OSPEDALE PLURALE Religioni e spiritualità Modelli interculturali
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NUOVO OSPEDALE DI PRATO S. STEFANO Sala Conferenze STEFANO MAGNOLFI OSPEDALE PLURALE Religioni e spiritualità Modelli interculturali per un ospedale plurale Francesca Sbardella 23/30 ottobre 2014 Religioni e spiritualità Modelli interculturali per un ospedale plurale LA SPIRITUALITÀ COME BISOGNO DELLA PERSONA E DELLA COMUNITÀ LE FORME ELEMENTARI Le forme elementari della vita religiosa Emile Durkheim 1912 Alla base di tutti i sistemi di fede e di tutti i culti deve esserci necessariamente un certo numero di rappresentazioni fondamentali e di atteggiamenti rituali che − malgrado la diversità delle forme che le une e gli altri hanno assunto − rivestono ovunque lo stesso significato oggettivo e adempiono ovunque alle stesse funzioni. Sono questi elementi permanenti che costituiscono quanto di eterno e di umano c’è nella religione. Essi costituiscono il contenuto oggettivo dell’idea che si esprime parlando della religione in generale. LA RELIGIONE PRIMITIVA COME OGGETTO PRIVILEGIATO DI INDAGINE Le forme elementari della vita religiosa Emile Durkheim 1912 Per Durkheim, che si occupa del totemismo degli Aborigeni Australiani, la religione primitiva sembra adatta più di ogni altra a far comprendere la natura religiosa dell’uomo, cioè a rivelarci un aspetto essenziale e permanente dell’umanità. Non vi sono religioni false. Tutte sono vere alla loro maniera; tutte rispondono, anche se in modi differenti, a determinate condizioni dell’esistenza umana. Senza dubbio non è impossibile disporle in un ordine gerarchico. LA RELIGIONE PRIMITIVA COME OGGETTO PRIVILEGIATO DI INDAGINE Le religioni primitive rispondono alle stesse necessità, assolvono alla stessa funzione, dipendono dalle stesse cause; e perciò possono anch’esse manifestare la natura della vita religiosa e, di conseguenza, risolvere il problema che vogliamo trattare. Ma perché accordare loro una specie di prerogativa? Non possiamo comprendere le religioni più recenti se non seguendo nella storia la maniera in cui esse si sono progressivamente formate. Infatti la storia è il solo metodo di analisi esplicativa che sia possibile applicare loro: essa sola ci consente di risolvere un’istituzione nei suoi elementi costitutivi, poiché ce li mostra mentre nascono nel tempo l’uno dopo gli altri. IL FENOMENO RELIGIOSO Le forme elementari della vita religiosa Emile Durkheim 1912 «Una religione è un sistema solidale di credenze e di pratiche relative a cose sacre, cioè separate e interdette, le quali uniscono in un’unica comunità morale, chiamata chiesa, tutti quelli che vi aderiscono». Emile Durkheim CREDENZE E RITI Le forme elementari della vita religiosa Emile Durkheim 1912 «Credenze e pratiche religiose sono due aspetti di una stessa realtà. Le pratiche religiose esprimono concretamente le credenze, le credenze a loro volta non sono altro che un modo di interpretare le pratiche religiose» (tratto da Durkheim, Per una definizione dei fenomeni religiosi). I fenomeni religiosi si collocano naturalmente in due categorie fondamentali: le credenze e i riti. Le prime sono stati di opinione, credenze; i secondi sono tipi determinati di azioni. RAPPRESENTAZIONI COLLETTIVE Le forme elementari della vita religiosa Emile Durkheim 1912 L’insieme delle credenze religiose, dei miti, delle leggende, dei pensieri dei singoli sono le “rappresentazioni collettive”. «Le rappresentazioni collettive sono il prodotto di un’immensa cooperazione che si estende non solo nello spazio, ma anche nel tempo; nella sua costruzione molteplici spiriti diversi hanno associato, mescolato, combinato le loro idee e i loro sentimenti; lunghe serie di generazioni vi hanno accumulato la loro esperienza e il loro sapere» (1971, Le forme elementari della vita religiosa, Milano, Comunità, pp. 18,19). SACRO/PROFANO Le forme elementari della vita religiosa Emile Durkheim 1912 Tutte le credenze religiose conosciute, siano esse semplici o complesse, hanno uno stesso carattere comune: esse presuppongono una classificazione delle