, la dichiarazione del viceministro degli Esteri
Serghiey Ryabkov, secondo la quale non solo la Russia è contraria a un inasprimento delle sanzioni contro l’Iran e indisponibile ad appoggiarle, ma si conferma intenzionata a fornire all’Iran i sistemi antiaerei S-300, come si era impegnata a fare.
Insomma, il regime iraniano può non piacere: ma
non ha la possibilità e forse nemmeno l’intenzione di
costruire armi nucleari e non si trova affatto in una
posizione di assoluto isolamento diplomatico.
Ma allora perché gli Stati Uniti sembrano preoccuparsi dell’Iran di Ahmedinejad al punto di arrivare alle esplicite minacce? L’atomica, i diritti umani e le
minacce a Israele non c’entrano. C’entra invece il
modesto isolotto di Kish sul Golfo Persico, che gli iraniani hanno scelto a sede di una futura rete di scambi petroliferi mirante alla costituzione di un «cartello» che si fonderebbe sull’unità monetaria non più
del dollaro, bensì dell’euro. Questa è la bomba nu-
L’aggressione all’Iran
probabilmente si farà.
È molto più facile
di quella all’Iraq
del 2003: il sunnita
e «laico-progressista»
Saddam poteva
contare su molti amici
negli Usa,
in Europa e nel mondo
musulmano,
l’Iran fondamentalista
e sciita non ne dispone.
Poi, tra qualche anno,
qualcuno in gramaglie
verrà a dirci che no,
ci eravamo sbagliati,
la bomba nucleare
l’Iran proprio non ce
l’aveva e nemmeno
i terribili missili
puntati contro
l’Occidente.
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cleare iraniana che davvero gli americani temono.
E allora, immaginiamoci un possibile e purtroppo
piuttosto probabile futuro. La guerra, lo sanno tutti, è
un gran ricco business: vi sono cointeressate potentissime lobbies industriali e finanziarie internazionali;
è rimasta l’unica attività produttiva statunitense che
davvero «tiri»; le commesse vanno rinnovate e gli arsenali debbono essere vuotati se si vogliono riempire
di nuovo; poi ci sono i generali (non solo i generaloni del Pentagono, quelli che ostentano nomi da conquistatore romano, tipo Petreus; ma anche i generalucci della Nato e i generalicchi italiani, per tacer degli strateghi-geopolitici da Tv...); inoltre c’è il sacrosanto spiegamento dei fondamentalisti cristiani, ebrei
e musulmano-sunniti che non vedono l’ora di saltar
addosso al demonio sciita; infine ci sono i poveri cristi che aspettano di venir ingaggiati come in Afghanistan e in Iraq, la folla dei portoricani in caccia della magica green card che fa di loro dei quasi cittadini statunitensi, i sottoproletari che sognano di ascendere al rango di contractors. Tutte insieme, queste
forze sono – non illudiamoci – potentissime.
Se non ci salva il duplice «veto» russo-cinese al
Consiglio di sicurezza dell’Onu (ma anche quello non
sarà sufficiente: basterà la Nato, come in Afghanistan
nel 2001: poi, l’Onu sarà costretta ad avallare...), oppure, meglio ancora, un deciso «no» degli israeliani
che – a differenza del loro governo – non hanno perduto il ben dell’intelletto e la voce dei quali potrebbe
contare moltissimo dinanzi all’opinione pubblica
mondiale, l’aggressione all’Iran probabilmente si
farà. È molto più facile di quella all’Iraq del 2003: il
sunnita e «laico-progressista» Saddam poteva contare su molti amici negli Usa, in Europa e nel mondo
musulmano, l’Iran fondamentalista e sciita non ne
dispone.
Poi, tra qualche anno, qualcuno in gramaglie
verrà a dirci che no, ci eravamo sbagliati, la bomba
nucleare l’Iran proprio non ce l’aveva; e nemmeno i
terribili missili puntati contro l’Occidente; qualcun
altro sgamerà, altri ancora si rifugeranno nell’amnesia. Frattanto, nella migliore delle ipotesi, ci
saremo infilati in un pantano sanguinoso e costoso,
peggiore di quelli afghano e iracheno messi insieme:
un pantano nel quale sguazzeranno allegramente solo le anatre e le rane tipo gli imprenditori, i militarastri e i sottoproletari del «finché c’è guerra c’è speranza», che ciascuno al suo livello ci guadagneranno («produzione e consumo» in alto, patacche e promozioni a mezza tacca, «posti di lavoro» in basso),
o tipo La Russa, che già ora s’inorgoglisce dei suoi
picchetti d’onore e delle sue finte uniformi militari.
Se non altro, tutto ciò darà una nota comica alla vicenda. Ma non illudiamoci: quella sarà soltanto la
migliore fra le ipotesi.
NIGER
Tensioni e speranze
nella regione dei tuareg
Donato Cianchini
Anche in un paese povero, dove la popolazione è senza cibo,
una scuola può contribuire alla crescita economica e culturale
dell’intera comunità. Il progetto di sostegno scolastico nel villaggio
di Dabaga, i cui abitanti sono di etnia tuareg, promosso
dall’associazione «Itinerari africani - percorsi di cultura» di Cuneo.
R
Nota
Proprio mentre stavamo mandando in stampa questo numero,
abbiamo appreso del colpo di Stato in Niger: il presidente Tandja è
stato deposto da una giunta militare (Consiglio supremo per la restaurazione della democrazia). La
grave situazione di miseria in cui
versa la popolazione e i problemi
dei tuareg di cui tratta questo articolo restano comunque drammaticamente attuali.
isale ormai a quindici anni fa – era il 24
aprile 1995 – l’ultimo accordo di pace siglato tra il governo di Niamey e il movimento
tuareg del Niger che sanciva la fine di un periodo tumultuoso di lotta armata. Gli accordi, che
prevedevano la costruzione di scuole e dispensari medici, il miglioramento delle infrastrutture nella regione dell’Air e delle condizioni di vita del popolo tuareg, non sono quasi mai stati rispettati dal governo.
La storia sembra ripetersi tristemente anche all’inizio
di questo nuovo anno. Tutte le organizzazioni internazionali presenti sul territorio, le Ong e le associazioni di volontariato lamentano l’assenza dello Stato
e l’abbandono della popolazione che vive in condizioni di semipovertà. Non è un caso se il Niger è uno
degli ultimi paesi dell’Indice di sviluppo umano del
Programma dell’Onu (Undp), che classifica la qualità della vita in base al reddito procapite, all’istruzione e all’aspettativa di vita.
A cavallo tra il Sahel e il Sahara, il Niger è il terzo
produttore mondiale di uranio, con 3500 tonnellate
estratte nelle miniere di Arlit, ma questa fonte di ricchezza non viene in alcun modo distribuita fra la popolazione. Sotto accusa il gruppo francese Areva, che
agisce in regime di monopolio da più di 40 anni sui
giacimenti, e la società cinese China Nuclear, new entry delle compagnie del Sol Levante con interessi
commerciali in Africa occidentale. Entrambe sfrutterebbero questa ricchezza senza destinare alcun beneficio alla popolazione locale. Alla Areva, in particolare, viene contestato di aver inquinato gran parte dei
territori utilizzati dai nomadi per il pascolo del bestiame. A nulla sono valse le proteste della società civile nigerina, appoggiata da alcune organizzazioni
francesi, contro le attività di estrazione che stanno
contaminando le già scarse risorse idriche con ripercussioni sulle persone e sull’ambiente.
Per questi motivi, agli inizi di febbraio 2007 i tuareg – o meglio, un gruppo che fa capo al Mnj, Movimento dei nigerini per la giustizia, a cui si è aggiunto l’Fpn, Fronte patriottico del Niger – hanno ripreso la lotta armata con l’attacco ad una caserma nel
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nord del paese. In più di 24 mesi si sono succeduti
aggressioni mirate e combattimenti che hanno riportato l’insicurezza e la paura nella regione, da Agadez a Iferouane. I due gruppi ribelli sostengono di poter contare su qualche migliaio di combattenti grazie all’arrivo di militari che giornalmente disertano
dall’esercito regolare per unirsi alla causa. È quanto
è scritto sul blog del movimento. Sfruttando le capacità comunicative della rete, il Mnj ha raggiunto il
suo scopo: ottenere una visibilità planetaria, far conoscere i motivi delle sue azioni e rivendicare l’opposizione al governo guidato da Mamadou Tandja
[ora deposto con il colpo di Stato del 18 febbraio,
ndr]. Apostrofato dal premier e dai partiti al potere
come un gruppo di banditi, assassini e trafficanti di
droga, il Mnj si sta dimostrando molto più che un
semplice gruppo di sbandati armati. Hanno formato
una struttura politica diretta da Agaly Ag Alambo, uomo di spicco nella comunità tuareg e amico fraterno
di quel Mano Dayak che è stato figura simbolo di
questo popolo durante gli anni della grande crisi iniziata nel 1980 con la lotta armata e terminata con la
firma della pace nel 1995.
Come allora, il movimento si fa carico del malessere del popolo tuareg rivendicando maggiori benefici sociali ed economici: più scuole, un congruo numero di dispensari e lavoro con salari dignitosi. Chiedono altresì una nuova ripartizione dei proventi derivanti dal settore minerario, visto che il prezzo
dell’uranio è più che raddoppiato. Questa ulteriore
impennata dei prezzi ha contribuito a dare il via ad
una nuova spartizione coloniale in questa zona del
Niger. Le domande di prospezione dal 2007 al 2009 si
sono accumulate presso il Ministero delle Miniere di
Niamey e sono stati concessi ben 139 permessi a società europee, asiatiche, nordamericane ed australiane per cercare l’uranio fra le sabbie del Sahara.
Naturalmente la fetta più remunerativa è toccata alla Francia, partner di vecchia data, con il sito più ricco a Imouraren (200 km a nord di Agadez), che dal
2012 produrrà 5mila tonnellate di uranio l’anno per
35 anni, diventando il secondo giacimento al mondo, con gestione mista della francese Areva e dello
stato del Niger.
Naturalmente, di questa gigantesca torta, neanche
un minimo assaggio sarà offerto alla popolazione nigerina, men che meno ai tuareg. Si tratta di uomini,
donne e bambini che vivono, anzi sopravvivono, con
il tristemente famoso dollaro al giorno!
i servizi
marzo 2010
confronti
Niger.
Tensioni e speranze
nella regione dei tuareg
«La popolazione di Iferouane e delle altre cittadine dell’Air sta abbandonando le proprie abitazioni
perché è difficile reperire il cibo e per la paura di essere fra le “vittime innocenti” degli scontri». È quanto è stato denunciato l’estate scorsa dal quotidiano
locale Le Republicain che, nel sottotitolo, scrive:
«Più dell’80% degli abitanti sono già fuggiti da Iférouane per rifugiarsi più a sud a causa dell’insicurezza e della mancanza di cibo...». Fonti attendibili
lo confermano: attualmente Iférouane è una cittadina tristemente deserta. A complicare le cose c’è il problema delle mine antiuomo e anticarro collocate nel
nord del paese dai militari nigerini che stanno causando diverse vittime fra gli stessi soldati e qualche
famiglia di pastori nomadi con il bestiame. Fonti
giornalistiche locali confermano la presenza di questi micidiali ordigni anche nei dintorni della città di
Agadez.
Ad Agadez la presenza dei militari è palpabile, così come cresce la tensione e la paura fra la gente per
alcuni arresti indiscriminati. Di fatto lo stato di messa in guardia è visto come un’imposizione restrittiva
che viola i principi dei diritti dell’uomo, limitando la
libertà d’opinione e di espressione, che normalmente si manifestano in situazioni del genere. Intanto la
società civile del Niger si sta mobilitando affinché si
giunga in tempi brevi ad una soluzione pacifica e si
spera nella mediazione di paesi amici come la Libia
di Gheddafi e il Burkina Faso di Blaise Compaoré, ma
anche del Sudan, dove il partito al potere di Omar elBachir è alleato del premier nigerino Tandja. Nelle
ultime settimane anche i leader religiosi si sono uniti alle voci dei notabili per chiedere con forza il ritorno definitivo della pace. Preoccupante, e al tempo
stesso irresponsabile, l’ostinazione del presidente nel
candidarsi per la terza volta consecutiva alla guida
del paese. Nonostante il parere contrario della Corte
costituzionale e dell’Unione africana, ha sospeso la
Costituzione e vinto un referendum farsa che gli ha
dato il via libera per un terzo mandato [il motivo
principale che ha scatenato il colpo di Stato, ndr]
Intanto l’intero paese è quasi al collasso. Il turismo, che garantiva una discreta risorsa economica,
è praticamente fermo dal 2007 a causa della guerriglia. Al posto dei turisti sono subentrati i migranti
dalla pelle scura per tentare la traversata del deserto
del Ténéré e raggiungere la Libia e poi l’Europa. Sono loro, i disperati provenienti da Togo, Nigeria, Benin, Senegal e così via, ad alimentare la fragile economia di questa parte del paese. Mentre scrivo, timidi segnali di un possibile accordo fra le parti in causa potrebbero far sperare in una pace duratura. Lo
speriamo tutti.
A cavallo tra il Sahel
e il Sahara, il Niger
è il terzo produttore
mondiale di uranio,
con 3500 tonnellate
estratte nelle miniere
di Arlit, ma le società
straniere sfruttano
questa ricchezza
senza destinare
alcun beneficio
alla popolazione locale
e a volte inquinando
gran parte dei territori
utilizzati dai nomadi
per il pascolo
del bestiame.
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Progetto scuola Dabaga
Come già detto, il Niger è uno dei paesi più poveri al
mondo e il tasso di alfabetizzazione non supera il 25%
nei ragazzi e l’11% nelle ragazze. Le istituzioni locali non riescono ad assicurare l’istruzione di base e,
laddove vi sono scuole, non provvedono al mantenimento degli alunni e degli stessi insegnanti. Quando
si hanno difficoltà a reperire anche solo le più elementari forme di sussistenza, capiamo benissimo che
alcuni bisogni essenziali, come la salute e la scuola,
passino in secondo piano. L’istruzione ad esempio è
un dovere che ogni Stato dovrebbe riuscire a garantire ai propri ragazzi. A questo punto l’educazione diviene un bisogno reale al pari di cibo e acqua, e può
costituire nel tempo un’opportunità di sviluppo e di
emancipazione. L’associazione di promozione sociale «Itinerari africani - percorsi di cultura» di Cuneo
è convinta che una scuola, quando funziona, contribuisce alla crescita economica e culturale dell’intera
comunità. Con questa premessa, nel febbraio 2005, ha
deciso di avviare un progetto di sostegno scolastico nel
villaggio di Dabaga, situato a 45 km a nord dalla città
di Agadez. I 5.000 abitanti sono tutti tuareg che, a
causa del perdurare della siccità, sono stati costretti
ad abbandonare il nomadismo per convertirsi
all’agricoltura e al piccolo commercio. Grazie alla fattiva collaborazione degli abitanti del villaggio di Dabaga e del direttore della scuola, il progetto si è arricchito di alcuni punti essenziali che hanno reso la vita più dignitosa ai piccoli allievi. Ad esempio, con la
realizzazione di un primo dormitorio (ne prevediamo
almeno due) arredato con materassi, stuoie e coperte, abbiamo dato la possibilità a 30 bambini di frequentare regolarmente le lezioni dal lunedì al venerdì,
evitando agli stessi di dover percorrere giornalmente
svariati chilometri a piedi per far ritorno ai propri villaggi. Grazie a donazioni private, abbiamo acquistato banchi e sedie, costruito i bagni e un locale per la
materna, e abbiamo riparato il pozzo dell’orto scolastico, che consente di poter integrare l’alimentazione
a base di sorgo e riso con verdure e legumi. Il pozzo è
un elemento di vitale importanza in questa regione
semidesertica a ridosso del deserto del Ténéré, dove
l’acqua è un bene prezioso al pari della vita stessa.
L’associazione è impegnata a fornire annualmente tutto il materiale didattico e a garantire il vitto agli
alunni per l’intero periodo. Il 5 ottobre scorso è iniziato il nuovo anno scolastico 2009/2010 e il direttore della scuola, Liman Zarke, ci ha informati che gli
alunni iscritti sono circa 214, suddivisi in 6 classi.
Tutte le varie fasi del progetto sono visibili all’indirizzo internet www.itinerariafricani.net/progettoscuoladabaga.htm.
POLITICA
Una Repubblica
fondata sugli affari?
Nicola Tranfaglia
Ogni tanto – si pensi al caso dell’incendio all’acciaieria
ThyssenKrupp di Torino – i media italiani rompono
il loro abituale silenzio sul tema dei morti sul lavoro
(oltre 1000 ogni anno) o su questioni quali la deriva razzista
in atto nel nostro paese, come il caso di Rosarno testimonia.
I
l bombardamento mediatico che caratterizza la
vita degli italiani nel ventunesimo secolo ha alcune caratteristiche che non si possono dimenticare. È altamente selettivo e comporta il succedersi incessante di notizie e informazioni che vanno dai
molti telegiornali pubblici e privati ai quotidiani e ai
periodici che escono nel nostro paese.
Ma ci sono alcune notizie che durano nel tempo e
segnano simbolicamente punti di non ritorno. È il caso sicuramente della tragedia della ThyssenKrupp a
Torino il 6 dicembre 2007, in cui persero la vita sette
operai italiani, e degli scontri di Rosarno che il 7 e l’8
gennaio 2010 hanno provocato quattro feriti tra gli
immigrati e condotto all’immediata «deportazione»
(non si può usare altra espressione) di tutti gli immigrati da quel paese della Calabria.
Per quanto i telegiornali – quasi tutti – e molti quotidiani abbiano cercato di nascondere alcuni aspetti
dell’accaduto, è apparso chiaro che, nell’uno come
nell’altro caso, i diritti umani delle vittime siano stati
gravemente colpiti e che la deportazione di Rosarno sia
stata da parte dello Stato una incomprensibile violazione dei diritti che spettano a tutti quelli che vivono
sul suolo italiano e che, per quanto non ancora (almeno non tutti) cittadini italiani, hanno diritto a muoversi liberamente nella penisola, a meno che siano colpevoli accertati di gravi reati riconosciuti in maniera
definitiva dall’autorità giudiziaria.
Un procedimento, come sostiene Mimmo Calopresti nell’intervista che segue, indegno di un paese civile retto da una Costituzione democratica.
Ma ci si deve chiedere: come è stato possibile arrivare a questi risultati nell’Italia di oggi e quali sono
i responsabili di una simile situazione?
Del resto, un recente sondaggio attribuisce a più
della metà dei giovani italiani sentimenti razzisti nei
confronti degli immigrati. Questo non fa che confermare una situazione di grave sbandamento e di forte
propaganda razzista di cui si fa portavoce proprio il
governo di Silvio Berlusconi (in particolare una delle
forze politiche che lo costituiscono e che lo hanno in
pugno, la Lega Nord di Umberto Bossi).
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Chi conosce, per mestiere o per passione, la storia
del nostro paese, sa che in Italia un governo tendenzialmente totalitario, quello di Benito Mussolini, ha
incominciato fin dai primi anni Trenta una campagna di discriminazione razziale volta contro gli africani e gli ebrei che ha portato, nel novembre 1938, alla persecuzione antisemita con leggi specifiche che
hanno escluso dalle scuole, dalle università e dalle
fabbriche gli ebrei, come gli oppositori del regime.
Nella seconda guerra mondiale, per l’infame alleanza del regime fascista con quello nazista tedesco,
quella politica – racconta ancora la nostra storia – ha
condotto a una indubbia complicità attiva dei seguaci della Repubblica sociale italiana con gli agenti dello sterminio europeo, portando nei lager di mezza Europa quasi diecimila ebrei italiani e oltre ventitremila oppositori politici.
Le classi dirigenti italiane, purtroppo, hanno condotto tardi e molto male il necessario esame di coscienza rispetto a quella tragedia. L’avvento al potere
negli anni Novanta di un leader populista come Berlusconi, che ha unificato le forze di destra alleandosi
con la Lega Nord, ora ha ricondotto il paese a discriminazioni del medesimo tipo nei confronti degli immigrati che vivono nel nostro paese.
La vicenda di Rosarno ha mostrato in maniera evidente l’assenza dei sindacati e dei partiti, ma anche delle autorità locali, nell’intervenire su una situazione di
forte degrado e ha segnalato ancora una volta la scarsa presenza, soprattutto nelle zone periferiche del Mezzogiorno, di un quarto potere in grado di esercitare il
controllo sulla politica che pure spetterebbe ad esso.
Resta in piedi il problema di fondo che caratterizza
l’Italia di oggi. Il problema sempre intatto, malgrado
le ultime misure legislative che rimontano al secondo
governo Prodi, di un numero, sempre troppo alto, di
infortuni sul lavoro che chiamano in causa nello stesso tempo gli imprenditori e gli ispettori del lavoro e il
Ministero a cui fanno capo. È accettabile che ogni anno più di mille lavoratori perdano la vita per svolgere
il proprio lavoro e che addirittura possa succedere, come nel caso dell’Umbria Oli, che ci siano imprenditori che chiedono i danni alle famiglie delle vittime?
