OSPEDALE PLURALE Religioni e spiritualità Modelli interculturali

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OSPEDALE PLURALE Religioni e spiritualità Modelli interculturali
NUOVO OSPEDALE DI PRATO S. STEFANO
Sala Conferenze
STEFANO MAGNOLFI
OSPEDALE PLURALE
Religioni e spiritualità
Modelli interculturali per un ospedale plurale
Francesca Sbardella
23/30 ottobre 2014
Religioni e spiritualità
Modelli interculturali per un ospedale plurale
LA SPIRITUALITÀ COME
BISOGNO DELLA PERSONA E
DELLA COMUNITÀ
LE FORME ELEMENTARI
Le forme elementari della vita religiosa
Emile Durkheim 1912
Alla base di tutti i sistemi di fede e di tutti i culti deve esserci
necessariamente un certo numero di rappresentazioni
fondamentali e di atteggiamenti rituali che − malgrado la
diversità delle forme che le une e gli altri hanno assunto −
rivestono ovunque lo stesso significato oggettivo e adempiono
ovunque alle stesse funzioni.
Sono questi elementi permanenti che costituiscono quanto di
eterno e di umano c’è nella religione. Essi costituiscono il
contenuto oggettivo dell’idea che si esprime parlando della
religione in generale.
LA RELIGIONE PRIMITIVA COME
OGGETTO PRIVILEGIATO DI INDAGINE
Le forme elementari della vita religiosa
Emile Durkheim 1912
Per Durkheim, che si occupa del totemismo degli Aborigeni
Australiani, la religione primitiva sembra adatta più di ogni altra a
far comprendere la natura religiosa dell’uomo, cioè a rivelarci un
aspetto essenziale e permanente dell’umanità.
Non vi sono religioni false. Tutte sono vere alla loro maniera;
tutte rispondono, anche se in modi differenti, a determinate
condizioni dell’esistenza umana. Senza dubbio non è impossibile
disporle in un ordine gerarchico.
LA RELIGIONE PRIMITIVA COME
OGGETTO PRIVILEGIATO DI INDAGINE
Le religioni primitive rispondono alle stesse necessità, assolvono
alla stessa funzione, dipendono dalle stesse cause; e perciò
possono anch’esse manifestare la natura della vita religiosa e, di
conseguenza, risolvere il problema che vogliamo trattare.
Ma perché accordare loro una specie di prerogativa?
Non possiamo comprendere le religioni più recenti se non
seguendo nella storia la maniera in cui esse si sono
progressivamente formate. Infatti la storia è il solo metodo di
analisi esplicativa che sia possibile applicare loro: essa sola ci
consente di risolvere un’istituzione nei suoi elementi costitutivi,
poiché ce li mostra mentre nascono nel tempo l’uno dopo gli
altri.
IL FENOMENO RELIGIOSO
Le forme elementari della vita religiosa
Emile Durkheim 1912
«Una religione è un sistema solidale di credenze e di pratiche
relative a cose sacre, cioè separate e interdette, le quali
uniscono in un’unica comunità morale, chiamata chiesa, tutti
quelli che vi aderiscono».
Emile Durkheim
CREDENZE E RITI
Le forme elementari della vita religiosa
Emile Durkheim 1912
«Credenze e pratiche religiose sono due aspetti di una stessa
realtà. Le pratiche religiose esprimono concretamente le credenze,
le credenze a loro volta non sono altro che un modo di interpretare
le pratiche religiose» (tratto da Durkheim, Per una definizione dei
fenomeni religiosi).
I fenomeni religiosi si collocano naturalmente in due categorie
fondamentali: le credenze e i riti.
Le prime sono stati di opinione, credenze; i secondi sono tipi
determinati di azioni.
RAPPRESENTAZIONI COLLETTIVE
Le forme elementari della vita religiosa
Emile Durkheim 1912
L’insieme delle credenze religiose, dei miti, delle leggende, dei
pensieri dei singoli sono le “rappresentazioni collettive”.
«Le rappresentazioni collettive sono il prodotto di un’immensa
cooperazione che si estende non solo nello spazio, ma anche nel
tempo; nella sua costruzione molteplici spiriti diversi hanno
associato, mescolato, combinato le loro idee e i loro sentimenti;
lunghe serie di generazioni vi hanno accumulato la loro esperienza
e il loro sapere» (1971, Le forme elementari della vita religiosa,
Milano, Comunità, pp. 18,19).
