i falsi miti del pay for performance
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I FALSI MITI DEL PAY FOR PERFORMANCE VALERIO SALONE — NOVEMBRE 2012 I falsi miti del pay for performance Valerio Salone Novembre 2012 Copia ad uso esclusivo del destinatario, tutti i diritti riservati Introduzione Una delle ragioni dell’inefficacia degli strumenti di rewarding è il fatto che il management e i professionisti del settore hanno ripetutamente fatto affidamento, nello strutturare tali programmi, su una serie di miti, nonostante la consolidata “scienza comportamentale” li metta in seria discussione. Questo articolo si propone di fornire argomentazioni contro alcuni di questi miti, sulla base di ricerche e case studies sul tema, esaminando le circostanze nelle quali fare affidamento su di essi tende a diminuire l’efficacia degli strumenti e programmi di performance management e rewarding. Obiettivo dell’articolo è incoraggiare i professionisti delle risorse umane a valutare se i propri programmi e strumenti stiano effettivamente permettendo di raggiungere gli obiettivi prefissati in maniera costeffective. Al fine di chiarire il tema, prendiamo in considerazione un caso presentato nel Journal of Legal Studies (Gneezy e Rustichini, 2000). Un centro di day-care voleva ridurre il numero di genitori che andava a prendere i propri figli in ritardo. Così il centro introdusse delle penali per i casi di ritiro in ritardo dei bambini. Contrariamente alle aspettative, i ritiri in ritardo crebbero in maniera significativa dopo l’introduzione delle penali. E, quando le penali vennero tolte, i ritiri in ritardo restarono stabili ai nuovi elevati livelli. Cosa era successo? Prima dell’introduzione delle penali, i genitori legati da relazioni personali con gli insegnanti si sentivano fortemente motivati ad essere puntuali. Ma l’introduzione delle penali spinse i genitori a vedere la situazione non più come un “obbligo morale” (“Essere corretti”), ma come una “transazione economica” (“Posso pagare per il tempo extra”) e, una volta che la loro percezione della situazione cambiò, il precedente fattore motivante non fu facilmente reintrodotto. Il contributo che possiamo trarre da tale studio è che gli incentivi sono complessi e azioni basate su intuizioni non testate possono dare esiti non previsti. Con questo esempio di incentivi errati in mente e con una minore propensione a fare affidamento sulle intuizioni procediamo ad analizzare alcuni di questi “miti”. Mito n. 1: la distribuzione forzata favorisce le alte performance Molte aziende forzano la distribuzione dei risultati di performance secondo una “curva a campana”, minimizzando le valutazioni più elevate ad una delle estremità della curva, ammassando la maggioranza delle valutazioni nel mezzo e assicurandosi che ci sia un’applicazione effettiva dei livelli di valutazione più bassi all’altro estremo della curva. Anche se questo approccio è spesso non contestato e generalmente considerato un passaggio necessario nel percorso verso l’instaurazione di una cultura della performance, la realtà è che una distribuzione forzata può generare seri problemi. La distribuzione forzata ovviamente può fornire dei potenziali benefici: infatti spingendo i manager a usare tutto lo spettro delle valutazioni, richiede loro di occuparsi dei problemi di performance individuale e di fornire i feedback alle persone tenendo presente questa distribuzione delle valutazioni. Conduce inoltre alla 2 identificazione dei performer di più alto livello che, in particolare nelle organizzazioni più orientate ai risultati, può contribuire ad attrarre, fare retention, sviluppare e utilizzare appieno gli high performer. In contesti nei quali persone con adeguati livelli di performance sono disponibili sul mercato, portare fuori dall’organizzazione i low performer grazie alla distribuzione forzata può inoltre condurre a vantaggi di breve periodo. Simulazioni effettuate al riguardo hanno tuttavia mostrato che i benefici ottenuti dal rimpiazzo dei low performer con assunzioni dal mercato possono ridursi a