Ed è possibile, ancora, che in troppi stabilimenti industriali o artigianali non si osservino le regole di sicurezza e che quindi quegli incidenti siano destinati
a ripetersi in maniera sempre più forte e significativa?
È così sproporzionato il prezzo che si fa pagare ai lavoratori per l’incuria o la trascuratezza delle aziende
i servizi
marzo 2010
confronti
Politica.
Una Repubblica
fondata sugli affari?
che sembra impossibile, se non la risoluzione, almeno una diminuzione costante degli infortuni. Eppure
gli anni passano e la situazione rimane stabile o in
lieve diminuzione.
C’è da aggiungere, peraltro, che accanto a quelli noti come infortuni sul lavoro, sono emersi negli ultimi
anni i casi in cui l’uso di materiali nocivi, a cominciare dall’amianto, ha condotto a processi che dimostrano il danno enorme per i lavoratori costituito da procedimenti che le imprese hanno adottato negli ultimi
decenni a spese di chi ha dato le proprie prestazioni di
lavoro non conoscendo il pericolo racchiuso in quelle
lavorazioni. L’amianto, secondo statistiche ancora errate per difetto, ha provocato più di novemila vittime
in alcune fabbriche del Piemonte e di altre regioni italiane e non c’è dubbio che ci siano stati ritardi negli interventi necessari a contenere, una volta scoperti a livello scientifico, i danni che l’uso di quei materiali
comporta. Di qui l’inizio di controversie che non potranno in nessun caso restituire la vita ai lavoratori, ma
che danno il senso della tragedia che ancora una volta ha caratterizzato il lavoro di tanti italiani per molti
decenni. E in questo senso si può dire che il superamento, da tutti auspicato, della crisi economica rischi
di condurre, se non si interviene sugli elementi strutturali che provocano gli incidenti, a una crescita piuttosto che a un calo nei prossimi anni.
Ma la sensazione che si ha, da osservatori del tragico fenomeno, è che soltanto una forte volontà politica e una campagna condotta in tutte le sedi e non solo da parte di poche coraggiose associazioni, possa
condurre a una svolta e a un cambiamento di fondo
della situazione. Eppure sappiamo tutti che la nostra
Costituzione racconta di una Repubblica democratica
fondata sul lavoro e non sugli affari.
Quando di lavoro
si muore
Mimmo
Calopresti
Il regista Calopresti
ha raccontato
con il film
documentario
«La fabbrica
dei tedeschi»
la tragedia
della ThyssenKrupp,
in cui persero
la vita sette operai
nella notte tra il 5
e il 6 dicembre 2007,
proponendo la cronaca
di ciò che successe
quella notte, nelle
settimane precedenti
e nei giorni seguenti.
Lo abbiamo
intervistato sul tema
del lavoro e delle morti
bianche, ma anche
sui fatti di Rosarno.
Lei nasce a Polistena (Reggio Calabria): per questa
intervista sul tema del lavoro e sulle morti bianche
non potevamo che partire dai recenti fatti avvenuti a Rosarno...
Conosco bene la situazione perché è vicina a dove sono
nato. Un posto dove non c’è nulla e dove questi ragazzi
immigrati, provenienti da diverse parti del mondo, erano costretti ad una vita terribile. Costretti a raccogliere
mandarini, arance, in condizioni precarie e igienicamente difficili. Inoltre, esclusi da una vita sociale vera e
propria con la popolazione locale. Insomma, mal pagati e vessati nella vita. «Negri», questo era l’aggettivo più
usato per definirli. La loro reazione è stata forte. È inevitabile ad un certo punto alzare la testa e ribellarsi, non
per partito preso, ma per difendere i propri diritti. Una
reazione alle continue provocazioni che è esplosa dopo
l’ultimo episodio con le pallottole ad aria compressa sparate da alcuni giovani ai loro danni. L’impossibilità di
sperare in un futuro, di veder riconosciuti i propri diritti più basilari: questa è la vera motivazione della rivolta che ha causato, come conseguenza, la loro espulsione da quelle zone; cosa che ritengo inaccettabile per un
paese che si dichiara civile e democratico. Il brutto di tutta questa storia è che, dietro allo sfruttamento di queste
persone, altre invece ci guadagnano. Una vera integrazione basata su presupposti come quelli che ho elencato è davvero impossibile. Tutto, infatti, ha funzionato fino a quando il nero, l’immigrato, accettava – sottomesso e in silenzio – la sua condizione. Il silenzio è il vero
dramma di tutta questa storia. Silenzio dei neri fino alla loro rivolta, silenzio della popolazione di quelle zone,
silenzio della politica, silenzio dei sindacati. Tutti conoscevano la situazione di degrado di quei luoghi, ma mai
nessuno si è mosso in tempo utile per cambiarla, una situazione che privava queste persone di un vero stato di
diritto. Ritengo che solo il dialogo e la conoscenza tra
mondi diversi possa essere la soluzione all’imbarbarimento sociale; e la politica deve farsene portavoce, con
politiche serie di inclusione.
Come regista e come intellettuale lei si spende in
prima persona su temi importanti. Uno è quello
del lavoro...
L’informazione spesso non basta. L’informazione oggi è veloce e spesso viene assunta in modo superficiale. Tuttavia informare è importante, direi vitale. Una
corretta informazione deve essere alla base dei fondamenti di uno Stato democratico. Parlare dei temi del
lavoro è oggi più che mai necessario: occorre ricorda-
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i servizi
marzo 2010
confronti
Politica.
Una Repubblica
fondata sugli affari?
re che molte persone oggi il lavoro non lo
hanno e non riescono a trovarlo, che
molte persone vengono sfruttate, spesso
ricattate, e che le nuove generazioni sono in balia di se stesse, con prospettive
talmente nere da non poter sperare neanche nel futuro. Di tutto questo oggi poco
si parla e quando lo si fa è per segnalare
l’ennesimo caso di cronaca o la tragedia
annunciata. Il cinema è un’altra cosa.
Un film rimane, riesce ad arrivare ai sentimenti più reconditi di ogni singola persona. Quello che io voglio far arrivare a
tutti è proprio l’idea che esistono cose che
non possono essere accettate, come il fatto che la gente sul posto di lavoro possa
morire, che non possa avere una vita famigliare normale per via dei logoranti
turni di lavoro, che debba sottostare a regole non scritte per paura di perdere
l’unica possibilità di stipendio. O come il fatto che per
quel posto di lavoro (dove magari, proprio il datore per
primo, non si prende cura dei propri lavoratori) gli
stessi possano decidere a discapito della loro incolumità di salvare in caso di incendi o guasti le strutture
e i macchinari della propria azienda, con la tragica
conseguenza di dovere salvare i propri colleghi in seconda battuta. Cosa li spinge a farlo? Quali possono essere le motivazioni che spingono a tali gesti così estremi? Forse, se esistessero delle serie regole, tutto ciò non
sarebbe necessario e, come fanno in altre realtà europee, si scapperebbe da una situazione di pericolo: la vita è la prima cosa da salvare.
Qualcosa dunque in questo mondo, e in particolare in
quello del lavoro, non va. Inoltre raccontare la tragedia della ThyssenKrupp mi ha fatto crescere, mi ha
fatto incontrare persone meravigliose. Non è stato solo un incidente quello che ho raccontato, è stato molto di più, perché quando capitano queste cose, un
mondo intero rimane coinvolto, si interrompono drasticamente storie d’amore, si lasciano soli figli piccoli e parenti, famiglie intere rimangono senza possibilità di sostentamento. E, proprio mentre questa tragedia collettiva si consuma, nulla cambia per le persone che non vengono coinvolte direttamente, o per chi
avrebbe dovuto proteggere quelle persone. Sensibilizzare su questi temi non è certamente fare giustizia,
ma almeno smuovere le coscienze e ricordare i ricatti che i lavoratori sono spesso costretti a subire per non
perdere il proprio posto di lavoro; ricatti che passano
attraverso le minacce di trasferimenti, di turni logoranti, di contratti precari, solo per citarne alcuni. Sensibilizzare su questi temi è anche un modo per ricordare ai sindacati e alla politica il ruolo determinante
che hanno per cambiare questo stato di cose.
«Parlare dei temi
del lavoro è oggi più
che mai necessario:
occorre ricordare
che molte persone
oggi il lavoro non
lo hanno e non
riescono a trovarlo,
che molte persone
vengono sfruttate,
spesso ricattate,
e che le nuove
generazioni sono
in balia di se stesse,
con prospettive
talmente nere
da non poter sperare
neanche nel futuro».
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A proposito di politica, faceva piacere vedere la sala delle Conferenze di Montecitorio piena, con molte persone in piedi, quando spesso quella stessa sala è solo frequentata da pochi addetti ai lavori,
giornalisti o deputati. L’occasione era la «Proposta
di legge di istituzione del Giorno della memoria
delle vittime sul lavoro e altre disposizioni per
l’informazione sui problemi della Sicurezza sul lavoro» promossa, tra gli altri, dai deputati Cesare
Damiano, Giuseppe Giulietti, Antonio Boccuzzi, Fabio Granata e Catia Polidori. Lei era presente come
testimonial impegnato in questo campo...
È stata un’iniziativa importante, infatti il testo propone che la data sia, simbolicamente, quella del 6 dicembre, proprio per ricordare la triste giornata in cui
avvenne lo scoppio e poi il rogo alla ThyssenKrupp di
Torino e nel quale i sette lavoratori persero la vita. L’iniziativa parte anche da Antonio Boccuzzi, che oggi porta avanti con caparbietà il suo impegno sul tema del
lavoro e della sicurezza sul lavoro come parlamentare.
Il ricordo di quel giorno deve diventare una data simbolo e spingere a creare una nuova cultura su questo
tema, che coinvolga tutti i soggetti in campo: le imprese, che devono capire che l’investimento in sicurezza non è un costo da evitare, ma una scelta corretta
sulla via della competitività qualitativa a vantaggio del
prodotto e della risorsa umana; i lavoratori, che devono pretendere che le norme sulla sicurezza siano effettivamente e correttamente applicate. Questa giornata
deve unire le forze sociali, istituzionali e sindacali congiuntamente, per promuovere iniziative e incontri nelle scuole, nei luoghi di lavoro e soprattutto per non dimenticare, mai, tutte le vittime sul lavoro.
(intervista a cura di Gian Mario Gillio)
AFRICA
I conflitti nella regione
dei Grandi Laghi
Giusy Baioni
Le guerre che riguardano gli stati dell’Africa centro-orientale
generalmente non presentano motivazioni specificamente
religiose – anche se in alcuni casi si deve rilevare una
componente religiosa, perlomeno utilizzata in modo strumentale
– ma nella maggior parte dei casi sono legate a giochi di potere.
T
ra le molte guerre che insanguinano l’Africa,
alcune presentano forti componenti religiose. In taluni casi, come in Nigeria tra cristiani e musulmani, si tratta di veri e propri
«conflitti religiosi», anche se ridurre l’analisi delle
cause alla presenza di fedi diverse è quantomeno
semplicistico; in altri casi si assiste a scontri e giochi
di potere tra le componenti moderate e quelle estremiste del medesimo credo, come in Somalia o in alcuni paesi del nord Africa.
Al contrario, le guerre dei Grandi Laghi non presentano una netta motivazione religiosa. Dal genocidio ruandese alla guerra nell’est del Congo, le violenze hanno avuto e hanno motivazioni stratificate e
complesse, che vanno da conflitti etnici (a volte originati o amplificati ad arte in epoca coloniale, seguendo il mai tramontato motto latino divide et impera) a interessi interni e internazionali legati alle
immense risorse naturali di queste zone.
Una componente religiosa può essere tuttavia riscontrata in alcuni casi, in forma marginale ma pur
sempre interessante. È il caso ad esempio dell’ultimo
leader ribelle che ha fatto parlare di sé, il generale
Laurent Nkunda, tutsi congolese che fino all’inizio del
2009 ha seminato il panico nella regione congolese del
Nord Kivu. Attualmente il leader è caduto in disgrazia,
abbandonato dai suoi protettori e detenuto (in una
prigione dorata) in Rwanda. Ma nella seconda metà
del 2008 aveva costruito attorno a sé un’aura di potere quasi mistico. Davanti alla stampa internazionale
che da tutto il mondo accorreva a intervistarlo sulle
impervie montagne del Masisi, appariva in pubblico
con abiti impeccabili: prima in alta uniforme, con stivali tirati a lucido e l’immancabile bastone con la testa d’argento; poi, da un certo punto in avanti, in vesti candide e con un agnellino sotto braccio. Un’icona
che contribuiva a mostrarlo come una sorta di «liberatore» – così diceva di sé –, a cui sommare un altro
elemento: in varie interviste mostrava con orgoglio la
spilla appuntanta sulle vesti, recante lo slogan «Rebels
for Christ» e vantava una sua affiliazione alla Chiesa
avventista del settimo giorno, di cui si diceva pastore.
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E infatti si vociferava da più parti che proprio dai
pentecostali statunitensi gli fossero arrivati ingenti finanziamenti per le sue attività, anche se la Chiesa avventista degli Usa nega qualunque contatto o affiliazione di Nkunda, sia come pastore che come semplice membro.
Difficile dire quanto la sua dichiarata appartenenza a questa Chiesa abbia influito sulle sue scelte politiche e militari. I biografi riportano una sua frequentazione fin dall’infanzia della Chiesa avventista,
di cui la madre era fedele, e dicono che amava talmente l’atmosfera religiosa che vi si respirava che già
a nove anni aveva espresso il desiderio di diventare
prete. Era poi passato alla Chiesa cattolica, per rientrare definitivamente a quattordici anni nella Chiesa
delle sue origini. Si dice che in quel periodo amasse
intrattenere fratelli e sorelle dispensando loro la parola di Dio (Stewart Andrew Scott, Laurent Nkunda
et la rébellion du Kivu. Au coeur de la guerre congolaise, Karthala, Paris 2008).
Ci sono altre componenti religiose che giocano nella guerra congolese. Ma si tratta in questo caso di elementi che fanno riferimento a religiosità e credenze
popolari. Penso in particolare ai mayi mayi, una delle fazioni che hanno combattuto e combattono in questi anni. Agli inizi venivano chiamati – con una certa
semplificazione – i «partigiani congolesi», ma pian
piano questi gruppi sono scivolati nel banditismo.
Si raccontano molti aneddoti su di loro e sulla loro vita, su cui è difficile fare verifiche. Si dice ad
esempio che il loro nome (che significa «acqua») sia
dovuto alla credenza che un’immersione nelle acque
dei fiumi o una boccetta d’acqua che porterebbero
con sé li renderebbe invulnerabili alle pallottole. Questa regola, ispirata alle credenze tradizionali, sarebbe valida solo se il guerriero rispetta un rigoroso stile di vita che prevede un’alimentazione controllatissima e l’astinenza dai rapporti sessuali. E siccome –
secondo tali superstizioni – solo chi è vergine avrebbe una chance di sconfiggerli, nel tempo ciò è divenuta una delle cause che ha provocato il sempre più
frequente ricorso ai bambini soldato. Negli anni Novanta, le forze dell’allora dittatore Mobutu Sese Seko
rapirono molte ragazzine allo scopo di neutralizzare
i poteri dei mayi mayi.
La loro presenza è diffusa anche in altre zone del
Congo, come la provincia meridionale di Lubumbashi, nel Katanga, dove sono decine le storie e gli
aneddoti su di loro.
i servizi
marzo 2010
confronti
Africa.
I conflitti nella regione
dei Grandi Laghi
Se dal Kivu si sale più a nord, nella provincia
orientale al confine tra Congo e Uganda, ecco un altro scenario inquietante, dove una guerra a bassa intensità miete vittime nel silenzio e nell’indifferenza.
Qui a seminare il terrore sono i ribelli dell’ugandese
Joseph Kony, un «signore della guerra» che da oltre
vent’anni impazza senza che nessuno riesca a fermarlo. Fondatore del Lord’s Resistence Army, l’Esercito di resistenza del Signore, Kony si ispira a strani
precetti religiosi, adattati a piacimento alla sua causa. Al suo nascere, il Lord’s Resistence Army chiedeva
al governo centrale ugandese che i dieci comandamenti divenissero legge di Stato.
Nato all’inizio degli anni Sessanta in un villaggio
acholi vicino a Gulu, nel nord dell’Uganda, Kony era
un ragazzo brillante. Si dice sia cugino di Alice
Lakwena, un’ex prostituta che nel 1986 fondò il Movimento dello Spirito santo, che prese piede dando voce alle popolazioni acholi, escluse dal potere quando
al governo salì l’attuale presidente Yoweri Museveni.
La donna prometteva l’immunità dalle pallottole
dell’esercito, ma i suoi seguaci furono sconfitti e lei
riparò in Kenya. Fu dopo questi fatti che Kony fondò
il suo gruppo ribelle, presentandosi lui stesso come
medium. Il primo spirito da cui disse di essere guidato era quello di Juma Oris, un ex ministro nel governo di Idi Amin che aveva poi guidato il movimento di ribellione West Nile Bank Front nel nord-est
dell’Uganda.
Attorno a sé Kony ha creato negli anni un’atmosfera di misticismo misto a paura e i suoi seguaci osservano regole e rituali precisi. Tuttavia, tra le fila del
suo esercito, la maggior parte dei soldati sono bambini rapiti e costretti con la forza a divenire ribelli.
Per le bimbe e le ragazzine rapite, la sorte è ancora
peggiore: sono condannate ad essere schiave sessuali. Chi di loro è riuscito a fuggire in questi anni, racconta che Kony riceverebbe istruzioni direttamente
dallo Spirito santo e predicherebbe con il dono delle
lingue. «Quando andate a combattere, prima fatevi
il segno della croce. Chi non lo fa, sarà ucciso», riferisce le sue parole un giovane fuggito in una testimonianza all’organizzazione per la difesa dei diritti
umani Human Rights Watch: «Dovete prendere l’olio
e tracciare una croce sul petto, la fronte e le spalle e
dovete fare una croce con l’olio sul vostro fucile.
L’olio è il potere dello Spirito santo». Kony userebbe
citazioni bibliche per spiegare la necessità di uccidere la propria gente, che non sostiene la sua causa:
vorrebbe dunque «ripulire» la popolazione acholi dai
«traditori».
Qualche anno fa si vociferava di una conversione
di Kony all’islam, forse in corrispondenza con la sua
fuga in sud Sudan, dove è stato raggiunto da un
mandato di cattura internazionale emesso dalla Cor-
Quando in
una famiglia accade
un fatto negativo,
una disgrazia,
nella mentalità
popolare è necessario
trovarne il colpevole.
Questi fatti non
possono «capitare»,
ma vengono senza
dubbio alcuno
invocati da qualcuno
che ha compiuto
un maleficio.
Serve un capro
espiatorio.
E quasi sempre, ormai,
lo si trova nei
bambini, che vengono
cacciati da casa,
malmenati, a volte
sottoposti a riti
di esorcismo che sono
vere e proprie torture.
Baioni è direttrice
del periodico saveriano
«Missione giovani».
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te dell’Aja. La realtà è forse un po’ diversa. Racconta uno dei ribelli fuggiti: «È una strana religione,
quella cui Kony si professa fedele: la domenica prega
il Dio dei cristiani, recitando il rosario e citando la
Bibbia, ma osserva anche il venerdì, con la preghiera di Al-Jummah, come i musulmani. Festeggia il
Natale, ma rispetta anche il digiuno di trenta giorni
durante il Ramadan e proibisce che si consumi carne di maiale». Una sorta di inedito sincretismo tra
cristianesimo e islam, che secondo alcuni avrebbe
l’unico scopo di ingraziarsi il governo centrale del
Sudan ed ottenerne appoggio e armi.
Sta di fatto che dal 2005 Kony si è nuovamente
spostato, per nascondersi nelle foreste impenetrabili
del nordest del Congo, dove ha iniziato nuovamente
a seminare il panico e a rapire bambini.
Se si lasciano i terreni di guerra e ci si sposta a ovest, verso Kinshasa, la capitale del Congo, si incorre in
un altro fenomeno, molto diverso ma a suo modo legato a credenze religiose e violenza. Si tratta degli enfants sorciers, i «bambini stregoni». Una realtà diffusa un po’ su tutta la costa occidentale dell’Africa nera, che si aggrava nelle aree metropolitane degradate.
Negli ultimi anni il fenomeno si è incancrenito e
sono molte le testimonianze di ong e missionari che
hanno scelto come attività proprio l’aiuto ai bambini vittime di queste pratiche. In sostanza, quando in
una famiglia accade un fatto negativo, una disgrazia
(la morte improvvisa di qualcuno, la perdita di un lavoro...), nella mentalità popolare è necessario trovarne il colpevole. Questi fatti non possono «capitare», ma vengono senza dubbio alcuno invocati da
qualcuno che ha compiuto un maleficio. Il malocchio, come si diceva da noi. Serve un capro espiatorio. E quasi sempre, ormai, lo si trova nei bambini,
che vengono cacciati da casa, malmenati, a volte sottoposti a riti di esorcismo che sono vere e proprie torture. Chi sopravvive, è innocente. Una caccia alle
streghe, con qualche secolo di ritardo sulla cattolicissima Europa. Cristianesimo e credenze ancestrali
si sommano in un mix letale.