SACRO/PROFANO
Le forme elementari della vita religiosa
Emile Durkheim 1912
Tutte le credenze religiose conosciute, siano esse semplici o complesse,
hanno uno stesso carattere comune: esse presuppongono una
classificazione delle cose reali o ideali che si rappresentano gli uomini, in
due classi o in due generi opposti, definiti generalmente con due termini
distinti, tradotti abbastanza bene dalle designazioni di profano e di sacro.
Il mondo si divide in due domini che comprendono l’uno tutto ciò che è
sacro, e l’altro tutto ciò che è profano.
Le credenze sono rappresentazioni, o sistemi di rappresentazioni che
esprimono la natura delle cose sacre, le virtù e i poteri loro attribuiti, la
loro storia, i loro rapporti reciproci e con le cose profane.
Ma per cose sacre non bisogna intendere soltanto quegli esseri personali
che vengono chiamati dei o spiriti; una roccia, un albero, una fonte, un
pezzo di legno, una casa, insomma qualsiasi cosa può essere sacra.
SACRO/PROFANO
La cosa sacra è per definizione quella che il profano non deve e non può
impunemente toccare.
Quindi l’aspetto caratteristico del fenomeno religioso è il fatto che esso
presuppone sempre una divisione dell’universo conosciuto e conoscibile in
due generi che comprendono tutto ciò che esiste, ma che si escludono
radicalmente.
Le cose sacre sono quelle protette e isolate dalle interdizioni; le cose
profane sono invece quelle a cui si riferiscono queste interdizioni, e che
debbono restare a distanza dalle prime.
Le credenze religiose sono rappresentazioni che esprimono la natura delle
cose e i rapporti che esse hanno tra loro e con le cose profane.
I riti sono infine regole di condotta che prescrivono il modo in cui l’uomo
deve comportarsi con le cose sacre.
SACRO/PROFANO
Risulta chiaro che l’opposizione concettuale sacro/profano è utilizzata da
Durkheim come una vera e propria forma attraverso la quale è possibile
pensare la realtà, per dare un significato alle sue manifestazioni concrete
ed anche per analizzare le diverse pratiche di culto.
In questa ottica, infatti, la vita rituale si fonda sostanzialmente sul rapporto
di esclusione o sulla possibilità di interazione tra sacro e profano: è proprio
attraverso il rito che è possibile gestire e controllare tale rapporto.
Questo perché, pur nella fondamentale separazione, i due ambiti si
trovano, in alcune circostanze, ad interferire e ad incontrarsi.
Paradossalmente − dice Durkheim nelle Formes − il mondo sacro sembra
per sua stessa natura tendente a diffondersi in quel mondo profano che
tanto respinge.
SACRO/PROFANO
Da qui il principio di “contagiosità del sacro” − la capacità, cioè, di
espandersi e di muoversi liberamente − e, in relazione a questo, le
diverse funzioni che il gesto rituale acquista.
Per trasmettere il carattere sacro da un oggetto ad un altro è sufficiente
anche il contatto più involontario e superficiale, come se la potenza
religiosa fosse estremamente mobile e veloce negli spostamenti.
Citando Spenser e Gillen, Durkheim riprende gli esempi delle tribù
dell’Australia centrale e dei loro churinga.
Questi oggetti, ritenuti sacri, sono pezzi di legno o di pietra, sui quali è
inciso il disegno del totem.
Sono utilizzati come strumenti durante le cerimonie religiose e si pensa
abbiano, in quanto sacri, proprietà miracolose.
SACRO/PROFANO
Per contatto, curano le malattie, infondono forza e coraggio, santificano
oggetti e persone, hanno addirittura effetti benefici sulla ricrescita della
barba.
Le cavità stesse dove i churinga sono conservati diventano sacre, e
ugualmente tutta l’area circostante, le piante che crescono in quella
zona, gli animali che lì si rifugiano.
Se le credenze religiose esprimono il modo il cui l’uomo si rappresenta la
natura delle cose sacre e di quelle profane e la loro strutturazione nel
mondo reale, i riti hanno lo scopo di realizzare e mantenere nel tempo
un particolare stato di fatto, una condizione di equilibrio fra queste due
diverse categorie.
