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16-22 GiUGno 2014
KenYa - 16 GiUGno 2014
Al Shabaab torna a colpire in Kenya
Almeno una cinquantina di morti nella località turistica di Mpeketoni. Si sospetta
che dietro alla strage ci sia il gruppo di fuoco islamista degli Al Shabaab
Il Kenya torna a tingersi di sangue, dopo l’assalto al centro commerciale Westgate Shopping Center di Nairobi dello scorso anno, dove il 21 settembre sono morte 67 persone per
mano del gruppo terrorista islamico Al Shabaab. Testimoni raccontano di pesanti scontri a
fuoco andati avanti per diverse ore questa notte nella cittadina costiera di Mpeketoni (nella
foto). La città si trova vicino all’isola di Lamu, nota località turistica. Si racconta di edifici in
fiamme e si stima che almeno una cinquantina di persone abbiano perso la vita. Gli attacchi
sarebbero avvenuti un po’ in tutta la città e sarebbero cominciati mentre la gente del posto
stava guardando la Coppa del Mondo in televisione.
Secondo fonti della BBC, gli aggressori - armati, a volto coperto e a bordo di un furgone avrebbero colpito in varie località e lanciato esplosivi nella stazione di polizia locale prima
di farvi irruzione e rubare le armi disponibili. Questo e altri dettagli inducono il governo e
gli inquirenti a puntare il dito contro i combattenti di Al Shabaab.
Chi è Al Shabaab
All’inizio troviamo i conflitti intertribali, quelli che avevano portato al crollo del regime
di Siad Barre. Seguono dieci anni di blackout, in cui a nulla serve l’operazione di Stati Uniti
e ONU per ripristinare la pace.
Poi, nel 2000, il primo governo transitorio che rimarrà in vita tre anni. E il secondo, nel
2004, appoggiato dagli USA e riconosciuto dalla comunità internazionale. È in questa fase
che entrano in scena gli islamisti. Mentre il governo transitorio è in esilio a Nairobi e il nord
della Somalia è nelle mani dei vari signori della guerra, nel sud del Paese si fa strada l’Unione
delle Corti Islamiche. Finanziata da Arabia Saudita e altri Paesi del Golfo, e sostenuta militarmente dall’Eritrea, essa prende il controllo di Mogadiscio dal giugno al dicembre 2006.
Il movimento Harakat al-Shabaab al-Mujahidin, più comunemente noto come Al Shabaab
(“La Gioventù”), emerge in questo frangente come braccio armato dell’Unione delle Corti
Islamiche. La formazione è in prima linea nel contrastare l’avanzata delle forze governative
somale e delle truppe etiopi che, con l’appoggio degli Stati Uniti, tentano di sottrarre loro
la capitale.
Ma, anche con la liberazione di Mogadiscio il 28 dicembre 2006 e i successivi bombardamenti americani, gli Shabaab continuano a essere ben radicati nelle aree meridionali del
Paese e ne prendono progressivamente il controllo.
Con il ritiro delle truppe etiopi nel gennaio 2009, la formazione jihadista – ormai indipendente dall’Unione delle Corti Islamiche e affiliata ad Al Qaeda – pone Mogadiscio sotto
costante assedio, e riconquista la roccaforte governativa di Baidoa e la città portuale di Kismayo, strappandola al gruppo islamista rivale Hizbul Islam.
Ma nel 2011 la carestia colpisce il sud della Somalia. Al Shabaab respinge gli aiuti umanitari occidentali e la credibilità dei mujaheddin - che fino a quel momento godevano del pieno sostegno delle popolazioni locali - crolla drasticamente.
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I fatti recenti
Nell’ottobre dello stesso anno, con l’ingresso delle truppe keniote nel Paese, viene inferto
agli Shabaab il colpo decisivo. Questi, che si erano già ritirati da Mogadiscio due mesi prima,
abbandonano, nel corso del 2012, i territori precedentemente occupati. Kismayo – ultima
roccaforte islamista, nonché porto strategico che garantiva facili approvvigionamenti – cade
nell’ottobre di quell’anno.
