Daniele l`ultima speranza per tutta la storia

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Daniele l`ultima speranza per tutta la storia
Capitolo 35
Daniele
l’ultima speranza per tutta la storia
1. Un libro complesso
1.1. Scritto o profezia?
Una prima intelligenza di questo libro, pieno di racconti storico-simbolici e di visioni, possiamo ottenerla dalle vicende della sua differente collocazione canonica nella Bibbia ebraica
e nella Bibbia greca. Nella Bibbia ebraica esso si trova nella terza sezione, degli Scritti, tra il
libro di Ester e quello di Esdra e Neemia. La LXX, e poi anche la versione di Teodozione1, lo
hanno spostato tra i grandi Profeti, che appaiono dopo i Profeti minori. Daniele è posto dopo
Ezechiele. La collocazione tramandata fino a oggi dalle Bibbie latine nelle edizioni cattoliche
della Bibbia è quella della Volgata. Daniele, dunque, deve essere letto come uno «scritto» o
come una «profezia»?
1.2. La lingua
La lingua del libro è duplice, come nel libro di Esdra: al principio abbiamo l’ebraico, ma in
Dn 2,4 si passa all’aramaico, che rimane fino alla fine del capitolo 7. Nei capitoli 8-12 riprende l’ebraico. Le versioni greche (e le loro versioni latine) aggiungono alcune parti deuterocanoniche in greco: il salmo di Azaria e il cantico dei tre giovani nella fornace, una specie
di «cantico delle creature» (Dn 3,24-90; cf. Sal 148); la storia di Susanna (Dn 13); quella satirica circa i cibi offerti all’idolo Bel e mangiati dai suoi sacerdoti (Dn 14,1-22); e quella del
grande drago ucciso da Daniele, con il doppione dell’episodio del capitolo 6, di Daniele salvato nella fossa dei leoni dall’angelo del Signore e nutrito dal profeta Abacuc, trasportato a
Babilonia in volo dalla Giudea (Dn 14,23-42)2. Dn 13 e 14, all’origine, rappresentavano forse
dei racconti indipendenti che sono stati aggiunti al libro di Daniele più tardi.
Questa pluralità di lingue si spiega forse ipotizzando che i capitoli 2-7 siano esistiti indipendentemente, come una raccolta aramaica. Il movimento nazionalistico del periodo maccabaico, promuovendo un ritorno alla lingua ebraica, vi avrebbe aggiunto i capitoli 8-12 (composti in un ebraico aramaizzato), introducendoli con il capitolo 1, pure in ebraico. È possibile,
dunque, che il libro di Daniele rappresenti una redazione finale, e piuttosto complessa, di testi
aventi autori differenti.
1.3. Il protagonista e i suoi amici
Il personaggio messo in scena fin dal principio è Daniele (Daniyye’l = il mio giudice è
Dio), un giovane israelita trasferito con altri tre compagni, Anania, Misaele e Azaria3, nella
corte babilonese per esservi istruito nella scrittura e nella lingua dei caldei. Ezechiele parla di
un Daniele, un personaggio popolare della tradizione israelitica, affiancato a Noè e a Giobbe,
un esempio di giustizia, saggezza e prudenza (14,14.20; 28,3). Esso è menzionato (come
DN’L) nei poemi ugaritici di Ras-Shamra del secolo XIV a.C. Il nome di questo eroe leggen1
La versione greca di Teodozione viene comunemente datata al tempo dell’imperatore Commodo (180-192
d.C.), ma secondo alcuni autori essa esisteva già nel secolo I, come revisione precedene del testo della LXX. Per
quanto concerne Dn, Teodozione differisce alquanto dalla LXX e la sua versione è stata subito accettata
largamente anche nelle Chiese. Generalmente è preferita alla LXX anche dalle traduzioni moderne.
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Cf. Ger 51,44. Qui, però, la motivazione della condanna a morte di Daniele è differente (Dn 14,28-32).
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Anania significa: «Dio ha avuto pietà»; Misaele: «chi è come Dio?» e Azaria: «YHWH ha aiutato».
dario può essere stato scelto come soggetto e portatore delle rivelazioni del nostro libro.
L’autore vero del libro, nella sua redazione finale, deve essere un chasid, un giudeo pio, di
quelli che, pur simpatizzando per il movimento maccabaico, attendevano la salvezza dal Signore, più che dalle mani dell’uomo (cf. Dn 2,34.45; 8,24-25).
1.4. La composizione del libro
I primi sei capitoli trasferiscono il lettore alla corte babilonese nel secolo VI a.C. Questo
fatto suggerì agli antichi esegeti di attribuire anche la composizione dell’opera a quel periodo,
considerando quindi le visioni seguenti dei capitoli 7-12 come «profezie», intese come predizioni miracolose di eventi che dovevano prodursi a distanza di secoli. Una contestualizzazione di tali visioni, molto più precisa, nel periodo dei Seleucidi, e il tipo di lingua aramaica ed
ebraica utilizzate, convincono gli esegeti odierni ad attribuire la composizione del libro al II
secolo a.C., tra il 167 e il 164, prima della morte di Antioco IV e alla vigilia della rivolta dei
Maccabei.
2. I racconti (Dn 1-6)
2.1. Contenuti
La prima parte del libro (Dn 1-6) contiene sei racconti - pieni di incongruenze storiche –
che narrano sei avventure di Daniele alle corti babilonese e meda.
1) I quattro giovani giudei alla corte di Nabucodonosor (Dn 1). I quattro giovani, scelti tra
altri per il servizio del re di Babilonia, attenendosi alle prescrizioni alimentari della Torah,
rifiutano di condividere il cibo e le bevande del re, temendo di essere contaminati (1,8) da
cibi che potevano contenere ancora il sangue degli animali (cf. Dt 12,23-24) o provenire da
specie impure (cf. Lv 11,4-7), o che sono stati offerti a divinità (cf. Dt 32,38) 4. Non rifiutano
invece di vivere in una corte pagana e di studiare la scienza e la letteratura babilonesi, poiché
essi credevano che ogni sapienza, inclusa quella dei pagani, viene da YHWH (cf. Sir 1,1-10).
Il racconto termina affermando che «Dio concesse a questi quattro giovani di conoscere e
comprendere ogni scrittura e ogni sapienza» (1,17), al punto che «in qualunque affare di sapienza e intelligenza su cui il re li interrogasse, li trovò dieci volte superiori a tutti i maghi e
astrologi che c’erano in tutto il suo regno» (1,20).
2) Il sogno di Nabucodonosor (Dn 2). Un incubo mette in agitazione il re, che chiama a sé
«i maghi, gli astrologi, gli incantatori e i caldei» e ordina loro, sotto minaccia di morte, di rivelargli il contenuto del sogno (che sembra non ricordare più) e la sua spiegazione. Gli «esperti» babilonesi reclamano che nessun re aveva mai fatto prima una richiesta simile. La loro
morte sarebbe stata inevitabile se non fosse intervenuto Daniele, chiamato Baltazzar, che indovina e decifra il sogno in virtù di una rivelazione del «Dio del cielo», che egli benedice5:
una statua composita di oro, argento, bronzo, ferro mescolato a creta (i matrimoni dinastici tra
Lagidi e Seleucidi), simboleggia quattro regni - neobabilonese, medo, persiano, ellenistico che si succedono sulla scena della storia, fino all’avvento di quello escatologico di una pietra
4
Si ricordi, ad esempio, l’episodio di Eleazaro in 2Mc 6,18-28, il quale preferì una morte gloriosa ad una vita in
cui si sarebbe potuto contaminare. Durante la persecuzione di Antioco IV, Eleazaro fu costretto ad aprire la
bocca per ingoiare carne di maiale, ma egli la sputò immediatamente «e andò volontariamente verso il martirio».