Forniscono al credente una vera e propria normativa, sono essi stessi un
manuale di condotta per rapportarsi al sacro.
SACRO/PROFANO
In particolare nelle Formes, Durkheim distingue due “atteggiamenti”
rituali diversi e complementari, che si ritrovano addirittura nella
suddivisione in capitoli dell’opera stessa.
Da una parte, il rito che egli chiama negativo è teso alla realizzazione
di uno stato di piena separazione fra i due ambiti, trattenendo a
distanza ed escludendo − sia a livello spaziale che temporale − il sacro
dalla quotidianità; dall’altra, il rito positivo ha lo scopo di rendere
possibile ed effettivo il passaggio dal profano al sacro, volgendo il
sacro in forza socialmente utile e costruttrice.
Il fine dei riti negativi è quello di preparare l’individuo per poi poter
accedere liberamente ai secondi.
SACRO/PROFANO
Non prescrivono, infatti, di agire direttamente su qualcosa o di compiere
una determinata azione, ma impongono di non fare qualcosa, attraverso
proibizioni e restrizioni (tabù), che esplicitamente tendono a separare ciò
che è sacro da ciò che è profano ed anche ciò che è più sacro da ciò che
lo è meno.
Indirettamente il risultato di questi tabù è comunque positivo: essi
producono, infatti, un mutamento di stato che permetterà poi al credente
di avere contatti diretti con il sacro.
La proibizione fondamentale è, secondo Durkheim, che le cose sacre e
quelle profane non possono coesistere nelle medesime unità di tempo e di
luogo. Questo porta ad una serie di norme giocate, in relazione alla cosa
considerata sacra, sulla pericolosità di contatto, di vista, di scambio di
parola, di ingestione.
SACRO/PROFANO
I culti positivi, invece, mettono in atto delle performances − sacrifici,
balli, sequenze gestuali che imitano animali, banchetti, feste vere e
proprie − finalizzate all’avvicinamento del sacro ed al suo utilizzo
all’interno del contesto sociale, per il raggiungimento di una nuova
condizione.
Attraverso questi riti le cose profane entrano nell’area della sacralità,
spezzando la barriera che separa le due classi di realtà.
Da notare, tuttavia, che, secondo questa analisi, il rito non regola tanto
il rapporto uomo-dio, quanto le relazioni − di natura sociale − fra gli
individui facenti parte di una data comunità.
Il rito, cioè, produce degli effetti reali all’interno del gruppo, agisce
concretamente sulla vita degli individui, senza che la sua efficacia
dipenda da un intervento divino.
SACRO/PROFANO
Attraverso la ripetizione del rito il gruppo comunitario si riunisce e,
ribadendo ciò in cui crede, mantiene forte il proprio senso aggregativo e
crea dei legami fra i partecipanti.
Questa idea, presente già in Robertson Smith, porta Durkheim a
considerare il rito come atto avente lo scopo non solo di mettere in
relazione le cose profane con gli esseri sacri, ma anche, così facendo,
quello di mantenere in vita la comunità e gli stessi esseri sacri,
rigenerandoli continuamente.
Essi, sebbene superiori all’uomo, non esistono se non in quanto pensati
da questo.
L’IDEA DI CHIESA
Le forme elementari della vita religiosa
Emile Durkheim 1912
Le credenze propriamente religiose sono sempre comuni
ad una collettività determinata, che fa professione di
aderirvi e di praticare i riti ad esse solidali. Esse non sono
soltanto ammesse a titolo individuale da tutti i membri di
questa collettività, ma sono cosa del gruppo e ne
costituiscono l’unità. Gli individui che la compongono si
sentono legati gli uni agli altri per il semplice fatto di
avere una fede comune.
L’IDEA DI CHIESA
Le forme elementari della vita religiosa
Emile Durkheim 1912
Una società, i cui membri sono uniti per il fatto di rappresentarsi
allo stesso modo il mondo sacro e i suoi rapporti col mondo
profano, e di tradurre queste rappresentazioni comuni in pratiche
identiche, viene denominata chiesa. Una chiesa non è
semplicemente una confraternita sacerdotale, ma è la comunità
morale costituita da tutti i credenti in una stessa fede, fedeli o
preti che siano. Ogni comunità di questo genere manca
normalmente nella magia. Non esiste una chiesa magica.