cose reali o ideali che si rappresentano gli uomini, in due classi o in due generi opposti, definiti generalmente con due termini distinti, tradotti abbastanza bene dalle designazioni di profano e di sacro. Il mondo si divide in due domini che comprendono l’uno tutto ciò che è sacro, e l’altro tutto ciò che è profano. Le credenze sono rappresentazioni, o sistemi di rappresentazioni che esprimono la natura delle cose sacre, le virtù e i poteri loro attribuiti, la loro storia, i loro rapporti reciproci e con le cose profane. Ma per cose sacre non bisogna intendere soltanto quegli esseri personali che vengono chiamati dei o spiriti; una roccia, un albero, una fonte, un pezzo di legno, una casa, insomma qualsiasi cosa può essere sacra. SACRO/PROFANO La cosa sacra è per definizione quella che il profano non deve e non può impunemente toccare. Quindi l’aspetto caratteristico del fenomeno religioso è il fatto che esso presuppone sempre una divisione dell’universo conosciuto e conoscibile in due generi che comprendono tutto ciò che esiste, ma che si escludono radicalmente. Le cose sacre sono quelle protette e isolate dalle interdizioni; le cose profane sono invece quelle a cui si riferiscono queste interdizioni, e che debbono restare a distanza dalle prime. Le credenze religiose sono rappresentazioni che esprimono la natura delle cose e i rapporti che esse hanno tra loro e con le cose profane. I riti sono infine regole di condotta che prescrivono il modo in cui l’uomo deve comportarsi con le cose sacre. SACRO/PROFANO Risulta chiaro che l’opposizione concettuale sacro/profano è utilizzata da Durkheim come una vera e propria forma attraverso la quale è possibile pensare la realtà, per dare un significato alle sue manifestazioni concrete ed anche per analizzare le diverse pratiche di culto. In questa ottica, infatti, la vita rituale si fonda sostanzialmente sul rapporto di esclusione o sulla possibilità di interazione tra sacro e profano: è proprio attraverso il rito che è possibile gestire e controllare tale rapporto. Questo perché, pur nella fondamentale separazione, i due ambiti si trovano, in alcune circostanze, ad interferire e ad incontrarsi. Paradossalmente − dice Durkheim nelle Formes − il mondo sacro sembra per sua stessa natura tendente a diffondersi in quel mondo profano che tanto respinge. SACRO/PROFANO Da qui il principio di “contagiosità del sacro” − la capacità, cioè, di espandersi e di muoversi liberamente − e, in relazione a questo, le diverse funzioni che il gesto rituale acquista. Per trasmettere il carattere sacro da un oggetto ad un altro è sufficiente anche il contatto più involontario e superficiale, come se la potenza religiosa fosse estremamente mobile e veloce negli spostamenti. Citando Spenser e Gillen, Durkheim riprende gli esempi delle tribù dell’Australia centrale e dei loro churinga. Questi oggetti, ritenuti sacri, sono pezzi di legno o di pietra, sui quali è inciso il disegno del totem. Sono utilizzati come strumenti durante le cerimonie religiose e si pensa abbiano, in quanto sacri, proprietà miracolose. SACRO/PROFANO Per contatto, curano le malattie, infondono forza e coraggio, santificano oggetti e persone, hanno addirittura effetti benefici sulla ricrescita della barba. Le cavità stesse dove i churinga sono conservati diventano sacre, e ugualmente tutta l’area circostante, le piante che crescono in quella zona, gli animali che lì si rifugiano. Se le credenze religiose esprimono il modo il cui l’uomo si rappresenta la natura delle cose sacre e di quelle profane e la loro strutturazione nel mondo reale, i riti hanno lo scopo di realizzare e mantenere nel tempo un particolare stato di fatto, una condizione di equilibrio fra queste due diverse categorie. Forniscono al credente una vera e propria normativa, sono essi stessi un manuale di condotta per rapportarsi al sacro. SACRO/PROFANO In particolare nelle Formes, Durkheim distingue due “atteggiamenti” rituali diversi e complementari, che si ritrovano addirittura nella suddivisione in capitoli dell’opera stessa. Da una parte, il rito che egli chiama negativo è teso