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Cf. Dn 2,17.19.28.37.44. E’ il titolo di Dio nei testi ufficiali persiani (Esd 5,11; 7,12).
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staccatasi dal monte, ma non per mano d’uomo, che distrugge la statua6. La rivelazione e interpretazione del sogno strappa al re la confessione di fede nel Dio d’Israele (2,46-49).
3) L’adorazione della statua d’oro (Dn 3,1-23 [24-90 gr.].24-30[91-97 gr.]). Sembra che
il re Nabucodonosor non abbia imparato nulla dall’esperienza sconvolgente del precedente
episodio, ed anche il suo atto di fede nei confronti del Dio di Israele come «il Dio degli dèi»
viene ora sconfessato. Infatti fa erigere un idolo gigantesco tutto d’oro, inducendo con
l’intimidazione ogni suddito ad adorarlo. La statua era «alta sessanta cubiti e larga sei» (3,1),
corrispondenti a circa 30 metri di altezza e tre di larghezza. Un’immensa scultura ancora più
grande dei famosi Colossi di Memnon, in Egitto, non lontano da Tebe, ognuno dei quali era
stato ricavato da un unico blocco di pietra alto circa 20 metri. Tuttavia le misure della statua
possono essere intese anche simbolicamente. Il numero 6, infatti, che troviamo nell’altezza e
nella larghezza, è simbolo dell’imperfezione. Così in Ap 13,18 il numero della bestia è «seicentosessantasei» (6 ripetuto tre volte) per indicare che essa è la peggiore creatura che si possa immaginare, la più imperfetta.
Come in Gdt 2,2, Nabucodònosor convoca tutti i dignitari del suo impero quando decide di
fare qualcosa di importante. Egli ordina loro di partecipare all’inaugurazione della statua ed
essi vi si disposero attorno (3,2-3). Poi un banditore annuncia ad alta voce il proclama del re
alle «nazioni ed ai popoli di ogni lingua»: al «suono del corno, del flauto, della cetra,
dell’arpicordo, del salterio, della zampogna, e d’ogni specie di strumenti musicali» ognuno
deve prostrarsi e adorare la statua d’oro (3,5). Chiunque si rifiuti di farlo sarà «gettato in quel
medesimo istante in mezzo ad una fornace di fuoco ardente» (3,6)7. I tre compagni di Daniele
restano leali alla loro fede sfidando il decreto del re. Vengono denunciati da alcuni caldei
(cioè dai sapienti di Babilonia) che, come sembra del contesto, sembra fossero gelosi dei
quattro giovani per la loro sapienza. Vedono pertanto in questo rifiuto l’occasione propizia di
liberarsi dei tre giovani una volta per tutti. Ma questi caldei si dimostrano anche ingrati, perché essi debbono la loro vita proprio a Daniele e ai suoi compagni (cap. 2). Incollerito per la
loro condotta il re offre ai tre giovani l’ultima possibilità di salvarsi (3,14-15), ma essi, confessando la loro fede in YHWH, si rifiutano di adorare la statua. Il re allora convoca non i suoi
soliti servitori ma «alcuni uomini fra i più forti dell’esercito» per legare i tre israeliti dissidenti e gettarli nella fornace con il fuoco acceso (3,20). Ironicamente c’è bisogno dei soldati più
forti non per legare avversari temibili ma degli israeliti indifesi che per proteggersi si affidano
solo alla potenza di Dio! E, ancora con ironia, proprio questi soldati vengono consumati da
quello stesso fuoco che essi avevano alimentato nella fornace (3,22), mentre il calore delle
fiamme – per l’intervento dell’«angelo del Signore» (cf. 3,49) – non provoca alcun danno ai
tre giovani. Quando il re si accorge di ciò che era successo, fa uscire i giovani dalla fornace e,
riconoscendo la trascendenza del loro Dio, lo benedice (3,95)8. Addirittura il re loda i tre
«confessori» per aver trasgredito il suo comando esponendo i loro corpi alle fiamme. Infine,
decreta che «chiunque, a qualsiasi popolo, nazione o lingua appartenga, proferirà offesa con6
L’avvento del regno di Dio è contemplato come un avvenire in continuità con il presente. Si tratta di una
prossimità teologica, che non va confusa con un’imminenza cronologica. Più tardi GIUSEPPE FLAVIO (Antichità
giudaiche, X, 203-210) e la letteratura rabbinica (Talmud babilonese ‘Abodah zarah 2ab) reinterpreteranno i
quattro regni come Babilonia, l’impero medo-persiano, Grecia e Roma.
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Secondo Ger 29,22, due falsi profeti, Sedecìa e Acab, vengono fatti arrostire sul fuoco del re Nabucodònosor
II. La condanna al rogo è una pena che ritroviamo anche nella Regola 110 del Codice di Hammurabi (1776-1686
a.C.).
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E’ un racconto che illustra bene il testo di Is 43,1-3 contro l’affermazione arrogante di Nabucodonosor in Dn
3,15. Il motivo dell’essere «gettati in mezzo a una fornace di fuoco ardente», di Dn 3,6 LXX, sarà letteralmente
citato da Mt 13,42.50, nella spiegazione della parabola della zizzania e nella parabola del regno dei cieli simile a
una rete da pesca. A questo racconto alludono 1Mac 2,59 ed Eb 11,34. Mt 13,43, inoltre, a proposito della sorte
dei giusti, i quali splenderanno come il sole, cita il verbo eklampsousin di Dn 12,3 (Teod).
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tro il Dio di Sadràh, Mesàch e Abdènego, sia tagliato a pezzi e la sua casa sia ridotta a un
mucchio di rovine, poiché nessun altro dio può in tal maniera liberare» (3,96). Il decreto,
quindi, avvalora la legittimazione ed il rispetto dovuti alla religione ebraica da parte di tutte le
nazioni e popoli soggetti al re9.
4) Il sogno premonitore del grande albero (4,1-34). Il re ha sognato un grande albero, che
simboleggia lo stesso re, il quale viene tagliato; il ceppo che viene lasciato nella terra diventa
folle, e come tale si comporta per sette tempi - così avviene ancor oggi ai dittatori più bestiali
-, finché – come leggiamo nell’interpretazione del sogno da parte di Daniele, chiamato Baltazzar, il re non piegherà il suo orgoglio riconoscendo e benedicendo il Re del cielo che domina su tutti i regni umani10. Daniele esorta il re a scontare i suoi peccati con l’elemosina e
con atti di misericordia verso gli afflitti, e a sottomettersi all’Altissimo. Solo allora egli ricupererà il senno e la sua maestà e splendore (Dn 3,98-4,24). In 4,25-34 si racconta la realizzazione del sogno premonitore.
5) Il banchetto del re Baldassar (5,1-30). Il re Baldassar imbandisce un banchetto sacrilego per i suoi dignitari11: fa portare i vasi d’oro e d’argento asportati dal tempio di Gerusalemme (che vengono dissacrati in quanto utilizzati come normali calici in cui bere) e loda,
insieme agli ospiti, «gli dèi d’oro, d’argento, di bronzo, di ferro, di legno e di pietra» (5,3-4).