Questa comunità morale, che Durkheim chiama nelle Formes
“chiesa”, è unita dal fatto di avere una medesima autorappresentazione di sé, di ciò che è sacro e di ciò che non lo è, e
di tradurla in pratiche e comportamenti rituali.
LA RELIGIONE COME “FATTO SOCIALE”
Le forme elementari della vita religiosa
Emile Durkheim 1912
Le credenze religiose non sono accettate solo a livello personale, ma
appartengono all’intero gruppo, che ne costituisce l’imprescindibile
realtà empirica sottostante.
Rispettando le regole metodologiche che egli stesso dà nelle Règles
de la méthode sociologique (1895) Durkheim considera il fenomeno
religioso come un “fatto sociale”, cioè un sistema di credenze
collettive indipendente ed autonomo, separato dal pensiero dei
singoli soggetti.
LA RELIGIONE COME “FATTO SOCIALE”
Il fatto sociale, infatti, è una realtà sui generis del tutto distinta dalle sue
applicazioni individuali. L’uomo, cioè, percepisce molto chiaramente la
pressione morale che la società dall’esterno esercita su di lui, imponendogli
scelte e comportamenti, talvolta addirittura contrari alle sue inclinazioni
naturali. Secondo Durkheim, la società impone all’individuo le proprie regole
ed, in questo senso, esercita su di lui un potere coercitivo.
Nell’articolo del 1898 De la définition des phénomènes religieux, invece, è in
primo piano il problema della soggettività dell’individuo nel rapporto con il
mondo delle cose ritenute sacre. Parallelamente alla funzione normativa e
regolatrice dei fenomeni religiosi, analizzati, come nelle Formes, in quanto
sistema di credenze collettive, in questo testo viene messo in luce anche il
punto di vista del soggetto che si confronta con il sistema.
LA RELIGIONE COME “FATTO SOCIALE”
Nella parte conclusiva dell’articolo, in particolare, Durkheim distingue una
religione “libera, privata, facoltativa”, che l’individuo può costruirsi secondo
le proprie esigenze, da una religione pubblica, impersonale, che gli viene
imposta dalla società e che obbligatoriamente si trova a dover praticare in
quanto membro di quella determinata società
La prima viene considerata derivante dalla seconda, come se fosse una sua
rielaborazione nella coscienza individuale del credente, che la ri-interpreta,
la modella e, in qualche modo la snatura. Parallela e simultanea alla
religione ufficiale, quindi, c’è una credenza soggettiva, personale, intima,
che, nella vita quotidiana del singolo, si sviluppa in modo autonomo ed
originale.
Utilizzando una terminologia di Pradès, Durkheim gioca sulla prospettiva “dal
di fuori” e “dal di dentro”, pur ritenendo metodologicamente più corretta la
prima, che affronta il sistema religioso come costruzione sociale, fatto
sociale e lo studia partendo dalle istituzioni pubbliche e non dall’individuo.
LA TEORIA DEL TOTEMISMO: IL TOTEM,
COSA È E COSA RAPPRESENTA
Le forme elementari della vita religiosa
Emile Durkheim 1912
Si presenta sotto una molteplicità di forme.
Si attribuisce ad un essere qualunque, pianta o animale, un valore
simbolico di speciale relazione con l’uomo e serve a determinare
norme di comportamento.
A volte i membri del clan affermano di discendere da un antenato
rappresentato con l’aspetto di un animale, ma anche in aspetto
umano o come personaggio mitico che unisce la forma umana a
quella animale.
IL TOTEMISMO
È un complesso di istituzioni e di credenze incentrato sulla relazione fra
una specie animale o un fenomeno naturale e un gruppo sociale.
In Durkheim il totemismo è la forma elementare e originaria di religione.
Tra gli Aborigeni Africani studiati da questo autore, l’organizzazione è
caratterizzata dalla divisione in clan, ognuno dei quali è rappresentato da
un emblema totemico.
Il totem rende manifesta e rappresenta l’identità del clan e l’unità dei suoi
membri; durante i riti collettivi gli appartenenti al clan si riuniscono ed
esprimono in questo modo il senso di identità collettiva.
Se il totem rappresenta la società stessa, allora nel totem questi popoli
venerano quindi il proprio clan, la società stessa di cui fanno parte.
