La voce di Karl Barth - Giornale Critico di Storia delle Idee

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La voce di Karl Barth - Giornale Critico di Storia delle Idee
Anarchismo nel cristianesimo? La voce di Karl Barth
di Enrico Cerasi
I.
Mi domando quanto a fondo incida il caso nostra vita. Pirandello chiamava sé stesso
«figlio del Caos» [1], e la consapevolezza di quanto profondamente degl'avvenimenti
casuali possano trasformare un'intera esistenza appare in film di successo come Match
point di Woody Allen (2005), o ancor piú radicalmente in Toto l'Héro di Jaco van Dormael
(1991).
Ma io pensavo a cose piú piccole, come a un libro che inaspettatamente ci capiti sotto
gl'occhi in libreria. Pensavo in particolare al libro di Jacques Ellul, Anarchie et
Christianisme, la cui lettura mi ha costretto a riformulare alcune idee che avevo in mente.
La tesi di Ellul – anarchico di fede politica, evangelico-riformato di fede religiosa – non
manca di chiarezza: la religione ebraico-cristiana ha una forte vena anti-conformista e
contestatrice di ogni potere stabilito, che nelle Scritture ebraiche si esprime ad esempio
nella refrattarietà di Samuele a ungere un re d'Israele, nel movimento profetico e nella
pessimistica saggezza Ecclesiaste; nel Nuovo Testamento, nel comportamento di Gesú di
fronte al potere (un comportamento che esprime «ironia, disprezzo, “non cooperazione”
e, talvolta, accusa» [2]), nell'aperta contestazione del Veggente, nella chiamata al nonconformismo di Paolo. I cristiani delle prime generazioni – quelli che Celso chiamava
«nemici del genere umano» - rimasero fedeli a questo anarchismo ante-litteram,
sottraendosi al servizio militare e in generale disinteressandosi dell'impegno politico.
Tutto, o quasi, cambiò con la famosa e in gran parte mitica conversione di Costantino;
già il Sinodo di Arles del 314, convocato dallo stesso imperatore (non ancora battezzato,
come amava precisare John H. Yoder!), revocherà quasi tutto, scomunicando i soldati
che rifiutino il servizio militare o si ribellino ai superiori.
Leggendo queste pagine, certamente provocatorie, mi sono tornate alla mente alcune
affermazioni del filosofo dello Zarathustra:
La buona novella è che non esistono piú contrasti; il regno dei cieli appartiene
ai fanciulli […] Una tale fede non si sdegna, non rimprovera, non contrasta:
non porta la spada.
L'annunciatore di questa buona novella? Un santo anarchico, negatore della nozione stessa
di colpa e castigo. «Si potrebbe, usando quest'espressione con una certa tolleranza,
chiamare Gesú uno “spirito libero”» [3].
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Non raramente queste parole hanno senz'altro involontariamente contribuito ad
avvalorare il progetto di cristianizzare il discepolo del dio Dioniso, o almeno di
avvicinarlo alla liberale “religione di Gesú”, nell'ennesima crociata contro il dogmatismo
paolino [4]. Il santo anarchico, il quasi-spirito-libero contro l'esponente del risentimento
ebraico, della spietata «logica dell'odio» [5]? In summa: deus, qualem Paulus creavit, dei negatio
[6].
Non ho mai creduto alla bontà di un tale esercizio. Mi pare che si dovrebbe prendere piú
sul serio il pathos anti-cristiano che pervade gran parte dell'opera di Nietzsche, e in
particolare quella degli ultimi anni della sua vita. Quanto alla definizione di Gesú quale
«santo anarchico», sappiamo bene che la parola «anarchico» non suonava sempre come
un complimento alle orecchie del filosofo. Nella Volontà di potenza, ad esempio, il
carattere anarchico-eversivo dei primi cristiani è usato come un argomento contro il
cristianesimo. «Il cristianesimo primitivo è abolizione dello Stato: vieta il giuramento, il
servizio militare, i tribunali, l'autodifesa e la difesa della comunità» [7]. - Il Nuovo
Testamento va letto come sintomo di una mentalità corrotta!
Si dirà che Nietzsche aveva poca attitudine alla coerenza, e certamente nessuna per la
sistematicità: è questo l'argomento consueto di chi vuole liberarsi delle sue pagine
(magari per stigmatizzare subito dopo l'eccessiva sistematicità di Hegel). Eppure nella
sua mente baluginarono pensieri folgoranti, intuizioni esatte e feconde, che chiedono di
essere accolte - non in un sistema, tanto meno nietzschano – aggettivo quanto mai
improbabile, come credo si sappia. Comunque sia, vorrei tornare alla questione
dell'anarchismo del cristianesimo, sia pure in un modo diverso da quello seguito da Ellul.
Per circoscrivere i termini del problema, farò riferimento al pensiero di Karl Barth, un
teologo riformato che Ellul considera tra i maggiori del secolo scorso (ma io mi spingerei
piú oltre), che egli stesso stima ma che ritiene irrimediabilmente compromesso con il
potere statale.
Forse c'è del vero in questo giudizio, ma occorre esaminare la cosa con piú attenzione.
Occorre partire almeno dagl'anni della sua rottura con la teologia liberale seguita alla crisi
del '14, quando Barth andò spasimosamente alla ricerca d'ogni possibile aiuto per
liberarsi della cultura appresa in Germania da Harnack, Hermann ecc.; una cultura
fiduciosa nel progresso, nella ragionevolezza, nel senso storico, nella morale e di molte
altre cose, tutte perfettamente armonizzabili, naturalmente, con un cristianesimo
moderno, non dogmatico e liberale; una cutura che ai suoi occhi aveva fatto completa
bancarotta aderendo del tutto acriticamente (nonostante il tanto vantato metodo
storico-critico) alla politica imperialista della Germania. Cosí s'imbatté, oltre che in
Dostoevskij e in Kierkegaard e in altri ancora, anche in Nietzsche e nel suo amico
Overbeck, nei quali cercò possibilità di pensiero alternative al dogma storicistico.
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Non è il caso, in questa la sede, di tornare sull'influenza di Nietzsche in Barth [8]. In ogni
caso ne venne un imprevedibile ed esplosivo commento alla lettera ai Romani, che
scandalizzò gran parte dei suoi ex maestri non solo per la disinvolta mancanza di
strumenti storico-critici (che Barth, in quanto teologo formato a Berlino e a Marburgo,
doveva conoscere), ma anche per la confusione di scienza e pulpito che, come Max Weber
aveva chiarito nella celebre conferenza del '17 e come ripeterà von Harnack in un
pubblico scambio epistolare con l'ex studente, sembrava pericolosamente foriera di
nuovi entusiasmi che avrebbero ottenuto l'unico risultato di compromettere la teologia
accademica. Piú precisamente, al monito perentorio di Weber secondo cui «il profeta e il
demagogo non si addicono alla cattedra universitaria» fa eco la vibrante accusa di von
Harnack a Barth:
Lei tramuta la cattedra teologica in pulpito (e vuole rendere partecipi le facoltà
profane di ciò che significa “teologia”); io Le predico, sul fondamento del
corso di tutta la storia dellachiesa, che questa impresa non porta alla
costruzione, ma alla distruzione [9].