L’apparizione di una scritta (mene’, teqel, peres) tracciata dalle dita di una mano d’uomo sulla
parete della sala reale spaventa il re. Questa viene interpretata come un gioco di parole da
Daniele. Cosa significa questo gioco verbale? I tre termini in aramaico sono termini di moneta, di pesi (le monete sono sorte inizialmente come pesi). Abbiamo prima di tutto mene’, termine grecizzante che richiama la «mina», un’unità di misura. Il termine teqel, aramaico, è equivalente all’ebraico shekel che è ancora l’unità di misura delle monete dell’Israele di oggi,
il siclo. Infine peres è la mezza mina. Tre monte, tre pesi; ma ecco il gioco verbale per assonanza: la parola mene’ evoca, per assonanza, il verbo ebraico mana’ (mené-el in aramaico significa: «Dio ha misurato»); teqel evoca l’aramaico tekiltà, che vuol dire: «sei stato pesato»;
peres evoca per assonanza l’aramaico perisath, che significa: «è stato diviso». C’è una bilancia ideale: da un lato vengono messi i pesi dei regni e dall’altra parte questi pesi parlano proprio col gioco delle parole: una mina, un siclo, una mezza mina. La mina evoca una realtà che
è misurata e bloccata; tekiltà, «sei stato pesato» per quello che vali, cioè nulla e ormai «sei
stato diviso», hai un regno smembrato, squartato (perisath). Il racconto termina con
l’elevazione di Daniele a «terzo uomo del regno» e la morte del tiranno la notte stessa (Dn
5,1-6,1).
6) Daniele nella fossa dei leoni (6,1-29) E’un racconto parallelo al secondo: Daniele, sti-
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Ciò corrispondeva esattamente al tipo di tolleranza religiosa cui aspiravano i giudei del secondo sec. d.C., ma
che fu loro negata durante il brutale regime di Antioco IV Epifane.
10
Nel sogno intervengono degli esseri santi, chiamati «Vigilanti» (‘irin: Dn 4.10.14.20). Si tratta di angeli,
sempre desti per il servizio di Dio (cf. Ez 1,18; Zc 4,1b). Se ne parla molto nei libri apocrifi del periodo
intertestamentario, come nei Libri di Enoch, nei Testamenti dei dodici patriarchi, nel Libro dei Giubilei, ecc. Il
libro di Daniele è contemporaneo di questa letteratura di «misteri», nei quali si tratta del mondo invisibile
(specialmente angelico) che sovrasta o sottostà al mondo storico.
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Benché Baldassàr sia stato un personaggio storico realmente esistito, a rigor di termini non fu re di Babilonia.
Inoltre, padre di Baldassàr era Nabonide, che non era neanche discendente di Nabudonòsor ma un usurpatore,
diversamente da quanto sostiene 5,2. Tuttavia Baldassàr fu principe ereditario, e dal terzo dei diciassette anni di
governo di suo padre regnò insieme a lui, dal 549 al 539 a.C. Inoltre, durante le tante prolungate assenze di
Nabonide dalla capitale, Baldassàr fu, in pratica, reggente dell’impero neo-babilonese. E’ inoltre storicamente
esatto che egli fosse in carica quando Babilonia fu conquistata nel 539 a.C. Ma l’autore di questo racconto non è
interessato a questi dettagli storici. Il suo interesse è puramente teologico e spirituale.
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mato da Dario il Medo12, viene da lui nominato governatore. Il modo eccellente con il quale
Daniele svolge questo ruolo, tanto che il re pensava di metterlo a capo di tutto il regno (cf.
6,3), suscita l’invidia degli altri grandi i quali cospirano per farlo morire. Convincono infatti
il re a pubblicare un decreto «secondo il quale chiunque, da ora a trenta giorni, rivolga supplica alcuna a qualsiasi dio o uomo all’infuori di te, o re, sia gettato nella fossa dei leoni» (6,8).
Daniele, che persevera nel pregare JHWH tre volte al giorno, rivolto verso Gerusalemme,
viene gettato nella fossa, ma è miracolosamente salvato dall’intervento dell’angelo del Signore, che chiude le fauci dei leoni, e il re Dario ordina che in tutto l’impero si onori e si tema il
Dio di Daniele (Dn 6,2-29)13.
2.2. La struttura dei primi 7 capitoli del libro
Si noti – se consideriamo il primo racconto (cap. 1) una specie di introduzione alla figura
di Daniele introdotta posteriormente – che la struttura dei primi 7 capitoli (testo aramaico) è
la seguente:
a) i quattro regni (2,1-49)
b) i tre giovani nella fornace per non aver adorato la statua d’oro (3,1-97)
c) sogno di Nabucodonosor (3,98-4,34)
c’) convito di Baldassar (5,1-6,1)
b’) Daniele nella fossa dei leoni per aver pregato solo YHWH (6,1-29)
a’) i quattro regni bestiali (7,1-28)
E’ evidente che questa struttura:
Ö ci presenta la storia come orientata verso il regno di Dio (a e a’), la cui nascita è attribuita al solo intervento divino (cf. 2,44; 7,14.18.27). Caratteristica del regno futuro è la libertà (cf. 2,35.44-45; 7,26) e l’eternità («non sarà mai distrutto»: 2,44; il potere che il «figlio
dell’uomo» riceve «non tramonta mai, il suo regno è tale che non sarà mai distrutto: 7,14a»;
«i santi dell’Altissimo riceveranno il regno e lo possederanno per secoli e secoli»: 7,18; cf.
7,27).
Si noti la visione della storia in questi due testi: essa viene vista in progressivo deterioramento. L’evidente peggioramento espresso dai materiali (2,31-33: oro, argento, bronzo, ferro,
creta) e dalle parti del corpo (testa, petto/braccia, ventre/cosce, gambe, piedi) ha riscontro anche nella progressiva cattiveria e malignità (cf. 7,2-8.17) del leone, dell’orso, del leopardo,
che raggiungono il vertice nella mostruosità indescrivibile della quarta bestia14.
Ö in attesa di tale regno si richiede la fedeltà alla legge (b e b’). I due racconti di Dn 3 e 6
– che possono essere chiamati “atti dei martiri”, delineano infatti il ritratto del vero fedele che
comprende ed accoglie la morte violenta come volontà di Dio;
Ö questa attesa è sostenuta dalla certezza che sui re pagani e idolatri – e, in genere, su ogni
regno superbo di questo mondo -, pende un severo giudizio divino (c e c’).
12
Sarebbe costui un sovrano che precederebbe Ciro, e che è invece sconosciuto agli storici. Dn 5,31 lo menziona
come vincitore dei caldei e conquistatore di Babilonia. Il nome proviene dal ricordo di Dario I, che qui viene
confuso con Ciro il Persiano, della dinastia degli Achemenidi (550-530 a.C.), il quale fu infatti il primo
conquistatore di Babilonia (539 a.C.), dopo aver vinto i medi (il re Astiage: cf. Dn 14,1) ed essersi proclamato re
dei medi e dei persiani (549 a.C.). Ponendo i medi quali sucessori dei babilonesi, prima dei persiani, il libro di
Daniele rivela un’inesattezza di conoscenze storiche, dovuta alla distanza di secoli trascorsi tra la sua
composizione e gli avvenimenti narrati.
