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Decadence Rosario Volpi Pubblicato: 2013 Tag(s): tokyo decadence italia giappone tatuaggio geco DECADENCE PUBLISHED BY: Rosario Volpi Thank you for downloading this free eBook. You are welcome to share it with your friends. This book may be reproduced, copied and distributed for non-commercial purposes, provided the book remains in its complete original form, with the exception of quotes used in reviews. Your support and respect for the property of this author is appreciated. Copyright © 2012 by Rosario Volpi A notte inoltrata oppure verso l’alba, quando i sogni si frantumano, c’è qualcuno che spalanca gli occhi e inquieto agita il capo sudato nel guanciale. È come se una sciabola lo ferisse a tradimento e il sangue crudo si coagulasse dopo poco, lasciando una cicatrice permanente nella mente di quell’uomo per tutti i giorni avvenire. Da una settimana non sognavo più, ma ogni santa mattina appena riaprivo gli occhi rivivevo la stessa scena di quel mio ultimo incubo - Mia sorella Miyabi [1] era scomparsa dopo una delle tante liti con mio padre. Sono uscito di casa correndo per strada in canottiera e slip, era buio pesto, dopo qualche centinaio di metri mi sono fermato accanto ad un lampione. Avevo l’affanno, mi guardavo intorno alla ricerca di Miyabi, ma non c’era nessuno, solo cartacce, lattine e altra spazzatura. Ho abbassato gli occhi e ho visto i miei piedi nudi e sanguinanti, ho cominciato a provare dolore, ho sollevato il piede destro e ho visto che, conficcato nella pianta per due o tre millimetri, c’era l’ago di una siringa, qualcuno l’aveva gettata a terra dopo essersi iniettato della droga. L’ho afferrato ed estratto lentamente, mentre il sangue scorreva lungo il filo esterno dell’ago fino alla mano. Anche il piede sinistro era sanguinante, l’ho sollevato e c’era come incollato un coccio di vetro, con ancora attaccato un pezzo d’etichetta, si trattava del coccio di una bottiglia di birra, non a caso era la marca preferita da Miyabi. Quando ho riabbassato gli occhi, poggiavo entrambi i piedi in una pozza di sangue e quindi sono svenuto. - Di soprassalto mi sono seduto sul bordo del letto, con gli occhi ancora semichiusi. Mi sono voltato verso il letto di Miyabi e l’ho vista sotto le lenzuola dormire tranquillamente. Miyabi Anna, avevano deciso di chiamarla in questo modo, per un compromesso tra occidente e oriente. Per mio padre, il signor Tanaka, la cultura tradizionale giapponese era come un vangelo e il nome Miyabi che aveva scelto a difesa delle sue origini giapponesi, risuonava come un inno. Lui che era nato e vissuto in una cittadina vicino Kyoto e durante l’Università aveva difeso strenuamente la tradizione della sua terra, riteneva che, seppur la mamma era italiana e i figli erano nati in Italia, non potevano non portare un nome giapponese, come piccolo segno di legame con la propria origine. Da parte nostra, mi riferisco a me stesso e mia sorella, lui per noi non era papà, ma semplicemente il signor Tanaka . Sin da piccoli, infatti, avevamo subito l’influenza dei giovani studenti che venivano a casa nostra per lezioni supplementari e con voce timorosa lo chiamavano così. Anch’egli non ci faceva più caso, anzi succube della sua indole autoritaria, l’essere chiamato “signor Tanaka” da parte dei suoi figli, lo inorgogliva e lo faceva sentire rispettato. Tuttavia per noi non era proprio così, direi soprattutto per Miyabi. Il chiamarlo per nome aveva creato una specie di barriera al legame affettivo e questo senso di distacco s’era accentuato col tempo soprattutto in mia sorella, portandola ad essere tutt’altro che rispettosa nei suoi confronti. Mia mamma, al contrario di Tanaka era legata ai nomi che ci aveva scelto in italiano, Miyabi era semplicemente Anna, cosi come io ero