IL TOTEMISMO
Il totem è il simbolo della società e nello stesso tempo è motivo ed
oggetto di restrizioni che lo rendono sacro.
L’individuo, quindi, è portato a crearsi una nozione ed una idea della
forza del sociale su di lui, ed è in grado, in qualche modo, di
rappresentarla e di spiegarla.
Durkheim arriva a sostenere che la forza religiosa è il sentimento
ispirato dall’intera collettività ai suoi membri, proiettato al di fuori delle
singole coscienze ed oggettivato su un qualcosa che diviene, così, il
“sacro”.
IL TOTEMISMO
Recuperando la prospettiva di Durkheim, bisogna riconosce la possibilità di
«passaggio» fra categorie di genere differenti, da una condizione ad
un’altra. Questo «passaggio» è giocato, per l’autore francese, sulla
dicotomia sacro/profano (1971, 41).
Tutti gli oggetti, reali o ideali, che gli uomini si rappresentano
presuppongono una differenziazione fra questi due domini. Il ‘sacro’
comprende tutto ciò che è totalmente altro e separato, protetto da divieti
e da tabù.
Ciò che rientra in questa categoria non può essere impunemente toccato e
deve essere conservato e trattato con cura e rispetto. Secondo Durkheim,
questo è a tutti gli effetti «di un’altra natura», con energie e caratteri
completamente eterogenei rispetto alla condizione di partenza (1971, 41).
COSE E SEMIOFORI
Storia culturale, storia dei semiofori
Krzysztof Pomian, 2001
Lasciando da parte la nozione di ‘sacro’ − per molti aspetti ambigua e
fuorviante −, è utile prendere in esame il percorso attraverso il quale
alcuni oggetti, come le reliquie, acquistano, in un certo momento, una
condizione particolare. Essi vengono considerati speciali. Subiscono una
riqualificazione in seguito alla quale non rientrano nei circuiti correnti. Da
un certo momento sono trattati secondo modalità diverse rispetto al
comune utilizzo.
A questo riguardo risulta utile confrontarsi con il lavoro di K. Pomian
riguardante tutti quegli oggetti che, per motivi diversi, sfuggono all’ambito
del mercato. A questo autore si deve l’aver affrontato la problematica
sotto l’angolatura del collezionismo. La sua prospettiva ci permette di
focalizzare l’attenzione sui processi che producono trasmutazioni di
genere, al di là dell’ambito strettamente religioso-sacrale. Il concetto di
collezione è utilizzato per indicare una condizione esterna alle dinamiche
socio-economiche correnti.
COLLEZIONI
Storia culturale, storia dei semiofori
Krzysztof Pomian, 2001
Une collection, c’est-à-dire tout ensemble d’objets naturels ou
artificiels, maintenus temporairement ou définitivement hors
du circuit d’activités économiques, soumis à une protection
spéciale dans un lieu clos aménagé à cet effet, et exposés au
regard (Pomian 1987, 18)
FUNZIONE, DESTINAZIONE E USO
Storia culturale, storia dei semiofori
Krzysztof Pomian, 2001
Pomian, nel constatare la possibilità di movimento di alcuni oggetti da una
condizione ad un’altra, sottolinea la necessità di distinguere l’insieme degli
oggetti visibili in differenti «classi funzionali».
Queste sono individuabili attraverso tre elementi guida: la funzione
specifica che l’oggetto assume nel proprio contesto, analizzata in relazione
alla destinazione che gli viene conferita dal soggetto produttore,
individuale o collettivo, e all’uso che ne fanno i fruitori (2001, 136).
È nel ventaglio di possibilità di incontro che si vengono a creare fra questi
elementi che si svolge «tutta la storia dell’oggetto a contatto con gli
uomini» (2001, 137). È nella sfasatura che esiste, per esempio, fra la
destinazione originaria (voluta dal produttore) e gli impieghi particolari del
fruitore che si delineano la fisionomia e la natura dell’oggetto. Questa
griglia interpretativa permette all’autore di operare una distinzione di base
fra ciò che egli definisce le cose e i semiofori.