alla realizzazione di uno stato di piena separazione fra i due ambiti, trattenendo a distanza ed escludendo − sia a livello spaziale che temporale − il sacro dalla quotidianità; dall’altra, il rito positivo ha lo scopo di rendere possibile ed effettivo il passaggio dal profano al sacro, volgendo il sacro in forza socialmente utile e costruttrice. Il fine dei riti negativi è quello di preparare l’individuo per poi poter accedere liberamente ai secondi. SACRO/PROFANO Non prescrivono, infatti, di agire direttamente su qualcosa o di compiere una determinata azione, ma impongono di non fare qualcosa, attraverso proibizioni e restrizioni (tabù), che esplicitamente tendono a separare ciò che è sacro da ciò che è profano ed anche ciò che è più sacro da ciò che lo è meno. Indirettamente il risultato di questi tabù è comunque positivo: essi producono, infatti, un mutamento di stato che permetterà poi al credente di avere contatti diretti con il sacro. La proibizione fondamentale è, secondo Durkheim, che le cose sacre e quelle profane non possono coesistere nelle medesime unità di tempo e di luogo. Questo porta ad una serie di norme giocate, in relazione alla cosa considerata sacra, sulla pericolosità di contatto, di vista, di scambio di parola, di ingestione. SACRO/PROFANO I culti positivi, invece, mettono in atto delle performances − sacrifici, balli, sequenze gestuali che imitano animali, banchetti, feste vere e proprie − finalizzate all’avvicinamento del sacro ed al suo utilizzo all’interno del contesto sociale, per il raggiungimento di una nuova condizione. Attraverso questi riti le cose profane entrano nell’area della sacralità, spezzando la barriera che separa le due classi di realtà. Da notare, tuttavia, che, secondo questa analisi, il rito non regola tanto il rapporto uomo-dio, quanto le relazioni − di natura sociale − fra gli individui facenti parte di una data comunità. Il rito, cioè, produce degli effetti reali all’interno del gruppo, agisce concretamente sulla vita degli individui, senza che la sua efficacia dipenda da un intervento divino. SACRO/PROFANO Attraverso la ripetizione del rito il gruppo comunitario si riunisce e, ribadendo ciò in cui crede, mantiene forte il proprio senso aggregativo e crea dei legami fra i partecipanti. Questa idea, presente già in Robertson Smith, porta Durkheim a considerare il rito come atto avente lo scopo non solo di mettere in relazione le cose profane con gli esseri sacri, ma anche, così facendo, quello di mantenere in vita la comunità e gli stessi esseri sacri, rigenerandoli continuamente. Essi, sebbene superiori all’uomo, non esistono se non in quanto pensati da questo. L’IDEA DI CHIESA Le forme elementari della vita religiosa Emile Durkheim 1912 Le credenze propriamente religiose sono sempre comuni ad una collettività determinata, che fa professione di aderirvi e di praticare i riti ad esse solidali. Esse non sono soltanto ammesse a titolo individuale da tutti i membri di questa collettività, ma sono cosa del gruppo e ne costituiscono l’unità. Gli individui che la compongono si sentono legati gli uni agli altri per il semplice fatto di avere una fede comune. L’IDEA DI CHIESA Le forme elementari della vita religiosa Emile Durkheim 1912 Una società, i cui membri sono uniti per il fatto di rappresentarsi allo stesso modo il mondo sacro e i suoi rapporti col mondo profano, e di tradurre queste rappresentazioni comuni in pratiche identiche, viene denominata chiesa. Una chiesa non è semplicemente una confraternita sacerdotale, ma è la comunità morale costituita da tutti i credenti in una stessa fede, fedeli o preti che siano. Ogni comunità di questo genere manca normalmente nella magia. Non esiste una chiesa magica. Questa comunità morale, che Durkheim chiama nelle Formes “chiesa”, è unita dal fatto di avere una medesima autorappresentazione di sé, di ciò che è sacro e di ciò che non lo è, e di tradurla in pratiche e comportamenti rituali. LA RELIGIONE COME “FATTO SOCIALE” Le forme elementari della vita religiosa Emile Durkheim 1912 Le credenze religiose non sono accettate solo a livello personale, ma