zero a pochi anni dalla loro realizzazione (Scullen, Bergey e Aiman-Smith, 2005); inoltre i benefici ottenibili da tali iniziative sono strettamente correlati al reale impatto che la performance del personale ha sulla produttività aziendale. Vero anche che in alcuni casi la distribuzione forzata può produrre un piccolo innalzamento della produttività nel periodo immediatamente successivo alla sua adozione. Tuttavia, considerando gli impatti più strettamente negativi della sua introduzione, legati ad un allontanamento dalla reale distribuzione delle performance, la distribuzione forzata può generare una percezione di mancanza di un giusto e corretto processo e demotivare le persone più valide, portando ad una loro uscita dall’azienda. Una preoccupazione che assume particolare significato quando importanti contributi di performance possono essere valutati solo alla fine di cicli che attraversano più periodi di valutazione. In termini di comportamento manageriale, i “capi” possono inoltre essere spinti a trattenere (e, al limite, anche assumere) dei performer di non alto livello in modo da “proteggere” i loro high perfomer, diminuendo il potenziale fornito dallo strumento di orientare e spingere verso le alte performance. Ai livelli più estremi, le limitate valutazioni di high performance posso anche non essere assegnate ai reali high performers, quando i valutatori distribuiscono nel tempo le limitate valutazioni di fascia alta per loro disponibili tra i collaboratori che apprezzano maggiormente. Survey effettuate sui dipendenti mostrano inoltre che una percentuale significativa di partecipanti, rispondendo alla domanda su quale strumento HR avrebbero voluto cambiare, avrebbe eliminato la distribuzione forzata. Emerge inoltre che tale modello viene percepito come non equo (“unfair”) persino da parte di coloro che avevano ottenuto valutazioni elevate e come un ostacolo al teamwork, all’innovazione e all’assunzione di rischi. Nel caso di un’azienda che era preoccupata della retention dei suoi key talent, i modelli statistici sviluppati al fine di identificare i più rilevanti fattori che precedevano il turnover – considerando vari fattori allo stesso tempo – mostrarono che gli high performers erano improvvisamente stati spinti a lasciare l’azienda, relativamente ad altri, a seguito dell’introduzione di una distribuzione forzata delle performance. Sebbene si potesse argomentare che gli high performers rimasti in questa azienda erano ora di meno e, quindi, apparivano più “spendibili” su base relativa, ulteriori analisi mostrarono che più ampi payout sugli incentivi erano anch’essi associati ad un accresciuto tasso di uscita. Coloro che ottenevano elevate valutazioni e payout sembravano infatti preoccupati di non riuscire ad ottenere analoghe valutazioni e payout l’anno successivo, essendo orientati i loro manager a distribuire nel tempo tali valutazioni e incentivi tra i vari colleghi (per ulteriori dettagli su questi modelli statistici vedere Nalbantian, Guzzo, Kieffer e Doherty, 2004). Cosa c‘è da fare, allora, in maniera diversa per assicurarsi che la distribuzione forzata favorisca le alte performance? 3 Alcune strategie chiave sono: - identificare criteri chiari per la differenziazione, che prendano in considerazione il contributo fornito su base pluriennale - prevedere aggiustamenti nella distribuzione basati sulle performance di team, in modo da non penalizzare i team performanti - applicare la distribuzione forzata uniformemente ad ogni livello al fine di garantire la credibilità dello strumento - avere un piano di applicazione triennale - accompagnare la sua introduzione con un appropriato training per i manager che saranno chiamati ad applicarla Mito n. 2: i Career Rewards non motivano In verità questa è una argomentazione meno diffusa che in passato, ma coloro che sviluppano programmi di sviluppo e rewards tendono a porre troppa enfasi sui payout immediati rispetto ai Career Rewards, forse ancor di più quando si tratta di programmi orientati ai dipendenti qualificati come “high flyers” o “high