13
Questo racconto è ricordato in 1Mc 2,60. Ad esso allude Eb 11,33, che conosce la versione di Teodozione.
14
Questa visione è in sintonia con tutta la letteratura apocalittica, che ha una chiara nota di pessimismo nei
confornti del presente. L’apocalittica, infatti, è soprattutto la celebrazione di una conflagrazione, è la
celebrazione della nascita dalle ceneri del passto e del presente di un mondo nuovo.
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3. Storie e leggende agiografiche confortatrici del popolo di Dio nella prova: Dn 1-6
Lo spostamento della datazione di composizione dal VI al II sec. d.C., ci da una comprensione nuova circa il genere letterario del libro di Daniele. Il messaggio di questo «scritto» va
compreso non partendo dalla prima parte (capp. 1-6), intesa come una «storia» che annunci,
«indovinandoli profeticamente», i misteriosi eventi futuri. Il contesto storico della sua produzione letteraria, cioè la persecuzione seleucida di Antioco IV Epifane, suggerisce piuttosto
che il libro si proponga una specifica finalità consolatoria, presentando, in mezzo alle prove e
alle sofferenze del presente, memorie ed esempi del passato - qui del passato babilonese o
persiano - che permettano di cogliere la parola che il Signore indirizza al suo popolo oggi.
Si tratta di memorie popolari agiografiche, storico-leggendarie15, nelle quali rifulgono la
bellezza, la saggezza e la virtù degli uomini e delle donne di Giuda in mezzo al turbine
dell’esilio e della dispersione tra le nazioni; una bellezza che deriva loro dall’appartenenza al
popolo eletto dal Signore tra tutti gli altri popoli, e che si manifesta nell’attaccamento saggio
e fermo alla Torah di JHWH, mantenuto tra le potenze idolatriche, anche a costo della vita.
L’esilio di ieri fa scuola tra le fiamme (Dn 3,1-90) o tra i leoni (Dn 6,2-20) di oggi.
L’elezione di JHWH non risparmia a Giuda la condizione di trovarsi in diaspora, consegnato nelle mani dei pagani, che lo dominano politicamente, ma lo rende bello e forte nella
ferma fedeltà al Signore, e donandogli una sapienza superiore a tutte le sapienze umane, in
quanto derivante da rivelazioni di Dio (Dn 2,28). In questa loro bellezza, sapienza ed eccezionale forza di Spirito (Dn 6,3), i giudei, pur essendo deportati e oppressi, santificano il nome di JHWH e strappano anche ai loro persecutori il riconoscimento della sua trascendenza
unica.
Un analogo significato ha la lunga storia greca di Susanna. Nella bellezza di una donna
virtuosa, fedele fino al martirio (Dn 13,22-24a), trionfano la potenza e la sapienza di Dio, che
ascolta la voce dell’innocente ingiustamente condannata (Dn 13,44). La delicatezza d’aspetto
e la rara bellezza di forme (Dn 13,2.31-32) di una giovane figlia di Giuda, in esilio a Babilonia, tradiscono e si compongono in lei con bellezze più alte, quella morale della fedeltà al suo
sposo, e quella teologale del suo timore del Signore e della fiducia riposta in lui solo, anche
dinanzi alla morte che le viene minacciata dagli iniqui accusatori (Dn 13,19-21). Tale integra
bellezza, manomessa e devastata dagli occhi cupidi e dall’impura passione dei due anziani
giudici ingiusti (Dn 13,5), viene pudicamente e armonicamente ricomposta e difesa dallo
sguardo ammirato e casto di un ragazzo coraggioso (Dn 13,56), di nome Daniele, in cui il Signore desta un’intelligenza, che è dono dello Spirito Santo (Dn 13,45)16, per giudicare la malizia dei due spregevoli anziani, giudici indegni e corrotti, e salvare il sangue innocente. La
storia termina con la benedizione di Dio da parte di tutta l’assemblea popolare che «salva coloro che sperano in lui» (Dn 13,45-64).
A distanza di quattro secoli, la grande lezione dei profeti dell’esilio viene «popolarizzata»
in piccoli racconti didattici e agiografici, esemplari di come i giudei, il «resto» del popolo di
Dio, debbano e sappiano comportarsi in mezzo alle nazioni pagane. La sapienza e la potenza
di JHWH non si esercitano, in questo periodo storico, nel conferire a Israele una forza politica
o militare superiore a quella delle nazioni, ma si manifestano nella bellezza della sua condotta eroicamente fedele agli insegnamenti e alla Torah del Signore, vissuta dinanzi alle potenze
imperiali pagane, in mezzo a cui il popolo è disperso. Di fronte a tale condotta anche gli im15
In questo senso tale libro, che non sa fare a meno del «racconto storico» (la cui storicità va intesa in modo
diverso da quella dei libri che riportano - sia pure sempre in chiave profetica e teologica - le tradizioni patriarcali d’Israele, o quelle del periodo monarchico o esilico e postesilico), si affianca ad altri libri postesilici che
precedono la rivolta maccabaica, dal libro di Ester a quello di Tobia e al Siracide.
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L’angelo del Signore dà al ragazzo uno spirito d’intelligenza. Più volte, nel libro, si accenna a uno spirito
divino donato a Daniele come a Giuseppe in Egitto: Dn 4,5.6.15; 5,11.14; cf. Gen 41,38-39.
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peri mondani idolatrici vengono guidati a conoscere e lodare il Dio unico d’Israele. In questo
modo dall’oriente all’occidente il nome grande di JHWH viene santificato tra le genti (cf. Mi
1,11), e Israele compie la sua vocazione sacerdotale e missionaria di essere una nazione santa,
la benedizione della terra (cf. Gen 12,13; Es 19,6).
4. Le quattro visioni (Dn 7-12)
Nella seconda parte del libro, come già detto, vengono riportati degli oracoli apocalittici
trasmessi attraverso sogni e visioni di Daniele stesso, interpretati per lui dalla mediazione di
angeli.
1) Le quattro bestie (Dn 7). La prima visione, che conclude il libro aramaico, è la più importante. Essa riprende, con la visione delle quattro bestie, il tema della successione dei quattro imperi narrata a proposito del sogno del re, nel capitolo 2. Ha luogo a Babilonia, e consiste nel sogno notturno fatto da Daniele, di quattro grandi bestie differenti, che salgono dal
mare e si succedono violentemente l’una all’altra. La quarta bestia, che rappresenta l’impero
di Alessandro Magno, ha dieci corna, simbolo dei dieci re ellenistici della dinastia seleucida.