appartengono all’intero gruppo, che ne costituisce l’imprescindibile realtà empirica sottostante. Rispettando le regole metodologiche che egli stesso dà nelle Règles de la méthode sociologique (1895) Durkheim considera il fenomeno religioso come un “fatto sociale”, cioè un sistema di credenze collettive indipendente ed autonomo, separato dal pensiero dei singoli soggetti. LA RELIGIONE COME “FATTO SOCIALE” Il fatto sociale, infatti, è una realtà sui generis del tutto distinta dalle sue applicazioni individuali. L’uomo, cioè, percepisce molto chiaramente la pressione morale che la società dall’esterno esercita su di lui, imponendogli scelte e comportamenti, talvolta addirittura contrari alle sue inclinazioni naturali. Secondo Durkheim, la società impone all’individuo le proprie regole ed, in questo senso, esercita su di lui un potere coercitivo. Nell’articolo del 1898 De la définition des phénomènes religieux, invece, è in primo piano il problema della soggettività dell’individuo nel rapporto con il mondo delle cose ritenute sacre. Parallelamente alla funzione normativa e regolatrice dei fenomeni religiosi, analizzati, come nelle Formes, in quanto sistema di credenze collettive, in questo testo viene messo in luce anche il punto di vista del soggetto che si confronta con il sistema. LA RELIGIONE COME “FATTO SOCIALE” Nella parte conclusiva dell’articolo, in particolare, Durkheim distingue una religione “libera, privata, facoltativa”, che l’individuo può costruirsi secondo le proprie esigenze, da una religione pubblica, impersonale, che gli viene imposta dalla società e che obbligatoriamente si trova a dover praticare in quanto membro di quella determinata società La prima viene considerata derivante dalla seconda, come se fosse una sua rielaborazione nella coscienza individuale del credente, che la ri-interpreta, la modella e, in qualche modo la snatura. Parallela e simultanea alla religione ufficiale, quindi, c’è una credenza soggettiva, personale, intima, che, nella vita quotidiana del singolo, si sviluppa in modo autonomo ed originale. Utilizzando una terminologia di Pradès, Durkheim gioca sulla prospettiva “dal di fuori” e “dal di dentro”, pur ritenendo metodologicamente più corretta la prima, che affronta il sistema religioso come costruzione sociale, fatto sociale e lo studia partendo dalle istituzioni pubbliche e non dall’individuo. LA TEORIA DEL TOTEMISMO: IL TOTEM, COSA È E COSA RAPPRESENTA Le forme elementari della vita religiosa Emile Durkheim 1912 Si presenta sotto una molteplicità di forme. Si attribuisce ad un essere qualunque, pianta o animale, un valore simbolico di speciale relazione con l’uomo e serve a determinare norme di comportamento. A volte i membri del clan affermano di discendere da un antenato rappresentato con l’aspetto di un animale, ma anche in aspetto umano o come personaggio mitico che unisce la forma umana a quella animale. IL TOTEMISMO È un complesso di istituzioni e di credenze incentrato sulla relazione fra una specie animale o un fenomeno naturale e un gruppo sociale. In Durkheim il totemismo è la forma elementare e originaria di religione. Tra gli Aborigeni Africani studiati da questo autore, l’organizzazione è caratterizzata dalla divisione in clan, ognuno dei quali è rappresentato da un emblema totemico. Il totem rende manifesta e rappresenta l’identità del clan e l’unità dei suoi membri; durante i riti collettivi gli appartenenti al clan si riuniscono ed esprimono in questo modo il senso di identità collettiva. Se il totem rappresenta la società stessa, allora nel totem questi popoli venerano quindi il proprio clan, la società stessa di cui fanno parte. IL TOTEMISMO Il totem è il simbolo della società e nello stesso tempo è motivo ed oggetto di restrizioni che lo rendono sacro. L’individuo, quindi, è portato a crearsi una nozione ed una idea della forza del sociale su di lui, ed è in grado, in qualche modo, di rappresentarla e di spiegarla. Durkheim arriva a sostenere che la forza religiosa è il sentimento ispirato dall’intera collettività ai suoi membri, proiettato al di fuori delle singole