performers” che sono percepiti come più orientati ad avere aspettative elevate e di immediata realizzazione. Utile ai fini dell’analisi di tale aspetto può essere la Tournament Theory, sviluppata dagli economisti Lazear e Rosen nel 1981, che permette di analizzare situazioni nelle quali la remunerazione futura, guidata dalla progressione di carriera, punta a motivare fortemente i dipendenti. Anche tra i dipendenti più giovani ci possono infatti essere quelli con un orientamento di lungo periodo che possono essere motivati e selezionati attraverso l’enfasi su tali aspetti. La teoria descrive i c.d. “higher-ups”, ruoli che sono remunerati più del loro effettivo valore al fine di motivare i dipendenti con minore seniority. I dipendenti di livello inferiore competono infatti per andare a coprire nel futuro questi ruoli ben remunerati. Prove a favore dell’utilità a fini di analisi della teoria dei “tournaments” è che i loro fattori caratterizzanti, di seguito descritti, sono molto diffusi all’interno delle imprese: 1. Le promozioni sono basate sulla performance relativa, cioè i dipendenti competono, periodicamente, per aggiudicarsi un numero limitato di posti disponibili di più alto livello 2. Si fa molto affidamento sui candidati interni per coprire ruoli più senior: un’organizzazione che generalmente inserisce persone dal mercato esterno avrebbe infatti un effetto dei “tournaments” molto inferiore 3. La remunerazione cresce insieme al livello di inquadramento e ad un tasso crescente, al fine di motivare ulteriormente quando i traguardi di performance diventano più difficili La figura 1 descrive una struttura del reward, per i diversi livelli gerarchici, che potrebbe essere tipica di un “tournament”. Per quelli che sono collocati nella fascia più alta, i più elevati incentivi compensano le più limitate opportunità di avanzamento. In alcune analisi focalizzate su specifiche aziende dove dipendenti appena promossi risultavano essere non meno orientati a lasciare l’azienda di altri, erano stati individuati come responsabili di tale situazione i disallineamenti (reali o semplicemente solo percepiti dai dipendenti) 4 da questa traiettoria di “career rewards” (per un esempio al riguardo si può vedere il “case study” presentato nel paper “Rethinking Careers to Enhance Business Success”, Levine e Nugent, 2005). Alcune raccomandazioni per un utilizzo efficace dei “tournaments” per motivare i dipendenti sono: - assicurarsi che le “reward trajectories” garantiscano valore ai dipendenti lungo i loro percorsi di carriera - rendere le “reward trajectories” più trasparenti in modo da motivare direttamente i dipendenti - quando le promozioni non sono praticabili, fornire ai dipendenti opportunità di sviluppo che diano loro un vantaggio futuro attraverso formazione e/o opportunità di passaggio orizzontale di ruolo - essere prudenti nel legare alle remunerazioni di mercato i ruoli più senior, tenendo presente il fatto che i “tournaments” creano un cuneo tra i livelli retributivi interni e di mercato - usare i “tournaments” e le valutazioni di performance relative per generare risparmi di costo facendo leva sugli interventi attuati su un sottoinsieme di dipendenti per motivare un più largo gruppo In conclusione una breve nota a margine: la “tournament theory” punta a confutare anche un’altra idea molto diffusa, quella che i top manager siano sovra-pagati; secondo questa teoria infatti l’elevata remunerazione (entro determinati limiti) del top management serve a motivare coloro che sono ai livelli gerarchici sottostanti. Mito n. 3: le aziende non dovrebbero remunerare l’anzianità di servizio L’economista e premio Nobel Gary Becker, nel formulare la teoria del capitale umano, dimostrò che la remunerazione dovrebbe crescere al crescere dell’anzianità di servizio se il legare il dipendente all’azienda genera valore per l’organizzazione (1964). Becker distingueva tra capitale umano “generico” e “specifico dell’azienda” (”firm-specific”). Il capitale umano generico è trasferibile tra diverse organizzazioni: ad esempio una laurea o una certificazione in una specifica materia sono rappresentative di una formazione che un dipendente padroneggia e che possono produrre valore per diversi datori di lavoro. 