Ma chi lavora a stretto contatto con le vittime offre
anche una più prosastica, agghiacciante spiegazione: in megalopoli mostruose come Kinshasa, dove il
«se débrouiller» [l’equivalente della nostra «arte di
arrangiarsi», ndr] è la regola per sopravvivere, dove
si tira a campare e non si sa cosa si mangerà domani, troppi bambini per casa sono un onere che non si
riesce a sopportare. E così con una scusa, in modo
più o meno consapevole, si cacciano di casa delle
bocche in più da sfamare.
IRLANDA DEL NORD
Pace precaria
tra cattolici e protestanti
Donato Di Sanzo
A quasi dodici anni dall’accordo di pace del Venerdì Santo
dell’aprile 1998, l’abbandono della violenza e del terrorismo
sembra essere un risultato definitivamente acquisito.
La stabilizzazione del sistema politico e il dialogo fra le comunità
cattolica e protestante sono, invece, processi ancora in evoluzione.
E’
del 12 ottobre 2009 l’annuncio, salutato con
soddisfazione pressoché unanime, del cessate il fuoco incondizionato da parte dell’Inla (Irish National Liberation Army), uno dei
gruppi armati repubblicani ancora attivi sul territorio
nordirlandese.
Oggi le sei contee dell’Ulster che costituiscono lo
stato dell’Irlanda del Nord sono un luogo pacificato,
quantomeno dal punto di vista strettamente militare.
Il comunicato di abbandono delle ostilità, diramato
dai vertici dell’Inla, non è che l’ultimo in ordine di
tempo. A partire dal 28 luglio del 2005, storica data
della dichiarazione del definitivo cessate il fuoco da
parte dell’Ira, quasi tutte le organizzazioni paramilitari che negli ultimi trent’anni hanno insanguinato
le città del Nord Irlanda con bombe, attentati e migliaia di morti e feriti, sia in campo repubblicano che
lealista, hanno deposto le armi. Gli ultimi sostenitori
della lotta armata, i militanti del Real Ira, l’ala più
estrema dell’esercito repubblicano che non condivise
la svolta del 2005, sembrano sempre più isolati e disorganizzati. Mentre la Iicd, la commissione governativa britannica che supervisiona il progressivo smantellamento degli arsenali, lancia continui segnali di
distensione.
Una situazione così configurata rappresenta uno dei
risultati sostanzialmente più significativi nel processo
di implementazione del Good Friday Agreement, l’Accordo di pace del Venerdì Santo (10 aprile 1998), sottoscritto dai governi di Londra e Dublino con il consenso della maggioranza delle forze politiche dell’Ulster. Aver posto fine ad una guerra nel cuore dell’Europa ed aver avviato la cosiddetta «normalizzazione»
della vita in Nord Irlanda consente di spostare l’attenzione sulla politica e sulle reali condizioni in cui versa il dialogo tra le due comunità, cattolica e protestante, che convivono nelle sei contee.
Il governo degli estremi
I partiti politici dell’Ulster sono tuttora alle prese con
il sistema di governo delineato dall’accordo del ’98,
che prevede il power sharing, la divisione/condivisio-
26
ne del potere e la formazione di esecutivi in cui le forze politiche sono rappresentate in termini proporzionali rispetto al numero di Mlas (Members of Local Assembly) che esprimono all’interno del riabilitato parlamento di Stormont.
In seguito alla ratifica dell’accordo furono costituiti i primi governi, presieduti dal leader del Uup (Ulster
Unionist Party) David Trimble e sostenuti da forze moderate come il Sdlp del premio Nobel per la pace John
Hume. Già dalle elezioni per il rinnovo dell’assemblea
del 2003, però, era emersa una tendenza alla polarizzazione del consenso verso i due partiti più radicali: il
Dup (Democratic Unionist Party) del reverendo ultraprotestante Ian Paisley, di ispirazione fortemente unionista e contrario alla stipula dell’accordo del ‘98, e lo
Sinn Fein dei leader repubblicani e cattolici Gerry
Adams e Martin McGuinness, diretta emanazione politica dell’Ira. Le successive elezioni del 2007 non hanno fatto che accentuare questo dato, portando alla formazione di un governo di portata storica, sostenuto da
Dup e Sinn Fein e presieduto da Paisley (poi sostituito da Peter Robinson), con McGuinness vice-primo
ministro.
Si tratta dei paradossi del power sharing, che ha
condotto alla coabitazione di governo forze e uomini
che negli ultimi trent’anni si sono combattuti con
ogni mezzo possibile. Il reale funzionamento di un
esecutivo così strutturato attende, per ora, la prova dei
fatti. Certo è che i primi risultati della collaborazione
non sono mancati. Alla fine di ottobre 2009, il premier
britannico Gordon Brown ha reso nota la disponibilità
del budget di un miliardo di sterline, che serviranno
per operare la completa devoluzione dei poteri sulla
giustizia e la polizia locale dal governo di Londra verso quello nordirlandese. Il primo ministro Robinson e
il vice McGuinness hanno sottolineato che l’annuncio
è giunto al termine di un duro lavoro di negoziazione
fra le forze che governano l’Irlanda del Nord e Londra.
In molti pensano che dietro l’enfasi che i rappresentanti dello Sinn Fein hanno dato alla notizia ci sia
una graduale ma clamorosa rinuncia a perseguire
l’obiettivo storico della riunificazione con la Repubblica d’Irlanda, dove i consensi per il partito di Adams
e McGuinness sono piuttosto bassi. Non è di questo avviso Raymond McCartney, figura storica dell’Ira ed
uno dei primi hunger strikers [persone in sciopero
della fame, ndr] che all’inizio degli anni Ottanta scioperarono nel carcere di Longkesh per protestare contro l’internamento senza mandato e le condizioni in
i servizi
marzo 2010
confronti
Irlanda del nord.
Pace precaria
tra cattolici e protestanti
cui i prigionieri repubblicani erano detenuti. Oggi McCartney è uno degli Mlas dello Sinn Fein che sostengono il governo nel parlamento di Stormont, a Belfast: «La devoluzione dei poteri sulle materie della
giustizia e della polizia – afferma – è un risultato di
portata storica, frutto di un duro lavoro di negoziazione fra le forze politiche coinvolte e il governo di
Londra. Il rafforzamento del governo del Nord in termini di competenze è una delle prerogative del Good
Friday Agreement. L’obiettivo finale dello Sinn Fein come partito repubblicano è la riunificazione dell’Irlanda e questo non è che uno dei passi che si stanno
compiendo in tal senso».
Intanto, le elezioni per il rinnovo del Parlamento di
Westminster [la data prevista dovrebbe essere il 6 maggio prossimo, ndr], che presumibilmente registreranno la vittoria di David Cameron e del Partito conservatore dopo tredici anni di guida laburista della Gran
Bretagna, potrebbero rappresentare una strettoia anche per la politica nordirlandese. Il responso delle urne dirà, infatti, se il ticket degli estremi Dup-Sinn Fein
sarà premiato dall’elettorato
o se, invece, sarà bocciato ad
appena tre anni dalla formazione del governo.
«Quelle per Westminster –
continua McCartney – sono
una sorta di strane elezioni
per lo Sinn Fein, perché i nostri eletti non accettano i seggi nel Parlamento britannico.
Nonostante questo, una tornata elettorale è sempre importante per un partito politico, in quanto costituisce un
valido test per misurare il
gradimento della popolazione
verso il proprio operato. Inoltre, le elezioni sono per noi
una delle occasioni migliori
per rendere noto il nostro programma incentrato sull’uguaglianza e la giustizia sociale».
La probabile vittoria dei
conservatori, storicamente
più vicini alle posizioni unioniste, ha destato la preoccupazione dello Sinn Fein, tanto che durante le trattative per
la definizione degli indirizzi
di devolution il vice-primo
ministro nordirlandese McGuinness ha incontrato David
Cameron. Nell’incontro, il
Mentre negli ultimi
anni il sistema politico
nordirlandese
ha subito cambiamenti
radicali e repentini,
la società dell’Ulster
non si è evoluta
con la stessa rapidità
e risulta ancora
differenziata
in due gruppi,
non in aperto conflitto,
ma che vivono
in una condizione
di «segregazione
di fatto».
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primo fra un leader repubblicano ed uno conservatore, si è ribadito che il possibile cambio al vertice del
governo britannico non determinerà comunque la revisione degli impegni già stabiliti. Piccoli passi verso
una possibile soluzione definitiva.
La segregazione di fatto
Sarebbe interessante verificare se, e in che modo, il
dialogo instauratosi a livello istituzionale fra partiti
dalle più distanti tradizioni ed aspirazioni abbia influito sul rapporto fra la comunità protestante e quella cattolica. Ma, probabilmente, per effettuare un’indagine di questo tipo è necessario attendere ancora
qualche tempo. Ciò che si può affermare con una certa tranquillità, invece, è che mentre negli ultimi quindici anni il sistema politico nordirlandese ha subito
cambiamenti radicali e repentini, la società dell’Ulster
non si è evoluta con la stessa rapidità e risulta ancora
differenziata in due gruppi, non in aperto conflitto,
ma che vivono in una condizione di «segregazione di
fatto».
Prima di approfondire la
questione, però, è opportuno
precisare che quelle che vengono definite, spesso per
semplicità espositiva, come
«comunità cattolica» e «comunità protestante» non costituiscono, nei fatti, due
blocchi monolitici ed omogenei che si contrappongono
per motivi esclusivamente religiosi. È da evitare, per queste ragioni, l’uso di «etichette confessionali» troppo marcate, per non incorrere
nell’errore grossolano di considerare le Chiese come parte
integrante del conflitto. Da
rigettare è anche la schematizzazione troppo rigida che
qualifica i cattolici come repubblicani, nazionalisti e irlandesi, mentre definisce i
protestanti come lealisti,
unionisti e britannici. È stato ampiamente dimostrato
che esistono, sia fra i componenti di una comunità che
dell’altra, diversissime sensibilità rispetto all’appartenenza alla religione, ai modelli
istituzionali di riferimento,
alla percezione delle proprie
identità e nazionalità. Si de-
i servizi
marzo 2010
confronti
Irlanda del nord.
Pace precaria
tra cattolici e protestanti
ve fare riferimento, perciò, a due gruppi profondamente eterogenei al loro interno che si differenziano
non solo per motivi riconducibili alla religione. Ancora McCartney: «Io vengo da una comunità fortemente cattolica, ma le mie esperienze di impegno politico in campo nazionalista e repubblicano non sono frutto della mia appartenenza religiosa. Sarebbe
un errore qualificare la questione come un conflitto
di religione».
Fatte queste necessarie precisazioni, però, è impossibile non rintracciare ovunque in Irlanda del Nord i
residui di una contrapposizione che ancora oggi è
molto forte. Nelle città più grandi, soprattutto a Belfast e Derry (Londonderry, per i protestanti), i segnali di una distanza sostanziale fra le due comunità sono persino visivi: nella capitale esiste ancora la cosiddetta «Peace line», il muro che divide fisicamente le zone abitate prevalentemente da protestanti da
quelle in cui vivono i cattolici, con tanto di porte che
si chiudono in orari prestabiliti; a Derry, dove il fiume Foyle ha svolto la stessa funzione della Peace line, si usa dipingere i lati delle strade con i colori della bandiera britannica o irlandese, a seconda che si
tratti di quartieri protestanti o cattolici. Nonostante
negli ultimi anni si sia registrato, su tutto il territorio, un incremento del numero di aree abitative a residenza mista, diventa impossibile non accorgersi di
quanto le due comunità vivano a debita distanza. È
importante non minimizzare questo aspetto perché
trascorrere un periodo di tempo, anche relativamente breve, in un centro abitato dell’Irlanda del Nord
rende sufficientemente l’idea di come i luoghi e le occasioni di interazione fra persone appartenenti alle
due comunità siano davvero poche. Esistono pub, cinema, teatri, centri sportivi frequentati quasi esclusivamente da cattolici, e i loro corrispettivi per i protestanti. La contrapposizione è così forte da riprodursi
persino nel tifo calcistico e così la maggioranza della popolazione si divide fra la squadra cattolica di
Glasgow, il Celtic, e quella protestante, i Rangers. Si
tratta di meccanismi che esprimono una «segregazione di fatto», non operata oggi attraverso regole
scritte e ben definite, ma tramite diffidenze reciproche, usi e costumi difficili da estirpare, perché sedimentati da anni di conflitto e dalla continua riproposizione di simboli identitari dalle origini antiche.
Uno dei mondi dove il perpetrarsi di fenomeni del genere ha effetti a lungo termine è quello della scuola.
Il sistema scolastico nordirlandese è contraddistinto
dalla presenza quasi esclusiva di scuole confessionali. Dati del 2006 riferiscono che il 46% della popolazione frequenta scuole cattoliche, il 44% scuole protestanti, mentre soltanto il 7% degli alunni frequenta scuole integrate. Benché gli alunni di istituti dichiaratamente confessionali, soprattutto nelle città,
Va precisato che quelle
che vengono definite,
spesso per semplicità
espositiva, come
«comunità cattolica»
e «comunità
protestante»
non costituiscono,
nei fatti, due blocchi
monolitici
ed omogenei che
si contrappongono
per motivi
esclusivamente
religiosi.
È da evitare,
per queste ragioni,
l’uso di «etichette
confessionali»
troppo marcate,
per non incorrere
nell’errore grossolano
di considerare
le Chiese come parte
integrante del conflitto.
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siano impegnati in progetti di cross community con
i loro pari di altri istituti, è ancora tutta da misurare
la reale utilità che questi progetti hanno nel favorire
l’integrazione. È certo che un sistema educativo così
concepito non favorisce le occasioni di interazione
ma, forse, riduce la possibilità che ve ne siano.
Uno dei pochi ambiti in cui gli effetti della nuova
stagione di pacificazione si percepiscono di più è
quello della pubblica sicurezza. La diminuzione del
numero di attentati, seguita alla cessazione della violenza terroristica dell’Ira e delle altre organizzazioni
paramilitari, ha reso più sicuri i centri abitati e ha,
probabilmente, creato un clima di maggiore predisposizione alla collaborazione. Si sono moltiplicati
nelle città i centri di pace e riconciliazione, associazioni che utilizzano fondi governativi e comunitari
per promuovere la realizzazione di progetti di integrazione di varia natura. In particolare, sono notevolmente aumentati gli enti che lavorano alla riduzione del divario, in quei luoghi in cui è ancora facile riscontrare situazioni di disparità fra appartenenti
alle diverse comunità. Anche in questo caso è ancora
da studiare il reale impatto che possano avere sul miglioramento del dialogo intercomunitario, ma non si
può che enfatizzare il fatto che solo pochi anni fa iniziative di questo tipo fossero impensabili.
In questo quadro di graduale evoluzione, non sono scomparse però le occasioni in cui lo scontro torna a farsi violento. La scorsa estate, come tutti gli anni, la parata degli Apprentice boys, che celebra a
Derry la resistenza protestante all’assedio cattolico
della città operato dal re Giacomo II Stuart nel 1689,
ha causato ancora disordini e feriti. Lo stessa cosa avviene il 17 marzo di ogni anno, giorno in cui i cattolici celebrano san Patrizio, patrono dell’Irlanda. Si
tratta di episodi che stanno diventando sempre più
circoscritti, ma dietro i quali potrebbe nascondersi la
riproposizione di tensioni antiche e mai del tutto
scomparse.
Il passare del tempo dirà se le vicende dell’Irlanda
del Nord si risolverano definitivamente con un patto
di convivenza fra due mondi che si confrontano da
secoli.
A dodici anni dal Good Friday Agreement, gli obiettivi centrati sulla strada della pacificazione sono stati molti, ma tanti sono ancora i nodi da sciogliere:
dal freddo dialogo intercomunitario che, probabilmente, richiederebbe politiche di integrazione più incisive, al permanere di un istituto giuridico come
l’internment without trial, che permette alla polizia britannica di arrestare senza mandato le persone
sospettate di legami con il terrorismo. Proprio dietro
a tutto questo potrebbe nascondersi lo spettro di un
ritorno alla violenza e la riproposizione, sotto nuove
forme di una questione che ha radici nei secoli.
MEDIO ORIENTE
Attese, speranze
e ostacoli alla pace
Francesco Farina
Riflessioni di un partecipante al viaggio di studio sulle frontiere
della pace più difficile che Confronti ha organizzato a Capodanno
in Israele e nei Territori occupati palestinesi. Gli incontri con
persone ed organizzazioni impegnate per una pace giusta, la
consapevolezza della complessità e durezza della situazione.
I
l nostro viaggio inizia a Yad Vashem che è, a Gerusalemme, il memoriale della Shoah. Come
scrive Paolo De Benedetti, «è questo oggi nella
“Terra santa” il luogo più santo, perché è il luogo dove abita il dolore di Dio». Partire da qui significa
predisporre l’animo a comprendere questi luoghi dove
a immagine e somiglianza del dolore di Dio abita il dolore degli uomini. Qui si comprende forse meglio che
altrove l’ineffabile radicalità del male che sembra legato alla natura umana.
In questo momento, non ci sono evidenze che facciano sembrare probabile il successo di iniziative di pace; la tragedia della guerra in ogni momento potrebbe ripetersi. Chi viene qui, a Gerusalemme e dintorni,
non ha proposte di soluzioni da portare, può solo testimoniare impotente, accanto a coloro che qui vivono, la propria solidarietà. Per questo ci appaiono tanto più ammirevoli i tentativi di far germogliare, contro ogni ragionevole previsione, i piccoli «semi di pace» che vengono sparsi dagli uomini e dalle donne di
buona volontà che abbiamo incontrato. Testimoni
dell’amore, della solidarietà, della pace, della collaborazione, della coesistenza pacifica, hanno il coraggio
di proporre la riconciliazione con il nemico.
Gli incontri. Penso ai rappresentanti di Parents’ Circle, un gruppo di genitori in lutto che hanno perso i
loro figli nella guerra fra i due popoli e che desiderano impegnarsi per portare la pace fra israeliani e palestinesi; penso a Interfaith Encounter Association, che
si dedica alla promozione della pace nel Medio Oriente attraverso il dialogo interreligioso e gli studi interculturali; a Combatants for peace, il movimento formato da israeliani e palestinesi che hanno partecipato ad azioni di guerra dall’una o dall’altra parte e che
hanno deciso di lavorare assieme nel tentativo di raggiungere una soluzione di pacificazione del conflitto
attraverso la lotta non violenta contro l’occupazione
israeliana dei Territori. Con ammirazione il pensiero
torna a suor Donatella, una religiosa veneta che lavora al Caritas Baby Hospital di Betlemme, al suo fiducioso rimettersi alla Provvidenza di fronte a difficoltà
di approvvigionamento di beni essenziali; difficoltà
29
che a volte sembrano dipendere solo dalla deliberata
volontà delle autorità israeliane di frapporre inutili
ostacoli.
Ricordo, anche (per parlare del versante ecclesiale),
come il patriarca latino Fouad Twal abbia insistito, incontrandoci, nel sottolineare come sia intollerabile la
permanente occupazione israeliana dei Territori; e come l’attesa pace tra israeliani e palestinesi debba essere fondata sulla giustizia, perché questa darebbe sicurezza sia ad Israele che alla nascente Palestina, e finalmente aprirebbe il tempo nuovo tanto atteso.
Ricordo poi come uno dei momenti più belli del nostro viaggio l’incontro con i ragazzi e le ragazze di Jenin che hanno partecipato al progetto Fiori di pace di
Confronti, incontro reso bello dalla loro affettuosa accoglienza, dal loro fiducioso entusiasmo, dalla loro
capacità di infondere ottimismo; ma il ricordo è offuscato dall’osservazione di uno di noi: è stato tutto molto bello, ma pensate che noi domani ce ne andiamo,
mentre loro restano ad affrontare ogni giorno il cupo
clima dell’occupazione, a vivere la chiusura sul loro
futuro, quasi simbolicamente rappresentata dal muro
di cemento che circonda la loro terra.
Il centro di istruzione ebraico-araba Hand in hand è
già un esempio concreto di realizzazione di una convivenza pacifica tra due popoli che vivono nello stesso territorio. Hand in hand gestisce quattro scuole – che vanno dalle elementari alle medie – nelle quali gli insegnanti parlano in ebraico o in arabo, secondo la rispettiva lingua-madre, e gli alunni imparano le due lingue:
un nuovo modello didattico di istruzione bilingue e pluriculturale, nel quale bambini ebrei ed arabi possano
vincere la segregazione studiando insieme e alla pari.