ESPOSIZIONE, UTILITÀ E
SIGNIFICAZIONE
Storia culturale, storia dei semiofori
Krzysztof Pomian, 2001
Una divisione appare all’interno stesso del visibile. Da un lato ci sono delle
cose, degli oggetti utili, tali cioè che possono essere consumati o servire a
procurarsi dei beni di sussistenza, o a trasformare delle materie grezze in
modo da renderle consumabili, o ancora proteggere contro le variazioni
dell’ambiente.
Tutti questi oggetti sono manipolati e tutti esercitano o subiscono delle
modificazioni fisiche, visibili: si consumano.
Da un altro lato vi sono dei semiofori, degli oggetti che non hanno utilità
nel senso che è stato ora precisato, ma che rappresentano l’invisibile,
sono cioè dotati di un significato; non essendo manipolati ma esposti allo
sguardo, non subiscono usura (Pomian 1978, 349-350).
ESPOSIZIONE, UTILITÀ E
SIGNIFICAZIONE
Sono al centro dell’analisi le nozioni di utilità e di consumo.
Ci sono oggetti che servono a qualcosa, che hanno una loro funzione
specifica, che sono regolarmente adoperati e consumati − per esempio le
macchine, gli attrezzi, gli strumenti, i mezzi di trasporto, le armi, il cibo −
e oggetti privi di utilità, o meglio che, nel contesto di appartenenza, non
assolvono ad alcun impiego concreto.
Questi ultimi non circolano e non vengono utilizzati per fini pratici.
Di qualunque natura essi siano, diventano pezzi da custodire, tesaurizzare,
collezionare.
Privi di utilità, sono dunque privi di valore d’uso.
Mantengono, tuttavia, il loro valore di scambio all’interno di un mercato
parallelo, in cui sono ricercati, in cui sono comprati e venduti.
Questo valore di scambio dipende dalla significazione di cui sono investiti.
ESPOSIZIONE, UTILITÀ E
SIGNIFICAZIONE
Al di là della corrente definizione di collezionismo, l’autore sostiene che
questi oggetti sono accomunati dal fatto di essere costituiti da due
elementi principali: da un supporto materiale e da segni che, pur non
essendo a tutti gli effetti un linguaggio, svolgono comunque una funzione
linguistica (Pomian 2001, 139).
Essi comunicano qualcosa, cercano di esprime un particolare messaggio e
rimandano a qualcosa (destinatario o significato) che evidentemente non
è visibile a prima vista. È qui il fulcro della questione: essi dicono qualcosa
che fa riferimento ad un altrove temporale e/o spaziale. Malgrado la loro
apparente diversità, infatti, tutti gli oggetti da collezione partecipano allo
scambio che «unisce il mondo visibile a quello invisibile» (1978, 344).
Questo scambio va ricercato tanto fra vivi e morti quanto fra uomini e dèi.
Due rapporti che rimandano inequivocabilmente ad un prima e a un
altrove.
ESPOSIZIONE, UTILITÀ E
SIGNIFICAZIONE
Se di funzione si può parlare per questi oggetti, la loro funzione è quella
di svolgere il ruolo di intermediari tra gli spettatori e gli abitanti o gli esseri
di un mondo al quale essi sono esterni.
La distinzione operata da Pomian prende anche in considerazione la
manipolabilità di questi oggetti e la loro eventuale usura.
I semiofori non sono sottoposti a regolare utilizzazione o impiego e quindi
sembrano non subire comuni processi di deterioramento.
Questo argomento, lasciato in sospeso nelle opere degli anni Settanta e
Ottanta, è dall’autore ripreso solo successivamente (2001).
Egli precisa che anche i semiofori possono evidentemente subire processi
di deterioramento materiale, ma ciò che li contraddistingue è il fatto che
gli individui vorrebbero risparmiarli dall’usura che colpisce tutte le altre
cose del mondo quotidiano.
ESPOSIZIONE, UTILITÀ E
SIGNIFICAZIONE
L’aspetto caratterizzante è che vorrebbero essere mantenuti in una
condizione di atemporalità. Ciò ci porta a salvaguardarli, a proteggerli
dall’usura e dall’invecchiamento, a riversare su di essi attenzioni e cure
(Pomian 2001, 139).
Sono l’intenzione e la strategia del soggetto che cambiano nel momento
in cui ha a che fare o ‘inventa’ dei semiofori. Egli ama pensarli e vederli
indistruttibili e a tal fine si adopera costantemente per mantenere la loro
integrità e per poterli sempre ammirare uguali a se stessi. Si mettono in
atto strategie, sia concrete che simboliche, volte alla conservazione di una
condizione riconosciuta come completa e funzionale.