5 Il capitale umano specifico dell’azienda invece è appreso sul campo e produce valore solo fin quando la persona resta nell’organizzazione e nel ruolo appropriato. Esempi di capitale umano specifico dell’azienda includono, ad esempio, i network relazionali interni e la comprensione di prodotti, procedure, sistemi e tecnologie specifiche dell’azienda. Il capitale umano specifico dell’azienda è non trasferibile e il suo valore decresce fino ad annullarsi quando un dipendente lascia un’organizzazione. Tenuto conto del fatto che il capitale umano specifico dell’azienda ha valore solo per l’attuale datore di lavoro, chi pagherebbe per la sua acquisizione da parte dei dipendenti, assumendo che tale apprendimento avverrebbe alle spese della produttività corrente? Un datore di lavoro non sarebbe disposto a pagare da solo per farlo acquisire in quanto affronterebbe una perdita se il dipendente lasciasse l’azienda. Nemmeno il dipendente sarebbe disposto a pagare per la sua acquisizione, tenendo conto della possibilità di dover lasciare l’azienda (perdendo così la possibilità di applicazione di quelle specifiche conoscenze). La soluzione a tale dilemma si colloca in un investimento ripartito tra dipendente e datore di lavoro e in un ritorno suddiviso sempre tra i due e che viene pagato al dipendente nella forma di una remunerazione crescente al crescere dell’anzianità di servizio, legandolo così peraltro al datore di lavoro. La figura 2 fornisce una rappresentazione di come la suddivisione di un tale investimento debba avvenire. Nella fase iniziale della sua presenza in azienda il valore di un dipendente per l’organizzazione che gli offre formazione “firm-specific” sarà generalmente al disotto del valore di mercato, cioè della remunerazione che il dipendente potrebbe ottenere altrove. Durante questo periodo l’azienda pagherà (“back-loaded pay rate”) il dipendente meno del suo valore di mercato (“market pay rate”) ma più di quanto egli è in grado di produrre (“valore della produzione”). In altre parole, sia il datore di lavoro che il dipendente effettuano un investimento. Il fatto che essi facciano questo investimento significa che sono orientati a restare legati, al fine di raccogliere i successivi benefici quando, più in là nel tempo, la produttività di un dipendente crescerà sopra il valore di mercato. In tale data il datore di lavoro infatti pagherà meno del valore generato dal dipendente e il dipendente sarà pagato più del suo valore esterno. Sia il datore di lavoro che il dipendente 6 sono legati tra loro dai rendimenti futuri, a patto che i rendimenti totali derivanti per ciascuno dei due dalla transazione siano superiori a quelli che essi otterrebbero nello stesso periodo da un “valore di mercato”. In uno schema di questo tipo, la remunerazione futura del dipendente, una volta superata la soglia, fornirà al dipendente un ritorno superiore, diminuendo quello del datore di lavoro. Questo potrebbe condurre ad adottare prassi quali l’incentivare i dipendenti all’uscita o il richiamare dipendenti già andati in pensione, quindi in possesso del knowledge “firm-specific” necessario, con forme contrattuali che ne riducano il costo, come può avvenire in realtà organizzative dove la permanenza in azienda di skill critiche può essere a rischio a causa dei pensionamenti dei dipendenti di maggiore esperienza. In una analisi fatta tramite modelli statistici per un grande gruppo finanziario sui dati sulle anzianità di servizio, sulle performance e sulle remunerazioni dei dipendenti, combinati con quelli sulla performance delle filiali, in modo da accertare l’influenza dei diversi fattori – capitale umano e altri – che impattavano sui risultati delle filiali è emerso che ogni anno in più di anzianità di servizio della forza lavoro valeva milioni di dollari. La banca, come conseguenza, incrementò lo sforzo di motivazione, retention e supporto verso la