Nel frattempo, nell’agosto 2012, dopo oltre vent’anni di conflitti e di vuoto istituzionale,
s’insedia a Mogadiscio il primo governo federale somalo. Con una forza militare di circa
7.000 uomini, molti dei quali combattenti stranieri, Al Shabaab non può, tuttavia, considerarsi sconfitto. La sua presenza in molte aree rurali del Paese, da cui vengono coordinate le
incessanti azioni di guerriglia contro il nuovo governo di Mogadiscio, costituisce ancora
una seria minaccia alla stabilità della Somalia.
La nuova leadership
Il nuovo leader di Al Shabaab
Ahmed Abdi Godane - nome di battaglia Mokhtar Abu Zubeir - è stato ufficialmente nominato emiro di Al Shabaab nel dicembre 2007. Classe 1977, egli è anche uno dei fondatori
dell’organizzazione.
Nel suo primo annuncio come capo del movimento nel giugno 2008, Godane ha giurato
fedeltà a Osama Bin Laden. Per il leader di Al Shabaab il territorio somalo è infatti solo uno
dei tanti fronti del jihad globale condotto da Al Qaeda: obiettivo del gruppo, come si evince
da una dichiarazione del giugno 2012, è imporre la sharia in Somalia e nel resto del Corno
d’Africa, combattendo contro il governo di Mogadiscio e le due nazioni apostate, Kenya ed
Etiopia.
Nel febbraio 2008 il Dipartimento di Stato americano annovera Al Shabaab tra le organizzazioni terroristiche. Sul finire dello stesso anno l’Office of Foreign Assets Control ha
proclamato Godane Specially Designated Global Terrorist.
Con l’azione al centro commerciale Westgate Shopping Center di Nairobi, Al Shabaab ribadisce la propria presenza e la capacità d’iniziativa in Kenya. Quello di oggi è forse l’ennesimo episodio che certifica la prosecuzione di un obiettivo, quello del turismo locale, che
sta divenendo un triste marchio di fabbrica di Al Shabaab.
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ColomBia - 17 GiUGno 2014
La Colombia rielegge Juan Manuel Santos
Santos si è aggiudicato un secondo mandato. Per ottenere la riconferma ha
puntato sul dialogo di pace con le FARC. Adesso però dovrà governare con
una coalizione formata da molti rappresentati dell’area di centro-sinistra
Ha vinto la pace. Per molti colombiani il risultato del secondo turno delle elezioni presidenziali del 15 giugno può essere riassunto così. Il presidente uscente, Juan Manuel Santos,
ha vinto con il 50,9% dei voti, mentre il suo sfidante, il leader del Centro Democratico e delfino dell’ex presidente Alvaro Uribe, Óscar Iván Zuluaga, ha ottenuto il 45%. La parola d’ordine adesso in Colombia è “paz”, ovvero pace. Molti l’hanno scritto sul palmo delle proprie
mani per dimostrare il loro sostegno al processo di pace avviato da Santos due anni fa con le
Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC) a L’Avana.
Dopo aver perso per quattro punti percentuali al primo turno elettorale, Santos non si aspettava che al ballottaggio quasi otto milioni di persone, circa cinque milioni in più, avrebbero
votato per lui. Chi lo ha scelto, lo ha fatto principalmente perché vuole dare continuità al processo di pace con i guerriglieri. Le trattative avviate a Cuba, d’altronde, sono quelle che sinora
hanno raggiunto i risultati migliori il che sta spingendo finalmente i colombiani a credere che
le violenze, i massacri e le estorsioni compiuti per anni dalle FARC presto potranno avere fine.
L’altra faccia di queste elezioni è stata quella di Zuluaga, il cui programma politico, economico e sociale in realtà non si discostava molto dal modello proposto da Santos.Tra i candidati
l’unica vera differenza è stata la gestione dei negoziati con i guerriglieri. Mentre per Santos la
fine della guerriglia passa attraverso il dialogo, per il candidato del Centro Democratico i
membri delle FARC dovrebbero essere processati dalla giustizia senza ottenere alcuno sconto
di pena. Sette milioni di colombiani si sono espressi a favore di Zuluaga, un numero considerevole di voti che servirà all’opposizione per tenere sotto controllo le trattative.