Andrea, e non Ryû, come mi chiamava mio padre. Tuttavia quando s’arrabbiava con noi, si lasciava andare ad ogni sorta d’imprecazione, scandendo i nostri nomi per intero - Miyabi Maria Tanaka…! Ryû Andrea Tanaka…! - questo era uno dei momenti in cui i confini immaginari delle due culture presenti nel nostro DNA si mescolavano. Miyabi trascorreva i pomeriggi sugli sgabelli della Game Room, l’avevo scoperta per caso. Un giorno mi ritrovai a passare dall’altro lato della strada dov’era la sala e, la mia attenzione fu attratta da un coro che invocava il suo nome, riflettei su quante ragazze a Roma potessero chiamarsi Miyabi e capii che si trattava di mia sorella. Attraversai rapidamente la strada incurante delle automobili, mi precipitai nella sala giochi facendomi spazio fra il nugolo di ragazzini che incitavano la lite e vidi Miyabi picchiarsi con una sua coetanea. L’afferrai per un braccio e la trascinai in strada “Lasciami bastardo! Lasciamiiiii!“ mi urlava dimenandosi come un’ossessa nel tentativo di liberarsi. “Sei uno stronzo! Dovevi lasciarmi stare! Mancava poco e a quella puttana l’avrei mandata all’ospedale!” ripeteva con rabbia. Quel giorno gli promisi che non avrei detto niente a Tanaka, ma sulla via di casa mi ripiombò davanti agli occhi l’incubo. Lo stesso incubo che mi tormentava da settimane ora aggravato da quello che avevo scoperto su mia sorella e il postaccio che frequentava. Senza che io aprissi bocca quella stessa sera, Miyabi litigò ancora con il signor Tanaka. La colpa era di una telefonata del preside della scuola, che lo avvisava delle continue assenze di Miyabi. Per aver risposto duramente alle accuse, ricevette un ceffone, tuttavia senza versare una lacrima, né scandire una sillaba, con le braccia tese lungo i fianchi e i pugni stretti, si rintanò nella sua stanza senza cena. Nei periodi di arrabbiatura, prima che mia sorella ritornasse a parlare occorrevano in media due settimane, solitamente il primo passo verso la riappacificazione era di Tanaka. Quindici giorni dopo, il signor Tanaka aveva colto alla sprovvista perfino la più macchinosa immaginazione di Miyabi, svelandole che il regalo per il suo diciottesimo compleanno sarebbe stato un viaggio in Giappone. La reazione fu immediata, con un grido di gioia Miyabi si getto nelle sue braccia. Tanaka restò immobile, quasi stupito per tutto quell’affetto. Anch’io sorpreso, mi rendevo conto come mia sorella così facendo avesse messo da parte con estrema semplicità il suo orgoglio e tutto il rancore che provava nei suoi confronti. “Andiamo a casa della nonna!” sussurrò affettuosamente Tanaka. Il Giappone sembrava custodire l’altro lato nel nostro essere rimasto inespresso, prima di scendere dall’aereo eravamo ansiosi di arrivare, ma allo stesso tempo timorosi dei nostri sentimenti più nascosti e mai percepiti ma, appena scesi dall’aereo nulla ci parve così estraneo. Anche Miyabi mi parve più umana, il suo volto differiva da quello di sempre, gli occhi erano meno tristi e i segni della decadenza del suo spirito sembravano aver trovato una forza avversa. Avevo imparato ad interpretare lo stato di decadenza di mia sorella, contemplando la profondità di alcune pieghe che le comparivano sulle guance, di solito quando era al limite del suo sopportarsi, le ricopriva con tanto trucco. Quel giorno invece aveva messo solo il rossetto e delle pieghe non c’era traccia. Mi ero convinto che questa forza positiva che emergeva in noi in questo momento fosse quella incontaminata e prima a noi sconosciuta legata al Giappone. Quanto più respiravamo la sua aria e ci bagnavamo del suo sole, tanto più questa positività ci avvolgeva e in noi cresceva come una piantina che tira fuori la testa dal terreno e si espone al sole brillante. Tuttavia questa giovane pianta, presto sarebbe stata contaminata