L’altro volto della storia di Israele ci si rivela nella
visita al kibbutz Lohamei ha-Ghetaot (combattenti del
ghetto di Varsavia). Qui si ammira la tenace laboriosità dei coloni ebrei, l’assertiva sicurezza con cui ci
vengono presentati i risultati raggiunti in questo kibbutz, il ruolo essenziale che i kibbutzim hanno svolto
nella creazione dello Stato di Israele. Nel vicino museo Yad Layed si conserva la memoria delle vittime del
ghetto di Varsavia, la memoria delle storie di quanti,
sopravissuti, hanno raggiunto la terra di Israele, per
consentire alle nuove generazioni di comprendere e di
non perdere la memoria della Shoah. Lasciamo il kibbutz formulando in cuor nostro l’auspicio che questa
storia si incontri e si fonda con le altre storie di ricerca di convivenza pacifica tra i due popoli che abbiamo ascoltato nei precedenti incontri.
i servizi
marzo 2010
confronti
Medio Oriente.
Attese, speranze
e ostacoli alla pace
La complessità che coinvolge. Al termine del
nostro viaggio ci siamo resi conto della complessità
della situazione mediorientale che si è determinata attraverso l’interazione di molte parti, di molte storie, di
molti eventi che si sono influenzati e ancora si influenzano a vicenda. La complessità del Medio Oriente si manifesta nel giustapporsi di culture e di credi diversi, si evolve nel gioco degli equilibri politici, anche
in correlazione con fatti ed elementi che sono molto
lontani tra loro nel tempo e nello spazio. Perciò non
esiste un altrove in cui potersi rifugiare per osservarla
con tranquilla coscienza. «Il viaggiatore» sente di essere parte del sistema osservato, sente che sarà coinvolto nelle vicende viste da vicino, anche quando torna nell’altrove da cui proviene. Il nostro viaggio non
potrà dunque dirsi terminato finché non ci sentiremo
parte di una comune storia e non avremo maturato la
convinzione che il loro problema è anche nostro, per-
Testimoni dell’amore,
della solidarietà,
della pace,
della collaborazione,
della coesistenza
pacifica, hanno
il coraggio di proporre
la riconciliazione
con il nemico.
tali complessi problemi, ma mi sembra che nulla giustifichi il non prendere posizione di fronte a ingiustizie palesi, a crudeltà a volte insensate, il non sostenere iniziative che mirano a combattere la sopraffazione e la prepotenza.
Sullo sfondo del viaggio. Sono rimasti quasi solo sullo sfondo del nostro viaggio i templi grandiosi ed
i sepolcri venerandi, i riti millenari di cui è ricca questa terra. Ci è sembrato che la solennità delle celebrazioni, la preziosità delle reliquie, l’oro delle icone non
avessero nulla a che fare con le vicende degli uomini,
delle donne, dei bambini che incontravamo. Il culto
di luoghi santi trasforma in pratica devozionale l’impegno di cambiamento di mentalità che il messaggio
evangelico richiede con perentorietà, a volte forse insostenibile per la sua radicalità. Come ha osservato
qualcuno di noi, la pratica devozionale nasconde, invece di rivelare, la tragedia che si vive in Terra santa.
Fuori dai rituali e dai templi, nell’immediatezza
dell’incontro con le persone di buona volontà che abbiamo conosciuto, abbiamo intravisto le vie che portano a prendersi cura di chi ha fame, di chi ha sete, di
chi è prigioniero... cioè a prendersi cura dell’unica
realtà dell’uomo che, al di là di ideologie, dei miti e
delle narrazioni, è incontrovertibile: il suo dolore.
ché i problemi che si affrontano qui riguardano non
solo questi territori, ma la globalità del pianeta.
Sempre capiterà di dover partecipare nella nostra vita, in qualche modo, a eventi che influenzano con
una pluralità di effetti la situazione di quaggiù. Potrebbe ritenersi atteggiamento saggio sospendere il
giudizio su persone, movimenti, governi, di fronte a
30
SOCIETÀ
Costruire il futuro
investendo sui giovani
Massimo Gnone
Proseguendo nella nostra inchiesta su volontariato e solidarietà
dentro la crisi sociale – iniziata nel numero di gennaio e
proseguita su quello di febbraio – abbiamo posto alcune domande
a Massimo Gnone, dell’Ufficio Servizio civile e volontariato Commissione sinodale per la diaconia della Chiesa valdese.
L’
assassinio di un ragazzo egiziano in via Padova, a Milano, e le drammatiche proteste
che ne sono seguite hanno rilanciato la discussione pubblica sul problema del razzismo e dell’assenza di politiche sociali: una discussione troppo spesso venata dalle strumentalizzazioni
e dal populismo più becero. Si veda per tutti la infamante dichiarazione del deputato leghista Matteo
Salvini, che invitava a dare la caccia agli immigrati
clandestini «casa per casa»: un’espressione che – intenzionalmente – evocava un clima da rastrellamenti.
Un osservatore attento delle dinamiche sociali come Guido Ruotolo ha commentato a caldo quella vicenda: «Colpisce l’episodio di via Padova. Un ragazzo, un egiziano, accoltellato su un autobus per futili
motivi. L’aggressore, gli aggressori, una banda di sudamericani. Sembra di stare a Los Angeles, di assistere a uno scontro tra i Bloods e i Crips, le gang storiche. Immediata scatta la protesta etnica, perché la
vittima è uno straniero, un egiziano. Pochi minuti,
il tam tam funziona: centinaia di nordafricani si ritrovano per strada. Negozi e auto danneggiate... Colpisce e inquieta l’Italia dei conflitti etnici. Un fiume
carsico, un magma incandescente è pronto a spuntare all’improvviso. Da Rosarno a Milano a Castel
Volturno» (La Stampa, 14/2/2010).
Questi avvenimenti hanno evidenziato l’aggravarsi della questione dei rapporti tra cittadini italiani e
migranti in alcune zone socialmente «difficili» del
paese: le grandi metropoli, il Mezzogiorno. Il tema
sollecita interrogativi che toccano nodi etici e sociali decisivi come la solidarietà, la convivenza tra culture e religioni diverse e la difesa di importanti diritti (la casa, la salute, un lavoro dignitoso). Dalle prime reazioni a questi avvenimenti si conferma la percezione diffusa che sia ormai sedimentata in alcuni
settori un’ostilità di stampo razzista contro lo «straniero» – dai connotati preoccupanti. Specialmente
se si pensa che a giudizio degli esperti le migrazioni
da altri continenti saranno il nodo centrale dei prossimi decenni.
31
Dagli anni Ottanta si è sviluppato un movimento
di cittadini impegnati sui temi dell’emarginazione, delle nuove povertà e dell’immigrazione e vi
è stato un forte dibattito su alcune questioni etiche
e sociali (il senso del gratuito; il ruolo del volontariato e così via). Oggi le organizzazioni del Terzo
settore sembrano segnare un bilancio negativo. Come giudica questo nodo così complesso rispetto alla presenza protestante nel sociale, che in Italia ha
proprie peculiarità e tradizioni?
Il quadro che stiamo vivendo nel sociale è segnato da
almeno tre tendenze preoccupanti. Voglio esemplificarle con tre episodi vissuti dal sistema Servizio civile
nazionale in Italia. La prima è il declino delle risorse
assegnate dallo Stato allo sviluppo della partecipazione e della cittadinanza attiva; basti pensare che, dopo
aver investito in un progetto all’avanguardia in Europa, in soli due anni le risorse destinate al Servizio civile sono state tagliate del 50% (da 45mila a 20mila
volontari in servizio), quando in altri paesi, come la
Francia e gli Stati Uniti (e costruendo «servizi civici»),
i governi stanno dimostrando che investire sulla cittadinanza attiva e sui giovani significa costruire un
futuro per la nostra società.
La seconda tendenza preoccupante è lo svuotamento dei valori: per il Servizio civile, l’obiezione di coscienza, la difesa armata nonviolenta, la trasformazione nonviolenta dei conflitti. Basti pensare che l’Ufficio nazionale per il servizio civile ha da poco firmato una convenzione per l’assegnazione dei rimborsi ai
volontari con una banca (la Bnl - Gruppo Bnp Paribas) che, secondo il Rapporto dello stesso presidente
del Consiglio sulle esportazioni di armamenti italiani
(dati 2008), è la prima nella lista degli istituti di credito che hanno offerto servizi ad aziende di armamenti. La terza, non meno importante per noi protestanti, è l’affossamento della laicità: lo dimostra il fatto che l’anno scorso un’udienza di papa Benedetto XVI
poteva essere riconosciuta come una delle attività messe in campo dall’Ufficio nazionale per festeggiare la
legge istitutiva del Servizio civile e soprattutto come
formazione generale per i volontari che vi avessero
partecipato. Alle proteste della Commissione sinodale
per la diaconia della Chiesa valdese, cui si aggiunse
quella della Fcei, è arrivata la replica dell’Ufficio nazionale in cui si diceva che «non è consentito a chi è
ispirato da pregiudizi ideologico-religiosi, valutare la
portata formativa dell’incontro dei giovani del Scn con
Sua Santità Benedetto XVI, illustre cattedratico».
i servizi
marzo 2010
confronti
Società.
Costruire il futuro
investendo sui giovani
Finalmente sono arrivate le scuse telefoniche del
sottosegretario Carlo Giovanardi, e l’udienza del papa
con i volontari, che si è tenuta regolarmente, almeno
non è stata riconosciuta come parte del percorso formativo. Una piccola vittoria dell’Italia laica.
Un cattolico come Giuseppe De Rita, ad un Convegno sul Terzo settore svoltosi di recente, ha ripetuto una provocazione: se le realtà del Terzo settore
si inseriscono in una logica di mercato, si trasformano in imprese. Per dare un nuovo impulso al
mondo del sociale, occorre rimettere in moto il volontariato, ossia le esperienze di gratuità. Le Chiese protestanti in Europa hanno una tradizione che
sembra andare in un’altra direzione: quella di
una forte valorizzazione delle capacita professionali dei laici impegnati nella società. È un diverso
rapporto verso il mercato. Come valuta questo problema che ha valenze pratiche e teologiche?
Condivido la provocazione di De Rita, che riprende e
valorizza la figura del volontario e il valore della reciprocità. Ricordo a questo proposito una tesi simile
espressa da Marco Revelli qualche anno fa nel suo libro Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le
insidie del lavoro. È senz’altro vero che il volontariato, inteso come protagonismo del cittadino, può
rappresentare un contributo importante al manteni-
«L’elogio
del volontariato
tout-court –
in una società
come quella italiana
dove il lavoro è di fatto
precarizzato, senza
ammortizzatori sociali
di lungo periodo –
rischia di portare
acqua al mulino
di chi osanna questi
anni come un periodo
di grande mobilità
sociale, quasi che
lo sfruttamento non
esista più, i rapporti
di produzione siano
mutati e che tutti siano
nelle condizioni
di veleggiare
in un oceano
di “lifelong learning”,
mercato
e flessibilità positiva».
anni come un periodo di grande mobilità sociale, quasi
che lo sfruttamento non esista più, i rapporti di produzione siano mutati e che tutti siano nelle condizioni di
veleggiare in un oceano di lifelong learning, mercato e
flessibilità positiva. Il vero ammortizzatore è quasi sempre la famiglia e il suo risparmio ed è quello che sta difendendo il ceto medio italiano dalle unghie affilate della crisi. Sempre meno l’operaio di oggi, che esiste eccome, ha speranze di vedere il suo figlio dottore. Per quanto riguarda l’impegno diaconale, in questo contesto ci
sono due livelli che devono essere mantenuti: il primo è
quello delle grandi imprese diaconali, perché di imprese già si tratta (chi paga se queste vanno in perdita per
centinaia di migliaia di euro?), come le case di riposo
per anziani e i centri per disabili, dove c’è bisogno di professionalità, di manager capaci e personale preparato e
appassionato, per affrontare le sfide di questo tempo.
Contemporaneamente, questo è il secondo livello, nelle
Chiese protestanti italiane si stanno sviluppando centri
locali di diaconia comunitaria, nelle chiese e nelle città,
dove il contributo volontario, spesso non valorizzato pienamente, gioca un ruolo fondamentale. Sono centinaia
le persone impegnate quotidianamente in questi progetti che creano e sviluppano reti corte e lunghe di solidarietà. Sono due livelli che vanno tenuti insieme, se si
vuole sopravvivere al mercato e affrontare i bisogni dei
territori, variabili e cronici, con volontà di successo.
Le Chiese protestanti hanno una presenza
consistente e significativa nelle comunità
di migranti, specie in alcune zone del
nord Italia. Quali problemi incontrano le
comunità evangeliche rispetto alle forme
crescenti di intolleranza e di razzismo
verso gli stranieri? È possibile in questo
momento così difficile su questo tema un
lavoro comune tra le comunità protestanti e il tessuto del mondo cattolico sul
territorio?
Nelle regioni del nord-est molti sindaci si rifiutano di autorizzare la modifica di destinazione d’uso degli immobili, quando ricevono
la richiesta perché capannoni industriali lasciati vuoti di macchinari per la crisi possano essere riempiti di fedeli in preghiera, che
tra l’altro vorrebbero pagare regolarmente
l’affitto. È un problema che sta affrontando
non solo la comunità musulmana, ma anche le chiese metodiste e valdesi nel triveneto. Su questo
terreno, quello del riconoscimento di spazi di cittadinanza e contro l’idea di un’Europa fortezza, un lavoro
comune già esiste e ci aspettiamo ancora uno sforzo comune con la realtà cattolica di base.
mento e alla ri-costruzione dei legami sociali, in una
società post capitalista e atomizzata. Tuttavia la realtà
è più complessa e il terreno scivoloso.
L’elogio del volontariato tout-court – in una società
come quella italiana dove il lavoro è di fatto precarizzato, senza ammortizzatori sociali di lungo periodo – rischia di portare acqua al mulino di chi osanna questi
(intervista a cura di Umberto Brancia)
32
PERÙ
Quando le parole
uccidono più della spada
Azzurra Carpo
La violenza sulle lingue dei popoli indigeni e l’imposizione
di spagnolo e inglese come strumenti di destrutturazione
delle tradizioni locali. L’autrice ha lavorato nell’Amazzonia
peruviana in vari progetti di cooperazione internazionale
per la promozione dei diritti dei popoli indigeni.
H
uampanì (periferia nord di Lima, Perù), 7, 8
e 9 ottobre 1999, è in corso un grande confronto: da un lato, i rappresentanti delle organizzazioni del popolo indigeno shipibo
(uno tra i quattro popoli più significativi per patrimonio culturale-artistico, esperienza storica in mediazione politica e gestione ambientale, presenti nell’area
amazzonica del Perù); dall’altro, i rappresentanti
dell’Instituto linguistico de verano (Ilv), una delle molte istituzioni evangeliche statunitensi, ufficialmente dedicata a tradurre la Bibbia in tutte le lingue del mondo, anche in quelle parlate dai gruppi umani più dispersi e isolati. Funge da arbitro, un funzionario del
Ministero dell’Educazione. Si respira molta tensione.
Rabbia rappresa, nei dirigenti indigeni. Insofferenza,
nei «gringos». Entrambi i contendenti utilizzano tutta la gamma della comunicazione umana quando si
tratta di un conflitto di grande importanza storica. Parlano in spagnolo ma, quando si tratta di consultarsi
con i consulenti del rispettivo gruppo, usano rispettivamente la lingua shipibo e l’inglese. Fanno sapiente
uso dei silenzi, della gestualità, dei toni di voce (suadente, insinuante, aggressivo, allusivo ecc.), dei movimenti corporali attorno al tavolo, nella sala della riunione e lungo i corridoi. Gli statunitensi seguono una
logica discorsiva lineare. Gli indigeni, quella circolare.
E, a differenza degli efficienti e stressati nordamericani, sono specialisti nell’uso del tempo per fingere o comunicare disinteresse, impegno, gerarchia; per spazientire l’avversario e per indurlo a scoprirsi.
Ma, con tutti i conflitti secolari che insanguinano
l’Amazzonia (per le terre, per la deforestazione selvaggia operata dalle multinazionali del petrolio, del
legname e dei biocombustibili ecc.), qual è la posta in
gioco perché questo di Huampanì sia sentito come di
importanza vitale? Il fatto è che, cinquant’anni prima, per la traduzione della Bibbia, i religiosi dell’Ilv
hanno inventato un alfabeto sulla base di una «loro»
percezione e interpretazione dei fonemi dell’idioma
shipibo. Il punto di discordia deriva dal fatto che, in
vista di norme comuni di lettoscrittura per i libri di
educazione bilingue interculturale previsti dal Mini-
33
stero dell’Educazione per i bambini nativi, un certo fonema deve essere scritto con la «c» per l’Ilv, mentre
per i dirigenti indigeni deve essere scritto con il grafema «ch» e, in un altro contesto semantico, con il grafema «k». Un dettaglio di nessuna importanza? Una
quisquilia?
La scrittura come potere,
l’alfabeto come chiave di assimilazione
Ci sono tante maniere per sterminare un popolo indigeno. Sono conosciuti gli etnocidi compiuti dai conquistadores e dai cercatori del caucciù, e le violenze
operate dalle politiche assimilazioniste. Una maniera
più sottile e raffinata ma ugualmente letale, è quella
di imporre... parole, negando quelle degli altri. Le parole dei vincitori uccidono più delle spade. Ti fanno
morire «dentro», quando mancano le prime parole,
quelle sentite succhiando il latte materno, quelle della tua lingua materna, appunto. 1533: sulla piazza
della città peruviana di Cajamarca, il «cappelano militare» dei conquistadores, Valverde, mostra la Bibbia
all’ultimo Inca, Atahualpa, preso prigioniero a tradimento. L’Inca viene da una cultura orale, non comprende lo spagnolo, figuriamoci se sa leggere e capire
il latino delle Scritture. Lascia cadere il libro sacro.
Buona scusa per strangolarlo anche come infedele,
che rifiuta la Parola salvifica, e l’annessa civiltà e progresso. Gli indigeni vengono sterminati, inizia il più
grande genocidio della storia. Da quel momento e per
quasi cinquecento anni, i vinti non hanno più diritto
di parola. Il processo di educazione sistematica degli
indigeni è totalmente delegato dallo Stato alla Chiesa, che a sua volta lo delega alle congregazioni religiose, alle quali assegna precise zone di influenza onde attutire la loro competitività nella conquista delle
anime (i gesuiti al nord-ovest, i francescani al centro,
i benedettini al sudest), mentre i missionari di confraternite minori agiscono come quinte colonne di penetrazione in attesa che gli indigeni siano indotti –
con le buone o con le cattive – ad abbandonare il tradizionale nomadismo e sistema disperso di abitazioni
e a convogliare nelle «reducciones», cioè i villaggi –
al cui centro c’è la chiesetta in legno per la messa in
latino e per un autorevole paternalismo, che non riesce a impedire i lavori forzati schiavisti a cui sono sottoposti gli indigeni dai raccoglitori di caucciù e dai
commercianti di legname. All’inizio, le lingue indigene sono utilizzate dai missionari come idioma per
l’assimilazione religiosa. In seguito, la Corona spa-
i servizi
marzo 2010
confronti
Perù.
Quando le parole
uccidono più della spada
gnola impone l’insegnamento regolare di tipo scolastico, proibisce l’uso delle lingue native e impone la
scrittura in spagnolo. In un contesto di cultura agrafa, dove non sono previste scuole per gli indigeni, la
scrittura è lo strumento del potere assoluto, il suggello dell’esclusione razzista, la spada legale più terrificante ed efficace contro la quale gli indigeni non hanno parola. Dagli anni Trenta, le scuole si aprono anche nei villaggi indigeni. Ma sempre con testi scritti in
spagnolo e con gli stessi contenuti e valori proposti in
una grande città industriale.
Essere strangolati un po’ alla volta
o liberarsi anche attraverso la parola?
A partire dagli anni Ottanta, la normativa internazionale comincia la sensibilizzazione circa i diritti collettivi sia territoriali che culturali dei popoli indigeni,
in particolare per il rispetto della lingua materna e per
una educazione bilingue interculturale (Ebi), soprattutto nei primi anni di scuola. A questo punto, l’Instituto linguistico de verano (oggetto di molte critiche
per il modello «americano» che lo contraddistingue)
presenta anche per i libri Ebi la «sua» proposta di alfabeto shipibo, già utilizzata per la traduzione della
Bibbia. Incontra la ferrea opposizione dei dirigenti na-
Ci sono tante maniere
per sterminare
un popolo indigeno.
Sono conosciuti
gli etnocidi compiuti
dai conquistadores
e dai cercatori
del caucciù,
e le violenze operate
dalle politiche
assimilazioniste.