ESPOSIZIONE, UTILITÀ E
SIGNIFICAZIONE
Bisogna far notare che, in riferimento alle reliquie, il concetto di collezione
acquista un significato più ampio[1].
Le religiose tendono a raccogliere e a conservare tutti gli oggetti che sono
attribuiti ad un santo o ad un beato, senza alcuna preferenza a livello
qualitativo o estetico.
Non avviene, così come invece accade di solito nel collezionismo, una
scelta degli esemplari migliori, rari o particolari. Seppure ci sia, come si è
visto, una differenziazione fra i diversi oggetti della persona ritenuta
speciale, vengono ricercati e conservati tutti indistintamente.
Sembrerebbe trattarsi di una raccolta di oggetti, dove l’elemento di
selezione passa in secondo piano o dove gli oggetti, cumulativamente,
vengono investiti di significato e di valore.
[1] Bisogna anche tener presente l’esistenza del collezionismo di resti, da
inquadrare all’interno dell’ambito medico (Dias 1992).
ESPOSIZIONE, UTILITÀ E
SIGNIFICAZIONE
Il processo attraverso il quale una cosa diviene semioforo passa
sostanzialmente attraverso un doppio trattamento: essa è esclusa dal
circuito dell’uso ed è sistemata in modo da poter essere osservata,
ammirata.
In altre parole si può dire che diventa semioforo a seguito di una
decontestualizzazione e di una successiva ricontestualizzazione più
elevata, istituita per giungere ad un altro livello culturale, all’esposizione.
Il primo passaggio produce un allontanamento dell’oggetto dal contesto
originario e una deprivazione della sua funzione originaria.
In un secondo momento esso viene più intensamente evidenziato e posto
sotto lo sguardo di soggetti.
Lo spostamento spaziale mette evidentemente in secondo piano la
funzione utilitaristica dell’oggetto e il suo essere strumento operativo nel
contesto di appartenenza.
CONFINI, LOCALIZZAZIONI E
PERCEZIONI
Il potere delle immagini, Freedberg, 1993
Storia culturale, storia dei semiofori, Krzysztof Pomian, 2001
Convalidando le osservazioni di Freedberg (1993), Pomian considera la
localizzazione come momento fondante della percezione dell’oggetto.
Sistemare un oggetto, qualunque esso sia, in un album, una vetrina, un
erbario, un piedistallo, appenderlo a un muro o a un soffitto, separarlo
tramite un serramento, una barriera, un cordone, una griglia o
semplicemente una linea disegnata (da non oltrepassare!), farlo
sorvegliare da un guardiano o affiancargli un cartello recante la
proibizione di avvicinarglisi e soprattutto di toccarlo, ebbene, tutto questo
finisce con l’imporre alle persone che si trovano nei paraggi il ruolo di
spettatore, e con lo spingerle ulteriormente a rivolgersi verso l’oggetto
fissando lo sguardo su di esso
E ciò non fa che attirare l’attenzione verso l’oggetto stesso e mostrare
quanto la contemplazione cambi in qualche modo colui che lo fissa: essa
infatti elargisce a quest’ultimo qualcosa di cui altrimenti risulterebbe
sprovvisto (Pomian 2001, 144).
ESPOSIZIONE, UTILITÀ E
SIGNIFICAZIONE
Il semioforo è un oggetto isolato che, estrapolato da un contesto reale,
finisce per essere percepito indipendentemente dalle relazioni con gli altri
oggetti intorno, in uno spazio surreale privo di punti di riferimento
concreti.
Viene posto in una posizione di singolare superiorità e di eccezionalità.
Remotti, parlando dei processi di sacralizzazione individua la vistosità
come un elemento centrale.
La vistosità permette di collocare gli oggetti in un piano superiore, «che
sposta il pensiero − potremmo dire − verso l’alto, collocandolo in una sfera
inattingibile, di rispetto e di venerazione» (1993, 129).
Al contrario, la non-vistosità fa percepire gli oggetti in quello che si pensa
essere il piano della natura, nascondendo gli elementi della routine
quotidiana e sottraendoli all’attenzione di chi guarda.