coscienze ed oggettivato su un qualcosa che diviene, così, il “sacro”. IL TOTEMISMO Recuperando la prospettiva di Durkheim, bisogna riconosce la possibilità di «passaggio» fra categorie di genere differenti, da una condizione ad un’altra. Questo «passaggio» è giocato, per l’autore francese, sulla dicotomia sacro/profano (1971, 41). Tutti gli oggetti, reali o ideali, che gli uomini si rappresentano presuppongono una differenziazione fra questi due domini. Il ‘sacro’ comprende tutto ciò che è totalmente altro e separato, protetto da divieti e da tabù. Ciò che rientra in questa categoria non può essere impunemente toccato e deve essere conservato e trattato con cura e rispetto. Secondo Durkheim, questo è a tutti gli effetti «di un’altra natura», con energie e caratteri completamente eterogenei rispetto alla condizione di partenza (1971, 41). COSE E SEMIOFORI Storia culturale, storia dei semiofori Krzysztof Pomian, 2001 Lasciando da parte la nozione di ‘sacro’ − per molti aspetti ambigua e fuorviante −, è utile prendere in esame il percorso attraverso il quale alcuni oggetti, come le reliquie, acquistano, in un certo momento, una condizione particolare. Essi vengono considerati speciali. Subiscono una riqualificazione in seguito alla quale non rientrano nei circuiti correnti. Da un certo momento sono trattati secondo modalità diverse rispetto al comune utilizzo. A questo riguardo risulta utile confrontarsi con il lavoro di K. Pomian riguardante tutti quegli oggetti che, per motivi diversi, sfuggono all’ambito del mercato. A questo autore si deve l’aver affrontato la problematica sotto l’angolatura del collezionismo. La sua prospettiva ci permette di focalizzare l’attenzione sui processi che producono trasmutazioni di genere, al di là dell’ambito strettamente religioso-sacrale. Il concetto di collezione è utilizzato per indicare una condizione esterna alle dinamiche socio-economiche correnti. COLLEZIONI Storia culturale, storia dei semiofori Krzysztof Pomian, 2001 Une collection, c’est-à-dire tout ensemble d’objets naturels ou artificiels, maintenus temporairement ou définitivement hors du circuit d’activités économiques, soumis à une protection spéciale dans un lieu clos aménagé à cet effet, et exposés au regard (Pomian 1987, 18) FUNZIONE, DESTINAZIONE E USO Storia culturale, storia dei semiofori Krzysztof Pomian, 2001 Pomian, nel constatare la possibilità di movimento di alcuni oggetti da una condizione ad un’altra, sottolinea la necessità di distinguere l’insieme degli oggetti visibili in differenti «classi funzionali». Queste sono individuabili attraverso tre elementi guida: la funzione specifica che l’oggetto assume nel proprio contesto, analizzata in relazione alla destinazione che gli viene conferita dal soggetto produttore, individuale o collettivo, e all’uso che ne fanno i fruitori (2001, 136). È nel ventaglio di possibilità di incontro che si vengono a creare fra questi elementi che si svolge «tutta la storia dell’oggetto a contatto con gli uomini» (2001, 137). È nella sfasatura che esiste, per esempio, fra la destinazione originaria (voluta dal produttore) e gli impieghi particolari del fruitore che si delineano la fisionomia e la natura dell’oggetto. Questa griglia interpretativa permette all’autore di operare una distinzione di base fra ciò che egli definisce le cose e i semiofori. ESPOSIZIONE, UTILITÀ E SIGNIFICAZIONE Storia culturale, storia dei semiofori Krzysztof Pomian, 2001 Una divisione appare all’interno stesso del visibile. Da un lato ci sono delle cose, degli oggetti utili, tali cioè che possono essere consumati o servire a procurarsi dei beni di sussistenza, o a trasformare delle materie grezze in modo da renderle consumabili, o ancora proteggere contro le variazioni dell’ambiente. Tutti questi oggetti sono manipolati e tutti esercitano o subiscono delle modificazioni fisiche, visibili: si consumano. Da un altro lato vi sono dei semiofori, degli oggetti che non hanno utilità nel senso che è stato ora precisato, ma che rappresentano l’invisibile, sono cioè dotati di un significato; non essendo manipolati ma esposti