dall’ambiente circostante e avrebbe perso la sua freschezza iniziale, proprio come sarebbe accaduto a noi. Più tempo avremmo trascorso in Giappone e più quella positività avrebbe subito un affievolimento fino a raggiungere lo stesso livello di contagio dell’altra parte del nostro essere, quella italiana. Probabilmente d’ora in poi il nostro equilibrio rischiava ancor più di rompersi e non ci sarebbe più bastato vivere in un solo paese ma ne occorrevano due, ci voleva sia l’Italia che il Giappone. Avevamo affittato una macchina, in realtà mio padre prima di partire aveva contattato un suo amico che lavorava in quel settore e in nome dell’amicizia che durava dai tempi dell’Università, gli aveva messo a disposizione la migliore delle auto, lussuosissima con un autista che ci avrebbe portato a destinazione. Il “tipo”, cosi lo avevamo soprannominato io e Miyabi, era un giovane muscoloso dalla carnagione olivastra tipica della gente del Kanto. Viso sbarbato, capelli neri e orecchie minuscole, che metteva ancor più in risalto l’orecchino a forma di spada spezzata. Appena fuori il colletto della camicia s’intravedeva una piccola sezione di un tatuaggio. Era stata Miyabi a farmelo notare e, con tanta foga, come se già sapesse cosa fosse, mi aveva sfidato a indovinare. Trascorremmo il viaggio a fissare lo specchietto retrovisore dell’auto, attenti a un qualunque spostamento della camicia, nella speranza di una visione più chiara del tatuaggio. Da quello che riuscivo a scorgere, pensai ad a un serpente, ma Miyabi, aveva ipotizzato la rappresentazione di un geco come quello che aveva sul gluteo destro e che mi aveva mostrato segretamente una volta facendomi giurare che non l’avrei detto per nulla al mondo né alla mamma né a Tanaka. Ormai la casa della nonna era vicina, e Miyabi non si dava pace, voleva sapere qual’era la figura tatuata sulla spalla del giovane autista. “Ora glielo chiedo!” mi sussurrò Miyabi. “No! Lascia stare! Tanaka ti ucciderà!” la misi in guardia “Faccio quel che c…o mi pare!” mi rinfacciò a voce alta. In quel momento nostra madre, che ci sedeva accanto e fin dalla partenza se n’era stata con la fronte appoggiata allo schienale del sedile anteriore a chiacchierare con Tanaka, si voltò e ci intimò di non litigare. D’allora per il resto del tragitto, non aprimmo più bocca. La casa della nonna se pur vecchissima era ben tenuta, questo era tutto merito delle cure di zia Asago, la sorella maggiore di Tanaka, che fino al momento della morte era rimasta accanto alla nonna sofferente. Il nonno invece era morto giovanissimo in guerra, allora Tanaka aveva solo dieci anni. Tuttora in un angolo della casa, c’era l’altare in sua memoria con al centro una foto, in cui veniva ritratto con la divisa e la cuffietta dell’aeronautica giapponese. In un apposito scrigno in legno, finemente lavorato, erano custoditi gli oggetti personali, fra i quali c’era anche la lettera del comando generale dell’aeronautica militare in cui si comunicava alla famiglia l’eroica e tragica vicenda della sua morte. Tanaka, da sempre, andava fiero dell’eroicità di suo padre e nei momenti difficili, in cui il suo orgoglio veniva ferito, non tardava a raccontare quell’episodio. Per il nostro arrivo la zia Asago s’era preoccupata di organizzare tutto il necessario. Ritornando al viaggio. Miyabi, visibilmente amareggiata per aver lasciato Tokyo, continuava a guardarsi intorno senza pace. Se il signor Tanaka aveva ripreso vitalità non appena giunto nel suo paesino natale, Miyabi al contrario man mano che ci allontanavamo dalla capitale, con le sue luci e il suo caos, sembrava morire lentamente. Zia Asago ci fece accomodare, prima di entrare ci togliemmo le scarpe come tradizione. Mia sorella volle starsene ancora fuori e quando anche lei entrò, si presentò con le sue scarpe. Zia