Ma siamo corsi troppo avanti, già al '23! Torniamo agl'anni che seguirono la crisi del '14,
quando - incurante della ben diversa tendenza del mondo accademico (al quale, per altro,
fino ad allora non apparteneva) - Barth si chinò sul testo paolino, chiedendo all'Apostolo di
parlare al suo tempo, facendo risuonare ancora una volta la Parola che Dio ha promesso
di rivolgere al mondo. E il suo era un tempo scosso dall'immensa tragedia della Prima
Guerra Mondiale - «la fine di tutte le vie», come la descrisse all'amico Thurneysen; o
almeno della teologia liberale di Harnack e compagni, e della Seconda Internazionale.
Barth, prima della Guerra, aveva creduto a entrambe, nella convinzione che socialismo e
cristianesimo liberale, in ultima istanza, fossero conciliabili [10].
Che cosa avesse da dire Dio a un mondo segnato dalla fine della cultura borghese e
attraversato da impetuosi tentativi rivoluzionari, Barth lo scrive tra l'altro nel commento
al capito tredicesimo dell'Epistola. Capitolo quanto mai indigesto per chi non schieri
con il potere stabilito, giacché, scrive l'Apostolo
non vi è autorità se non da Dio: e le autorità che esistono sono stabilite da
Dio. Perciò chi resiste all'autorità si oppone all'ordine di Dio; quelli che vi si
oppongono si attireranno addosso una condanna (Rom. 13, 1 ss.).
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In altre parole, lo Stato, con tutto il suo carico di violenza e oppressione, di esercito e di
magistratura, di burocrazia e d'imposizioni fiscali, sembra voluto e legittimato dal Dio di
Paolo (e di Barth).
È davvero cosí? Gran parte della teologia occidentale, compresa quella protestante, ne è
convinta; per Barth invece «Lo Stato di potenza attuale è diametralmente opposto alle
intenzioni divine: è in sé cattivo» [11]. È un idolo che assomiglia molto da vicino alla
bestia descritta in Apocalisse 13. E non c'è alternativa: «Lo Stato-di-“diritto” non è
migliorabile» [12]. Piú radicalmente: «Se il male […] ha il potere sulla terra, allora ogni
potere – comunque esso si chiami – che non sia emerso da una nuova unificazione
dell'uomo con Dio (Matteo 7, 29) potrà essere solo cattivo» [13].
Che fare, allora? Separarsi dallo Stato, ovvero dall'intera sfera della politica, come fecero
parte delle chiese anabattiste storiche e come ripete oggi Ellul? La cosa potrebbe
sembrare plausibile. «Come cristiani voi non avete nulla a che fare con lo Stato fondato
sul potere. Come cristiani non gli appartenete affatto» [14]. «Ogni politica, in quanto lotta
per il potere, in quanto arte diabolica per ottenere la maggioranza, è fondamentalmente
sporca» [15], per cui «tutta la politica in sé, in quanto cristiani, non vi riguarda» [16]. Lo
Stato dei cristiani è nei cieli (Fil. 3, 20): conviene «abbandonare l'intero ambito di ciò che
è penultimo al processo di dissoluzione» [17].
Si aggiunga che tutto questo non significa rinuncia alla rivoluzione. Per meglio dire, si
tratta di puntare lo sguardo a una «rivoluzione assoluta a partire da Dio» [18]. Barth non
chiede di acquistare il biglietto per qualche zona desertica dove contemplare in pace il
«totalmente Altro» ma di agire politicamente all'interno di questo Stato, di questa società,
che pure è l'esito dell'ira di Dio, della Sua mano sinistra, della Sua opera aliena .
Abbiamo parlato di ira di Dio contro i peccatori. Ma i cristiani credono nel perdono dei
peccati – e quindi anche dei «peccati politici». Il vangelo secondo Barth è suona cosí:
I vostri peccati, anche i vostri peccati politici, vi sono rimessi […] nonostante
il male che in tutti i casi dovete da loro attendervi, nonostante il male in cui in
tutti i casi vi coinvolgeranno [19].
Il fatto è che i cristiani agiscono per un'altra politica, che - se si ha fede nel Dio di grazia
– è assolutamente piú radicale di ogni troppo umana rivoluzione. Ciò genera una politica
paradossalmente impolitica che Barth non esita a qualificare (siamo nel 1919!...) come
«piú che leninismo»: «È qualcosa di piú del leninismo» perché «non entra [come i
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marxisti rivoluzionari] in concorrenza con lo Stato, lo nega [20]». Nega quel «dio
mortale» che, almeno da Hobbes in poi, ha agitato le notti (e i giorni) dell'Europa
smascherando il carattere idolatrico del velo che copre l'evidente ossimoro
dell'espressione. Ciò che è mortale non può essere divino!
A ben vedere, quindi, c'è un programma politico da attuare: «Dovete affamare
religiosamente lo Stato, dovete negargli il pathos, la serietà e l'importanza del divino» [21],
ricordando che «il mondo è mondo», ovvero che la sfera dell'umano è totalmente altra da
quella di Dio [22]. Solo allora sarà possibile, e doveroso, prendere parte alla vita politica
di uno Stato in disfacimento - «pagare all'etica il suo tributo», entrare negli ordinamenti
di questo mondo [23], collocandosi tuttavia all'«estrema sinistra» per via di una spiccata
«predilezione per le “cose basse”» [24]. I cristiani non entrano nell'agone politico per
imporre la «forma politica» di una Chiesa, né quella cattolico-romana prediletta dal
giovane Schmitt [25] né quella ginevrina; piuttosto, si deve agire come socialdemocratici (non
come religioso-sociali o socialisti cristiani) nella società guardando – come cristiani – alla
rivoluzione veniente di Dio:
Ma proprio perché non assumiamo nessun rapporto positivo con lo Stato,
proprio perché esso […] è per noi la struttura problematica di un mondo in
disfacimento, proprio per questo noi possiamo non prendere talmente sul
serio tutto ciò che di notevole esso esige anche da noi da doverci impegolare
in una polemica al riguardo con esso. Lo combattiamo alle fondamenta, in
maniera radicale e … paghiamo le tasse, diamo a Cesare quel che è di Cesare,
entriamo nei partiti, compiamo le funzioni che, per dovere, ci toccano all'interno
del quadro, non ancora spezzato, nel politico (e, purtroppo, anche del
politico-ecclesiale). Riconosciamo che lo Stato, nella sua sfera, ha il diritto di
pretenderlo – ed è questo il fine cui miriamo – allora esso non avrà neanche
questo diritto, poiché allora esso non esisterà piú. […] Iniziative da cittadini
dello Stato e obbedienza da cittadini dello Stato, ma nessuna commistione di
trono e altare, nessun patriottismo cristiano, nessuna intenzione di crociata
democratica. Sciopero e sciopero generale e lotta per le strade, se cosí non
può non essere, ma nessuna giustificazione religiosa di ciò! [26]
II.