allo sguardo, non subiscono usura (Pomian 1978, 349-350). ESPOSIZIONE, UTILITÀ E SIGNIFICAZIONE Sono al centro dell’analisi le nozioni di utilità e di consumo. Ci sono oggetti che servono a qualcosa, che hanno una loro funzione specifica, che sono regolarmente adoperati e consumati − per esempio le macchine, gli attrezzi, gli strumenti, i mezzi di trasporto, le armi, il cibo − e oggetti privi di utilità, o meglio che, nel contesto di appartenenza, non assolvono ad alcun impiego concreto. Questi ultimi non circolano e non vengono utilizzati per fini pratici. Di qualunque natura essi siano, diventano pezzi da custodire, tesaurizzare, collezionare. Privi di utilità, sono dunque privi di valore d’uso. Mantengono, tuttavia, il loro valore di scambio all’interno di un mercato parallelo, in cui sono ricercati, in cui sono comprati e venduti. Questo valore di scambio dipende dalla significazione di cui sono investiti. ESPOSIZIONE, UTILITÀ E SIGNIFICAZIONE Al di là della corrente definizione di collezionismo, l’autore sostiene che questi oggetti sono accomunati dal fatto di essere costituiti da due elementi principali: da un supporto materiale e da segni che, pur non essendo a tutti gli effetti un linguaggio, svolgono comunque una funzione linguistica (Pomian 2001, 139). Essi comunicano qualcosa, cercano di esprime un particolare messaggio e rimandano a qualcosa (destinatario o significato) che evidentemente non è visibile a prima vista. È qui il fulcro della questione: essi dicono qualcosa che fa riferimento ad un altrove temporale e/o spaziale. Malgrado la loro apparente diversità, infatti, tutti gli oggetti da collezione partecipano allo scambio che «unisce il mondo visibile a quello invisibile» (1978, 344). Questo scambio va ricercato tanto fra vivi e morti quanto fra uomini e dèi. Due rapporti che rimandano inequivocabilmente ad un prima e a un altrove. ESPOSIZIONE, UTILITÀ E SIGNIFICAZIONE Se di funzione si può parlare per questi oggetti, la loro funzione è quella di svolgere il ruolo di intermediari tra gli spettatori e gli abitanti o gli esseri di un mondo al quale essi sono esterni. La distinzione operata da Pomian prende anche in considerazione la manipolabilità di questi oggetti e la loro eventuale usura. I semiofori non sono sottoposti a regolare utilizzazione o impiego e quindi sembrano non subire comuni processi di deterioramento. Questo argomento, lasciato in sospeso nelle opere degli anni Settanta e Ottanta, è dall’autore ripreso solo successivamente (2001). Egli precisa che anche i semiofori possono evidentemente subire processi di deterioramento materiale, ma ciò che li contraddistingue è il fatto che gli individui vorrebbero risparmiarli dall’usura che colpisce tutte le altre cose del mondo quotidiano. ESPOSIZIONE, UTILITÀ E SIGNIFICAZIONE L’aspetto caratterizzante è che vorrebbero essere mantenuti in una condizione di atemporalità. Ciò ci porta a salvaguardarli, a proteggerli dall’usura e dall’invecchiamento, a riversare su di essi attenzioni e cure (Pomian 2001, 139). Sono l’intenzione e la strategia del soggetto che cambiano nel momento in cui ha a che fare o ‘inventa’ dei semiofori. Egli ama pensarli e vederli indistruttibili e a tal fine si adopera costantemente per mantenere la loro integrità e per poterli sempre ammirare uguali a se stessi. Si mettono in atto strategie, sia concrete che simboliche, volte alla conservazione di una condizione riconosciuta come completa e funzionale. ESPOSIZIONE, UTILITÀ E SIGNIFICAZIONE Bisogna far notare che, in riferimento alle reliquie, il concetto di collezione acquista un significato più ampio[1]. Le religiose tendono a raccogliere e a conservare tutti gli oggetti che sono attribuiti ad un santo o ad un beato, senza alcuna preferenza a livello qualitativo o estetico. Non avviene, così come invece accade di solito nel collezionismo, una scelta degli esemplari migliori, rari o particolari. Seppure ci sia, come si è visto, una differenziazione fra i diversi oggetti della persona ritenuta speciale, vengono ricercati e conservati tutti indistintamente. Sembrerebbe trattarsi di una raccolta