Una maniera più
sottile e raffinata,
ma ugualmente letale,
è quella di imporre...
parole, negando
quelle degli altri.
tivi – giovani perfettamente bilingui, con studi superiori e universitari, e con notevole esperienza politica
e formazione pedagogica – che sfiancano gli operatori dell’Ilv finché questi dicono candidamente perché
sia stato proposto l’uso della «c»: «Perché, prima o
poi, tutti voi shipibo parlerete e scriverete solo spagnolo e inglese». Gli indigeni hanno la conferma che
il bilinguismo proposto dall’Ilv non è finalizzato al
mantenimento della loro lingua ma alla sua «transizione», cioè alla progressiva assimilazione e alla definitiva estinzione. Si ribellano, non intendono essere – un po’ alla volta – strangolati. Reclamano il diritto non solo di parola, ma anche alla lingua madre,
quella dell’identità. Si richiamano al principio tecnico dell’autonomia di ogni lingua, a quello scientifico
in quanto conoscitori in profondità «vivenziale» –
meglio di qualsiasi «gringo» – della semantica, fonetica e fonologia della loro lingua materna, e al
principio di diritto internazionale che riconosce loro
il diritto all’autodeterminazione: impongono che la
scrittura del fonema in questione sia fatta in funzione della loro continuità linguistica, che coincide con
la loro sopravvivenza collettiva. Spinti dall’esempio,
molti altri popoli indigeni amazzonici fanno rivedere
da propri specialisti linguisti l’alfabeto proposto a suo
tempo dall’Ilv, e tutti apportano sostanziali modifiche
che vengono adottate nei nuovi libri di educazione bilingue interculturale.
La quarta dimensione della cittadinanza
La cittadinanza interculturale passa anche attraverso
la parola. Il diritto di cittadinanza non si limita al riconoscimento delle tradizionali tre dimensioni dei diritti civili, politici e sociali. Esiste la quarta dimensione, quella simbolica. Profondamente connesso al diritto collettivo e al territorio, rivendicano il riconoscimento del diritto al «simbolo»: alla scrittura della
propria lingua materna in una forma che ne garantisca l’autodeterminazione e ne includa la cosmovisione.
Giugno 2009: a Bagua, gli indigeni si oppongono
alle leggi del governo, tese a favorire l’ingresso delle
multinazionali statunitensi e del Trattato di libero
commercio nei loro territori, contravvenendo a precise norme internazionali riguardanti i loro territori. Si
scatena la violenza, un nuovo episodio etnocida, continua lo sterminio di sempre. L’Ilv denominava quegli indigeni alla sua maniera: «aguaruna» e «huambiza». Ma loro, proprio in quanto cittadini di un mondo globalizzato multiculturale e plurilinguistico, hanno imposto una fonetica e scrittura più adeguata e si
fanno chiamare «awajún» e «wampis». Non si lasciano strangolare un po’ alla volta. Non è lo stesso dire dignità in inglese o castigliano e dirla in lingua
awajún e wampis.
34
marzo 2010 • notizie
n o t i z i e
CDB
La comunità di base di san
Paolo in Roma spiega, in
questo ironico comunicato
dell’8 febbraio, la sua iniziativa di regalare un paio
di occhiali a Silvio Berlusconi, che non ha visto il «muro» tra Israele e i Territori
palestinesi occupati.
Tra i molti acciacchi dell’età
avanzante che appesantiscono
le sue gravose giornate, seppur
talora rallegrate da simpatiche
compagnie, al presidente del
Consiglio se ne è aggiunto un
altro, che finora non era noto,
e che ci dispiace davvero: egli è
quasi cieco. La notizia non arriva dal solito malevolo gossip
delle sinistre comuniste che, si
sa, nel loro odio verso l’Italia
arriverebbero a tutto pur di distruggere il paese; no, con il
coraggio e l’umiltà che lo caratterizzano, è stato lo stesso
Silvio Berlusconi a rivelare al
mondo questo handicap che,
comunque, non gli impedirà
di continuare a spendersi per il
bene di tutti noi e per la pace
tra i popoli.
L’inattesa rivelazione è stata
data dal premier, il 3 febbraio,
a Betlemme. Quel giorno, infatti, dopo aver difeso alla
Knesset (il parlamento israeliano) la piena legittimità politica e morale dell’operazione
«Piombo fuso» che un anno fa
ha provocato nella Striscia di
Gaza circa 1400 vittime, egli,
per incontrare l’Autorità palestinese, si è recato a Betlemme.
E qui, durante una conferenza
stampa, un giornalista gli ha
chiesto che impressione gli
avesse fatto il muro di divisione tra Israele e Territori occupati, barriera che, per entrare
nella città, si deve necessariamente attraversare. Alla domanda ha risposto: «Non me
STATI UNITI
ne sono accorto. Ero concentrato sulle cose che avrei detto
ad Abu Mazen [il presidente
palestinese] ed ero intento a
prendere appunti. So di deluderLa e me ne scuso».
Di fronte ai giornalisti è apparsa dunque la cruda realtà:
affetto da una rara malattia
agli occhi, il presidente del
Consiglio vede benissimo fino
ad un metro, ma più in là intravvede solo vaghe ombre.
Perciò non poteva vedere il
muro, perché, attraversando la
barriera alta otto metri, la sua
macchina è passata a tre metri
di distanza.
Questa notizia, che ha commosso l’Italia, ha colpito anche noi. E ci siamo chiesti che
cosa potessimo fare. E, subito,
date le nostre frequentazioni
con la Russia dell’amico Putin, tanto caro anche a Berlusconi, ci siamo ricordati che, a
Mosca, esiste un centro specializzatissimo per gli occhi, una
delle poche belle eredità
dell’epoca sovietica. Ci siamo
subito attrezzati, e in cinque
giorni ci hanno fatto avere
uno speciale paio di occhiali
(che spediamo in un pacco a
parte a Palazzo Chigi) che permetterà al nostro premier di
vedere benissimo sia da vicino
che da lontano. Siccome però
questi particolari occhiali sono
fatti di un materiale facilmente deteriorabile, speriamo che
anche altri soccorrano, come
facciamo noi, un Grande del
nostro tempo che si è impegnato a risolvere – in modo
equo, imparziale e carismatico
– il conflitto israelo-palestinese che lo stesso Barack Obama,
che pure ci vede bene, non riesce a sbrogliare.
Violazioni a Guantanamo: la
«continuità» con l’amministrazione Bush, nonostante le
promesse di Obama.
Amnesty international denuncia
le perduranti violazioni dei diritti
umani da parte degli Stati Uniti
nell’ambito della lotta alle organizzazioni terroristiche. Nonostante il presidente Obama avesse
promesso di chiudere il campo di
prigionia di Guantanamo, nelle
sue celle rimangono 198 detenuti che non possono avvalersi di
nessuna garanzia giuridica. Amnesty rimarca che a tutt’oggi gli
Usa non permettono di conoscere
neanche il regime di detenzione
di molti dei reclusi, che si trovano
in condizione di custodia segreta,
e riporta esempi delle violazioni
in atto, anche in altre località.
Uno dei casi in questione, quello
del pakistano Ghailani, catturato
in Pakistan nel 2004 e tuttora imprigionato in un luogo segreto a
Kabul, è approdato ad una corte
federale americana, di fronte alla
quale i rappresentanti dell’amministrazione Obama avrebbero sostanzialmente rivendicato la continuità della propria politica in
quest’ambito con quella di Bush,
confermando di continuare a trattenere Ghailani non nella qualifica di imputato, ma di «risorsa di
intelligence», e di non volergli
concedere salvaguardie giuridiche
poiché considerato un «combattente nemico». In altre occasioni,
ricorda ancora Amnesty, l’attuale
amministrazione americana ha
confermato di non voler riconoscere gli obblighi internazionali in
materia di diritti umani e di non
interessarsi alla riparazione delle
relative violazioni. Essa ha già
avuto modo di appellarsi al segreto di Stato in risposta ad alcune citazioni promosse per la causa dei
diritti violati nel corso della campagna contro il terrorismo (otte-
35
nendo il giudizio favorevole della
Corte suprema federale) e ha
mantenuto la posizione di Bush
soprattutto quando ha sostenuto
che la sicurezza nazionale – che
forse possiamo anche chiamare
ragion di Stato – prevale su altre
considerazioni giuridiche: per cui
continua a negare la documentazione concernente le condizioni di
prigionia dei detenuti. Una volta
entrati a far parte del Consiglio
Onu dei diritti umani, gli Usa dichiararono che avrebbero invertito la rotta rispetto all’amministrazione precedente e che avrebbero
riconosciuto le violazioni dei diritti e le necessarie riparazioni. È passato un anno ed Amnesty sostiene
che è davvero giunto il momento
di dar seguito a quelle promesse.
Alessio Esposito
IRAN
Giustiziati due manifestanti
delle proteste post-elettorali.
Altri nove in attesa di esecuzione. Amnesty lancia l’allarme sulla violazione dei diritti
umani nel paese.
Sono state eseguite in Iran il 28
gennaio scorso le prime esecuzioni legate alle condanne per i
disordini seguiti alla rielezione di
Ahmadinejad.
Mohammad Reza Ali-Zamani,
di 37 anni, e Arash Rahmanpour, di 19 anni, secondo l’agenzia ufficiale Isna, erano «mohareb» (nemici di Dio), membri di
un gruppo filo-monarchico, e
avevano ordito un complotto anti-regime. «Queste due esecuzioni-shock mostrano che le autorità iraniane non intendono fermarsi di fronte a nulla per stroncare le proteste pacifiche che vanno avanti dalle elezioni», ha dichiarato Hassiba Hadj Sahraoui,
vicedirettrice del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di
Amnesty international.
marzo 2010 • notizie
I due sono stati condannati dopo
un processo iniquo e inoltre non è
neanche chiaro se effettivamente
appartenessero o meno al gruppo
fuorilegge, dato che le loro «confessioni» sarebbero state estorte.
Ali-Zamani era stato accusato di
aver visitato illegalmente l’Iraq e di
avere, in quell’occasione, incontrato ufficiali dell’esercito statunitense. L’avvocato di Rahmanpour ha
affermato che il suo assistito non
aveva mai preso parte alle proteste
post-elettorali e che la «confessione» durante un «processo-spettacolo» era stata rilasciata dopo che
i suoi familiari erano stati sottoposti a intimidazioni. Né lui né il collega che difendeva Ali-Zamani sono stati informati dell’esecuzione,
come invece richiesto dalla legge
iraniana.
Secondo le autorità iraniane,
almeno altre nove persone si trovano in attesa di esecuzione dopo
essere state condannate in quelli
che Amnesty considera dei «processi-farsa». Secondo gli oppositori al regime, più di 40 persone
sono morte nelle manifestazioni
promosse dopo le elezioni, molte delle quali represse con violenza dalle forze di sicurezza.
Amnesty international ritiene
che il numero delle vittime sia
molto più alto, infatti oltre cinquemila persone sono state arrestate, molte delle quali sottoposte
a torture e maltrattamenti. Decine e decine di manifestanti sono
stati condannati a pene detentive,
e in alcuni casi anche alle frustate, al termine di processi iniqui. Le condanne a morte sono
state almeno 11. Una di queste,
emessa nei confronti di Hamed
Rouhinejad, è stata commutata
in appello nel mese di gennaio.
Cristina Zanazzo
INDIA
Vite «minate»: Amnesty denuncia i danni alla popolazione provocati dalle miniere di
bauxite e dalle raffinerie tra
Delhi e lo stato dell’Orissa.
La Vedanta Resources è una
grande società indiana con sede
a Londra, attiva soprattutto nel
settore dell’estrazione e della raffinazione dei minerali. Sul suo
sito si vedono delle donne in sari
che sorridono sotto la scritta «sviluppo sostenibile». Sotto la scritta «lavora con noi», invece, ci
sono degli operai, sempre sorridenti, che salutano.
Amnesty international, però, il 9
febbraio 2010 a Delhi, ha presentato un rapporto in cui descrive
una realtà un po’ meno felice. Il
titolo del rapporto è «Non minate
le nostre vite: come la miniera di
bauxite e la raffineria devastano le
vite in India» ed è il frutto di oltre
un anno di indagine tra Delhi e lo
stato indiano dell’Orissa, abitato
principalmente da popolazioni indigene e tribali (adivasi).
Il documento denuncia soprattutto il governo indiano, le autorità locali e la Vandana (con le
sue varie controllate) di aver ingannato – o comunque non aver
informato a sufficienza – le popolazioni locali sui rischi legati
alle attività estrattifere. Ad aggravare le accuse c’è anche il fatto
che le vittime appartengono ai
segmenti più emarginati della
società indiana, come gli adivasi o i dalit (intoccabili), che difficilmente possono far valere i
propri diritti.
I casi riguardano lo stato
dell’Orissa e sono due: a Lanjigarh è già presente una raffineria
di alluminio, costruita con la
promessa di un boom economico
in stile Mumbay, e che invece ha
solamente inquinato l’aria, il
suolo e le acque. Alcune madri
hanno denunciato il fatto che i
propri figli si sono riempiti di vesciche dopo aver fatto il bagno
nel fiume locale. Nonostante
questo, è in progetto l’aumento
del 600% della raffineria.
A Niyamgiri, invece, una sussidiaria della Vandana vuole iniziare i lavori di scavo per una
miniera di bauxite sulle colline
dove la comunità nativa dei Dongria Kondh vive da tempi ancestrali e che considera sacre. La
nuova miniera, oltre a inquinare
la zona, avrebbe anche effetti
dannosi sull’identità culturale
della comunità.
Chiunque volesse fare qualcosa,
può inviare un messaggio di pro-
testa al Ministero indiano dell’Ambiente e delle foreste utilizzando il form di questo indirizzo:
http://moef.nic.in/modules/contact-ministry/contact-ministry/.
Valerio Marconi
CULTURA
36
mature, tradizioni, musiche,
canti per migliorare i difficili
rapporti con quelli che loro chiamano i gagè. Luana Stinziani
IMMIGRAZIONE
Una mostra fotografica per
raccontare i popoli rom e sinti.
Un romano su dieci è di origine immigrata. I dati dell’ultimo rapporto dell’Osservatorio
romano sulle migrazioni.
Presso l’associazione culturale
Lignarius, dal 19 al 29 gennaio a
Roma, si è tenuta la mostra fotografica «Il popolo del vento, i
rom e i sinti». La scelta di esporre le immagini (corredate da un
incontro-dibattito e dalla pubblicazione di un opuscolo dal contenuto storico-culturale) in tal
periodo dell’anno non è di certo
casuale, poiché la mostra vuole
essere un monito a non dimenticare, parallelamente a quanto
voluto per la settimana della memoria, che 500.000 – forse un
milione – furono gli zingari uccisi e perseguitati nei lager nazisti, attraverso il cosiddetto porrajmos, ovvero il loro annientamento, la distruzione di un popolo, di cui raramente sentiamo
parlare nelle ricorrenze legate alla memoria della Shoah.
Attraverso la forza evocativa delle immagini e dei manufatti (sono presenti in loco oggetti in rame, che rappresentano una delle
più antiche attività rom, appunto
la lavorazione del rame), gli organizzatori vogliono descrivere un
popolo colto nella normale quotidianità: madri con i loro bambini,
giovani donne che indossano abiti tradizionali, donne rumrìa, ovvero coloro che praticano la chiromanzia e la questua.
Le foto sono state scattate nei
campi nomadi più popolosi di
Roma; i rom sono distribuiti
uniformemente in tutte le regioni italiane e sono circa 70.000
quelli che hanno ottenuto la cittadinanza, passando ad uno stile
di vita seminomade. L’intento latente di tale manifestazione rientra ancora una volta nella volontà di abbattere i muri del pregiudizio, accrescere la conoscenza di questo popolo, ricco di sfu-
Presentata a Roma la VI edizione dell’Osservatorio romano sulle
migrazioni. Il rapporto annuale,
promosso dalla Caritas diocesana
in collaborazione con la Camera
di commercio e la Provincia di
Roma, è strutturato in tre parti,
dedicate rispettivamente alla provincia, al Comune di Roma e agli
aspetti relativi a economia, lavoro e imprenditoria.
Franco Pittau, referente scientifico del rapporto, ha inteso da subito evidenziare il valore pratico
di questo «strumento di lavoro»
che, consentendo una lettura
«reale» del fenomeno migratorio, in grado di trascendere i meri fatti di cronaca e le associazioni pregiudiziali che ne conseguono, necessita di essere diffuso anche al di fuori dei settori degli
specialisti.
L’area romana, «laboratorio urbanistico e socioculturale di grande interesse nello scenario europeo», negli ultimi trent’anni è
cambiata in simbiosi con l’immigrazione. Al 1° gennaio 2009, nei
121 comuni della provincia di Roma, la popolazione straniera
complessiva totalizza 366.360 residenti, con un aumento del 157%
dal 2002, e un’incidenza dell’8,9%
sul totale della popolazione. Nel
solo Comune di Roma, dove il numero dei residenti stranieri ammonta a 293.948 unità, in dieci
anni si è raggiunto quasi il raddoppio (dal 4,8% del 1998 al
10,3%). Provenienti soprattutto da
Romania, Filippine, Polonia e Albania, gli stranieri residenti in
provincia sono in prevalenza donne (53,8%) e hanno un’età media
notevolmente bassa (31,4 anni); i
minori infatti, che raggiungono
quota 71.170 (quasi 7 su 10 nati
in Italia), incidono per il 19,4%
marzo 2010 • notizie
sulla popolazione straniera totale.
L’Osservatorio conduce approfondimenti sulle diverse collettività e su un vasto numero di
tematiche connesse al fenomeno
migratorio, che vanno dal problema abitativo (rispetto al quale si
registra una tendenza degli stranieri al trasferimento nei comuni
vicini, dove i costi sono più convenienti) a quello della criminalità (che nel 2008, nonostante i
ripetuti allarmismi, in provincia
è diminuita del 15,3%), dall’apprendimento della lingua (13.514
gli stranieri che hanno frequentato un corso di italiano solo nella
Capitale) all’apporto degli immigrati al mercato del lavoro
(165.437 gli occupati in provincia, il 49,7% donne, con un considerevole aumento delle aziende
con titolare straniero anche in periodo di crisi); con un occhio di
riguardo per rom e sinti.
Al di là degli inevitabili aspetti
problematici che l’immigrazione
comporta, Pittau ritiene che la
presenza di stranieri sia funzionale allo sviluppo dell’area romana, cui apporta benefici non
solo a livello economico e occupazionale, ma anche a livello religioso e culturale. L’Osservatorio
invita dunque a «conoscere per
capire ed essere solidali», a conoscere per ridimensionare quell’immaginario stereotipato dal
quale scaturisce un pregiudizievole quanto lesivo atteggiamento
di diffidenza nei confronti degli
stranieri. Stefania Sarallo
Un incontro per conoscere la
comunità cinese a Roma, cercando di superare alcuni stereotipi.
Grazie all’Istituto Confucio dell’Università La Sapienza si è svolto l’incontro «Migranti cinesi in
Italia», con Hu Lanbo, giornalista
e imprenditrice cinese in Italia da
20 anni. Nella sede dell’ateneo romano nel quartiere Esquilino, il
19 gennaio 2010, Hu ha raccontato a una piccola e interessata
platea il suo viaggio da Pechino a
Parigi per migliorare la lingua
francese – la chiave che l’ha fatta entrare nel mondo – fino
all’arrivo a Roma a 30 anni, dove
ha sposato un italiano e contribuito allo scambio culturale sinoitaliano anche fondando la rivista
Cina in Italia.
La sua storia, raccontata nel libro La strada per Roma, è avvincente, velata di tristezza come
i suoi occhi e diversa dalla maggioranza dei cinesi che arrivano
in Italia come clandestini per lavorare. Il 90% dei cinesi che vivono da noi proviene dalla provincia di Zhejiang, montuosa e molto povera. Chi arriva qui dedica
molto tempo al lavoro perché
vuol far soldi e perché viene pagato a pezzo prodotto, così trascura lo studio dell’italiano perdendo in integrazione. Inoltre, la
grande abilità commerciale dei
cinesi ha reso la loro comunità
autonoma: al suo interno si trova tutto e la necessità di rivolgersi a italiani non è avvertita.
Cina in Italia nasce come mensile, fino ad oggi ha pubblicato
62 numeri: il primo è uscito nel
gennaio 2001; alla fine del 2006
la stampa è stata interrotta per
difficoltà economiche; poi è arrivato un problema di salute. Ora
Lanbo sta meglio, la sua rivista è
tornata in stampa e per l’acquisto
si può consultare il sito www.cinainitalia.com. È un giornale di
attualità e inter-cultura: ogni articolo è scritto in italiano e cinese e gli argomenti sono di economia, spettacoli, moda, società,
con uno spazio dedicato alla comunità cinese in Italia e a storie
di cinesi in Cina. Ci sono anche
due pagine di fumetti, ma solo in
cinese. La novità di quest’anno è
che il mensile annovera anche
articoli di China News Week, il
settimanale più importante della Cina con cui Hu ha aperto una
collaborazione.
