L`eroe di Virgilio e l`eroe di Lucano a confronto

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L`eroe di Virgilio e l`eroe di Lucano a confronto
Due profezie antitetiche
Ecco come Lucano ribalta la positiva profezia fatta da Anchise ad Enea:
all’ottimistica rassegna degli eroi e delle glorie venture di Roma si sostituisce la
previsione cupa dell’imminente rovina.
Hi tibi Nomentum et Gabios urbemque Fidenam,
hi Collatinas inponent montibus arces,
Pometios, Castrumque Inui, Bolamque Coramque.
Haec tum nomina erunt, nunc sunt sine nomine terrae.
Aen. VI 773 ss.
Per tua gloria fonderanno questi Nomento, Gabi,
la città di Fidene e sui monti le rocche collatine,
Pomezia, Castro d’Inuo, e Bola e Cora.
Questi saranno allora i loro nomi, ora sono terre innominate.
(Trad. M. Ramous)
Tunc omne Latinum
fabula nomen erit: Gabios Veiosque Coramque
pulvere vix tectae poterunt monstrare ruinae.
Phars. VII 391 ss.
Allora il nome latino
sarà una leggenda: le rovine coperte di polvere
potranno appena attestare Gabi, Veio, Cora.
(Trad. L. Canali)
L’eroe di Virgilio e l’eroe di Lucano a confronto
Diamo un altro esempio di ripresa antifrastica di Virgilio. Nel quarto libro
dell’Eneide, Enea si presenta come l’eroe epico tradizionale giovane e
vigoroso. Egli è irremovibile di fronte alle suppliche di Didone al pari di una
quercia dal fusto annoso, che resiste alle raffiche della tramontana stando
abbarbicata alle radici tenaci e profondamente infisse nella roccia (ipsa haeret
scopulis, Aen. IV 445). Invece nella Pharsalia Pompeo, l’ondivago e declinante
eroe della nuova epica rovesciata, è pure confrontato a una quercia con
evidente citazione del passo virgiliano, ma è un quercia instabile e vacillante
(nec iam validis radicibus haeret, Phars. I 138):
Sed nullis ille5 movetur
fletibus aut voces ullas tractabilis audit:
fata obstant placidasque viri deus obstruit auris.
Ac velut annosa validam cum robore quercum
Alpini Boreae nunc hinc nunc flatibus illinc
eruere inter se certant; it stridor et altae
consternunt terram concusso stipite frondes;
ipsa haeret scopulis et quantum vertice ad auras
aetherias, tantum radicem in Tartara tendit.
Aen. IV 437-446
Ma Enea al pianto non si piega,
non s’intenerisce e nemmeno ascolta le preghiere:
si oppone il fato; un dio lo rende sordo, imperturbabile.
E come, qua e là, con raffiche lottano fra loro
le tramontane alpine per abbattere una quercia vigorosa
dal fusto annoso; si leva un frastuono e tutto intorno
al tronco squassato si spargono dalla cima a terra le fronde,
e quella s’abbarbica alle rocce e quanto più svetta nella distesa
del cielo, tanto con le sue radici si protende verso il Tartaro.
(Trad. M. Ramous)
Nec coiere pares6. Alter7 vergentibus annis
in senium longoque togae tranquillior usu
dedidicit iam pace ducem famaeque petitor
multa dare in vulgus, totus popularibus auris
impelli, plausuque sui gaudere theatri
5
Cioè Enea.
Cesare e Pompeo.
7
Pompeo.
6
nec reparare novas vires, multumque priori
credere fortunae. Stat, magni nominis umbra,
qualis frugifero quercus sublimis in agro
exuvias veteris populi sacrataque gestans
dona ducum; nec iam validis radicibus haeret,
pondere fixa suo est, nudosque per aera ramos
effundens, trunco non frondibus efficit umbram.
Phars. I 129-157
Né si scontrarono alla pari: l’uno al declinare degli anni
in vecchiaia, meno impetuoso per il lungo uso della toga,
ha già disappreso nella pace la parte del condottiero, e assetato
di gloria, molto concedeva al volgo, si lasciava spingere
interamente dal favore popolare e si compiaceva degli applausi del suo teatro,
non preparava nuove forze e si affidava molto alla fortuna
passata. Si erge, ombra di un grande nome,
quale una quercia maestosa su un fertile terreno
adorna delle spoglie d’un popolo antico e delle sacre
offerte dei capi, non si abbarbica più con forti radici,
ristà nel suo peso effondendo nell’aria i nudi rami,
ombreggia soltanto con il tronco, e non con le fronde.