forza lavoro che generava valore grazie all’esperienza e anzianità di servizio (per maggiori dettagli su questa esperienza vedere Levine e Nugent, 2005). Riguardo al tema del remunerare l’anzianità di servizio vanno quindi tenute in considerazione le seguenti raccomandazioni: - quando è rilevante “legare” i dipendenti all’azienda può avere senso fare il “back-load” delle loro retribuzioni, sia per costruire un capitale umano firm-specific sia per ridurre i costi di rimpiazzo - le strutture retributive, i “tournaments” e i meccanismi di incentivazione di lungo periodo rafforzano l’incentivo per i dipendenti a restare in azienda - va usata cautela nel correlare al mercato le retribuzioni, dato che i benchmark possono non riflettere appieno il valore delle conoscenze firm-specific possedute da uno specifico dipendente (o dall’organizzazione nel suo complesso) - vanno elaborate strategie per contrastare possibili riduzioni nel ritorno sull’investimento fatto per i dipendenti - va tenuto presente che, se l’anzianità di servizio ha un valore, il contributo ottenuto dai dipendenti con più anni di servizio sarà più alto Mito n. 4: incentivi economici più elevati miglioreranno le performance Anche se non è possibile effettuare generalizzazioni, nei casi nei quali le organizzazioni vedono gli incentivi come “la soluzione ai problemi di performance”, i risultati spesso sono al disotto delle aspettative. Guzzo, Jette e Katzell (1985) ad esempio hanno esaminato centinaia di casi di cambiamenti di programmi HR e hanno riscontrato che l’implementazione di nuovi incentivi economici aveva avuto il più significativo impatto sulla produttività. Più recentemente, un gruppo di economisti comportamentali (Ariely, Gneezy, Lowenstein e Mazar, 2009) ha mostrato che quando i task sono complessi, i meccanismi di incentivazione economica finiscono per danneggiare le performance. Nel suo libro del 2009 “Drive” Dan Pink cita una serie di studi effettuata nel corso dei decenni che hanno portato agli stessi risultati e cioè che i risultati possono essere minati da incentivi dichiarati. La sua 7 conclusione: i meccanismi di incentivazione tradizionale “possono spegnere la motivazione intrinseca, diminuire le performance, distruggere la creatività ed espellere i corretti comportamenti organizzativi. Possono anche....incoraggiare comportamenti non etici.... e favorire l’orientamento al breve periodo”. Valutazioni di natura psicologica degli incentivi economici affermano che mentre possono contribuire a contrastare la “adverse selection” (l’attirare e trattenere in azienda i poor performers) e il “moral hazard” (la possibilità per i dipendenti di sottrarsi alle loro responsabilità), possono anche indebolire le motivazioni di natura etica, altruistica o semplicemente intrinseca che i dipendenti già mettono nel perseguire gli obiettivi organizzativi (Pink, 2009 e Bowles, 2008). Nel valutare l’implementazione di incentivi di natura economica, vanno quindi valutati i seguenti aspetti: - se i dipendenti già mostrano i comportamenti organizzativi desiderati - qual è il messaggio implicito del programma di incentivi - qual è il grado di rilevanza della creatività, dell’orientamento all’innovazione, dell’orientamento al lungo periodo e della collaborazione che ci si attende dai dipendenti Conclusioni Quello che le ricerche, gli studi e gli esempi citati mostrano è che questi “miti” – per quanto spesso basati su evidenze parziali o su percezioni organizzative – tendono ad essere sopravvalutati e troppo spesso si fa affidamento su di loro come base istintiva ed automatica per determinare interventi ed azioni. Nel caso precedentemente citato del centro di assistenza per l’infanzia, la maggioranza delle persone non avrebbe previsto che l’imposizione di multe potesse potenzialmente condurre a spingere i genitori a passare a ritirare i bambini in ritardo. Purtroppo è difficile evitare questi errori. La complessità che caratterizza le politiche HR può portare a conseguenze negative inaspettate con ancor maggior frequenza. L’imperativo per coloro che