«Cina in Italia è un’esperienza
all’avanguardia, esempio di comunicazione fra due culture perché negli anni da una parte gli
italiani hanno scritto in italiano
sulla Cina e dall’altra i cinesi
hanno scritto in cinese in Italia o
sull’Italia in Cina. Solo Hu Lanbo, con la sua esperienza intellettuale e con la sua formazione
culturale sino-europea, era in
grado di fare un’operazione del
genere, quindi le diamo grande
merito», ha detto Federico Masini, preside della Facoltà di Studi
orientali della Sapienza. Auguri
Lanbo! Maria Rosaria Giordano
SOCIETÀ
A Milano, il prossimo 20 marzo, la XV Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie
organizzata da Libera.
Il Meridione non può più essere
collegato al fenomeno delle mafie: ormai si sono infiltrate anche
al Nord. Questo perché, secondo i
magistrati della Corte dei Conti,
le mafie vengono «attratte» dalla maggior probabilità di business come le cornacchie da ciò
che luccica. Ad esempio, per parlare di uno degli ultimi casi di
mafia riguardo ai rifiuti speciali,
i quali necessitano di essere
smaltiti con sistemi purtroppo
costosi dettati dal Parlamento europeo, la criminalità organizzata
fa sì che l’imprenditore del Nord
accetti uno smaltimento a costi
più ragionevoli. Deve solo caricare i camion con tutti quei barili
che chissà dove andranno a finire. In realtà si conosce benissimo
la meta: quei Tir colmi di rifiuti
partono dalle industrie del Nord
per arrivare nell’agro romanopontino e nel campano e per gettare il carico in aperta campagna, in piena notte.
Per dimostrare che la popolazione italiana è cosciente di questi fenomeni loschi, a Milano si terrà il
prossimo 20 marzo la XV Giornata
della memoria e dell’impegno in
ricordo delle vittime delle mafie,
organizzata da Libera. Perché Milano? È il centro del business italiano attorno al quale ruota non
solo tutta l’economia italiana, ma
anche quella estera: la Borsa, la
moda, la maggior parte delle filiali di aziende estere vi hanno sede...
soprattutto perché Milano è la città
in cui fu ucciso nel 1979 Giorgio
Ambrosoli, avvocato esperto in liquidazioni coatte amministrative,
che stava indagando sui movimenti del banchiere siciliano Michele Sindona. Milano è la città in
cui il 27 luglio del 1993 ci fu una
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delle bombe che esprimevano l’attacco diretto allo Stato da parte
della mafia: la strage di via Palestro, nei pressi del Padiglione di Arte contemporanea. Ci furono cinque morti. Milano è infine la città
in cui si terrà l’Expo nel 2015, una
manifestazione che attrarrà ingenti capitali e su cui sarà importante vigilare al fine di non consentire l’infiltrazione delle mafie.
Per questi e per tanti altri motivi
che è necessario ricordare, per non
gettare via vite sacrificate ad un
valore comune a tutti: la giustizia.
Marco Bevilacqua
AMBIENTE
Ancora un no al ritorno del
nucleare: Legambiente si mobilita per un sistema energetico moderno, pulito e sicuro.
«Per il clima contro il nucleare»: questo il nome della mobilitazione lanciata da Legambiente per ristabilire la verità sulla
dannosità del nucleare e la sua
inutilità, per il raggiungimento
degli obiettivi del «20-20-20» e
per alimentare il dibattito a livello territoriale sui due scenari
energetici alternativi futuri.
Nel dicembre 2008 l’Ue approvò
un pacchetto – il cosiddetto 2020-20, appunto – che prevedeva
l’abbattimento delle emissioni e
l’obiettivo di ridurre di almeno il
20% i gas ad effetto serra entro il
2020 (rispetto ai livelli del 1990),
portare la quota delle energie rinnovabili al 20% e diminuire il
consumo generale di energia del
20% (rispetto alle proiezioni). Nel
quadro della strategia di promozione delle fonti rinnovabili, è
stato concordato che i mezzi di
trasporto dovranno essere alimentati per il 10% da biocarburanti, energia elettrica e idrogeno.
Il governo italiano ha invece
deciso per un ritorno al nucleare,
con il quale si prevede di produrre il 25% dell’energia elettrica e
di ridurre così il costo dell’energia e delle importazioni. Le centrali nucleari sarebbero di «nuova» generazione, descritte come
sicure, pulite e tecnologicamente
avanzate.
marzo 2010 • notizie
La Conferenza delle Regioni, a fine gennaio, in seduta plenaria ha
votato parere negativo al piano di
costruzione di nuove centrali nucleari. Favorevoli soltanto le regioni Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Lombardia. Oltre alla preoccupazione della gestione delle procedure utilizzate, esistono leggi regionali che impediscono la costruzione di nuovi siti nucleari.
Anche il presidente dell’Anci
(Associazione nazionale Comuni
italiani), Sergio Chiamparino,
ha espresso preoccupazione ai
ministri Scajola e Tremonti in vista dell’avvio delle procedure per
la ripresa della produzione di
energia da fonte nucleare, ricordando inoltre che ci sono temi rimasti aperti come la dismissione
dei vecchi siti nucleari e la necessità di riqualificare le aree ancora sottoposte a vincoli. Su proposta del ministro dello Sviluppo
economico Scajola, il governo ha
deciso di impugnare dinanzi alla
Corte costituzionale le leggi regionali di Puglia, Campania e
Basilicata che impediscono l’installazione di impianti nucleari
nei loro territori.
Legambiente ribadisce che l’energia nucleare è una fonte energetica più costosa di altre, la produzione e lo smaltimento delle scorie
rimane problema irrisolto e perdurano i rischi legati ai possibili
incidenti; inoltre l’approvvigionamento di uranio necessario alla
produzione è sempre più scarso.
Per questi motivi si chiede un
modello energetico moderno, senza nucleare e nuove centrali a carbone. Le tre grandi crisi odierne –
finanziaria, energetica, climatica
– sono tra loro connesse e sono il
sintomo di un problema più generale, che va affrontato rifondando
l’idea di sviluppo e di progresso.
Incentivare il ricorso alle fonti pulite, a partire dal sole e dal vento,
migliorare l’efficienza del settore
energetico, industriale e residenziale, rendere più sostenibili i trasporti e utilizzare il gas come fonte fossile di transizione, sono le attività da intraprendere, secondo
Legambiente, per ridurre le emissioni di CO2 senza fare ricorso al
nucleare. Solo così il paese può rispettare gli accordi internazionali
ed ottenere un paese più moderno,
sicuro e pulito.
Si può firmare l’appello sul sito
Legambiente: www.legambiente.ue. Cristina Zanazzo
Per maggiori informazioni:
www.milluminodimeno.blog.rai.it.
Stefano Specchia
ECONOMIA
«M’illumino di meno»: l’iniziativa di Caterpillar per sensibilizzare sul tema del risparmio energetico.
La crisi è del liberismo: lanciato il Manifesto per la libertà
del pensiero economico.
Si è conclusa il 12 febbraio la
campagna «M’illumino di meno», la fortunata iniziativa promossa dalla trasmissione radiofonica Caterpillar di Radio Due e
giunta alla sua sesta edizione.
L’obiettivo è quello di sensibilizzare l’opinione pubblica italiana
sul tema del risparmio energetico
e sulla promozione dell’utilizzo di
fonti di energia rinnovabili a
scarso impatto ambientale.
Dal 4 di gennaio si sono susseguite le più svariate manifestazioni sul tema in tutto il territorio nazionale, iniziative che hanno fatto da sfondo alla corsa simbolica della «tedofora» Maria Senesi, inviata di Radio Due, la
quale con una torcia fotovoltaica
ha percorso decine di piazze fino
ad arrivare ai Mercati Traianei di
Roma, dove ad aspettarla c’era
una enorme lampadina accesa
dall’energia ricavata dalla pedalata di cinquanta ciclisti.
La manifestazione negli anni
passati si era concentrata sul risparmio dell’energia, indicando
svariate pratiche di risparmio
energetico attuabili da tutti nella
vita di ogni giorno, mettendone
in risalto sia la semplicità che la
convenienza in termini ambientali ed economici.
Quest’anno, dato che i tempi
apparivano maturi, gli organizzatori hanno tentato, con successo, il salto di qualità: fermo restando l’impegno nel risparmio
energetico, sembra ormai arrivato il momento per i cittadini di
cominciare a sperimentare le
nuove tecnologie ad impatto zero, la «green economy», che secondo i sostenitori della manifestazione rappresenta il primo
passo verso la nascita di un’economia sostenibile, che produca
ricchezza nel rispetto dell’ambiente e della salute dei cittadini.
«Suscitare una discussione aperta sugli orientamenti della ricerca economica e delle sue implicazioni politiche e culturali». Questo l’obiettivo principale che si pone il «Manifesto per la libertà del
pensiero economico - contro la
dittatura della teoria dominante e
per una nuova etica» lanciato a
febbraio dall’associazione Paolo
Sylos Labini. Tra le numerose
adesioni, quelle di Critica liberale, dell’Associazione Rossi-Doria,
dei siti Sbilanciamoci.info e Economia e politica. Hanno aderito
inoltre numerosi economisti, sociologi, giornalisti e politici quali
Luciano Gallino, Giorgio Ruffolo,
Mario Pianta, Loretta Napoleoni,
Luciano Barca, Stefano Fassina,
Michele Salvati, Stefano Zamagni
e Nadia Urbinati.
La crisi globale ha messo in crisi le teorie economiche dominanti, che non avevano saputo
cogliere «la fragilità del regime
di accumulazione neoliberista»,
ma al contrario – si sostiene nel
Manifesto – avevano contribuito
a costruirlo, favorendo la finanziarizzazione dell’economia, la
liberalizzazione dei mercati finanziari, il deterioramento delle
tutele e delle condizioni di lavoro, un drastico peggioramento
nella distribuzione dei redditi e
l’aggravarsi dei problemi di domanda. In tal modo esse hanno
contribuito a determinare le condizioni della crisi.
È necessario quindi ricondurre
l’economia ai fondamenti etici che
avevano ispirato il pensiero dei
classici e respingere l’idea – una
giustificazione di comodo per tanti economisti e commentatori economici mainstream – che esista
una sola verità nella scienza economica. Occorre dare spazio alle
teorie alternative – keynesiana,
classica, istituzionalista, evolutiva,
38
storico-critica nella ricchezza delle loro varianti – nell’insegnamento e nella ricerca. Occorre adeguare ai tempi i nostri strumenti,
assumendo l’analisi di genere nei
nostri studi. È necessario – prosegue l’appello – dare «diritto di tribuna» ad ogni nuova idea economica nel segno della libertà e del
libero confronto. Le concentrazioni di potere (nelle università, nei
centri di ricerca nazionali e internazionali, nelle istituzioni economiche nazionali e internazionali,
nei media), come quelle che hanno favorito nella fase più recente
l’accettazione acritica del fondamentalismo liberista, debbono essere combattute.
L’economia deve tornare «al
servizio delle persone», la raffinatezza tecnica dell’analisi non
deve diventare un obiettivo autoreferenziale, fonte di conformismo e di appiattimento nella formazione delle giovani leve di
economisti. Per questo, va favorito un confronto critico tra impostazioni e analisi diverse.
Cinque i temi su cui il Manifesto suggerisce di promuovere studi e iniziative: mercato, Stato e
società; una globalizzazione dal
volto umano; un nuovo umanesimo del lavoro; la riduzione delle disuguaglianze; uno sviluppo
più equilibrato.
Per leggere integralmente il documento: www.syloslabini.info.
POLITICA
Giovani per la Costituzione
compie cinque anni: bilanci e
idee per il futuro. Scalfaro: «La
nostra Costituzione è un baluardo estremo, ma viene minacciata quotidianamente».
L’8 febbraio, a Roma, si è svolto
un convegno promosso dall’associazione Giovani per la Costituzione: un momento per riflettere
sul passato e per formulare progetti per il futuro. L’associazione
è nata a Roma nel 2005, dall’iniziativa di alcuni studenti universitari di Giurisprudenza e Scienze politiche, con l’intento di insegnare e trasmettere i valori fondanti della società italiana sanci-
marzo 2010 • notizie
ti dalla Costituzione. Fino ad ora
conta all’attivo più di 70 progetti promossi per lo più nelle scuole ma, dal 2007, è stato avviato
anche un progetto per promuovere nel carcere romano di Rebibbia lo studio, a livello universitario, di materie giuridiche.
«Abbiamo creato questa associazione – ha detto il vicepresidente
Mattia Stella nel suo intervento di
apertura – spinti da una “missione laica di evangelizzazione” che
ha per libro sacro la nostra Costituzione. Inizialmente ci siamo dati come obbiettivo finale il referendum costituzionale del 2006, ma
poi abbiamo continuato, perché
abbiamo percepito di nuovo tre pericoli: una revisione costituzionale
bis, l’intento di uno smantellamento del sistema giudiziario, attraverso un incessante lavorio ai
bordi della Costituzione, e infine
una deriva culturale che ha come
suo primo mezzo di diffusione internet e gli altri mass media». Timori condivisi ed amplificati dal
presidente emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, intervenuto all’incontro: «Questa Carta Costituzionale, fondamento della nostra vita democratica, sta avendo in
questi tempi dei sussulti; sussulti
dovuti a persone che non sono
d’accordo con il principio di democrazia e di diritto, perché hanno bisogno di leggi ad personam,
di trattamenti speciali. In questi
giorni il pericolo è enorme. La nostra Costituzione è un baluardo
estremo, ma quasi quotidianamente assistiamo a forme di soppressione, di riduzione grave della
democrazia. La sua integrità viene
minacciata da chi regge lo Stato.
Quelli che dirigono la maggioranza non hanno dato segno di voler
mutare i loro pensieri bocciati nel
2006 dalla maggioranza degli italiani. In quell’occasione si rivelò la
verità com’è. E la verità è che il
presidente del Consiglio vuole il potere. Ciò che temo tanto e che i cittadini italiani, pur consapevoli dei
loro diritti, ci rinuncino, si ritirino,
stiano a guardare. È indispensabile che non ci arrendiamo!».
«Certamente la Costituzione è un
baluardo – afferma il costituzionalista Alessandro Pace – ma da
sola è un pezzo di carta, al massi-
l’attuale legislazione nazionale in
materia di tutela della salute nei
posti di lavoro.
Tutto ciò potrebbe riguardare la
sottaciuta questione della mancata applicazione delle norme di
protezione nei riguardi dell’uranio impoverito e delle nano-particelle. «Il Governo – dichiarano
i deputati del Pd della commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti, Jean Leonard
Touadi e la vicepresidente del
gruppo Rosa Violecco Calidari –
fa carta straccia del diritto alla
salute dei militari, compresi
quelli che svolgendo il proprio lavoro hanno perso la vita o hanno
visto gravemente compromessa
la propria salute per le patologie
connesse all’uso di sostanze nocive, come l’uranio impoverito. È
un vero e proprio scandalo, un
grave colpo di mano nei confronti di migliaia di vittime».
Chi risponderebbe, infatti, dei 216
morti e degli oltre 2.500 malati per
possibile contaminazione da uranio impoverito reduci dalle nostre
missioni all’estero? Ci riferiamo a
quei soldati che, in Somalia
(1992-94) Bosnia e Kosovo (dal
1995 al ‘99), dichiarano di aver
combattuto in bermuda e maglietta verde, al fianco di militari Usa
muniti di maschere, tute ed occhiali. Non reggerebbe la tesi sostenuta dal governo, secondo cui
fino al ’99 (risalgono al 22 novembre di quell’anno le prime
norme di protezione destinate ai
militari nei Balcani) si ignoravano del tutto i rischi dovuti all’esposizione all’uranio impoverito: già
dal 1984, infatti, la Nato avrebbe
fornito all’Italia indicazioni precise a riguardo. Accame ribadisce
dunque la mancata applicazione,
da parte del ministero della Difesa,
del «principio di precauzione», e
l’adozione di un atteggiamento
non ispirato ai principi di cautela
e responsabilità. Stefania Sarallo
mo vola via. Se voi non ci mettete
il motore, non cammina. Se la Costituzione la diffondete tra i giovani, se viene percepita nell’animo,
nell’intelligenza delle persone, allora queste persone sapranno epidermicamente come reagire ai
tentativi contro di essa». Ciò trova
conferma anche nell’esperienza di
Renato Mazzuca, sindaco di San
Giovanni in Persiceto (Bologna),
uno dei paesi dove si sono svolti i
progetti: «Gli studenti che partecipavano a questi progetti, quando
tornavano a casa, istruivano i propri genitori sui valori della Costituzione. È stato anche grazie a loro che sono sorte tante associazioni locali con lo scopo di non far
passare il referendum del 2006». E
in maniera efficace riassume con
uno slogan ciò che può essere definito come il filo rosso di questa
giornata: «Partendo dal basso riusciremo, salendo, a scalzare questa
ignoranza che ci domina dall’alto». Serena Tallarico
Appello dell’associazione vittime dell’uranio impoverito
per fermare il decreto «salva
generali».
L’Associazione vittime uranio e
l’Anavafaf (Associazione nazionale assistenza vittime arruolate
nelle Forze armate e famiglie dei
caduti) di Falco Accame chiedono che venga bloccato il decreto
legge 1/2010, con il quale lo
scorso 1° gennaio il governo ha
rifinanziato le missioni internazionali di peacekeeping. Già approvato alla Camera il 9 febbraio
e in discussione al Senato, per la
conversione in legge, il decreto
contempla al proprio interno (al
quarto comma dell’art.9) delle
misure che deresponsabilizzerebbero i vertici militari in relazione
ai problemi di inquinamento e
salute; perciò rappresenterebbe, a
loro dire, una vera e propria norma «salva generali».
Secondo Accame, ex ammiraglio
e già presidente della Commissione Difesa di Montecitorio, la norma entra in conflitto sia con
quanto stabilito dai codici militari, circa i doveri dei comandanti
riguardo alla tutela della salute
del personale dipendente, sia con
CHIESA ITALIANA
Si è svolto a Firenze, il 6 febbraio, il secondo incontro dei
cattolici autoconvocati, riunitisi nel maggio del 2009 spinti
39
dal «disagio» per la situazione
ecclesiale e, adesso, per individuare, in positivo, vie per affrontare il futuro. Emerse luci
e ombre. «Se» e «come» organizzarsi per un eventuale e più
sinodale «Firenze-3».
«Il Vangelo ci libera, e non la
legge»: questo il tema di «Firenze-2» che ha visto accorrere circa
400 persone, provenienti da diverse parti d’Italia e legate a variegate esperienze e realtà: parrocchie,
cenacoli intellettuali, esperienze
giovanili, comunità di base
(Cdb), impegno universitario o
nel mondo del lavoro, gruppi biblici, «Noi siamo Chiesa», centri
di impegno nel sociale e nella solidarietà, «cani sciolti». Ha introdotto i lavori don Paolo Giannoni: «A “Firenze-1”, il 16 maggio
scorso, abbiamo voluto affrontare
il disagio che tutti viviamo
nell’attuale situazione della nostra Chiesa. Ma nello stesso tempo abbiamo proposto di: a) non
insistere sulla via della contestazione e b) seguire la via faticosa
di cercare e di offrire una via di
indicazioni positive per una presenza di Chiesa come segno e
continuazione di Cristo-vangelo.
Abbiamo così inteso affiancare a
una critica che stimiamo una forma di appassionata partecipazione ecclesiale, il percorso austero
di una presa di coscienza come
base di una prospettiva in positivo, che non si pone con intento
alternativo ma come offerta per
una chiarificazione del compito
che spetta alla Chiesa di oggi».
È seguita la relazione del teologo don Pino Ruggieri, su «Oltre
il demone dell’etica: il Padre di
Gesù», e quindi quella del biblista Romano Penna su «Il Vangelo fine della legge: Gesù e Paolo». Due dense relazioni che sono state variamente commentate
dai brevi interventi di chi, poi, in
tre minuti, voleva chiedere un
approfondimento, proporre un
diverso punto di vista o suggerire
che, dai grandi princìpi, si scendesse poi a problematiche assai
vive e dirimenti (tipo il giudizio
etico, di fronte a Dio, sul testamento biologico, quando non si
è d’accordo con il richiamo alla
«legge naturale» invocato dalle
marzo 2010 • notizie
gerarchie ecclesiastiche per risolvere problemi complessi). Nel pomeriggio vi sono state le testimonianze di Rita Intiso, piccola sorella di Gesù, e di Daniele Simonazzi (un sacerdote che opera
nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di
Gotto, in provincia di Messina).
Quindi, riportando anche il pensiero di Italo De Sandre, assente,
la teologa Maria Cristina Bartolomei ha parlato «Sulla situazione attuale della Chiesa», aprendo scenari interessanti.
Sono quindi seguiti altri liberi
interventi: varie le sensibilità
espresse, soprattutto sul «se» e
«come» ipotizzare l’eventuale
«Firenze-3». «Se»: qualcuno ha
fatto capire che diserterà il prossimo incontro se in esso programmaticamente si evitasse un confronto aperto sui temi che lacerano la comunità ecclesiale, o si tacesse su vicende scottanti (tipo il
caso di don Alessandro Santoro a
Firenze; vedi Confronti 12/2009).