(Trad. L. Canali)
La nekyomantèia del VI libro della Pharsalia (695-770). In questa scena di
necromanzia la maga Eritto svela il futuro a Sesto Pompeo attraverso la
profezia resa da un cadavere, cui viene provvisoriamente restituita la vita. Si
tratta ancora una volta di un ribaltamento antifrastico dell’Eneide. La
nekyomantéia (o negromanzia) del VI libro della Pharsalia – che nel progetto
rimasto incompiuto probabilmente doveva occupare il centro del poema –
costituisce il pendant della discesa agli Inferi del VI libro del poema virgiliano.
In entrambi i casi si tratta di profezie, ma del tutto opposte: nell’Eneide Anchise
svela ad Enea la grandezza di Roma, nella Pharsalia è prevista la sua rovina.
Alla venerabile sacerdotessa di Apollo, la Sibilla cumana, si sostituisce
un’orrida maga, ai placidi Campi Elisi un abominevole antro di streghe.
«Eumenides Stygiumque nefas Poenaeque nocentum
et Chaos innumeros avidum confundere mundos
et rector terrae, quem longa in saecula torquet
mors dilata deum; Styx8, et, quos nulla meretur
Thessalis Elysios; caelum matremque perosa
Persephone, nostraeque Hecates pars ultima9, per quam
manibus et mihi sunt tacitae commercia linguae,
ianitor et sedis laxae, qui viscera saevo
spargis nostra cani10 repetitaque fila sorores
tracturae, tuque o flagrantis portitor11 undae,
iam lassate senex ad me redeuntibus umbris,
exaudite preces; si vos satis ore nefando
pollutoque voco, si numquam haec carmina fibris
humanis ieiuna cano, si pectora plena
saepe dedi, lavi calido prosecta cerebro,
si quisquis vestris caput extaque lancibus infans
inposuit victurus erat, parete precanti.
Non in Tartareo latitantem poscimus antro
adsuetamque diu tenebris, modo luce fugata
descendentem animam; primo pallentis hiatu
haeret adhuc Orci12, licet has exaudiat herbas,
ad manes ventura semel. Ducis omnia nato
Pompeiana canat nostri modo militis umbra,
si bene de vobis civilia bella merentur13».
Haec ubi fata caput spumantiaque ora levavit,
aspicit adstantem proiecti corporis umbram,
exanimes artus invisaque claustra timentem
carceris antiqui. Pavet ire in pectus apertum
visceraque et ruptas letali vulnere fibras.
8
Eumenides … Chaos … quem … Styx: le Eumenidi (dette anche Erinni) sono dee della vendetta. Il Caos è lo
stato primordiale della materia. Stige è un fiume infernale e il suo cruccio è di dover attendere la morte degli
dei. Dunque, anche gli dei sarebbero mortali e la loro morte è solo differita nel tempo.
9
nostraeque … ultima: Diana-Artemide si manifesta in forma triplice: come dea della caccia, come Luna e, col
nome di Ecate, come dea infernale.
10
saevo … cani: Cerbero, mostro con aspetto di cane posto a guardia dell’oltretomba.
11
sorores … portitor: le Parche, dee che filavano il filo della vita; il traghettatore è il nocchiero infernale
Caronte.
12
Orci: re degli Inferi (cioè Plutone), ma anche l’Oltretomba in genere.
13
si bene … merentur: il merito delle guerre civili, presso le divinità infernali, sta nel fatto che hanno causato
un grande afflusso di morti.
A miser, extremum cui mortis munus inique
eripitur, non posse mori14. Miratur Erictho
has fatis licuisse moras, irataque Morti
verberat inmotum vivo serpente cadaver,
perque cavas terrae, quas egit carmine, rimas
manibus15 inlatrat regnique silentia rumpit.
«Tisiphone vocisque meae secura Megaera16,
non agitis saevis Erebi per inane flagellis
infelicem animam? Iam vos ego nomine vero
eliciam Stygiasque canes in luce superna
destituam; per busta sequar per funera custos.
[…]
Protinus astrictus caluit cruor atraque fovit
vulnera et in venas extremaque membra cucurrit.
Percussae gelido trepidant sub pectore fibrae,
et nova desuetis subrepens vita medullis
miscetur morti. Tunc omnis palpitat artus,
tenduntur nervi; nec se tellure cadaver
paulatim per membra levat terraque repulsum est
erectumque semel. Distento lumina rictu
nudantur. Nondum facies viventis in illo,
iam morientis erat; remanet pallorque rigorque,
et stupet inlatus mundo. Sed murmure nullo
ora adstricta sonant: vox illi linguaque tantum
responsura datur. «Dic» inquit Thessala «magna,
quod iubeo, mercede mihi; nam vera locutum
inmunem toto mundi praestabimus aevo
artibus Haemoniis: tali tua membra sepulchro,
talibus exuram Stygio cum carmine silvis,
ut nullos cantata magos exaudiat umbra.
Sit tanti vixisse iterum: nec verba nec herbae
audebunt longae somnum tibi solvere Lethes
a me morte data.