Alla fine, le bestie vengono spodestate da un figlio di uomo (semplicemente: un uomo), che
viene con le nubi del cielo e che, da un Vegliardo (l’Anziano di giorni, YHWH), che siede in
trono, riceve potere eterno, gloria e regno indistruttibile su tutti i popoli (portata etnica), nazioni (dimensione politica) e lingue (significato culturale)17. Secondo la spiegazione che Daniele, svenuto per il turbamento provocatogli dalla visione, ne riceve dall’angelo, le bestie
simboleggiano quattro imperi che si succedono fino a un periodo in cui l’Altissimo verrà insultato (Dn 7,8.25) e i suoi santi saranno distrutti, ma solo per tre tempi e mezzo18. Finalmente, però, la situazione verrà rovesciata, i regni terreni scompariranno di fronte al regno eterno
e universale del popolo dei santi dell’Altissimo, impersonato simbolicamente dal «figlio di
uomo» (Dn 7,13-14.18.21-27). Si noti che non sarà Israele il popolo che subentrerà agli imperi precedenti, come dominatore politico del mondo. Israele, certo, «sarà salvato» (sôthêsethai
ho laos sou), pur in mezzo a dure prove di ogni genere (Dn 11,21-23.32-36), protetto com’è
dagli esseri celesti (Dn 10,13.20-21; 12,1), ma il regno che il Dio del cielo farà sorgere (quello del «popolo dei santi dell’Altissimo») è di natura «celeste» (Dn 12,3) – tale ne sarà
l’interpretazione che anche Gesù ne darà davanti a Pilato (Gv 18,36) – e sarà retto dal figlio
«celeste» dell’uomo, in cui si riassume.
2) Il montone e il capro (Dn 8). Con il cap. 8 comincia la sezione ebraica del libro. Alla
prima visione fa seguito una seconda analoga, che Daniele ha in Susa, presso il fiume Ulai.
La lotta di un montone (con due corna) contro un capro (con un grosso corno), proveniente da
occidente, termina con il sopravvento di quest’ultimo. Il grosso corno del capro si divide poi
17
Questa scena del Vegliardo in trono si trova in 1Enoch 14 e in Ap 4-5. In Ap 12-13 il drago viene descritto
con immagini tratte da Dn 7: si legge, ad esempio, che ha sette teste e dieci corna (Ap 12,3). Il drago trasmette
poi la sua forza a una bestia, anch’essa con dieci corna e sette teste (Ap 13,1) che sale dal mare (cf. Dn 7,2) e
porta su ciascuna testa un titolo blasfemo. Nel testo dell’Apocalisse le quattro bestie di Daniele si fondono in
una figura unica: «La bestia che io vidi era simile a una pantera, con le zampe come quelle di un orso e la bocca
come quella di un leone. Il drago le diede la sua forza… Alla bestia fu data una bocca per proferir parole
d’orgoglio e bestemmie… le fu permesso di far guerra contro i santi e di vincerli» (Ap 13,2.5.7; cf. Dn
7.8.11.21).
18
«Tre tempi e mezzo», la metà di sette (il numero pieno della perfezione e delle cose ben riuscite a Dio: cf. Dn
4,13), è nella letteratura apocalittica la misura del tempo limitato, delle cose mal riuscite, delle calamità e delle
persecuzioni, e anche del dominio degli avversari del piano divino sul mondo, che il Signore lascia liberi di
agire, consegnando loro persino i suoi santi, i quali da questo contrasto escono purificati come l’oro e l’argento
nel crogiuolo: cf. Dn 7,25; 8,14; 12,7.11.12 (con diverse variazioni circa il numero dei giorni); Ap 11,2-3;
12,14; 13,15; e anche Lc 4,25; Gc 5,17.
7
in quattro corni, dai quali ne esce uno che cresce e si espande verso mezzogiorno e verso oriente, verso «lo Splendore» (haTzebi)19. Questi s’innalza fin contro la milizia dei cieli, e la
devasta e distrugge, erigendosi perfino contro il «Capo della milizia» (Sarhatzaba’, cioè Dio
stesso), riuscendo a sottrargli il sacrificio quotidiano, con la profanazione del santuario e la
desolazione dell’iniquità. La milizia viene calpestata e la verità è gettata a terra. Tutto questo
fino al tempo in cui il santuario sia restituito alla giustizia (cf. 8,10-14)20. Secondo la spiegazione della visione offerta a Daniele dall’angelo Gabriele, essa riguarda il termine dell’ira al
tempo della fine (cf. 8,17.19). Nella letteratura apocalittica, gli animali rappresentano spesso
gli imperi e le potenze storiche: qui il montone è l’impero dei medi e dei persiani, mentre il
capro simboleggia l’impero greco-ellenistico, che si divide in quattro regni alla morte di Alessandro. L’ultimo successore di essi è l’empio e fraudolento persecutore (Antioco IV) che,
proprio in questo periodo, sta desolando Gerusalemme, insorgendo contro «il Principe dei
principi» (Sar-sarim, Dio stesso). In realtà, egli non è che uno strumento di Dio e verrà spezzato. Nelle mani di Dio, infatti, sta la sorte dei persecutori (cf. 8,23-26).
3) La profezia delle settanta settimane. In Dn 9 troviamo un genere letterario differente:
l’esegesi «apocalittica» di un testo profetico. Una rivelazione fatta dall’angelo Gabriele a Daniele, «desiderato» da Dio, in risposta alla preghiera di questi (cf. 9,3-19), il quale cerca di
«capire nei libri il numero degli anni» (Dn 9,2) di cui parla la profezia di Geremia sui «settant’anni» delle desolazioni di Gerusalemme. La rilettura che qui Daniele fa della Parola non
è ispirata dall’interesse per uno studio storico-critico di essa, ma dalla cura vitale di
investigarne e viverne l’attualizzazione nel presente della storia del popolo di Dio. In
Geremia si legge:
«Tutta questa regione sarà abbandonata alla distruzione e alla desolazione e queste genti
resteranno schiave del re di Babilonia per settanta anni. Quanto saranno compiuti i settanta anni,
io punirò il re di Babilonia…» (Ger 25,11-12; cf. 29,10)
Era chiaro, il profeta lanciava una parola di speranza: voi ora andate in esilio, crolla Gerusalemme; tuttavia sarà una prova destinata a durare solo un arco di tempo ben preciso, voluto
da Dio, quindi perfetto, quello dei settant’anni. Poi il Signore punirà il re di Babilonia e si
aprirà il nuovo orizzonte della liberazione.
Cosa fa Daniele attorno a quei settanta anni? Ormai sono passati di molto i settant’anni da
quando Geremia ha fatto questa profezia. Però gli ebrei sono ancora schiavi, sotto l’incubo
dell’imperatore, il nuovo Nabucodonosor che è Antioco IV, che schiaccia il desiderio di libertà, di autonomia e di identità nazionale, spirituale e religiosa di Israele. Ecco allora come a
Daniele l’angelo interpreta al profezia:
«Settanta settimane sono fissate per il tuo popolo e per la tua santa cità per mettere fine
all’empietà, mettere i sigilli ai peccati, espiare l’iniquità, portare una giustizia eterna, suggellare
visione e profezia e ungere iil Santo dei santi…» (v. 24)
In realtà, bisognerà comprendere il numero simbolico «settanta» come «settanta settimane
di anni», ossia 490 anni: è questa una rilettura apocalittica insieme profetica e sapienziale
della profezia antica. La mèta finale è la riconsacrazione e la ridedicazione del tempio profanato, del culto e del sacerdozio (cf. 9,24), che avverrà nel 164 a.C. Prima di allora, però, si
deve contare una prima tappa di sette settimane di anni (49 anni), dal tempo dell’oracolo di
19
La terra d’Israele è chiamata ‘Eretz haTzebi (la terra dello splendore) in Dn 11,15.41 o, in modo assoluto, «lo
Splendore», come qui in Dn 8,9. Il monte Sion, poi, viene chiamato «lo splendido monte santo» (Dn 11,45).