Barth non fu soddisfatto della sua opera, che pure – inaspettatamente e non senza
conflitti interiori - gli aprí la strada d'una quarantennale carriera universitaria. Tornò a
chinarsi sul testo paolino e nel '21 diede alle stampe la seconda edizione dell'opera,
completamente diversa dalla precedente (non ne era rimasta pietra su pietra, dichiara
l'autore nella prefazione). In un testo che ha fatto pensare a una Kierkegaard renassaince (il
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rapporto tra Dio e l'uomo è metaforizzato da una retta tangente il cerchio: un attimo, un
evento reale, sí, ma completamente inafferrabile, se non per fede soltanto), anche il
commento al capito tredicesimo risulta trasformato.
Barth risiede in Germania; sono gli anni della Repubblica di Weimar, che egli difende
dagli attacchi da destra e da sinistra [27]. Cosí non parla piú di «piú che leninismo», come
non trovano spazio appelli allo sciopero generale. Quanto alla rivoluzione, se ne parla
solo per negarne la legittimità; forse non la legittimità politica, ma certamente quella
teologica. Il comunista, l'uomo rivoluzionario, il leninista, ha torto proprio perché in
fondo ha ragione: ragione di fronte agli uomini, ai borghesi, ai reazionari con il loro
Stato, ma torto davanti a Dio, giacché troppo grande è il rischio di confondere umano e
divino, di dimenticare che il posto dell'Altissimo è già occupato, che qualsiasi rivoluzione
umana sarà sempre troppo umana. In summa, il rivoluzionario è un nuovo Prometeo - non
accetta di stare nella crisi permanente di tempo ed eternità, di sostare in quel luogo
paradossale – l'attimo – in cui nella crisi dell'umano traluce negativamente l'evento di
Dio.
Il Römerbrief è un libro affascinante, anche se non di facile decifrazione. Almeno un
punto, però, è chiaro: il diverso atteggiamento riguardo allo Stato, che ora sembra venir
legittimato dalla radicale delegittimazione di ogni pathos rivoluzionario. «Noi diciamo:
Non rivoluzione! Con questo abbiamo già detto implicitamente anche: Non-legittimità. Ma
abbiamo le nostre ragioni per non dirlo esplicitamente» [28]. Poiché ogni rivoluzione
non è che hybris, l'hybris furiosa della negazione dell'esistente (si ricordi la definizione
marxiana del comunismo «movimento reale che nega lo stato di cose presenti»), essa non
è che tentativo di auto-giustificazione di fronte a Dio.
Il rivoluzionario si è sbagliato: egli aveva in mente quella rivoluzione, che è la
possibilità impossibile, la remissione dei peccati, la resurrezione dei morti.
Questa è la risposta all'oltraggio contenuto nell'ordine esistente come tale.
Gesú è il vincitore! [29]
L'unica azione è negativa – la «non-attività» riguardo allo Stato [30] . Sembra seguirne –
tralasciando le pagine sull'agape, la «grande possibilità positiva» - una fin troppo luterana
(soprattutto per un calvinista) apologia dello status quo, un severo monito al
rivoluzionario a «non agire» per la rivoluzione.
È pur vero che lo status quo negl'anni '20 in Germania era la Repubblica di Weimar, non
il nazional-socialismo del quale Adorno scorgerà l'ombra negl'incubi della sua infanzia. È
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vero inoltre che, come nella prima edizione dell'opera, Barth si rivolge con tanta
inistenza al rivoluzionario perché questi, ex parte hominis, sembra avere la ragione politica
dalla sua parte.
Perché proprio all'uomo rivoluzionario? […] Rispondo: perché è poco
verosimile che sul terreno dell'Epistola ai Romani si diventi un uomo
reazionario. […] Si può perfino dire che il titanismo rivoluzionario, appunto
perché nella sua origine si avvicina tanto maggiormente alla verità, è tanto piú
pericoloso e empio che quello reazionario [31].
In ogni caso, pagine come queste hanno spinto Ernst Bloch a vedere nella teologia
barthiana l'apologia dello status quo. Barth, questo «strano amico-nemico dell'uomo», un
«reazionario assoluto [che] considera ogni attività umana (Stato e Chiesa compresi) alla
stregua di semplici cose create, collocandole nella sfera piú bassa in rapporto all'attività
divina» [32]! Non del tutto diversa è la testimonianza di Karl Löwith, che ricorda come
negli anni '20 in Germania moltin avessero scorto nelle pagine del Römerbrief una
negazione della civiltà analoga a quella del Tramonto dell'Occidente di Spengler [33].
III.
È cosí? Barth, per la verità, rabbrividiva al pensiero di venir paragonato a Spengler e a
essere onesti – come Bloch sapeva bene - non fu mai un reazionario [34]. In particolare
non lo fu nel corso degli anni '30 e '40, quando si oppose con energia e coraggio al
nazismo, rifiutando di prestare giuramento a Hitler e – una volta licenziato dalla cattedra
di Bonn ed espulso dalla Germania – lavorando per la Bekenntnis Kirche, ovvero quella
parte della chiesa protestante tedesca fortemente impegnata non solo nella denuncia dei
Cristiano-Tedeschi (un movimento ecclesiale dell'estrema destra, che vedeva in Hitler un
sorta di nuovo Ciro inviato da Dio per risollevare il popolo tedesco) ma piú in generale
del compromesso auspicato (e realizzato) da tutte le chiese con lo Stato nazista [35].
Alla base dell'azione politica di Barth in questi anni vi era la convinzione che lo Stato
nazista fosse una demoniaca perversione dello Stato. In una lettera al pastore riformato
Hromadka di Praga, Barth – con grave scandalo di molti – arriverà a scrivere che «ogni
soldato ceco che combatterà [contro l'esercito nazista] e soffrirà, lo farà anche per noi
[…] e per la Chiesa di Gesú Cristo» [36]. Nel corso della Seconda Guerra Mondiale mise
egli stesso in pratica quest'esortazione, arruolandosi volontario - lui, un uomo ormai
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cinquantenne - nell'esercito svizzero, pronto a difendere il proprio Paese dall'eventuale
aggressione tedesca. (Ciò nonostante il governo e le autorità svizzere – desiderose di
mantenere in ogni modo buoni rapporti con la Germania - non gradirono affatto i
servigi di Barth, il quale, a partire dal '42, fu attentamente sorvegliato: il suo telefono fu
messo sotto controllo, e a lui fu impedito di esprimersi in pubblico [37]).
Non si trattava solo della difesa della democrazia. La lotta contro lo Stato
nazionalsocialista gli sembrava la volontà di Dio per il suo tempo, alla quale ogni
cristiano doveva obbedire. In altre parole, il nazismo non era solo un avversario politico;
era un'eresia religiosa, contro la quale la Chiesa doveva prendere posizione! L'opposizione
al nazismo era per Barth uno status confessionis, non una semplice questione politica [38].
Fare di una questione politica uno status confessionis è una decisione impegnativa, che
comporta alcune conseguenze teologiche piuttosto serie, che vennero discusse anche da
parte di teologi per altri versi vicini a Barth, come ad esempio Eberhad Jüngel. Dal
punto di vista storico, tuttavia, non è difficile tradurre la teologia barthiana dagli anni
'20 in poi nei termini dell'ideologia social-democratica; né sembra mancare di coerenza
con le vicende storiche che vanno dalla Repubblica di Weimar alla Seconda Guerra
Mondiale, che videro la parte principale del movimento operaio schierarsi con le forze
democratiche anti-fasciste. E anche quando, negli anni che seguirono la Gurra, si
rifiuterà di unirsi al coro anti-sovietico, esponendosi all'ira funesta di chi, come Emil
Brunner, orami si atteggiava ad alfiere della libertà occidentale quale estremo argine della
civiltà eretto contro il totalitarismo comunista, Barth non mise mai in discussione della
legittimità dello Stato democratico. Anzi, in alcuni saggi degli anni '40 ne rivendicò con
decisione la legittimità teologica.