14
nec posse mori: chi è morto non può più morire. Ma al soldato resuscitato è tolto anche questo diritto, infatti
dovrà morire di nuovo dopo la profezia.
15
manibus: i Manes, le anime dei morti.
16
Tisiphone … Megaera: due delle Furie infernali.
«O Eumenidi, vergogna dello Stige, castigo dei colpevoli,
o Caos bramoso di confondere innumerevoli mondi,
o Stige, signore della terra, che ti crucci per la morte differita
degli dèi, o Elisio che nessuna Tessala merita;
o Persefone che odi il cielo e la madre, o ultima
fase della nostra Ecate che dai a me e alle ombre
la facoltà di comunicare in silenzio, o custode del vasto
Inferno che getti le nostre viscere al crudele cane,
e voi, sorelle che filate gli stami della vita
per poi troncarli, o traghettatore dell’onda bollente,
vecchio ormai stancato dalle ombre che ritornano a me,
esaudite lo scongiuro: se v’invoco con voce abbastanza empia
e nefanda, se mai pronuncio incantesimi digiuna
di carni umane, se spesso vi ho offerto grembi fecondi,
se ho deterso con calde cervella membra tagliate,
se erano destinati a vivere tutti i fanciulli
di cui ho imbandito il capo e le viscere sui vostri piatti,
esauditemi. Non vi chiedo un’anima già sprofondata nel Tartaro,
e da tempo avvezza alle tenebre, ma una che ha appena lasciato
la luce e sta discendendo; è ancora ferma sulla soglia
del pallido Orco, e anche se obbedisca all’incantesimo
scenderà fra le ombre una volta sola. L’anima d’un soldato,
nostra da poco, predica i destini pompeiani al figlio
del condottiero, se le guerre civili meritano qualcosa da voi».
Dette queste parole solleva il capo del morto
disteso e la bocca schiumante, e ne vede l’anima eretta,
atterrita dalle membra esanimi e dalla chiostra dell’antico carcere.
Teme di dover rientrare nel petto squarciato,
nei visceri e nelle fibre lacerate da mortale ferita.
O sventurato, cui è sottratto iniquamente l’estremo privilegio
della morte, il poter morire. Erictho si stupisce
che ai fati si permettano tali indugi e, adirata con la Morte,
frusta il cadavere immoto con un vivo serpente,
attraverso fenditure della terra prodotte per incantesimo,
latra contro i Mani e rompe i silenzi del regno:
«Tisifone e Megera, sorde alla mia voce, con sferze
crudeli non cacciate attraverso il vuoto dell’Erebo
quest’anima disgraziata? Vi chiamerò con il vostro vero nome,
cagne dello Stige, quassù nell’aria superna,
e lì vi lascerò inseguendovi ostinata per tombe e sepolcri,
vi stanerò dai tumuli, vi scaccerò da tutte le urne.
[…]
Subito il sangue coagulato si scalda, ravviva le nere
ferite e scorre nelle vene fino all’estremità delle membra.
Trepidano le fibre percosse nel gelido petto,
e la nuova vita insinuandosi nelle midolla disavvezze
si mischia alla morte. Palpitano tutti gli arti,
si tendono i nervi. Il cadavere non si solleva lentamente
membro per membro, dalla terra, ma ne viene respinto
d’un colpo solo. Allentatesi le palpebre riappaiono
gli occhi. Non ha ancora l’aspetto di un vivo,
bensì d’un morente, permangono la rigidezza e il pallore,
è attonito al ritorno nel mondo. Ma ancora la bocca serrata
non risuona d’un murmure: ha riavuto la lingua e la voce
solo per rispondere: «Dimmi ciò che ti ordino»
esclama la Tessala «e ne avrai un grande compenso: se dici
il vero, t’affrancherò dai sortilegi emonii per tutta la durata
del mondo; brucerò le tue membra su un tale rogo
e con tale legna a formule stigie, che la tua ombra
non dovrà ascoltare più scongiuri di maghi.
Questo il premio della resurrezione: né parole, né erbe
– con la morte data da me – oseranno interrompere il sonno del tuo lungo Lete».
(Trad. L. Canali)
La preghiera della maga (vv. 695-718) rivolta alle Eumenidi (o Erinni, spiriti
della vendetta) e alle altre divinità infernali esemplifica assai bene il gusto
dell’horror di Lucano. Abbondano i particolari macabri e orripilanti, in particolare
nei versi (706 ss.) nei quali Eritto enumera i suoi nefandi riti. Segue la richiesta
empia e contraria a ogni diritto umano e divino di potere resuscitare l’anima di
un soldato morto di recente, perché predìca i destini di Pompeo al figlio del
condottiero (712-718). Di grande efficacia sono le immagini dell’anima
recalcitrante, che teme di dovere rientrare nel corpo straziato (721-722) e
quella del faticoso ritorno in vita del cadavere (750 ss.).