Con i risultati di queste elezioni, sia il governo di Santos che le FARC sanno adesso di quale
sostegno popolare godono e, dunque, fino a che punto potranno spingersi rispettivamente
con concessioni e richieste. L’accordo tra le due parti, che secondo il presidente dovrebbe
arrivare entro fine anno, dovrà essere poi sottoposto a un referendum.
Ma il tema della guerriglia, ovviamente, non è tutto nella vita dei colombiani. Occorre infatti
tenere presente anche il crescente disinteresse per la politica mostrato dai cittadini. Negli ultimi 16 anni la partecipazione alle urne non ha superato il 49% e per l’appuntamento elettorale di domenica scorsa l’astensionismo è arrivato al 53%. Per chi non è andato a votare le
priorità sono la lotta contro la violenza e la corruzione e il miglioramento dei servizi assistenziali. Santos può vantare il buon andamento dell’economia, che ha registrato una crescita del
4,3%, 2,5 milioni di poveri in meno e un indice di disoccupazione in calo. Nonostante ciò la
Colombia resta uno dei Paesi con il maggiore indice di disuguaglianza dell’America Latina.
La prova tangibile del malcontento la si percepisce a Barú, un’isola dei Caraibi vicino alla città
Cartagena de Indias, dove nessuno è andato a votare. Il messaggio degli abitanti è stato molto
chiaro: “senza acqua, senza strade e senza istruzione, Barú non partecipa alla votazione”.
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palestina - 18 GiUGno 2014
Raid israeliani a Hebron: in Cisgiordania
lo spettro di una nuova intifada
Proseguono le operazioni di ricerca di tre giovani israeliani dispersi dal 12 giugno.
Tra i 150 palestinesi arrestati anche esponenti della leadership di Hamas
Sono almeno 150 i palestinesi arrestati durante i rastrellamenti effettuati dall’esercito
israeliano nella West Bank (Cisgiordania) nelle operazioni di ricerca di tre giovani israeliani
dispersi dal 12 giugno. La tensione, già massima dopo l’annuncio della formazione da parte
dell’Autorità Nazionale Palestinese di un governo di unità nazionale che comprende sia
l’ala moderata di Fatah che quella radicale di Hamas, rischia adesso di esplodere con possibili scontri nei territori occupati. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu punta il dito
contro Hamas, accusato di essere responsabile del rapimento dei tre ragazzi. Hamas sinora
non ha né confermato né smentisce.
Nessuna rivendicazione, dunque. Nonostante ciò Israele ha deciso comunque di inviare i
propri soldati nella West Bank. Nella sola regione di Hebron sono state arrestate una quarantina di persone, tra cui esponenti operativi, dirigenti e parlamentari di Hamas. Nelle mani di Israele è finito anche Aziz Dweik, presidente del parlamento palestinese. Le operazioni
continuano e si cominciano a registrare scontri tra gruppi di palestinesi e forze di sicurezza
israeliane. Nel corso di uno di questi, vicino al campo profughi di Jalazoun nei pressi di Ramallah, un palestinese di 20 anni è rimasto ucciso da un colpo sparato dai militari israeliani.
Raid aerei sono stati invece effettuati lungo la Striscia di Gaza, ferendo diverse persone.
Il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), Mahmoud Abbas, ieri ha condannato il presunto rapimento dei ragazzi israeliani, criticando però al contempo l’ondata di
arresti effettuata da Israele a cui ha chiesto il rilascio immediato di tutti i palestinesi detenuti.
Secondo la stampa israeliana, alla dichiarazione avrebbe fatto seguito una telefonata con
Netanyahu nel corso della quale questi avrebbe intimato ad Abbas di fornire tutto il supporto necessario per riportare a casa i giovani e per arrestare i responsabili del rapimento.
Tel Aviv starebbe considerando altre azioni, tra cui la deportazione di esponenti di Hamas
nella Striscia di Gaza, la demolizione delle loro case e l’imposizione di un regime più duro
per i membri già detenuti nelle carceri israeliane.
Nonostante le dichiarazioni ufficiali di Tel Aviv, per alcuni osservatori i raid a tappeto,
l’uccisione di un giovane palestinese e gli arresti di massa rischiano di riaccendere le tensioni
con la Palestina, innescando un nuovo conflitto dagli esiti incerti.