di oggetti, dove l’elemento di selezione passa in secondo piano o dove gli oggetti, cumulativamente, vengono investiti di significato e di valore. [1] Bisogna anche tener presente l’esistenza del collezionismo di resti, da inquadrare all’interno dell’ambito medico (Dias 1992). ESPOSIZIONE, UTILITÀ E SIGNIFICAZIONE Il processo attraverso il quale una cosa diviene semioforo passa sostanzialmente attraverso un doppio trattamento: essa è esclusa dal circuito dell’uso ed è sistemata in modo da poter essere osservata, ammirata. In altre parole si può dire che diventa semioforo a seguito di una decontestualizzazione e di una successiva ricontestualizzazione più elevata, istituita per giungere ad un altro livello culturale, all’esposizione. Il primo passaggio produce un allontanamento dell’oggetto dal contesto originario e una deprivazione della sua funzione originaria. In un secondo momento esso viene più intensamente evidenziato e posto sotto lo sguardo di soggetti. Lo spostamento spaziale mette evidentemente in secondo piano la funzione utilitaristica dell’oggetto e il suo essere strumento operativo nel contesto di appartenenza. CONFINI, LOCALIZZAZIONI E PERCEZIONI Il potere delle immagini, Freedberg, 1993 Storia culturale, storia dei semiofori, Krzysztof Pomian, 2001 Convalidando le osservazioni di Freedberg (1993), Pomian considera la localizzazione come momento fondante della percezione dell’oggetto. Sistemare un oggetto, qualunque esso sia, in un album, una vetrina, un erbario, un piedistallo, appenderlo a un muro o a un soffitto, separarlo tramite un serramento, una barriera, un cordone, una griglia o semplicemente una linea disegnata (da non oltrepassare!), farlo sorvegliare da un guardiano o affiancargli un cartello recante la proibizione di avvicinarglisi e soprattutto di toccarlo, ebbene, tutto questo finisce con l’imporre alle persone che si trovano nei paraggi il ruolo di spettatore, e con lo spingerle ulteriormente a rivolgersi verso l’oggetto fissando lo sguardo su di esso E ciò non fa che attirare l’attenzione verso l’oggetto stesso e mostrare quanto la contemplazione cambi in qualche modo colui che lo fissa: essa infatti elargisce a quest’ultimo qualcosa di cui altrimenti risulterebbe sprovvisto (Pomian 2001, 144). ESPOSIZIONE, UTILITÀ E SIGNIFICAZIONE Il semioforo è un oggetto isolato che, estrapolato da un contesto reale, finisce per essere percepito indipendentemente dalle relazioni con gli altri oggetti intorno, in uno spazio surreale privo di punti di riferimento concreti. Viene posto in una posizione di singolare superiorità e di eccezionalità. Remotti, parlando dei processi di sacralizzazione individua la vistosità come un elemento centrale. La vistosità permette di collocare gli oggetti in un piano superiore, «che sposta il pensiero − potremmo dire − verso l’alto, collocandolo in una sfera inattingibile, di rispetto e di venerazione» (1993, 129). Al contrario, la non-vistosità fa percepire gli oggetti in quello che si pensa essere il piano della natura, nascondendo gli elementi della routine quotidiana e sottraendoli all’attenzione di chi guarda. ESPOSIZIONE, UTILITÀ E SIGNIFICAZIONE L’esposizione fa percepire le qualità visibili come segni, tracce di qualcosa che non si vede. È per questo che, secondo la prospettiva di Pomian, il semioforo partecipa allo scambio fra mondo visibile e mondo invisibile. Rimanda a qualcosa che non è percepibile qui e ora, evoca realtà distanti e soprattutto invisibili proprio perché è messo in mostra. Ha una faccia materiale e una significante. Può assicurare la comunicazione fra ciò che si vede e ciò che è celato solo se, estrapolato dal suo contesto, è esposto allo sguardo di soggetti che l’osservano e che sono ben consapevoli della sua mancanza di valore concreto[1]. [1] Circa la pratica espositiva e l’incidenza che questa ha sul rapporto fra oggetto da collezione, oggetto d’arte e reliquia si veda anche Pomian (2004). ESPOSIZIONE, UTILITÀ E SIGNIFICAZIONE È l’aspetto celato ad essere percepito dagli spettatori come potenza extraumana. B. Frank, confrontandosi con le statue buddiste