20
Si allude all’abolizione del culto del tempio, al crimine della devastazione del santuario e alla grande
persecuzione dei giudei fedeli, realizzate da Antioco IV dal settembre del 167 al 14 dicembre del 164 a.C.
8
Geremia fino a un «principe unto (messia)» (v. 25)21. Restano sessantadue settimane, durante
le quali procederà la ricostruzione in mezzo all’angoscia. Dopo di esse, un altro «unto» innocente sarà reciso22. «Il popolo di una principe» e la distruzione del santuario (9,26) si riferiscono ai siriani guidati da Antioco IV, e al saccheggio del tempio, avvenuto nel 167 a.C. (cf.
1Mc 1,29-35). La morte di questo unto – Onia III -, il quale in Dn 11,22 viene ancora ricordato come «principe dell’alleanza» (neghid berith), apre la settantesima settimana di anni. La
prima metà è segnata da una terribile persecuzione23, con la cessazione del sacrificio e
dell’offerta (cf. 8,13) e l’installazione dell’«abominio devastante» (shiqqutzim meshomem,
l’abominio della desolazione) sull’ala del tempio24, in attesa della (non ancora precisata) fine
del devastatore (vv. 26-27)25. E’ questa la grande speranza che il libro propone. Ci sono dunque sette anni di persecuzione e sofferenze, tre anni e mezzo acutissimi (167-164 a.C.), ma
poi la fine è decretata.
4) La grande visione. La quarta rivelazione (Dn 10-12) si presenta come una risposta a tre
settimane di penitenza e di digiuno fatte da Daniele-Baltazzar. Sulle sponde del Tigri, un uomo vestito di lino, alla maniera sacerdotale26, con la cintura d’oro27, si impone alla sua contemplazione (10,5-6), apparendogli in una visione splendida - di quelle che ricordano sia Dn
7,9-14, sia Ez 1, e anticipano Ap 1 - che lo rende stordito e sfinito di forze, come sempre di
fronte alle manifestazioni del divino.
La visione – spiegata dall’angelo - si presenta come un grande affresco storico e metastorico, che comprende annunci e rivelazioni di guerre di angeli28 e di uomini (cap. 11).
Il quadro della rivelazione abbraccia gli avvenimenti della storia recente, enumerandoli
come altrettanti atti di un disegno celeste nascosto agli uomini e rivelato a Daniele: le guerre
tra persiani e greci (cf. v. 2); le fulminee campagne di Alessandro Magno e la divisione
dell’impero tra i suoi generali, i diadochi (cf. vv. 3-5); le guerre e la politica dei matrimoni tra
i re del mezzogiorno (i Lagidi ellenistici; i Tolomei di Egitto) e i re del settentrione (i Seleucidi, ellenistici di Siria, Mesopotamia e Persia) (cf. vv. 6-17)29; l’intervento dei romani a Ma21
Si tratta probabilmente di Ciro il persiano, il quale è chiamato «messia» in Is 45,1. I termini della prima tappa
andrebbero dal 587 (presa di Gerusalemme e profezia di Geremia) al 538 a.C. (editto di Ciro).
22
Si allude all’assassinio del sommo sacerdote Onia III, figlio di Simone II il Giusto: il sommo sacerdote
celebrato in Sir 50,1-21. Approfitando della sua assenza da Gerusalemme, il fratello Giasone ne usurpa il
pontificato con una bassa macchinazione, dando inizio all’ellenizzazione di Gerusalemme (cf. 2Mac 4,7-20).
Giasone, però, verso il 175 viene a sua volta spodestato da Menelao, il quale pure si fa nominare sommo
sacerdote da Antioco IV e nel 170 fa uccidere Onia III, che si era rifugiato a Dafne, presso Atiochia: un delitto
che sarà vendicato dallo stesso Antioco (cf. 2Mac 4,23-38). La Giudea viene totalmente ellenizzata e Antioco,
dopo una sfortunata campagna in Egitto, saccheggia il tempio di Gerusalemme (cf. 1Mac 1,16-28).
23
Quella appunto scatenata da Antioco IV Apifane nel 167 a.C., accompagnata da una forte alleanza con molti
giudei apostati che egli conquista alla causa dell’ellenizzazione radicale della Giudea (cf. Dn 9,27).
24
Leggiamo qui un equivalente dispregiativo del nome dell’idolo fenicio del cielo, Ba’al shamem (signore dei
cieli), o Zeus Olimpio, fatto erigere da Antioco sul grande altare degli olocausti nel tempio di Gerusalemme (nel
dicembre del 167 a.C.). La memoria di una simile profanazione ricorre molte volte nei testi contemporanei. Cf.
Dn 11,31; 12,1.11; 1Mac 1,54; 2Mac 6,1-11.
25
Di questi settenari di anni e di un’Apocalisse delle settimane parlano molto alcuni testi aramaici, greci ed
etiopi del libro di Enoch, ritrovati anche a Qumran.
26
I sacerdoti, infatti, vestivano di lino, perché era considerato un tessuto ritualmente puro (cf. Es 39,27-29; Lv
6,3). Anche gli angeli, in Ap 15,6, indossano vesti di lino, come anche la sposa dell’Agnello (cf. Ap 19,8) e gli
eserciti celesti (cf. Ap 19,14).
27
La cintura d’oro indica che l’angelo appartiene alle gerarchie più alte. Chi sia l’angelo non è chiaro,
probabilmente si tratta di Gabriele, dato che è apparso anche in 8,15-16 e 9,21-27.
28
Vengono enumerati il principe del regno di Persia (10,13.20); Michele, uno dei primi principi e il protettore
d’Israele (Dn 10,21; 12,1); il principe di Grecia (10,20) e l’angelo della presente rivelazione.
29
La Giudea fa parte del dominio dei Tolomei dal 320 al 200 a.C. Sotto il loro pacifico dominio – secondo la
Lettera di Aristea – viene realizzata, verso il 250, la traduzione greca della Bibbia ebraica (la LXX, fissata dopo
9
gnesia di Sipilo, nel 190 a.C., contro l’espansionismo crescente di Antioco III il Grande; il
tentato prelievo del tesoro del tempio di Gerusalemme, «nella terra gloria del regno» (v. 20),
ordinato a Eliodoro da Seleuco IV Filopatore (187-175), sventato per un intervento soprannaturale (cf. 2Mac 3); l’avvento sul trono di un uomo abietto e fraudolento, privo di dignità regale (v. 21): Antioco IV Epifanie (cf. vv. 21-39)30 (175-164 a.C.); la soppressione di Onia III;
le due imprese di Antioco contro Tolomeo VI Filometore (tra il 170 e il 169 a.C.), qui chiamato «re del mezzogiorno» (cf. vv. 25-27; 29-31), intralciate da un nuovo intervento romano
(Gaio Popilio Lenate) (v. 30); l’ostilità contro l’alleanza (cf. vv. 28.32), cioè la religione giudaica, profanando il santuario della cittadella, abolendo il sacrificio quotidiano, ed erigendo
l’«abominio della desolazione» (cf. vv. 28.30-31); la seduzione ellenizzante dei giudei apostati dall’alleanza; la persecuzione dei giudei «sensati» (cf. vv. 33.35)31; forse una discreta allusione agli inizi della resistenza maccabaica (cf. v. 34); l’empio e ridicolo innalzamento autolatrico del monarca (cf. vv. 36-39)32 e la sua scomparsa - al tempo della fine (‘eth qetz: vv.