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iraQ - 19 GiUGno 2014
Guida al prossimo bombardamento USA in Iraq
Alcune precisazioni sul possibile nuovo intervento in Iraq, che coinvolge tanto
l’Iran quanto la Siria e che l’Occidente stavolta ha più facilità a digerire. Parola
di Tony Blair
“Bè, [gli attacchi aerei, ndr] non sono la risposta completa, ma possono costituire una
delle opzioni più importanti per riuscire ad arginare la marea e fermare il movimento di
persone che se ne vanno in giro su furgoni e camionette a terrorizzare la popolazione. Quando ci sono persone che uccidono e compiono questi omicidi di massa, sai che tutto questo
dev’essere fermato e allora si fa quel che si deve”.
È il pensiero del Segretario di Stato americano, John Kerry, affidato a un’intervista con
Yahoo! News durante la quale si chiedeva al titolare degli Affari Esteri quanto concreta fosse
la possibilità che gli Stati Uniti lancino attacchi aerei su obiettivi iracheni. E la risposta sembra piuttosto solida. Anche se la Casa Bianca in passato ci ha abituato a grandi soprese.
Come lo stop ai bombardamenti sopra Damasco, in Siria, dati per certi il 31 agosto scorso
dopo che il presidente Obama aveva tracciato la famosa “red line” (che il dittatore siriano
Assad aveva superato con gli attacchi chimici) e poi fermati all’ultimo momento dopo l’intervento in diretta tv dello stesso Obama che, affidando la decisione al voto del Congresso,
di fatto si rimangiò la parola.
Quella decisione non solo creò vero sconcerto e sollevò malumori tra gli alleati – vedi la
Francia di Hollande, all’oscuro di tutto fino a tre ore dal raid – ma lasciò addosso anche la
sensazione strisciante, se non la certezza, che il discorso non si sarebbe chiuso in quel modo
e che prima o poi la questione sarebbe saltata nuovamente fuori. Infatti, eccoci tornati al
punto di partenza a commentare un nuovo possibile attacco, dopo soli dieci mesi ma con
molte migliaia di vittime in più tra Iraq e Siria. E alcune significative differenze.
Le differenze rispetto al passato
Primo, il Paese da bombardare non è la Siria ma il confinante Iraq, anche se per certi versi
non vale più la logica di due confini distinti, avendo gli eserciti irregolari che muovono
guerra a questi Paesi (gli stessi in entrambi i teatri) cancellato la linea di demarcazione tra
i due territori.
Secondo, stavolta non si bombarda per attuare un “regime change” spodestando un tiranno, ma per impedire che le milizie islamiste sunnite di ISIS (o ISIL o Daesh) conquistino la
capitale irachena, Baghdad, oggi controllata da un governo di maggioranza degli sciiti.
Terzo, per giustificare questo intervento la Casa Bianca non ha alcun bisogno della “pistola fumante”, dal momento che è manifestamente nelle intenzioni di ISIS conquistare l’Iraq e instaurare
un grande Califfato Islamico nel cuore del Medio Oriente, e ISIS stesso fornisce orgogliosamente
le prove dei massacri compiuti contro chi gli si oppone nella marcia verso la capitale.
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Quarto, e forse più importante, trattandosi di una guerra incardinata nel conflitto religioso
tra Islam sunnita e sciita, le opzioni in campo prevedono anche una possibilità per qualcuno
politicamente sgradevole, ma certamente sensazionale: cioè che gli Stati Uniti cooperino
direttamente o indirettamente con l’Iran sciita, in uno sforzo militare congiunto per fermare
i sunniti che minacciano i confini stessi della Repubblica Islamica dell’Iran.
Le ambiguità della guerra e le forze in campo
Una posizione, quest’ultima, che si porta dietro non poche ambiguità: anzitutto, coerentemente con i propri interessi, l’Iran è già coinvolto nella guerra in Siria al fianco del regime
sciita del presidente Bashar Assad e dunque contro i ribelli sunniti. Mentre, invece, gli Stati
Uniti sono al fianco dei ribelli, tra i quali milita però anche ISIS.