IV.
Ha quindi ragione Ellul a vedere in Barth un nuovo alfiere dello Stato e quindi un
dubbio compagno di strada per gl'anarchici cristiani? [39] Probabilmente sí; eppure
anche in questi anni, e forse proprio in questi, vi è in lui un radicalismo teologico nel
quale sembra inscritto un sovvertimento profondo della politica, compresa quella
democratica. Tale sovvertimento è implicito nelle pagine di Christengemeinde und
Bürgergemeinde, pubblicate nel 1946, ma è avvalorato dall'intera struttura della teologia
barthiana.
Solo un cenno al saggio del '46, per non ripetere ciò che ho analizzato con maggior cura
altrove [40]. La tesi esplicita dello scritto è che vi sia un rapporto positivo tra la
comunità ecclesiale (significativamente si parla di Christengemeinde e non di Kirche,
richiamando con questa scelta terminologica una certa tradizione del protestantesimo
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settario [41]) e la società, la comunità civile. Barth la motiva riportando entrambe
all'unico fondamento, ovvero a Gesù Cristo - centro onnipresente di tutta la sua teologia.
In questo senso si parla di «fondamento cristologico dello Stato».
L'immagine usata – credo una consapevole retractatio della metafora della retta tangente il
cerchio dei tempi del Römerbrief – descrive le comunità in questione come due cerchi
concentrici: la comunità civile all'esterno, quella ecclesiale all'interno, con Cristo al centro
di enrambe. Barth dà un fondamento biblico alla sua tesi, giacché secondo il Nuovo
Testamento Cristo, il vincitore del conflitto con il Nulla [42], è ormai il Sovrano del
cosmo intero; a Lui è stato sottomesso ogni potere in cielo e in terra. Se questa è la
testimonianza della Scrittura, non c'è il minimo dubbio che tra i poteri sottomessi al
Cristo vi sia anche quello statale. Quest'ultimo, sia pure in modo peculiare, deve dunque
riflettere la supremazia cosmica di Cristo.
Dal momento che la comunità civile costituisce il cerchio esterno in cui si
inscrive la comunità cristiana con il mistero della fede che essa confessa e che
proclama; dal momento che entrambe possiedono lo stesso centro, ne risulta
che la prima, differente per il principio che la fonda e per il compito che le
pertiene, si troverà necessariamente in una relazione di analogia con la verità e
la realtà della seconda; analogia in questo senso: che la città è capace di
riflettere indirettamente, come in uno specchio, la verità e la realtà del regno di
Dio che la chiesa annuncia [43].
Piú nel dettaglio, senza essere né etico né cristiano lo Stato deve far proprie le
conseguenze fondamentali della fede in Cristo. Ne seguono alcune conseguenze; ad
esempio che se Dio è divenuto uomo, questi dev'essere la misura di tutte le cose –
ovvero la politica deve porre l'uomo come fine e non come mezzo, escludendo sia la
divinizzazione dello Stato sia quella delle merci. Nei capp. 16-26 troviamo alcune
ulteriori conseguenze che discendono dalla vittoria pasquale dell'Agnello: libertà,
giustizia sociale, divisione dei poteri ecc. È bensí vero che queste cose ricordano da
vicino una concezione del diritto naturale à la Rousseau, eppure derivano da tutt'altra
origine – ovvero dalla fede nella signoria cosmica del Risorto. Una signoria riconosciuta
per fede dalla Chiesa, ma in qualche modo presente anche nella comunità civile, la quale
– se Cristo è veramente risorto – non può non essere capace di analogia.
Barth scrive queste pagine nel 1946, in un'Europa travolta dalle macerie – nient'affatto
metaforiche - della Guerra. Non può dunque non sapere, infatti sa benissimo che lo
Stato può declinarsi anche nel senso di Apocalisse 13, ovvero di uno Stato demoniaco, del
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tutto incapace di analogia. Per questo la Chiesa è, letteralmente, corresponsabile della
politica. Senza fondare partiti, deve rivolgersi allo Stato rammentandogli i suoi compiti,
risultanti dalla sua vera essenza, che è quella di appartenere alla Signoria di Cristo.
Resta da chiedersi se la Chiesa possa far questo – se possa rivolgersi allo Stato, se abbia
con questo una lingua in comune che renda possibile la comunicazione. La tesi che ho
cercato di argomentare nel saggio citato è che lo Stato non è capace di intendere la parola
della Chiesa. Agli occhi dello Stato (ovvero di un'istituzione che non sa e non può saper
nulla della signoria di Cristo), la Chiesa è un'associazione religiosa, nel migliore dei casi
riconducibile alle famose «radici cristiane» dell'Europa. È lo stesso Barth a riconoscerlo
nel mondo piú chiaro:
In sé, la comunità civile è spiritualmente cieca e ignorante. Essa non ha né
fede, né amore, né speranza. Non possiede alcuna confessione di fede. Non
ha alcun messaggio da proporre. In essa non si prega e non vi sono fratelli né
sorelle. Come Pilato, essa non può che chiedere: Che cos'è la verità?
Nell'istante in cui rispondesse a questa domanda, essa per definizione avrebbe
cessato d'essere tale. La tolleranza è la sua suprema saggezza sul piano
“religioso” - “religione” è infatti l'unica parola che conosce per designare
l'ambito della Chiesa [44].
Nel Römerbrief la fede in Cristo è vista come la piú radicale crisi della religione; nella
Kirchliche Dogmatik si parla invece di aufhebung. Comunque si voglia valutare la critica
barthiana della religione [45], resta il fatto che la Christengemeinde non è un'associazione
religiosa ma la comunità degl'uomini e donne che riconoscano la signoria cosmica di
Cristo e che conformino il loro agire in conseguenza. In altre parole, lo Stato – anche
quello democratico – non può che fraintendere l'essenza della Chiesa. Anche ammesso
che quest'ultima intenda bene lo Stato, tra i due non vi sarà comunque una vera relazione.
Non vi è reciprocità, e quindi nemmeno un linguaggio in comune: e che relazione può
esservi mai senza linguaggio? Come può la Chiesa rivolgersi allo Stato, se questo non
può comprendere le sue parole – se i due parlano linguaggi completamente diversi?
Insomma, a me pare che pur cercando di pensare il rapporto tra Chiesa e Stato, ovvero
tra fede e politica in una maniera non asintotica, Christengemeinde und Bürgergemeinde finisca
per ribadire un'alterità di agostiniana memoria.
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V.
Non credo che questo scacco, se è lecito esprimersi cosí, sia un caso ma che riveli
un'istanza profonda della teologia barthiana, che io leggo come una vertiginosa
meditazione sull'evento della grazia di Dio in Cristo [46]. Sarebbe lungo parlarne; ma
forse posso far capire ciò che penso riferendomi a un unico scritto, a mio avviso molto
bello e significativo. Alludo all'Introduzione alla teologia evangelica, frutto dell'ultimo
seminario tenuto da Barth a Basilea immediatamente dopo il suo discusso
pensionamento.