ESPOSIZIONE, UTILITÀ E
SIGNIFICAZIONE
L’esposizione fa percepire le qualità visibili come segni, tracce di qualcosa
che non si vede.
È per questo che, secondo la prospettiva di Pomian, il semioforo partecipa
allo scambio fra mondo visibile e mondo invisibile.
Rimanda a qualcosa che non è percepibile qui e ora, evoca realtà distanti
e soprattutto invisibili proprio perché è messo in mostra.
Ha una faccia materiale e una significante.
Può assicurare la comunicazione fra ciò che si vede e ciò che è celato solo
se, estrapolato dal suo contesto, è esposto allo sguardo di soggetti che
l’osservano e che sono ben consapevoli della sua mancanza di valore
concreto[1].
[1] Circa la pratica espositiva e l’incidenza che questa ha sul rapporto fra
oggetto da collezione, oggetto d’arte e reliquia si veda anche Pomian
(2004).
ESPOSIZIONE, UTILITÀ E
SIGNIFICAZIONE
È l’aspetto celato ad essere percepito dagli spettatori come potenza
extraumana.
B. Frank, confrontandosi con le statue buddiste giapponesi, individua in
queste forze prodigiose, che accomunano culture e religioni diverse, alcuni
caratteri peculiari.
L’autore sostiene che si tratta di una presenza «intermittente» e
«relazionale».
È «intermittente» perché agisce finché è «‘soutenue à l’existance’ par la
pensée des fidèles» (1986, 159).
Lo stesso Pomian riconosce che l’essere semioforo è una condizione
precaria, sottoposta alla variazione storica.
Oggetti considerati da un gruppo come semiofori e per questo mantenuti
fuori dal circuito socio-economico tradizionale possono essere visti da un
altro gruppo o anche dal medesimo gruppo in tempi diversi come comuni
oggetti d’uso, da reinserire nel circuito tradizionale (2001, 135).
ESPOSIZIONE, UTILITÀ E
SIGNIFICAZIONE
La presenza − dice inoltre Frank − è «relazionale».
Essa non costituisce una realtà soprannaturale autonoma, presente per se
stessa nell’oggetto (Otto 1998), ma dipende dalla rete di relazioni e di
nessi che si crea intorno ad essa.
Perché la potenza esista ci deve essere un gruppo di individui che credono
di percepirla e che si relazionano fra di loro e con essa.
Sono la presenza del gruppo e quella dei legami che si intessono fra i
singoli individui che permettono i processi di reificazione.
Queste forze vanno lette non come esigenze psicologiche individuali, ma
come fenomeni derivanti dalla dimensione aggregativa (Durkheim 1971,
18; Robertson Smith 1969).
ESPOSIZIONE, UTILITÀ E
SIGNIFICAZIONE
La differente condizione acquisita dall’oggetto, seppur provvisoria e non
data una volta per tutte, sembra tuttavia avere il carattere di verità
indiscutibile.
Per Rappaport, questa condizione − l’autore parla di «sanctity» − non può
essere messa in discussione e permette a sua volta di conferire certezza
ad oggetti, pensieri e azioni.
Il carattere è ‘sacro’ nella misura in cui è imputato.
Sanctity is the quality of unquestionable truthfulness imputed by the
faithful to unverifiable propositions (1971, 69).
ESPOSIZIONE, UTILITÀ E
SIGNIFICAZIONE
L’indiscutibilità è una proprietà della condizione stessa e non dei singoli
oggetti concreti.
Con un gioco di parole l’autore sottolinea più volte, parlando dei diversi
fenomeni religiosi, che non è la divinità ad essere sacra, ma è l’asserzione
della sua divinità ad esserlo.
E questo, fa notare l’autore, avviene indipendentemente dal fatto che il
messaggio sia riconosciuto come veritiero.
Nella maggior parte dei casi, infatti, l’attribuzione di ‘santità’ è riferita a
proposizioni non verificabili, che possono facilmente risultare palesemente
false anche nel contesto di appartenenza.
Si tratta di un «meta-linguaggio» (1971, 69) costituito da asserzioni, non
accertabili, sulla natura materiale di esseri e cose.
LA SPIRITUALITÀ COME BISOGNO
DELLA PERSONA E DELLA COMUNITÀ
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