«Come»: il prossimo appuntamento – ha proposto qualche altro – dovrebbe fare un salto di
qualità: essere «sponsorizzato» da
più realtà ecclesiali ed avere nello
stesso gruppo promotore testimoni di esperienze al momento non
rappresentate. A «Firenze-2», i
presenti, pur numerosi, erano notevolmente di meno che all’appuntamento del 2009, e vi erano
pochissimi giovani: ciò dovrebbe
spingere – altro rilievo – a interrogarsi sulle ragioni di questa disaffezione. Giannoni, da parte
sua, concludendo l’incontro ha
fatto balenare, per il... domani,
un convegno di diversi giorni, nel
quale sia possibile una partecipazione più ampia e «sinodale».
Al convegno si poteva acquistare Il Vangelo basta. Sulla fede e
sullo stato della chiesa italiana,
a cura di Alberto Melloni e Giuseppe Ruggieri – ma hanno collaborato anche Giannoni, Enrico
Peyretti e Ugo Gianni Rosenberg
– edito da Carocci (174pagine,
17,50 euro) che in sostanza contiene gli atti di «Firenze-1», più
un ampio saggio di Melloni,
«non presentato all’assemblea
dell’anno scorso, ma opportuno
per offrire materiali utili alla
comprensione dello stato attuale
della chiesa». Si intitola: «L’occasione perduta. Appunti sulla
storia della chiesa italiana, 19782009». David Gabrielli
scontro sui principi e sui valori
assoluti della vita.
Alla fine della giornata, il bilancio etico è disastroso: nessun ragionamento, nessun rispetto, nessuna compassione. Solo, ancora
una volta, giudizi dogmatici, siano essi teologici o giuridici. In
questa battaglia attorno al corpo
di Eluana non è mai risuonata la
parola dell’amore e della speranza in Cristo. Qualcuno di noi lo
ha fatto pregando e restando in silenzio, ripensando a un gesto e a
una storia di fronte alla quale tutti – uomini e donne di fede ma
anche politici e commentatori –
dovrebbero anche trovare il tempo per tacere, riflettere, interrogarsi. Riesumare un corpo per
giudicarlo e per colpire ancora
una volta chi lo ha accompagnato nelle sue ultime ore è una brutta operazione, priva di amore e di
compassione. Per questo io, da
credente, sto con papà Englaro.
Maria Bonafede
ELUANA ENGLARO
La pastora Bonafede, moderatora della Tavola valdese,
deplora il continuo uso politico e ideologico della vicenda.
Riportiamo di seguito la dichiarazione rilasciata dalla pastora
Maria Bonafede a un anno
dalla morte di Eluana Englaro (comunicato dell’agenzia
Nev del 10 febbraio).
Brutto giorno l’anniversario della morte di Eluana Englaro, e
non solo per il ricordo di una storia dolorosa e lacerante ma anche – soprattutto – per l’uso che
si è voluto fare di questa ricorrenza. Un uso politico e ideologico che dimostra come la dignitosa e mille volte motivata scelta di
papà Beppino non sia stata né
capita né tanto meno rispettata
da parte di chi avrebbe preferito
prolungare all’infinito la sopravvivenza puramente tecnica di
una giovane donna che aveva
chiesto di morire con dignità.
Quello che ci ha colpito ieri non
è stata la riapertura di un dibattito che fatalmente imporrà a breve una scelta politica da parte del
Parlamento. Su temi così delicati
e controversi è giusto e necessario
che si apra un pubblico dibattito
che attraversa le forze politiche, la
società civile e le comunità di fede. Ci ha costernato, però, che
piuttosto che partecipare a un dibattito pluralista nel quale si confrontano pensieri ed etiche differenti, uomini delle istituzioni ed
esponenti della Chiesa cattolica si
siano buttati, ancora una volta,
sul corpo di Eluana. Lo hanno
nuovamente stretto nelle loro mani e nei loro ragionamenti per affermare tesi già ampiamente
espresse e ancora più ampiamente amplificate dai media. E così il
corpo di una giovane donna ormai morta, paradossalmente, ha
ripreso ad essere il teatro di uno
DOSSIER
Dopo Rosarno: un approfondimento sui temi dell’immigrazione a cura della Fcei
«Dopo Rosarno» è il titolo del
dossier curato dalla Federazione
delle chiese evangeliche in Italia in
collaborazione con Riforma, in
occasione della Festa del XVII Febbraio (che ricorda la firma,
nell’anno 1848, delle Lettere patenti con cui il re Carlo Alberto
estendeva i diritti civili ai suoi sudditi valdesi). I drammatici fatti di
Rosarno ripropongono i complessi
problemi dell’immigrazione in Italia, dell’integrazione di migliaia di
lavoratori stranieri e di politiche in
grado di governare un fenomeno
estremamente complesso; senza
pregiudizi, contro ogni razzismo,
coerente con la nostra Costituzione
e con le normative europee.
Il dossier è stato pubblicato come inserto del n. 6 di Riforma
del 12 febbraio. È possibile ordinare copie extra (al prezzo di 1
euro ciascuna) rivolgendosi alla
redazione di Riforma: tel. 011
655 278, e-mail [email protected].
40
«Abbiamo voluto collegare libertà e diritti di ieri, quelli che per
la prima volta furono concessi ai
valdesi del Piemonte da re Carlo
Alberto, a libertà e diritti di oggi:
quelli che ancora non sono adeguatamente garantiti a milioni di
immigrati presenti in Italia –
spiega il pastore Massimo Aquilante, presidente della Fcei –. Ci
impegneremo perché questa pubblicazione arrivi anche nelle mani di chi a livello locale o nazionale ha responsabilità pubbliche.
Il tema dell’immigrazione è troppo importante sotto il profilo politico, costituzionale, etico e religioso per poterlo affrontare con pochi
slogan semplificatori: per questo,
anche a partire dal Dossier, intendiamo contribuire a un’ampia riflessione pubblica su questo tema
strategico per la vita e la qualità di
ogni democrazia. La normativa
italiana sull’immigrazione – prosegue Aquilante – è confusa ed è
troppo condizionata da un clima
di pregiudizio, paura e tensione
nei confronti degli immigrati.
Sull’immigrazione occorrono un
nuovo pensiero e una nuova politica». Il Dossier raccoglie i contributi di diversi esperti del tema
dell’immigrazione e di alcuni
operatori: oltre a un’introduzione a cura dello stesso Aquilante,
propone interventi di Stefano Allievi, Franca Di Lecce, Mostafa El
Ayoubi, Giuseppe La Pietra, Paolo Naso, Tonino Perna, Brunetto
Salvarani.
Oltre al Dossier, in occasione
della festa del XVII Febbraio la
Fcei propone anche il volume a
cura di Dora Bognandi Sentieri
di libertà. Contributi protestanti in ambito sociale (edito
dalla Claudiana). Il testo ricostruisce il contributo protestante
ad alcuni passaggi della modernità e, in particolare, all’alfabetizzazione, allo studio approfondito delle lingue antiche, allo sviluppo editoriale e quindi alla libera circolazione delle idee. «La
rivalutazione delle potenzialità e
del valore dell’individuo – si legge nella presentazione – hanno
condotto alle battaglie in favore
della libertà religiosa, dei diritti
umani, della parità di genere».
Alessandro Calamani
le rubriche
marzo 2010
confronti
OSSERVATORIO SULLE FEDI
«Tranquilli,
è in arrivo l’Apocalisse»
Antonio Delrio
Una grande
campagna
pubblicitaria
ha annunciato
un ciclo di conferenze
promosse dalla Chiesa
cristiana avventista
del Settimo giorno,
che si sono svolte
a partire
dal 6 febbraio scorso
per circa un mese,
sul messaggio –
spesso frainteso –
contenuto
nell’Apocalisse.
Il 30 marzo 2010,
dopo il tramonto,
nelle loro 3.100
congregazioni in
Italia, come anche
nelle 105mila
congregazioni
in tutto il mondo,
i testimoni di Geova
commemoreranno
la morte di Gesù Cristo.
L’indirizzo di posta
elettronica del curatore
di questa rubrica è
[email protected].
N
egli scorsi mesi è stato davvero impossibile non
notare a Roma la scritta «Tranquilli, è in arrivo l’Apocalisse» in bella evidenza su uno sfondo rosso. Circa 750.000 volantini distribuiti a
tappeto in tutta la città, la pubblicità su circa 100 autobus di linea, e nella metropolitana anche con dei video,
spot radiofonici e inserzioni pubblicitarie su diversi giornali invitavano ad una serie di conferenze che a partire
dal 6 febbraio 2010, e per circa un mese, si sarebbero tenute presso l’Auditorium San Leone Magno. «Nella società occidentale, in questo ultimo periodo, la parola
Apocalisse è sulla bocca di tutti. Ne parlano spesso gli
scienziati a proposito degli sviluppi ambientali del nostro pianeta, ne parlano gli economisti a causa della crisi delle banche, ne parlano i politici quando si riferiscono ai grossi disagi umani in alcune zone particolarmente calde del nostro paese, ne parlano i giornalisti
quando presentano tragedie, incidenti e scenari sconcertanti», ha affermato il pastore Daniele Benini, presidente della Chiesa cristiana avventista del Settimo giorno e responsabile di questo progetto. Ma la
lettura dell’Apocalisse proposta non sarebbe stata quella legata agli avvenimenti catastrofici solitamente affiancati alla «fine del mondo». «Se l’autore considera
“felici” coloro che leggono e ascoltano l’Apocalisse (cioè
la rivelazione profetica di Dio) – ha spiegato Benini –
significa che il contenuto del messaggio non può essere spaventevole o catastrofico, ma trasmettere invece felicità e speranza».
Comunque l’iniziativa ha dovuto superare difficoltà
impreviste. Solo 4 giorni prima dell’inizio delle conferenze, nonostante l’8 maggio 2009 fosse stato stipulato
un regolare contratto con l’Auditorium San Leone Magno, gli organizzatori hanno ricevuto dal centro la co-
municazione di disdetta unilaterale «dell’impegno sottoscritto». Ma nonostante questo, sabato 6 febbraio 2010
alle ore 20, presso l’Auditorium della Chiesa cristiana avventista in piazza Vulture, il ciclo di conferenze è partito. I timori di un fallimento dell’iniziativa per il cambiamento all’ultimo momento della sede dell’evento sono stati fugati dal flusso di persone che ha riempito l’Auditorium. La sala principale non è bastata ad accogliere
i partecipanti e l’organizzazione ha dovuto allestire una
seconda sala in collegamento audio video. Alla prima
conferenza sono state presenti circa 950 persone. Dalla
successiva il numero si è attestato intorno ai circa 800
partecipanti dei quali, secondo gli organizzatori, circa la
metà non appartenevano alla Chiesa avventista.
A parlare del messaggio, spesso frainteso, contenuto nell’Apocalisse è stato il pastore Shawn Boonstra,
direttore del canale televisivo «It Is Written». Conferenziere internazionale, negli ultimi anni ha diretto
30 grandi eventi di evangelizzazione pubblica e ha
scritto numerosi volumi. In un’intervista rilasciata a
Rai News24 il giorno prima dell’inizio delle conferenze (intervista che è possibile rivedere su http://altrevoci.blog.rainews24.it/2010/02/05/la-fine-del-mondo), Boonstra ha spiegato che la cosa importante per
lui è dare alle persone gli strumenti affinché possano
leggere da sole le Sacre Scritture e capirle. Alla domanda se possiamo stare tranquilli perché sta arrivando l’Apocalisse, Boonstra ha risposto di non poter
certo assicurare che non ci saranno dei problemi, ma
di poter affermare con certezza che ci sarà un lieto fine. Le 23 conferenze sono terminate il 6 marzo ed è
possibile ascoltarle scaricando i file audio registrati
giorno per giorno da www.apocalisseunmessaggiodipace.it/download.html.
I TESTIMONI DI GEOVA E LA MORTE DI GESÙ CRISTO
Martedì 30 marzo 2010, dopo il tramonto, nelle loro
3.100 congregazioni in Italia, come anche nelle
105.000 congregazioni in
tutto il mondo, i testimoni
di Geova commemorano la
morte di Gesù Cristo. La
«Commemorazione della
morte di Gesù Cristo» è la
più importante celebrazione
di questa confessione cristiana, per la quale si richiama-
no alle parole che Gesù Cristo stesso pronunciò durante l’ultima cena: «Continuate a far questo in ricordo di
me». La celebrazione, chiamata anche «Pasto serale del
Signore», viene tenuta una
sola volta all’anno, nel giorno in cui secondo la tradizione lo stesso Gesù venne
ucciso, corrispondente al 14
nisan del calendario ebraico. La celebrazione ha inizio
41
con un canto e una preghiera. Poi un ministro di culto
pronuncia un discorso, volto
a commentare alcuni brani
delle Sacre Scritture relativi
al significato della morte di
Gesù, che sacrificò se stesso e
versò il suo sangue per il perdono dei peccati. Per i Testimoni di Geova, che non credono né nella transustanziazione né nella consustanziazione, il pane non lievitato e
il vino rosso rimangono
semplicemente simboli del
corpo senza peccato e del
sangue di Gesù e secondo la
loro cristologia il sacrificio di
Gesù è il fondamentale atto
di Dio nella storia dell’uomo,
atto con il quale il prezzo dei
peccati del genere umano
viene riscattato riaprendo la
possibilità di vivere per sempre nel Paradiso sulla Terra.
le rubriche
marzo 2010
confronti
NOTE DAL MARGINE
Il vero volto
di Eluana
Giovanni Franzoni
Il 9 febbraio
di un anno
fa moriva Eluana
Englaro; di essa
i media continuavano
a mostrare
il volto felice
che la ragazza aveva
prima dell’incidente
che l’avrebbe posta
in coma irreversibile
e in stato vegetativo
permanente
per diciassette anni.
L’uso ideologico
e politico
del suo dramma.
U
na consuetudine millenaria ha insegnato agli
uomini a leggere nei volti distesi e luminosi la
vita, in tutte le sue forme. Per questo, nella Bibbia, il libro della Genesi ci dice che Dio lesse
nel volto divenuto torvo e oscuro di Caino un disegno di
morte e lo allertò tempestivamente. Gesù di Nazaret, un
po’ più tardi, insegnò ai suoi discepoli che quando gli
occhi sono luminosi, tutto il nostro corpo è nella luce.
Dio, perciò, chiede rispetto per il Suo volto, e riserva solo al culmine del percorso dell’amore di potersi manifestare faccia a faccia; e in molte culture religiose si evita di rappresentare il volto degli esseri umani.
Mi accorsi una volta in Libano che scattando delle
fotografie – come siamo soliti fare noi occidentali, inconsapevoli e stolti – alcuni bambini si coprivano il
volto: erano di famiglie islamiche osservanti, che avevano insegnato ai loro bimbi di non regalare il loro volto
ai turisti o ai benefattori di passaggio.
Così appresi la lezione!
Ma non di un argomento così complesso come il volto umano, fatto «ad
immagine e somiglianza» del Creatore, volevo parlare, bensì di un volto
più vicino ai nostri tempi e ai nostri
usi ed abusi: il volto di Eluana Englaro. Per tutto il tempo dell’oscena
campagna per affermare ideologicamente e politicamente che Eluana era
viva, e doveva essere alimentata, la
stampa e la tv hanno ostentato il suo
volto sorridente e felice, profanandone la dignità. In realtà si trattava di
foto scattate sedici anni prima, comunque prima dell’incidente che
l’aveva imprigionata nel coma e che
aveva dato accesso nel suo corpo alla
progressiva espansione della morte.
Il volto di Eluana, quello vero, non
mentiva e manifestava la progressiva
devastazione della morte, ma il volto
vero non serviva alla politica o
all’ideologia: da qui la menzogna
della fotografia ormai insultante e
beffarda nei riguardi della drammatica realtà. Papà Englaro si è opposto
con fermezza a questo sopruso, ma
non è stato ascoltato. Per smentire la
menzogna che Eluana fosse viva e
42
che dovesse essere alimentata ad oltranza, si sarebbe
dovuto pubblicare la fotografia vera del volto devastato dalla morte, ma questa sarebbe stata un’altra bestemmia, e quindi si è seguitato fino all’ultimo ad
abusare del suo volto.
Ma ormai basta; ho detto fin troppo! Bisognerà aprire il discorso sul diritto alla riconoscibilità nella parte terminale della vita. Si è fin troppo insistito sul diritto ad evitare cure ed alimentazioni inutili, perché
provocano solo sofferenza. Ritengo che il desiderio di
porre termine alla vita non derivi solo da fuga dalla
sofferenza ma dalla irriconoscibilità della condizione
di vita, rispetto a ciò che si è per se stessi. Quando non
mi riconosco, e non mi riconoscono più i miei, sono
ancora io?
le rubriche
marzo 2010
confronti
OPINIONE
«Se Dio è maschio,
il maschio è Dio»
Stefania Sarallo
È morta nel gennaio
scorso la teologa
femminista radicale
statunitense
Mary Daly.
La sua accurata
analisi dei simboli
intrinsecamente sessisti
del cristianesimo –
a cominciare
da quello
di Dio Padre –
rappresentò
una sfida
e una minaccia
ai metodi più
tradizionali
del fare teologia.
Di tali simboli
denunciava
il carattere parziale
e idolatrico e il fatto
che venissero usati
per negare
alle donne
una completa
umanità
e un accesso al divino.
F
ilosofa e teologa, femminista radicale, Mary Daly
rappresenta senz’altro una delle voci più incisive ed autorevoli del movimento per i diritti delle donne degli anni Settanta. A ridosso della sua
morte, avvenuta lo scorso 3 gennaio all’età di 81 anni,
molti hanno tentato di tracciare i contorni dell’opera di
questa celebre femminista americana, la cui creatività
di pensiero e di linguaggio furono tali da rendere inadeguato il ricorso a qualunque categoria precostituita.
«Un vulcano dentro un vulcano», l’ha definita la filosofa Luisa Muraro (il manifesto del 6/1/10). Del vulcano Daly possedeva di certo l’energia dirompente, rinvenibile nelle sue opere e in quei percorsi di vita che
l’hanno resa modello di azione progressista per molte
donne. Con La chiesa e il secondo sesso (1968), che
rappresenta la prima articolata risposta cattolica a Il secondo sesso (1949) di Simone de Beauvoir, Mary Daly
si colloca alle origini prossime della teologia femminista. In quest’opera Daly, pur partendo da prospettive
opposte rispetto a quelle della filosofa francese, fu costretta ad ammettere il carattere veritiero e la fondatezza storica delle affermazioni di quest’ultima circa il
contribuito che il cristianesimo avrebbe fornito allo stato di oppressione della donna. A quel tempo la giovane
teologa riteneva che fosse ancora possibile riappropriarsi
dell’autentico messaggio cristiano, quello di liberazione e di speranza, contenuto nel Vangelo, ed è proprio in
virtù di ciò che, sulla scia del clima di profondo cambiamento e del senso di speranza che seguirono il Concilio Vaticano II, sostenne con coraggio ed estrema convinzione la necessità di un vasto programma di riforme
della dottrina e della prassi della Chiesa, che fosse in
grado di rispondere alle istanze di rinnovamento del
movimento delle donne. Quando nel 1969 fu sollevata
dall’incarico di docenza presso il Boston College di New
York, istituto tenuto dai gesuiti, non fu difficile ravvisare la causa di questa decisione nel contenuto del suo libro. La vicenda, che suscitò grandi proteste studentesche
e un forte richiamo mediatico, si concluse con una sua
reintegrazione nella mansione ad un livello più alto. Ma
a quel punto a Daly non restava che ammettere il fallimento del suo tentativo di aprire un confronto schietto e leale con la Chiesa romana, cui fece conseguire una
revisione delle posizioni precedentemente espresse e la
presa di coscienza del carattere utopistico di ogni tentativo volto a liberare le donne in nome del cristianesimo.
«Una donna che chiedesse la parità nella Chiesa –
avrebbe scritto nel 1975 – avrebbe potuto essere paragonata a un nero che chiedesse la parità nel Ku Klux
43
Klan». In Al di là di Dio padre, pubblicato nel 1973,
la sua riflessione si svolgeva già ai margini del pensiero tradizionale: quest’opera segna il suo congedo dal
cristianesimo e dalle sue istituzioni, e il conseguente approdo ad una spiritualità «post-cristiana». La sua accurata analisi dei simboli intrinsecamente sessisti del
cristianesimo (in primis quello di Dio Padre), rappresentò una sfida e una minaccia ai metodi più tradizionali del fare teologia. Di tali simboli denunciava il carattere parziale e idolatrico: usati per negare alle donne
una completa umanità e un accesso al divino, essi meritano di essere «castrati». Sosteneva in modo incisivo:
«Se Dio è maschio, il maschio è Dio». Rinunciando a
tutto ciò che è dato e «normato», fornì quindi il suo originale contributo al processo di «nominare Dio», optando per un linguaggio «dinamico», capace di essere
inclusivo dell’esperienza umana nella sua totalità, dunque veramente «antropo-morfo»: Dio è Verbo, Be-ing
(Essere), il verbo più dinamico di tutti, cui uomini e
donne partecipano in egual misura. Con la pubblicazione di Gyn/Ecology (1978) e Pure Lust (1984), si assiste ad un’ulteriore progressiva radicalizzazione delle
sue posizioni, che muovono in direzione di un vero e
proprio ribaltamento della prospettiva patriarcale, a favore di quella «gino-centrica» e del recupero del simbolo della dea, dietro il quale si intravede un processo
di liberazione totalmente al femminile.