sono impegnati nel ripensare le politiche di total reward è quindi di “alzare l’asticella” e pensare attentamente a quali modifiche nelle policy possono potenzialmente generare risultati positivi, tenendo presenti allo stesso tempo non solo i propositi e gli obiettivi che ci si pone, ma anche i potenziali effetti collaterali che ne possono derivare. In definitiva è importante, in primo luogo, testare quali programmi stanno portando i risultati attesi. Questo può significare dover investire tempo nel fare dei test pilota per i nuovi programmi su ambiti più ridotti prima della loro estensione al complesso dell’organizzazione, una opzione che spesso non viene presa in considerazione. Se non ci fosse il tempo o la possibilità di effettuare questi test, bisogna monitorare i programmi e fare affidamento su tecniche statistiche per misurare il loro impatto sull’organizzazione e rifinirne componenti e parametri. Questi metodi di analisi statistica possono anche servire per valutare quanto i vari programmi risultino essere compatibili e coerenti tra loro. Se, quindi, ci si accorge che il sistema di performance management non funziona, forse i suoi contenuti, linee guida ed obiettivi sottostanti sono stati distorti da uno o più dei miti sopra esposti. Valerio Salone 8 Bibliografia Akerlof, G.A.; Yellin, J.L., Efficiency Wage Models of the Labor Market, Cambridge University Press, Cambridge, 1986 Ariely, D.; Gneezy, U.; Lowenstein, G.; Mazar, N., Large Stakes and Big Mistakes, Review of Economic Studies 76(2), p. 451-69, 2009 Becker, G.S., Human Capital: A Theoretical and Empirical Analysis, with Special Reference to Education, 3rd ed., University of Chicago Press, Chicago, 1975, 1993 Bowles, S., Policies Designed for Self-Interested Citizens May Undermine ‘The Moral Sentiments:’ Evidence from Economic Experiments, Science, p. 1605-09, June 20, 2008 Gneezy, U.; Rustichini, A., A Fine Is a Price, Journal of Legal Studies 29(1), p. 1-17, 2000 Guzzo, R.A.; Jette, R.D.; R.A. Katzell, R.A., The Effects of Psychologically Based Intervention Programs on Worker Productivity: A Meta-Analysis, Personnel Psychology 38(2), p. 275-91, 1985 Lazear, E. P.; Rosen. S., Rank-Order Tournaments as Optimum Labor Contracts, Journal of Political Economy 89(5), p.841-64, 1981 Levine, B.; Nugent, K., Rethinking Careers to Enhance Business Success, WorldatWork Journal 14(3), p. 6163, 2005. Nalbantian, H.R.; Guzzo, R.A.; Kieffer, D.; J. Doherty, J.,. Play to Your Strengths: Managing Your Internal Labor Markets for Lasting Competitive Advantage, McGraw-Hill, New York, 2004 Pink, D.H., Drive: The Surprising Truth About What Motivates Us, Riverhead Books, New York, 2009 Scullen, S.E.; Bergey, P.K.; Aiman-Smith. L., Forced Distribution Rating Systems And The Improvement Of Workforce Potential, Personnel Psychology 58(1), p. 1-32, 2005 Il presente articolo è ispirato ed adattato dall’articolo “Abandoning Pay-for-Performance myths in favor of evidence”, B. Levine, Colleen O’Neill, World at Work Journal, First Quarter 2011 9 Mercer Mercer è leader globale nella consulenza per lo sviluppo e l’organizzazione del capitale umano, per i servizi attuariali, previdenziali e per la gestione degli investimenti degli investitori istituzionali. Mercer è presente in più di 40 Paesi, con oltre 20mila consulenti. In Italia ha sedi a Milano e Roma e conta su uno staff di oltre 80 consulenti e professionisti. Serve circa 400 clienti, con un portafoglio di servizi ricco e differenziato, lavorando in partnership con alcuni dei più importanti gruppi industriali italiani ed esteri e con i principali istituti finanziari italiani. Mercer lavora con le aziende per aiutarle a risolvere le loro principali problematiche di business attraverso la progettazione e la gestione di tutti gli strumenti di sviluppo del capitale umano, con particolare attenzione alla remunerazione e valorizzazione di executive e talenti, al miglioramento del funzionamento organizzativo e all’ottimizzazione di piani previdenziali e di benefit. 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