40.45; cf. vv. 27-35) - che è descritta in termini generali e inesatti.
In Dn 12, la visione torna nel mondo angelico, là dove era cominciata. Michele, il grande
principe che veglia sui figli d’Israele, presiede alla salvezza finale di coloro che sono scritti
nel libro. Allora:
«Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e
gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna. I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre»
(Dn 12,2-3)33.
E’ la risurrezione dei giusti che entreranno nel regno, mentre gli empi piomberanno ancora
nella polvere34.
Questa volta il «tempo della fine» ‘(eth qetz) non concerne più un determinato periodo storico, ma «la fine di ogni tempo» (cf. 12,4.9-10). Due uomini stando in piedi, ciascuno sulle
due sponde del fiume, stanno parlando di quando giungerà la fine della storia (12,6): la risposta è il solito sibillino enunciato simbolico: tutto si compirà fra un tempo, due tempi e la metà
di un tempo.
Daniele vorrebbe saperne di più, ma:
«Egli mi rispose: “Va’, Daniele, queste parole sono nascoste e sigillate fino al tempo della fine.
Molti saranno purificati, resi candidi, integri, ma gli empi agiranno empiamente: nessuno degli
diverse edizioni provvisorie), riconosciuta quale regola di vita per le comunità giudaiche sia dalle autorità civili
di Alessandria, sia da quelel religiose di Gerusalemme. La situazione cambia nell’anno 200 a.C., quando il
seleucide Antioco III il Grande, re di Siria, sconfigge a Panion l’esercito egiziano di Tolomeo V Epifane e
annette così la Giudea all’impero greco-siriano, con capitale Antiochia: un’annessione che durerà fino al 142
a.C.
30
Antioco «Epifane» (= «Dio manifestato») è il fratello di Seleuco IV.
31
Masekilim, «gli intelligenti»: un sostantivo e una radice (SaKaL) che appaiono più volte nel vocabolario di Dn
11,33.35; 12,3.10 (oltre a 1,4); cf. Dn 1,17; 9,13.22.25. Sono termini che ricordano il servo-martire, il quale,
proprio con la sua passione e morte «riuscità» (Yasekil) a fornire un’intelligenza dell’economia salvifica più
misteriosa di YHWH, inducendo molti alla giustizia (Is 52,13; 53,11). Il testo individuale isaiano viene qui
esteso ai giudei fedeli, martiri della persecuzione ellenistica.
32
La politica megalomane e autolatrica dei sovrani ellenistici è denunciata più volte in Dn 8,4.9; 11,3,16.
33
L’annuncio della risurrezione dei giusti riprende certe affermazioni di Gb 19,25-27; Is 26,19; Ez 37,1-14. Al
testo di Dn 12,2-3 LXX, in cui la risurrezione dei morti è designata con il verbo anastênai (mentre Teod. Ha
exegherthênai), allude Gesù nella discussione con i sadducei circa la risurrezione dei morti (anastasis), in Mt
22,23-33; Mc 12,18-27; Lc 20,27-40; Gv 5,28-29.
34
Qui si nota come gli ebrei anche ostili, abbiano sunìto qualcosa della cultura greca: la rappresentazione
dell’immortalità e della risurrezione con immagini astrali. Diventare, dopo la morte, come le stelle del
firmamento, è tipico della cultura pitagorica e neopitagorica. Questa cultura immaginava che i giusti fossero
assunti in Dio e diventassero le stelle della galassia.
10
empi intenderà queste cose, ma i saggi le intenderanno... Beato chi aspetterà con pazienza e giungerà a milletrecentotrentacinque giorni35. Tu va’ pure alla tua fine e riposa: ti alzerai per la tua sorte alla fine dei giorni”» (12,9-10.12-13).
Allo stesso modo si chiude il libro dell’Apocalisse del secondo Testamento:
«Queste parole sono certe e veraci. Il Signore, il Dio che ispira i profeti, ha mandato il suo angelo
per mostrare ai suoi servi ciò che deve accadere tra breve. Ecco, io verrò presto. Beato chi custodisce le parole profetiche di questo libro... Beati coloro che lavano le loro vesti: avranno parte
all’albero della vita e potranno entrare per le porte della città» (Ap 22,6-7.14).
5. Significato dei sogni, delle visioni e rivelazioni apocalittiche di Dn 7-12
Se nella prima parte del libro, le storie edificanti di Daniele hanno lo scopo di spingere i
pii giudei a impegnarsi senza paura – imitando l’atteggiamento di Daniele e dei tre giovani la serie delle visioni apocalittiche della seconda parte del testo sono da contemplare, da custodire sigillate in un libro (Dn 12,4), attendendone con pazienza il compimento.
Durante tutto il tempo della profezia biblica, i profeti hanno incessantemente annunciato
interventi del Signore che viene a fare un giudizio e a compiere, a suo modo, i suoi disegni
particolari e concreti nella storia del suo popolo e delle genti. Nel postesilio - lo si è visto nel
Terzo Isaia, in Gioele e nel Secondo Zaccaria - le disillusioni del tempo presente - anche
quelle procurate dagli stessi interventi del Signore nella storia odierna (per esempio, la modestia, la povertà e i disagi sociali del ritorno da Babilonia) - animano potentemente la speranza
d’Israele di assistere alla manifestazione finale (escatologica) della gloria di JHWH sul mondo, in una Gerusalemme totalmente e splendidamente rinnovata.
Nel libro di Daniele - e la stessa cosa si potrà dire dell’Apocalisse neotestamentaria - il
popolo di Dio, pur continuando a essere esortato a convertirsi attivamente a dei costumi sempre più fedeli alla Torah del Signore (Dn 1-6.13-14; Ap 2-3), viene condotto soprattutto a una
passiva contemplazione folgorante della trama finale dell’attività trascendente e misteriosa
del Signore Dio nella storia globale del mondo (Dn 7-12; Ap 1; 4-22), degli eventi divini e i
significati di essi nascosti dentro e sotto gli avvenimenti umani. Questi significati ed eventi
sono conosciuti adeguatamente da Dio solo e da lui rivelati a qualche veggente (Daniele,
Giovanni), mediante i suoi angeli, ma ancora per enigmi, allo stesso tempo chiarissimi e più
che mai oscuri, che sfibrano la fragile capacità umana di colui al quale il Signore si manifesta.
Lo scopo di queste rivelazioni abbaglianti è la consolazione procurata ai santi - messi alla
prova nella loro esistenza temporale - dalla conoscenza, mediata da visioni variopinte, del
disegno eterno di salvezza e di pace, che il Signore tiene in serbo per essi e per tutto il creato
(1Pt 1,3-10). La speranza, infatti, è quella di una consumazione inebriante e di un abbraccio
escatologico – con la prospettiva della risurrezione, che è la grande novità e la risposta definitiva circa il “quando” della fine -, che ha sempre sostenuto, e continua a sostenere, nel popolo
di Dio l’attenzione fedele e l’impegno a camminare alla luce della Parola nel tempo limitato
della storia (come nel Sal 119).
6. Il libro di Daniele e il Nuovo Testamento
Il libro di Daniele è, senza dubbio, uno dei testi più presenti alla rilettura neotestamentaria
delle Scritture e questo dovrebbe insegnare a noi cristiani che si rimane fatalmente ben lonta35
Si succedono alcuni spostamenti in avanti dei tre tempi e mezzo, la misura tipica degli eventi intermedi, non
finali.