In modi molteplici, che corrispondono alle diverse
posizioni assunte nel corso degli anni, Mary Daly ha
contribuito senza alcun dubbio a creare un’enorme libertà psicologica per le donne, alle quali mostrò la concreta possibilità di abbandono della Chiesa fornendo,
oltretutto, alternative accettabili. Fuori dai sacri rifugi
dei miti religiosi patriarcali, al di là di Dio Padre e della tradizione ebraico-cristiana, sulla sua scia un numero sempre più significativo di donne si costituì come
«minoranza conoscitiva» ed esplorò nuovi spazi alla ricerca di forme di spiritualità più consone alle loro esigenze e aspirazioni. La dinamica essenzialmente rivoluzionaria di queste femministe radicali le portò al di là
dell’uguaglianza, verso la liberazione e la «ridefinizione del potere», inteso come autoaffermazione di un essere a lungo alienato e definito come l’«altro» rispetto
all’«io» maschile. Unite dal patto di «sorellanza», che
implica la «liberazione della donna da parte della donna», fanno il loro ingresso in un nuovo «spazio-tempo
femminista», situato alle frontiere delle istituzioni patriarcali, dentro il quale è loro concesso di fare esperienza di se stesse e della realtà ultima cui partecipano.
le rubriche
marzo 2010
confronti
OPINIONE
Haiti:
i dannati della Terra
Giuliano Ligabue
C’è voluto il sisma
devastante
del 12 gennaio scorso
per far uscire Haiti
dall’ombra e metterla
– anche se per poche
settimane –
al centro
dell’attenzione
del mondo intero,
facendoci scoprire
la sua miseria
e la sua disperazione,
la dipendenza
dalle calamità
naturali
e l’asservimento
ai potenti di passaggio,
la prostituzione
minorile e la caccia
ai bambini.
S
e nel 1815 Simon Bolivar, «el libertador», vi mette piede per cercarvi armi e soldi con cui partire alla conquista della libertà di ogni schiavo d’oltreoceano, è perché quella terra – Haiti – è, ormai da
una decina d’anni, il primo stato indipendente dell’America Latina; anche se, poi, è solo apparentemente una repubblica e per nulla una fucina di rivoluzioni, governata com’è da un imperatore, Dessalines, schiavo nero proveniente dalle piantagioni del nord.
Di indipendenza, Haiti nella sua storia ne avrà tanta
quanto le concederanno i suoi continui «imperatori»,
neri o mulatti, americani o europei; e sempre insieme,
comunque, al controllo politico esterno degli occidentali – gli Stati Uniti per le Americhe, la Francia per l’Europa. Questo è il suo dato costante, che a governarla si chiamasse Dessalines o Toussaint L’Ouverture o Duvalier o
Aristide.
La ragione di tanta secolare attenzione e dominio
non è certamente economica. Si prenda una di quelle
carte assorbenti che si usavano un tempo a scuola, la si
stringa nel pugno e la si appoggi sul tavolo: questa è
Haiti: un territorio di poco più grande della nostra Sicilia e con il doppio della sua popolazione, accartocciato su se stesso, montuoso fino ad avvicinarsi ai tremila
metri, aspro nei suoi boschi radi e spellati. Neppure
l’ombra d’un qualche paradiso caraibico: solo un terzo
del suolo coltivato, poi canne da zucchero e sterpaglie;
strade sterrate e sassi; roccia e mare, con zatteroni alla
speranza di pesca; tante casupole di legno e qualche agglomerato con la presunzione di essere cittadina; e Portau-Prince, ammasso disordinato di costruzioni con tentacoli di bidonvilles e, nel suo ventre, un terzo della popolazione di tutta l’isola. La popolazione è straripante
di bambini, perché la vecchiaia è una possibilità reale
per pochi, decimata com’è dalla fame endemica, dalla
denutrizione, dalle malattie infettive, dall’Aids; è privata dello strumento della parola, per l’analfabetismo che
cresce negli anni; le manca la speranza di sollevarsi dalla terra, come si legge nello sguardo del tagliatore di
canne in direzione della vicina Cuba, quasi un miraggio. Insieme a tutto questo, una popolazione dalla atavica incapacità di scuotersi dalla miseria, di mettersi insieme e di ribellarsi. Rappresentazione efficace di quello che è stata e continua ad essere Haiti può essere considerata la dittatura dei Duvalier, non ancora così lontana nel tempo. Per quasi trent’anni e fino al 1986 Papà
Doc e, a seguire, il figlio Jean-Claude hanno fatto strame, indisturbati, di questo popolo e di questa terra: la
desertificazione delle montagne e l’inagibilità del terri-
44
torio; l’assenza di vie di comunicazione e di mezzi di
trasporto; la mancanza di ospedali e di tutele sanitarie;
il lavoro mercenario e servile; l’uso della stregoneria
voodoo per incatenare gli spiriti; la vita svuotata di valore, se si poteva uccidere e abbandonare i corpi sulla
strada. E, per giocare con il terrore, far sapere di essere
morto e poi risorgere il giorno dopo, eliminando gli avversari; per stordire le menti, moltiplicare le occasioni
di un carnevale nazionale; per controllare tutto, in ogni
angolo e anfratto, fare stazionare gli uomini-spettro
(«tontons macoutes») con volto coperto, sciarpa rossa,
occhiali da sole e, in mano, il machete.
Haiti è stata ed è l’isola dei dannati della Terra, quelli
di cui scriveva mezzo secolo fa Frantz Fanon, proveniente dalla vicina Martinica, anche lui da schiavi africani.
C’è voluto il sisma devastante del 12 gennaio per farcene
parlare e scoprire la sua miseria e la sua disperazione, la
dipendenza dalle calamità naturali e l’asservimento ai
potenti di passaggio, la prostituzione minorile e la caccia
ai bambini. Bambini che sono tanti perché mancano gli
anziani; che non sono «angeli», come nella melensa retorica dei nostri rotocalchi, ma creature dagli occhi grandi e senza lacrime. Creature destinate a essere dannate.
Abbiamo vissuto settimane di rincorse a essere i primi negli aiuti: Stati Uniti e Francia a contendersi la prelazione, ancora una volta; Chavez e Castro, guardinghi da vicino; noi occidentali, anche con supervisori alla Bertolaso. Gli aiuti internazionali non possono e non devono
mancare, ma non c’è bisogno di corsa al primato del
buon cuore; soprattutto va evitata la retorica della compassione e del fervore: «Il fervore è l’arma preferita degli
impotenti», scriveva Fanon, parlando dei suoi dannati.
Cosa, allora? Torna alla mente la figura di padre Riou,
sacerdote belga che, nella località di Les Cayes a sud di
Port-au-Prince, alla fine degli anni Sessanta e imperante Papà Doc, aveva dato vita a una comunità di haitiani
e volontari franco-belgi – agronomi, infermieri, alfabetizzatori – guardati a vista dai tontons macoutes, insospettiti dalle attività sovversive che si intravedevano: riunioni intorno a pezzi di terra, per insegnare a recuperarli alla produzione contadina; raccolta delle donne dei
dintorni, per istruirle sulle difese sanitarie e addestrarle
al parto autonomo; staffette nei villaggi per fare provare
ai bambini il piacere e l’importanza della lettura e della
scrittura. E questo padre Riou che tutto accompagnava e
su tutti martellava la sua frase franco-créola: «mettòn
ensèm!». Questa, probabilmente, è la via maestra da seguire. Si aiutino gli haitiani a «mettersi insieme», se li si
vuole davvero salvi dalla dannazione.
le rubriche
marzo 2010
«Tra le nuvole»
di Jason Reitman
con George Clooney, Vera Farmiga,
Anna Kendrick, Jason Bateman, Danny McBride
Usa 2009
CINEMA
Se il tagliatore di teste
si toglie la corazza
Umberto Brancia
Ryan Bingham,
il protagonista
di «Tra le nuvole»
di Jason Reitman,
è uno di quei tecnici
chiamati dalle aziende
in crisi per licenziare
i dipendenti giudicati
in esubero.
Per riuscire
al meglio nel suo
lavoro, si è dovuto
costruire una corazza
psicologica che lo rende
impermeabile
ai rapporti umani.
Ma a un certo punto
la sua coscienza
comincia a risvegliarsi.
confronti
S
in dall’avvento del sonoro, nel cinema americano la commedia è stata un genere narrativo
capace di interpretare i sogni e gli incubi
dell’uomo medio anticipando le tendenze della
società. Temi come i cambiamenti della coppia e l’ambiguità sessuale sono stati raccontati da registi come
Howard Hawks e George Cukor (Susanna, 1938; La costola di Adamo, 1949), o quello della povertà da Preston Sturges (I dimenticati, 1941).
Negli ultimi decenni, con l’avvento della società urbana e della metropoli, viene a volte affrontato un argomento centrale nella nostra vita concreta: il tempo,
il modo come ci opprime nel lavoro o come lo perdiamo inutilmente nel consumo. Basti citare, tra i tanti,
molti film di Jerry Lewis o quel Ricomincio da capo
(1993) di Harold Ramis, divenuto con gli anni un piccolo mito. In quella commedia, un cinico presentatore televisivo, che curava una rubrica di meteorologia,
si trovava invischiato in una bolla temporale, costretto
a ripetere ogni giorno le stesse situazioni della propria
vita. Con una faticosa presa di coscienza imparava –
alla fine – a usare le proprie giornate con un altro ritmo, cambiando la propria visione morale.
Anche Ryan Bingham, il protagonista di Tra le nuvole (2009) di Jason Reitman, usa il proprio tempo in
un modo singolare: il suo tipo di lavoro condiziona in-
45
teramente il rapporto che stabilisce con gli uomini. È
un «tagliatore di teste», uno di quei tecnici chiamati
dalle aziende in crisi per licenziare i dipendenti giudicati in esubero.
Si muove in tutte le aree del paese, trascorrendo la
maggior parte del proprio tempo in aereo e sulle poltrone delle sale d’attesa. Orgoglioso della propria abilità, si è costruito una corazza psicologica, che lo rende impermeabile ai rapporti umani.
È affetto dalla stessa anoressia emotiva del protagonista di Ricomincio da capo: negli esseri umani che
gli capitano di fronte, non sa vedere altro che dei numeri. La sua unica preoccupazione è quella di conquistare i premi e i privilegi economici previsti per i successi raggiunti: ovvero quando riesce
a cacciare più persone possibili dal
proprio posto di lavoro.
Tenta di convincersi che si possano
vivere i rapporti
umani senza pesi.
Vuole
muoversi
nell’esistenza leggero come viaggia tutto l’anno sugli aerei, con pochissimo
bagaglio. Ma muoversi nella vita concreta degli uomini è
più complicato: come accade spesso
nel cinema americano, saranno due
donne ad aprire
varchi dolorosi nella sua coscienza.
Costruito con rigore – attori efficacissimi, battute taglienti, tra cinismo e melanconia – il film di Reitman
ha i modi e la tecnica di un prodotto di genere e cerca
apertamente il consenso del grande pubblico.
Ma tra le pieghe di una narrazione elegante emerge
un’angoscia autentica per la vita che ogni giorno conduciamo nel mondo del lavoro e nelle strade della città.
Osservate la compassione dolorosa con cui il regista lavora sui volti degli impiegati che vengono licenziati:
una sfilata di caratteri imperdibile che vi farà amare
questo film.
le rubriche
marzo 2010
Adnane Mokrani
«Leggere il Corano a Roma»
Collana Strumenti di pace del Cipax n. 18
Icone Edizioni, Roma 2010
176 pagine, 14 euro
(per informazioni e acquisto: [email protected])
LIBRO
La lettura del Corano
e le domande del nostro tempo
Giorgio Piacentini
Come leggere
il Corano,
rivelato quattordici
secoli fa, qui e ora?
La volontà di Dio
e la sua Parola
sono infatti incarnati
nella storia e il lettore
oggi può accogliere
quello che la sua
capacità di ascolto
gli permette,
in funzione della sua
maturità spirituale.
Le diverse letture
analizzate da Mokrani
ci guidano verso
una ricerca di senso,
sempre necessaria
per accogliere
la Parola.
confronti
«
F
orse ho trovato un fratello, ma non è stato
partorito da mia madre». Con questo modo
di dire arabo apre la sua prefazione al libro
di Adnane Mokrani, Leggere il Corano a
Roma, Paolo Branca, professore alla Cattolica di Milano, da anni impegnato nel faticoso ma appassionante lavoro della comunicazione interculturale e interreligiosa con l’islam.
Il libro offre una prospettiva nuova al tema così attuale e delicato dell’incontro tra cultura musulmana
e cultura cristiana.
La novità si trova in primo luogo nella biografia
stessa dell’autore, che dalla città di Tunisi, dove è nato nel 1966 e dove ha conseguito un dottorato in teologia islamica, è arrivato a Roma nel 1998, passando attraverso Costantina e Algeri, dove il Corano gli è
stato «rivelato» tramite l’educazione familiare e lo
studio. A Roma Mokrani ha trovato un ambiente accogliente nel Centro Giovanni XXIII tra molti studenti stranieri, poi nella Pontificia Università S. Tommaso d’Aquino (Angelicum) dove ha studiato. Al
Pontificio istituto di studi arabi e di islamistica (Pisai), ha conseguito un secondo dottorato, completando così la sua formazione cresciuta tra due mondi così diversi. Divenuto docente alla Pontificia Università gregoriana e al Pisai, ha lavorato anche in
ambienti laici presso le agenzie di stampa Adnkronos
e Agi e nel Consiglio per la redazione e la promozione della «Carta della cittadinanza e dell’integrazione», costituito dal ministro Amato (2006-2008).
Il libro può quindi essere letto a due livelli: quello
dell’esperienza e del coinvolgimento personale
dell’autore e quello della ricerca attenta ed approfondita, sulla base delle sue competenze scientifiche, due piani che si nutrono a vicenda per la gioia
del lettore.
Così i temi si dipanano tra il racconto del suo «pellegrinaggio dialogico» e la mistica del dialogo con
un’incursione importante nel confronto tra la grande mistica musulmana Rabi‘a al-‘Adawiyya (VIII secolo) e Angela da Foligno (XIII secolo) autrice del
bellissimo «Liber». Le «prove d’interpretazione» affrontano una lettura innovativa del Corano sulla base dell’approccio della comunità sapienziale Sufi, come antidoto al fondamentalismo e al letteralismo.
L’ermeneutica coranica è il nodo cruciale. Come leggere il Corano, rivelato quattordici secoli fa, qui e
ora? La volontà di Dio e la sua Parola sono infatti incarnati nella storia e il lettore oggi può accogliere
46
quello che la sua capacità di ascolto gli permette, in
funzione della sua maturità spirituale. Le diverse letture analizzate da Mokrani (legalista, razionale e con
il cuore) ci guidano verso una ricerca di senso, sempre necessaria per accogliere la Parola; il metodo proposto si basa sulla «carità ermeneutica» senza trascurare le domande del nostro tempo.
Un altro tema affrontato è quello della sofferenza:
dietro la cultura e le religioni c’è sempre l’esperienza esistenziale. Anche la vita del Profeta Muhammad
ne è stata toccata. Ogni passaggio attraverso il dolore è un parto per dar nascita a una nuova vita: ne è
un esempio anche il parto di Maria, che dà all’autore il destro per un’analogia con la passione e resurrezione di Cristo.
Un capitolo fondamentale è quello dedicato al pluralismo religioso nel Corano, che permette di sciogliere i nodi di un’interpretazione esclusivista e fondamentalista del libro rivelato. Secondo Mokrani la
pluralità delle religioni rientra nel disegno di Dio:
«Ognuno ha una direzione verso la quale volgere il
viso, gareggiate nel bene» (Corano 2: 148). Il Corano stesso invita i seguaci dell’ebraismo e del cristianesimo a vivere pienamente le loro scritture.
Il capitolo «guerra e pace» approfondisce le ombre
della violenza (razzismo, crimine fraterno, violenza
contro l’ambiente e contro le donne), mentre alla
condanna del terrorismo è dedicata la bellissima lettera inviata a Ragheed Ganni, compagno di studi
all’Angelicum, sacerdote caldeo iracheno, ucciso con
tre suddiaconi davanti alla sua chiesa di Mossul.
L’itinerario si conclude con una risposta alle sfide
della modernità e della democrazia. Esse richiedono
alla religione riforme coraggiose e profondi aggiornamenti, che debbono toccare i sistemi culturali per
proporre forme di maturità civile e arrivare alla cittadinanza completa. È un percorso ricco di ostacoli
ma anche di opportunità, in cui diventano centrali i
temi della laicità, della democrazia e dell’integrazione, per ottenere la quale l’islam europeo dovrà lavorare molto sulla formazione scolastica e su quella religiosa.
Dice ancora Paolo Branca: «Queste pagine faranno un gran bene a chi vi si accosterà, proprio perché
nascono non soltanto da una riflessione seria e pacata, ma da una vita vissuta con mente sgombra,
cuore aperto e mani impazienti di rendersi utili».
Quindi, buona lettura!
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3/MARZO 2010
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risposta sul terremoto
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prefazione Giuseppe Giulietti
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edizioni com nuovi tempi - marzo 2010 - chiusura di redazione: 23 febbraio 2010
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2010
Associato alla Unione Stampa
Periodica Italiana
SOSPESI DUE SERVIZI DI «PROTESTANTESIMO» (RAIDUE)
PERCHÉ TROPPO POLITICI IN PERIODO PRE-ELETTORALE
I servizi su Rosarno e sulla Costituzione, che dovevano andare in onda lunedì 22
febbraio, sono stati considerati «troppo politici» in questo periodo pre-elettorale.
Le recentissime norme in materia di informazione pubblica stabiliscono che fino
al 12 aprile i programmi televisivi non riconducibili ad una testata giornalistica
«non possono trattare temi di evidente rilevanza politica ed elettorale».
Il presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, pastore Massimo Aquilante, amareggiato
per l’accaduto, in un editoriale in onda il 22 febbraio su «Protestantesimo», ha dichiarato: «In tempo di campagna elettorale non si può evidentemente parlare né di Rosarno né della Costituzione. La Fcei aveva deciso
di dedicare la “Settimana della libertà” degli evangelici, quando si ricorda l’emancipazione dei valdesi del
17 febbraio 1848, alla questione dell’immigrazione, e in particolare ai fatti avvenuti a Rosarno. Da quella tristissima vicenda è emerso un problema di libertà e di diritti fondamentali che riguarda il paese nel suo complesso. Da decenni le Chiese evangeliche sono fortemente impegnate nel campo dell’accoglienza agli stranieri, e in una direzione ben precisa: quella della costruzione di esperienze di integrazione. Poiché non si
può parlare di immigrazione senza parlare contemporaneamente di politiche di immigrazione, come non si
può parlare di Costituzione senza fare riferimento agli attacchi cui è soggetta negli ultimi tempi, dovrete aspettare, cari telespettatori, la fine della competizione elettorale per poterli vedere».
La redazione di «Protestantesimo», che è una trasmissione della Rai, ma a cura della Fcei, ha deciso di mandare in onda più in là questi servizi, perché come dice il presidente Aquilante: «Per noi protestanti la confessione della fede non può che essere strettamente legata alle questioni fondamentali della vita: la libertà, la
democrazia, la giustizia. La fede non è soltanto un sentimento da esprimere la domenica in chiesa, ma è un
impegno a vivere l’evangelo della grazia e della liberazione in Cristo nelle cose di tutti i giorni che riguradano tutti: un messaggio da confrontare criticamente con la realtà personale, ma anche sociale e politica ,
del nostro tempo».
ELEZIONI REGIONALI
NELL’ITALIA BERLUSCONIZZATA, VOTARE È UN DURO
MA NECESSARIO OBBLIGO MORALE E CIVILE
MUSULMANI
FA DISCUTERE IL NUOVO COMITATO PER L’ISLAM ITALIANO
CHIESA CATTOLICA
PIO XII E GIOVANNI PAOLO II PRESTO BEATI. LA VISITA
DI BENEDETTO XVI IN SINAGOGA VISTA DAL MONDO EBRAICO
IRAN
STESSE BUGIE COME GIÀ ACCADUTO IN IRAQ?
SOCIETÀ
IL BELPAESE TRA RAZZISMO E MORTI BIANCHE
RUBRICHE
OSSERVATORIO SULLE FEDI, NOTE DAL MARGINE,
OPINIONI, CINEMA, LIBRO