Già nelle pagine introduttive leggiamo che la teologia evangelica è una «gaia scienza»,
ovvero è la grata risposta all'Euangélion, alla Parola di grazia che Dio ha rivolto all'uomo.
Questa Parola – che sancisce un'eterna alleanza - è divenuta carne una volta per sempre
in Gesú Cristo, compimento della storia di Israele; è stata riferita (nonostante lo
scetticismo storico-critico degli esegeti moderni) dai «testimoni primari», ovvero dai
Profeti e dagli Apostoli; e attualmente risuona nella congregatio fidelium, che è davvero
communio sanctorum, secondo la confessione del Credo apostolico, non per una qualche
caratteristica istituzionale (ad esempio la continuità apostolica) ma per la promessa divina
che la Parola espressa una volta per sempre in una storia particolare – la storia che va
dall'elezione di Israele all'avvento di Gesú Cristo - risuoni ancora tra coloro che si
riuniscono nel Suo nome.
La Parola, abbiamo detto, risuona nella Christengemeinde, intesa come congregatio fidelium.
Ma risuona davvero? Possiamo esserne certi? Lo scetticismo rinascimentale,
l'Illuminismo settecentesco, lo storicismo moderno, non hanno scalfito in nulla questa
luminosa certezza? È possibile continuare a parlare dei Profeti e degli Apostoli quali
«testimoni primari» della rivelazione (e dei libri biblici come i loro scritti)? La risposta di
Barth è solo apparentemente dogmatica. La disinvoltura con cui si è scrollato di dosso il
cripto-scetticismo della cultura moderna ha deluso molti, che in varî modi lo hanno
tacciato, appunto, di dogmatismo; in realtà, se si sottrae la sfida del mondo, lo fa per
riproporla, forse ancor piú vertoginosamente, all'interno della Christengemeinde.
Si noti: la questione della verità non si pone alla comunità dall'esterno – come
spesso lei stessa si è lasciata suggerire nell'epoca moderna – cioè in nome e
sull'autorità di una qualche norma di verità avente carattere generale o di cui si
asserisca una verità generale; al contrario, essa le è posta dall'interno, o meglio
dall'alto, dalla Parola che fonda la comunità stessa e la sua fede. Tale questione
pertanto non suona cosí: È vero che esiste un Dio? è vero che ha stretto
alleanza con l'uomo? Israele è realmente il suo popolo eletto? Gesú Cristo è
effettivamente morto per i nostri peccati ed è stato effettivamente resuscitato
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dai morti per la nostra giustificazione, è effettivamente il Signore? Cosí si
interrogano gli stolti nel loro
cuore: gli stolti che chiaramente noi tutti
siamo sempre di nuovo, continuamente. La questione della verità suona cosí:
La comunità comprende rettamente, cioè nella sua purezza e con la lealtà che
essa esige, la Parola pronunciata in e con tutto l'evento suddetto come la verità,
la medita a fondo, la esprime verbalmente con concetti chiari? [47]
Non sarebbe inutile insistere sul radicale stravolgimento della teologia e della filosofia
moderne, ossessionate dall'esigenza apologetica di giustificare agl'occhi del mondo
(ovvero in primo luogo ai propri occhi) la possibilità della rivelazione cristiana: piuttosto
che chiedersi «come spiegarlo a mio figlio», ovvero di provare il proprio accordo non
con le strutture di pausibilità che la cultura dominante di volta in volta dà per
incontrovertibili, la Chiesa deve chiedersi quale rapporto abbia con quella verità che al
tempo stesso la fonda e la interroga continuamente.
A quali condizioni si dà quest'accordo? Che cosa rende la teologia fedele alla Parola? Che
cosa ne fa davvero – nel senso precisato - una gaia scienza? La domanda è urgente perché
la teologia di Barth non dispone di alcuna scorciatoia: inutile appellarsi alla tradizione –
anch'essa può sbagliare; inutile richiamarsi a una corretta esegesi, giacché essa è corretta
nella misura in cui trova nelle parole umane degli scrittori biblici la Parola di Dio cui esse
– a ben guardare – rimandano.
Tuttavia, come accade nel Sofista, anche qui si ha l'impressione che lo stesso problema
non faccia che rimbalzare da un piano all'altro, senza trovare mai una risposta
conclusiva. Giacché, com'è possibile ben guardare attraverso le parole umane? Quale
garanzia abbiamo che la teologia sia gaia scienza?
Barth scrive pagine molto belle sull'esistenza teologica, segnata dallo stupore (nel senso del
socratico thaumázein), dal coinvolgimento, dall'impegno e – last but not least – dalla fede,
conditio sine qua non della gaia scienza teologica. Ma non può omettere i «rischi» che deve
affrontare colui che dedichi la propria vita a questa specialissima scienza. La solitudine,
innanzitutto. «Segui il tuo corso, e lascia dir le genti», scrisse il grande fiorentino; da parte
sua, Barth parla di «theologia “ektypa” viatorum» [48], con tutto il carico di nostalgia e di
solitudine, appunto, che caratterizza questa condizione. E poi il dubbio; non tanto il
dubbio scettico proveniente dal mondo quanto – come si è detto – il dubbio dato dal
non essere ancora in patria. Dimenticando di citare un suo vecchio amore, Barth scrive
che al dubbio si oppone non la certezza ma la disperazione:
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Non deve disperare perché il dubbio ha sí un suo spazio – l'eone presente –
entro il quale nessuno, e quindi neppure il teologo, può sfuggire al dubbio
stesso, ma questo spazio è limitato, e al di là di esso il teologo può sempre
spingersi con la preghiera: “Venga il tuo Regno!”; in questo spazio, pur senza
vincere il dubbio, può sempre opporgli resistenza – come quella donna
ugonotta rinchiusa nella torre di Costanza può almeno tracciare sul vetro della
finestra: Resistez! Sostenere e sopportare! [49].
Paragondando il teologo evangelico, alle prese con solitudine e dubbio, alle donne
ugonotte rinchiuse nella torre di Costanza, forse ha detto qualcosa che potrebbe
interessare il nostro tema. In ogni caso, solitudine e dubbio «non costituiscono i rischi
peggiori e piú gravi cui è esposta la teologia» [50]: vi è una prova ancora peggiore che
l'aspetta.