11
ni dal «Gesù storico», e anche da una comprensione seria del fenomeno storico del «cristianesimo» (cioè del movimento messianico nato da Gesù il natzoreo), se non si leggono tutti i
Vangeli neotestamentari con le chiavi apocalittiche che ci fornisce Daniele. Questo è vero
per quanto concerne sia i contenuti del Nuovo Testamento, sia la sua dinamica metodologica
interna.
Il primo esempio di ciò viene offerto dal titolo preferito da Gesù per designare se stesso,
quello di «Figlio dell’uomo» (ho hyios tou anthrôpou). Lo troviamo, presso i quattro evangelisti, usato solamente da lui (e da Stefano in At 7,56). Questo titolo: bar ‘enash (aram.; ben
‘adam in ebr. = «figlio d’uomo, essere umano»), in Dn 7, designa il soggetto di un regno veramente umano, che succede ai regni bestiali degli imperialismi terreni, ed è una simbolica
personificazione corporativa del popolo dei santi dell’Altissimo (Dn 7,13 va interpretato con i
vv. 18.22.27 dello stesso capitolo). Il giudaismo intertestamentario, nelle «Parabole» di 1Enoch36, ha visto in questa figura un personaggio individuale e concreto, procedente dal mondo
stesso di Dio, di cui è l’Eletto, molto più che un semplice messia davidico umano. Egli è pure
il supremo Giudice universale, che distruggerà i malvagi e salverà i giusti (cf. Mt 25,31).
Questa figura, che richiama quella del servo del Secondo Isaia, sembra fare da sfondo al modo con cui Gesù, impersonandola, ha compreso se stesso e si è presentato al suo tempo37.
Si giunge a «vedere chi è» Gesù (cf. Lc 19,3) e a credere in lui solamente se si entra nel
progressivo dinamismo tipologico proprio della rivelazione biblica, di cui si è parlato anche a
proposito della figura dell’Emmanuele e di quella del servo. Gli avvenimenti passati, nella
loro irripetibile fattualità storica, guidati dalla sapienza dell’Eterno Signore della storia l’Antico dei giorni, dalla veste e dai capelli candidi (Dn 7,9-14) - contengono sempre un germe nascosto, che li rende capaci di significare eventi futuri ancora più significanti, fino alla
fine del tempo e all’ultimo dei giorni del Figlio dell’uomo (Lc 17,22-37). La dinamica tradizione teologica e letteraria del giudaismo enochico precristiano, ancor più di quella più statica
fissata dal giudaismo rabbinico postcristiano, ci fa respirare l’atmosfera in cui è potuta sbocciare la testimonianza profetica di Giovanni Battista e accendersi la fede in Gesù nei giudei
del Nuovo Testamento.
Un’altra occasione in cui il libro di Daniele (9,27; 11,31; 12,11) viene esplicitamente richiamato da Gesù è il discorso escatologico, in Mt 24,15-25; Mc 13,14-23, dove si allude
all’abominio della desolazione, che sta nel luogo santo (Mt), o là dove non conviene (Mc). La
grande tribolazione che, secondo la parola di Gesù, precederà l’avvento del Figlio dell’uomo
(Mt 24,21; Mc 13,18-19) allude a Dn 12,1.
L’intero orizzonte del libro di Daniele, la sua terminologia e i suoi contenuti sottostanno ai
36
Si tratta della seconda sezione (capp. 37-71) del Libro di Enoch, conservato integralmente nella traduzione
etiopica curata dalla Chiesa in Etiopia (risalente verso l’anno 500). Alcuni frammenti dell’originale aramaico
sono comparsi tra i testi di Qumran. Ne esistono anche lunghi frammenti in greco e uno breve in latino. La
letteratura di Enoch era ritenuta «Scrittura» a Qumran, come pure dall’autore della Lettera di Giuda (canonica),
che la conosce (cf. vv. 4.6.13.16) e cita esplicitamente Enoch 1,9 al v. 14. Secondo alcuni studiosi, la letteratura
enochica ha influito sul Nuovo Testamento e su alcuni autori della prima letteratura cristiana più che qualunque
altro libro apocrifo.
37
Molto importante e significativa è la risposta che egli dà a Caifa, il sommo sacerdote, il quale, davanti a un
improvvisato tribunale giudaico, lo interroga circa la propria identità. In Mt 26,63b-64 alla domanda, ancora
ambigua, che gli viene rivolta se egli sia il Messia, il Figlio di Dio, Gesù risponde: «Sei tu che dici questo. Io
anzi vi dico: d’ora in poi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire sulle nubi del
cielo»: un modo inequivoco di chiarificare che il suo «messianismo» (se proprio si vuole riconoscergliene uno) è
trascendente e scende dal cielo di Dio (cf. Gv 3,11-13.27.31-36). Il carattere divino del procedere (sedere e
venire) del Figlio dell’uomo è garantito dalla citazione del Salmo 110,1, abbinata a quella di Dn 7,13-14. Il testo
parallelo di Mc 14,62 cita la traduzione di Teodozione, che segue l’aramaico: «venire con le nubi del cielo»,
mentre Mt segue la LXX, per cui il Figlio dell’uomo viene «sulle nubi del cielo (epî tôn nefelôn)», come già in
Mt 24,30. Ap 1,7 segue Teodozione, mentre in Ap 14,14-16 un figlio d’uomo siede sulla nube bianca.
12
numerosissimi testi che, esplicitamente e implicitamente, a esso si riferiscono nell’escatologia
cristiana (per esempio nelle lettere di Paolo ai Tessalonicesi) e, soprattutto, nell’Apocalisse
del Nuovo Testamento. È questa la contemplazione, nella storia umana, del disegno divino
che in essa è ormai riconoscibile dal momento in cui è cominciata la rivelazione del suo mistero cruciale: la passione e la morte del Figlio dell’uomo e la sua gloria di Agnello immolato
e vittorioso, vivente per sempre (Ap 1; 5; 21-22). L’Apocalisse è il libro della consolazione
dei «testimoni» cristiani (i martyres di Gesù: Ap 17,6), cioè di coloro che lungo la storia umana attestano la parola di Dio, di cui santificano il nome, osservano i comandamenti e custodiscono la «bellezza» propria della testimonianza (la martyria) di Gesù (1Tm 6,13)38, in
mezzo a un combattimento ultimo, umanamente impari, con le potenze «bestiali», culturali e
politiche dell’idolatria, della magia e dell’astrologia, e degli imperi mondani, in mezzo ai
quali essi sono dispersi; un combattimento da condurre con fortezza secondo i costumi esemplari, virtuosi e saggi, di Daniele, Anania, Azaria, Misaele e Susanna. Se si legge l’Apocalisse
come una rilettura cristiana del libro di Daniele (e anche di Ezechiele), non solamente la nostra mente si schiude a comprendere il linguaggio, solo superficialmente oscuro, del veggente
di Patmos, ma il nostro cuore si riscalda durante il «martirio», a cui i vari Antioco o i Nerone
di turno ci sottopongono, ma solamente «per un tempo, due tempi e la metà di un tempo», o
«per 1260 giorni», o «per 42 mesi»39.
38
39
Ap 1,2.9; 6,9; 11,7; 12,11.17; 19,10b; 20,4.
Ap 11,2-3; 12,6.14; 13,5.
13