Asago sorrise, quasi a giustificarla, ma mio padre assunse un espressione severa e diede un pugno sul tavolino. “Ti avevo avvertito che avresti dovuto togliere le scarpe prima d’entrare!” gridò Tanaka in giapponese. Miyabi chinò il capo in silenzio. Così facendo mostrava tutta la sua irriverenza nei confronti della tradizione. Non togliendosi le scarpe, aveva calpestato ancora una volta tutto ciò che stava tanto a cuore a Tanaka. “Togliti le scarpe!” urlo usando l’imperativo categorico giapponese. I nostri futon[2] erano l’uno accanto all’altro, Miyabi sembrava già dormire profondamente, per noi era la prima volta senza materasso e speravo che quella novità potesse liberarmi dagli incubi, ma non fu così. Erano passate le cinque, quando aprii gli occhi per lo spavento, il solito incubo, questa volta Miyabi era scomparsa davvero. Accesi la luce e al suo posto nel futon vuoto, trovai un biglietto. Corsi a svegliare il signor Tanaka e la mamma. Dopo aver letto il messaggio avvertirono subito la polizia. Io corsi a piedi nudi in strada, ma di lei non c’era traccia, si udiva solo la voce dei grilli notturni, mentre una leggera brezza scuoteva il fogliame nel giardino. Sconsolato ritornai in casa e mi sedetti accanto a mia madre in lacrime. La lettera a me indirizzata diceva: “Caro Andrea, ti scrivo per salutarti, la mia vita è al buio, le uniche luci che sopporto sono quelle delle insegne delle città e quelle dei locali, Tokyo è a un passo da me e mi chiama, non ritornerò con voi in Italia. È inutile che provi a inseguirmi, ti perderai nella notte, io sono come il geco che ho tatuato sul gluteo, sono un geco come lo è l’autista che ci ha accompagnati fin qui. Sai, l’ho appena chiamato, tra poco verrà a prendermi e sarà lui a portarmi a Tokyo. Oggi, quando voi già eravate in casa, ho cominciato a parlargli e ho scoperto di avere tante cose in comune, a partire dal tatuaggio. Hai visto? Avevo ragione io! Il tatuaggio che ha sulla spalla è un geco come il mio. Ora lui mi aiuterà a tirar fuori tutto quello che non ho potuto in questi anni, sarò me stessa e mi sentirò libera! Addio fratellino!” La polizia arrivò quattro ore più tardi e, dopo alcune indagini iniziali, venimmo a sapere che il giovane autista si chiamava Yukio, che quella mattina non si era presentato a lavoro e che aveva abbandonato in tutta fretta anche il piccolo appartamento che aveva in affitto. Il ragazzo, che abitava nell’appartamento di fronte, aveva raccontato di averlo visto nell’ascensore, proprio mentre le porte si stavano chiudendo e che sicuramente con lui c’era una ragazza, che non aveva visto, ma aveva sentito la sua voce. Tanaka provò a chiamare l’amico che gli aveva inviato l’autista, ma oltre a ricevere le scuse non ottenne nient’altro, per questo si arrabbiò molto. Di mia sorella e di quel giovane autista non si ebbero più notizie, prolungammo la nostra permanenza in Giappone di altre due settimane e poi ritornammo in Italia senza Miyabi. Fu quella, l’ultima volta che ebbi quell’incubo e che non raccontai mai a nessuno. Anni dopo, quando ho cominciato a studiare l’arte giapponese, ho scoperto come il termine Miyabi aveva un significato difficile da rendere in italiano. Poteva far pensare al fascino che può creare un sentimento di tristezza e tutto ciò che ispira la vita nel suo effimero trascorrere. In effetti, quando ricordo mia sorella, vedo sempre la grazia misteriosa di una donna che porta con sé l’ombra della decadenza e della morte. FINE [1] Miyabi ( ) che qui e il nome della protagonista del racconto, in giapponese rappresenta l’ideale estetico di raffinatezza e eleganza che che cela anche una sottile vena d’inquietudine. [2] È il tipico materasso giapponese, che viene steso direttamente sul pavimento. Click to edit this text. www.feedbooks.com Food for the mind