La “prova” alla quale la teologia si trova esposta è semplicemente l'evento con
cui Dio si ritira da quest'opera intrapresa e avviata da uomini, naconde il
proprio volto dinanzi a questa loro attività e si volge lontano da essa. L'evento
con cui Dio rifiuta – con tutte le consequenze che ne derivano – la pretesa e
l'azione del proprio Spirito Santo a una tale attività (a chi del resto dovrebbe
esserne debitore?). Non è detto che si tratti per forza dell'opera di una cattiva
teologia: può anche trattarsi dell'opera di una buona, anzi della migliore
teologia che possa darsi dal punto di vista umano. In rapporto alla tradizione
dalla quale deriva o al rinnovamento nel quale si trova impegnata, può trattarsi
di un'eccellente teologia – conservatrice nel miglior senso del termine e al
tempo stesso prograssista, vale a dire adeguata ai tempi. Forse non sarà priva
né di fondamento biblico ed esegetico, né di profondità e perizia sistematica,
né di presa sull'oggi e di incidenza sulla prassi. […] La comunità ne risulterà
edificata ed il mondo stesso non se ne disinteresserà. Insomma: qui una luce
brillerà e sembrerà irradiarsi dalla Chiesa e sarà salutata con gratitudine. […] È
possibile che le cose vadano cosí, ma tutto ciò a che serve? Tutto è in ordine,
ma anche nel peggioredei disordini. Il mulino gira, ma a vuoto. Tutte le vele
sono spiegate, ma non c'è vento che le gonfi e spinga la nave [51].
Non so con certezza che cosa intendesse il filosofo parlando di Gesú come santo
anarchico; mi domando invece se alla luce di questo brano non si potrebbe qualificare
come allo stesso modo Gesú Cristo, il λόγος fattosi carne. La Parola che è l'oggetto e il
fondamento della teologia come della Chiesa è un evento libero, radicalmente imprevedibile,
irriducibile a qualsiasi sistema, anche al migliore. È il disordine essenziale che mina alle
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radici qualsiasi ordine umano; è il principio anarchico che nessun nomos può espellere; è il
dono irriducibile a qualsivoglia sistema di scambio [52].
Certo, Barth parlerà anche di speranza, di preghiera, di studio e di altre cose ancora,
forse perché il principio anarchico della grazia non sia la sua ultima parola. Eppure, in
un certo senso, questa è davvero la sua prima e ultima parola: la troviamo nel Römerbrief,
nell'imprevedibile e mai coordinabile dialettica di crisi e resurrezione; la ritroviamo
quarantanni dopo nella quarta parte della Kirchliche Dogmatik, in una forma
apparentemente piú distesa e serena, piú “narrativa”, nella descrizione del doppio
movimento presente in Gesú Cristo, il Figlio di Dio che va in terra straniera e il Figlio
dell'uomo che ritorna al Padre. Insomma, nella sua teologia è iscritto un principio
paradossale, anarchico, che deriva da quella libertà (della grazia) che Hegel non ha mai
voluto accettare – una grazia che si sottrae a ogni tentativo umano di possederla
piegandola ai propri fini (siano pure, ex parte hominis, dei fini eccellenti, pii e progressisti
al tempo stesso).
È questa la parole – qui nel senso saussuriano del termine – che la langue della politica non
può intendere. La lingua della politica, almeno di quella moderna inaugurata da Hobbes come ci ha insegnato Esposito ,- è quella dell'ordine; la parola della teologia è una
domanda, un dubbio davvero radicale nei confronti di qualsiasi ordine, anche e
soprattutto di quello che si richiami alle radici cristiane dell'Europa. Nella Questione ebraica
Marx sostiene che lo Stato laico auspicato da Bauer è paradossalmente ancor piú
cristiano di quello confessionale, giacché nel principio giuridico dell'identità astratta dei
cittadini davanti alla legge si realizza l'ideologica astrattezza dell'uguaglianza cristiana
davanti a Dio [53]. Nonostante l'osservazione sia indubbiamente acuta, si potrebbe
rispondere che la differenza tra Stato laico e confessionale in verità non sussiste - non
per le ragioni addotte da Marx ma per l'eccellente motivo che, almeno dal punto di vista
che emerge in queste pagine,il cristianesimo non può avere Stato. Non lo può avere
forse non per le ragioni cui pensava Nietzsche nel brano citato piú sopra ma perché la
Parola che deve testimoniare e alla quale deve «obbedire in vita e in morte» (Sinodo di
Barmen, I tesi [54]), letteralmente non sopporta alcun ordine, tantomeno quello impostole
dallo Stato.
VI.
Usando la clausola restrittiva volevo dire che il carattere anarchico del cristianesimo in quanto fede nella grazia indebita di Dio in Gesú Cristo - sembra la conseguenza
inevitabile della teologia barthiana. Resta da chiedersi se non sia possibile generalizzare il
risultato raggiunto. Un incoraggiamento a rispondere positivamente, come sappiamo,
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verrebbe da Nietzsche, per il quale nella fede cristiana vi è una rivolta contro la
sottomissione dello spirito:
il suo presupposto è che la sottomissione dello spirito faccia indicibilmente male
[…]. Gli uomini moderni, con la loro ottusità per ogni nomenclatura cristiana,
non avvertono piú l'orrore superlativo che si annidava per il gusto antico nel
paradosso del “Dio in croce”. Finora non c'è stato mai e in nessun luogo
una tale arditezza nel sovvertire, mai qualcosa di ugualmente terribile,
interrogativo e problematico come questa formula. Essa prometteva il
rovesciamento di tutti i valori antichi [55].
Lasciamo stare che lo stesso filosofo, negli ultimi biglietti della follia, sembrerà far
proprio questo paradosso sovvertitore (lui stesso si era nel frattempo consacrato alla
trasvalutazione di tutti i valori) firmandosi come «Dioniso il crocefisso». Mi chiedo
invece se il filosofo abbia colto qualcosa di vero descrivendo il kerygma paolino del
Cristo crocefisso come un principio anarchico, distruttore di ogni ordine stabilito. Qui
non si tratta dell'indubbia diffidenza, se non aperta ostilità dei cristiani verso Stato
romano prima della svolta costantiniana [56]: per quanto interessante e significativa, una
tale diffidenza potrebbe appartenere solo alla storia; si tratta di cogliere, se c'è, l'essenza
anarchica, indisponibile a qualsiasi legge, del kérygma cristiano!
È una domanda impegnativa, alla quale posso facilmente sottrarmi appellandomi, come
ormai è consueto, alla non idoneità della sede e soprattutto alla poche pagine rimastemi
per rispondere. Tuttavia ho la sensazione che, se non nel cristianesimo tout court, almeno
in quello paolino vi sia inscritto un principio di sovvertimento dell'ordine stabilito. Barth,
lo abbiamo visto, inizia a formulare la sua teologia muovendo proprio dalla riscoperta
del kerygma paolino. E per quanto nella Kierchliche Dogmatik non vi sia quasi testo biblico
in cui non ritrovi la testimonianza della Parola di Dio, indubbiamente l'Apostolo rimarrà
sempre il suo grande punto di riferimento [57].
Sarebbe interessante rileggere in questa prospettiva i grandi commentari ai Romani e alle
altre maggiori lettere di Paolo prodotti nella storia della teologia cristiana. Penso che ci
troveremmo di fronte alla doppia istanza – diversamente modulata a seconda dei casi - di
conciliare l'anarchismo della grazia con un'istanza d'ordine, di volta in volta concepito in
senso ontologico, politico, ecclesiale ecc. Questo, almeno, è quanto Gaetano Lettieri ha
trovato nella teologia Agostino, dalla svolta avvenuta nelle Confessioni fino agl'ultimi
scritti. Una teologia che drammatizza il peccato d'origine come sconvolgimento
dell'ordine creato:
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Giudaismo, platonismo, pelagianesimo convergono nell'essere cognitio Dei e
desiderium Dei, comprensione e amore di una perfezione metafisica e morale,
che ordina il mondo. […] La natura giudaica, platonica, pelagiana, è quindi
una natura ontologicamente continua, non radicalmente scissa dal peccato,
soltanto relativamente alienata. Per Agostino, al contrario, la cognitio metafisica
della natura rivela un ordine ontologico
che, in realtà, è sconvolto da un
disordine, che contraddice enigmaticamente, annientandolo, l'essere derivato
[58].