giapponesi, individua in queste forze prodigiose, che accomunano culture e religioni diverse, alcuni caratteri peculiari. L’autore sostiene che si tratta di una presenza «intermittente» e «relazionale». È «intermittente» perché agisce finché è «‘soutenue à l’existance’ par la pensée des fidèles» (1986, 159). Lo stesso Pomian riconosce che l’essere semioforo è una condizione precaria, sottoposta alla variazione storica. Oggetti considerati da un gruppo come semiofori e per questo mantenuti fuori dal circuito socio-economico tradizionale possono essere visti da un altro gruppo o anche dal medesimo gruppo in tempi diversi come comuni oggetti d’uso, da reinserire nel circuito tradizionale (2001, 135). ESPOSIZIONE, UTILITÀ E SIGNIFICAZIONE La presenza − dice inoltre Frank − è «relazionale». Essa non costituisce una realtà soprannaturale autonoma, presente per se stessa nell’oggetto (Otto 1998), ma dipende dalla rete di relazioni e di nessi che si crea intorno ad essa. Perché la potenza esista ci deve essere un gruppo di individui che credono di percepirla e che si relazionano fra di loro e con essa. Sono la presenza del gruppo e quella dei legami che si intessono fra i singoli individui che permettono i processi di reificazione. Queste forze vanno lette non come esigenze psicologiche individuali, ma come fenomeni derivanti dalla dimensione aggregativa (Durkheim 1971, 18; Robertson Smith 1969). ESPOSIZIONE, UTILITÀ E SIGNIFICAZIONE La differente condizione acquisita dall’oggetto, seppur provvisoria e non data una volta per tutte, sembra tuttavia avere il carattere di verità indiscutibile. Per Rappaport, questa condizione − l’autore parla di «sanctity» − non può essere messa in discussione e permette a sua volta di conferire certezza ad oggetti, pensieri e azioni. Il carattere è ‘sacro’ nella misura in cui è imputato. Sanctity is the quality of unquestionable truthfulness imputed by the faithful to unverifiable propositions (1971, 69). ESPOSIZIONE, UTILITÀ E SIGNIFICAZIONE L’indiscutibilità è una proprietà della condizione stessa e non dei singoli oggetti concreti. Con un gioco di parole l’autore sottolinea più volte, parlando dei diversi fenomeni religiosi, che non è la divinità ad essere sacra, ma è l’asserzione della sua divinità ad esserlo. E questo, fa notare l’autore, avviene indipendentemente dal fatto che il messaggio sia riconosciuto come veritiero. Nella maggior parte dei casi, infatti, l’attribuzione di ‘santità’ è riferita a proposizioni non verificabili, che possono facilmente risultare palesemente false anche nel contesto di appartenenza. Si tratta di un «meta-linguaggio» (1971, 69) costituito da asserzioni, non accertabili, sulla natura materiale di esseri e cose. LA SPIRITUALITÀ COME BISOGNO DELLA PERSONA E DELLA COMUNITÀ Riferimenti bibliografici Comba E., 2008, Antropologia delle religioni. Un'introduzione, Roma, Laterza Destro A., 2005, Antropologia e religioni. Sistemi e strategie, Brescia, Morcelliana Dupront A., 1993, Il sacro. Crociate e pellegrinaggi. Linguaggi e immagini, Torino, Bollati Boringhieri [tit. or. Du sacré: Croisades et pèlerinages – Images et Langages, Paris, Gallimard, 1987] LA SPIRITUALITÀ COME BISOGNO DELLA PERSONA E DELLA COMUNITÀ Riferimenti bibliografici Durkheim É., 1971, Le forme elementari della vita religiosa, Milano, Comunità [tit. or. Les formes élémentaires de la vie religieuse, Paris, Alcan, 1912] Robertson Smith W., 1969, Lectures on the Religion of the Semites, United States of America, KTAV Publishing House Smith Jonathan Z., Relating religion: essays in the study of religion, Chicago-London, The University of Chicago press, 2004 OGGETTI E OGGETTUALITÀ Riferimenti bibliografici Appadurai (a cura di), 1986, The Social Life of Things: Commodities in Cultural Perspective, Cambridge, Cambridge University Press Baudrillard, J. 2004. Il sistema degli oggetti. Milano, Bompiani Dias N., 1992, «Le corps en vitrine. Éléments pour une recherche sur les collections médicales», Terrain, 18, pp. 72-79 Frank B., 1986, «Vacuité et corps actualisé. 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