Ne segue che il ristabilimento dell'ordine è legato al paradossale e anarchico intervento di
Dio in un cosmo intrinsecamente dis-ordinato.
La teologia […] trascende qualsiasi theologia naturalis, qualsiasi cristiana
ontoteologia, o meglio la toglie, la assume per superarla. […] La teologia è
quindi una metafisica paradossalmente convertita alla rivelazione della libertà
di Dio, fondata sullo scandalo storico di un Dio incarnato e presente nella
stessa libertà contingente dell'uomo. […] Nello Spiritus, che opera la
confessione del dono della vita attraverso la croce di Dio, si è quindi capaci di
credere nel nuovo, anarchico ordine di Dio, nascosto al di sotto del disordine e
della contraddittorietà dell'ordine ontologico [59].
Nonostante il paolinismo non incontri sempre il favore dei cristiani – già i predicatori
Cristiano-Tedeschi tuonarono contro la teologia dialettica, «da Paolo a Barth», e ancora oggi
capita di leggere qualcosa di simile -, mi pare difficile espellere l'Apostolo delle genti e i
suoi piú radicali e conseguenti interpreti dalla congregatio fidelium. Indubbiamente nel
paolimismo radicale vi è inscritto un pessimismo antropologico, o ancor peggio una
concezione tragica dell'essere umano, della sua radicale impotenza e incapacità di salvarsi
con le sue sole forze, che non sembra incoraggiare lo sforzo morale. Si dirà che un tale
pessimismo confligge con il bisogno dei tempi, indubbiamente attraversati da una crisi
etico-politica di vastissime dimensioni [60].
Del resto, se vogliamo parlare in questi termini, va ricordato che Barth non stette
propriamente con le mani in mano e forse non è difficile indovinare la vera
preoccupazione dei Cristiano-Tedeschi: quelle simpatiche creature a dir poco entusiaste
dell'avvento del Fürer annusarono nella teologia dialettica non tanto il repellente odor
giudaico (lo stesso Barth, rievocando la figura di Bonhoeffer, ammetterà di aver
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sottovalutato negl'anni '30 la centralità della questione ebraica) quanto l'affermazione di
un principio che nessun sistema può ingabbiare, d'una grazia donata indipendentemente
da ogni legge, da qualsivoglia sistema, e a maggior ragione da un sistema come quello
suggestivamente descritto da Neumann con la metafora biblica del Behemoth (Gb 40, 1524) [61].
Oggi – spero di non sbagliarmi - non vi sono piú Cristiano-tedeschi in giro, e il
nazionalsocialismo, almeno per ora, non sembra realmente un pericolo. Ciò non
significa che la questione del rapporto tra la fede nella grazia indebitamente donata in
Cristo Stato sia archiviata. Leggendo, anche con simpatia, il libro di Ellul, si ha tuttavia
l'impressione di una forzatura. Ellul assomiglia a un bambino che disperatamente voglia
mettere d'accordo mamma e papà, sforzandosi di por fine alle loro interminabili liti.
L'errore, a mio avviso, consiste nel considerare il cristianeismo come un fenomeno
storico: la storia di Israele in quanto popolo tra gli altri, la storia di Gesú di Nazareth, un
pacifista anarchico ante litteram ingiustamente messo a morte eccetera.
Se è cosí, se è la storia a determinare l'ordine del discorso, temo che si finirà a una
separazione giudiziale. Anarchismo e cristianesimo continueranno a vivere esistenze
separate, se non conflittuali. Ma lo Stato, e forse in modo particolare lo Stato nell'epoca
del tardo-capitalismo, si fonda su un principio di reciprocità dello scambio, di simmetria
della prestazione, di specularità tra dare e avere: insomma, sulla dogmatizzazione del
denaro quale equivalente generale, che rende per principio confrontabile ogni
prestazione umana [62]. Nella misura in cui il cristianesimo ha qualcosa a che fare con la
fede in un dono assoluto, radicalmente indebito, strutturalmente asimmetrico e mai
ricambiabile, vi è in esso un principio anarchico in grado di sovvertire alla radice il
principio dell'equivalenza generale delle prestazioni umane, o almeno un'imbarazzante
domanda che dovrebbe inquietare i sonni di coloro cui sta sommamente a cuore la
conservazione a ogni costo dell'ordine esistente.
NOTE:
1. L. Pirandello, Frammento d'autobiorafia, in Opere di Luigi Pirandello, vol. 6 Saggi, poesie, scritti varii, a cura di
M. Lo Vecchio-Musti, Mondadori, Milano, 19774, p. 1281.
2. J. Ellul, Anarchie et Christianisme, Atelier de Création Libertaire, Lyon, 1988, trad. it. Anarchia e
cristianesimo, Elèuthera, Milano, 2010, p. 95.
3. F. Nietzsche, Der Antichrist. Fluch auf das Christentum, trad. it. L'Anticristo. Maledizione del cristianesimo,
dalle Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VI, tomo III, a cura di Colli-Montinari, trad. it. di F. Masini,
Adelphi, Milano, 19772, pp. 41.43.
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4. Cfr. K. Jaspers, Nietzsche e il Cristianesimo, trad. it. di. M. Dello Preite, Ecumenica, Bari, 1978. Cfr.
anche la presentazione di Giorgio Penzo a F. Nietzsche, L'Anticristo, a cura di G. Penzo e U. PenzoKirsch, Mursia, Milano, 1982. Che Nietzsche non veda in Gesú un anarchico in senso contestatore
politico è la tesi di Francesco barba: cfr. F. Barba, Nietzsche e l'Apostolo Paolo, in C. Scilironi, san Paolo e la
filosofia del Novecento, Cleup, Padova, 2004, pp. 50 ss.
5. Nietzsche, L'Anticristo, ed. a cura di Colli-Montinari, cit., pp. 54 ss.
6. Ibid. p. 66.
7. F. Nietzsche, Der Wille zur Macht. Versuch Einer Umwertung Aller Werte, trad. it. p. 122 (aforisma
scritto tra il novembre 1887 e il marzo 1888). M. Montinari sostiene che l'attacco al socialismo – mal
conosciuto da Nietzsche – era la conseguenza del suo attacco al cristianeismo, che era il suo bersaglio
principale. Ma si noti che l'anarchismo di Gesú viene esteso al cristianesimo primitivo. In questo senso
non si può dire, con l'Anticristo, che vi fu un solo cristiano, e il suo vangelo morí sulla croce (F.
Nietsche, L'Anticristo, cit., p. 50).
8. Cfr. C. Scilironi, Barth interprete di Nietzsche, in Nichilismo, sacro e mistero, Cleup, Padova, 2002.
9. M. Weber, Wissenschaft als Berus, trad. it. La scienza come professione. La politica come professione, Einaudi,
Torino, 2004,p. 30. A. von Harnack-K. Barth, Wissenschaftlihe Theologie oder Offenbarung Gottes. Ein
Briefwechsel zwischen Karl Barth und Adolf von Harnack, «Christliche Welt», 37, 1923, trad. it. in Le origini
della teologia dialettica, a cura di J. Moltmann, Queriniana, Brescia, 1976, p. 384.
10. Cfr. A. Gallas, Il giovane Barth. Tra teologia e polica, a cura di G.L. Potestà e M. Rizzi, Vita e Pensiero,
Milano, 2004,
11. K. Barth, Stato, in R. Esposito (ed), Oltre la politica. Antologia del pensiero “impolitico”, Bruno
Mondadori, Milano, 1996, p. 30. (Esposito riproduce parte della prima edizione del Römerbrief, Berna,
1919).
12. Ivi p. 32.
13. Ivi p. 30.
14. Ivi p. 31.
15. Ivi. p. 30.
16. Ivi p. 33.
17. Ibidem.
18. Ibidem.
19. Ivi p. 38.
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20. Ivi p. 34. Per una lettura “impolitica” di Barth (notevolmente diversa da quella proposta in queste
pagine), cfr. R. Esposito, Nove pensieri sulla politica, il Mulino, Bologna 1993, pp. 137-157.
21. K. Barth, Stato, cit., p. 45.
22. Cfr. A. Gallas, op. cit., pp. 158 ss.
23. K. Barth, Stato, cit., p. 46.
24. A. Gallas, op. cit., p. 166.
25. C. Schmitt, Römischer Katholizismus und politische Form, Jakob Hegner, Hellerau, 1923, trad. it.
Cattolicesmo romano e forma politica, a cura di C. Galli, Milano, 1986.
26. K. Barth, Stato, cit., pp. 48-49.
27. Cfr. W. Kreck, La teologia e la politica in S. Rostagno (ed), Karl Barth, in Barth contemporaneo, Claudiana,
Torino, 1990, pp. 216 s.
28. K. Barth, L'Epistola ai Romani, a cura di G. Miegge, Feltrinelli, Milano, , p. 458.
29. Ivi p. 461.
30. Ivi p. 458.
31. Ibidm.
32. E. Bloch, Atheismus in Christentum. Zur Religion des Exodus und des Reichts, Frankfurt am Main, 1968,
trad. it. Ateismo nel cristianesimo, Feltrinelli, Milano, 1990, p. 80.
33. “All'infuori del libro di Spengler, una sola opera ebbe un'importanza analoga, anche se un effetto
più limitato: la Lettera ai Romani di Karl Barth. Anche quest'opera viveva della negazione del progresso
traendo profitti teologici dalla decadenza della civiltà. Lo scetticismo verso tutte le soluzioni umane, che
la guerra aveva alimentato, portò Barth dal socialismo cristiano alla sua teologia radicale, la quale nega
appunto alla radice qualsiasi “evoluzione” del cristianesimo. Questi due scritti di Spengler e Barth
furono le opere che più ci stimolarono in questo periodo segnato dalla fine della prima guerra
mondiale” (K. Löwith, Mein Leben in Deutschland vor und nach 1933, Stuttgard, 1986, trad. it La mia vita in
Germania prima e dopo il 1933, trad. it. di E. Grillo, Il Saggiatore, Milano, 1988, p. 48.
34. Cfr. D. Cornu, Barth et la politique, Labor et Fides, Genève, 1968.
35. Cfr. S. Bologna, La Chiesa Confessante sotto il nazismo. 1933-1936, Milano, 1967.
36. Cit. in Cornu, cit., p. 83.
37. Cfr. E. Busch, Karl Barth e il governo svizzero, «Protestantesimo», vol. 54:4 – 1999, pp. 338-356.
38. Cfr. Kreck, op. cit., pp. 226 ss.
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39. Cfr. Ellul, Anarchismo e cristianesimo, cit., p. 25.
40. Cfr. E. Cerasi, La libertà dei cristiani. Sulla teologia politica di Karl Barth, in “Pólemos. Rivista semestrale
di diritto, politica e cultura” 2/2007pp. 53-72.
41. La tesi di una sostanziale prossimità tra la teologia matura di Barth e la tradizione della free-church è
sostenuta da Yoder. Cfr. John H. Yoder, Karl Barth and the Problem of the War, Eugene (OR), Cascade
Books, 2002. Ho discusso le tesi di Yoder su Barth in E. Cerasi, Verso una comunità confessante...
42. Cfr. K. Barth, Die Kierchliche Dogmatik, III/3, Zürich, 1950, § 50, trad. it. Dio e il Niente, a cura di R.
Celada Ballanti, Morcelliana, Brescia, 2000.
43. K. Barth, Christengemeinde und Bürgergemeinde, in “Theologische Studien”, 20, 1946, p. 23.
44. Ivi p. 5.
45. Cfr. C. Scilironi, Possibilità e fondamento della fede, Il Messaggero, Padova, 1988.
46. Cfr. E. Cerasi, Il paradosso della Grazia. La teo-antropologia di Karl Barth, prefazione di G. Lettieri, Città
Nuova, Roma, 2006.
47. K. Barth, Introduzione alla teologia evangelica, (citare), p. 89.
48. Ivi p. 155.
49. Ivi p. 171.
50. Ivi p. 173.
51. Ivi pp. 174-75.
52. Sull'irriducibilità del dono al sistema di scambio, cfr. A. Tagliapietra, Il dono del filosofo. Sul gesto
originario della filosofia, Einaudi, Torino, 2009.
53. Cfr. K. Marx, Scritti politici giovanili, a cura di L. Firpo, Einaudi, Torino, 1975, pp. 355-393.
54. Per il testo della Dichiarazione di Barmen, cfr. Tra la croce e la svastica, cit., p. 82.
55. F. Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse, citare, trad. it. a cura di S. Giametta, Rizzoli, Milano, 20045,
pp. 94-95.
56. Valutazione piú sfumata e precisa di quella di Ellul, cfr. E. Noffke, Cristo contro Cesare. Come gli ebrei e
i cristiani del I secolo risposero alla sfida dell'imperialismo romano, Claudiana, Torino, 2006.
57. Cfr. E. Cerasi, L'enigma del fiorire. Barth interprete di san Paolo, in C. Scilironi (ed), San Paolo e la filosofia
del Novecento, Ceup, Milano, 2004.
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58. G. Lettieri, L'altro Agostino. Ermeneutica e retorica della grazia dalla crisi alla metamorfosi del De Doctrina
christiana, Morcelliana, Brescia, 2001, p. 316.
59. Ivi pp. 325-26. (Il corsivo è mio.)
60. Cfr. V. Mancuso, «Sulla bontà della natura umana», in «La Repubblica», mercoledì 17 marzo 2010,
p. 57.
61. Cfr. F. Neumann, Behemoth. The Structure and the Practice of National Socialism, New York, 1942, trad. it.
Behemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo, a cura di M. Baccianini, Bruno Mondadori, Milano, 1999.
62. Che il principio di scambio sia costitutivo dell'ordine sociale, è la tesi del noto lavoro di M. Mauss:
Saggio sul dono. Per un'interessante discussione, cfr. A Tagliapietra, Il dono del filosofo, cit.
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