Secondariamente, per quanto questo fatto possa favorire il dialogo sul nucleare tra l’Iran
e i Paesi del 5+1 (Consiglio di Sicurezza ONU più la Germania), Israele e Arabia Saudita
non vedono certo di buon occhio la mossa degli USA di voler fare un “patto col diavolo”
con il loro più grande nemico.
Né tantomeno questi ultimi salutano con favore una guerra dalla forte componente religiosa a trazione sciita iraniana, che potrebbe modificare sostanzialmente gli equilibri futuri
nell’intero Medio Oriente e portare gli sciiti in una posizione di forza nello scacchiere mediorientale. Anche Hezbollah, principale nemico di Israele insieme all’Iran, è sciita, mentre
i sauditi sono la più forte nazione sunnita delle Penisola Araba.
Fatto sta che sia l’Iran sia gli Stati Uniti hanno già schierato sul campo circa cinquecento
uomini a testa. Teheran ha inviato in Iraq il suo miglior uomo, il Generale Suleimani, a capo
della Guardia Rivoluzionaria (nonché nella lista delle persone soggette a sanzioni dell’UE
per il coinvolgimento nel fornire equipaggiamento e supporto al regime siriano) affinché
coordini e aiuti le truppe irachene nel combattere i miliziani dell’ISIS.
Washington, invece, ha inviato nel Golfo Persico la portaerei militare George H.W. Bush
(quale scelta più appropriata?) con a bordo un contingente di 500 marines pronti a sbarcare,
mentre oltre duecento sarebbero già a Baghdad per difendere l’ambasciata USA e sostituire
il corpo diplomatico evacuato.
Il ritorno di Tony Blair
Insomma, dopo il 1991 e il 2003, l’America si ritrova ancora là, in quell’Iraq mai pacificato
dove potrebbe andare in scena il terzo tempo di una guerra assai sporca. E dopo la nave dedicata a Bush padre non poteva mancare Tony Blair, l’ex premier britannico che tanto si
spese per affiancare il presidente americano George W. Bush nella ricerca – inutile e infondata – delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein.
Questo il pensiero di Blair oggi: “Abbiamo tre esempi di strategia occidentale per operare
un regime change nella regione. In Iraq, abbiamo deciso di rimuovere Saddam, l’abbiamo
fatto e abbiamo lasciato i soldati sul terreno per la ricostruzione. L’intervento si è rivelato
molto duro e oggi il Paese è di nuovo a rischio. In Libia, abbiamo richiesto il regime change,
abbiamo rimosso il regime con un intervento aereo evitando di mandare truppe sul terreno
e ora la Libia è in preda all’instabilità e alla violenza, ha esportato molti guai e molte armi
in tutto il nord Africa e anche più giù. In Siria abbiamo richiesto il regime change, non abbiamo fatto nulla e ora è lo stato messo peggio di tutti”.
L’unica certezza, in questa ridda d’interessi e contraddizioni, è che nessuno vuole che l’ISIS, lo
Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, si appropri della Mesopotamia, mentre molti già spingono
per dividere il Paese in due. O in tre, se qualcuno si decide a considerare anche il Kurdistan.
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UCraina - 20 GiUGno 2014
I quattordici punti per la pace in Ucraina
Il governo di Kiev annuncia un piano programmatico per la soluzione della
guerra civile e la pace nel Paese. Ma la NATO denuncia nuove truppe russe al
confine. Un ennesimo nulla di fatto?
Chissà se Petro Poroshenko aveva in mente i famosi quattordici punti di Woodrod Wilson,
quando ieri ha stilato i suoi quattordici punti per risolvere la crisi in Ucraina e portare la
pace in Est Europa, prima di alzare la cornetta e chiamare Mosca per sondarne l’umore.
Il presidente degli Stati Uniti, Wilson, nel gennaio del 1918, alla fine della prima guerra
mondiale, lesse al Senato una serie di punti programmatici che intendevano superare la catastrofe del conflitto da cui l’America era rimasta immune, e sviluppare pragmaticamente
una “pace senza vincitori”, secondo le linee guida stese da lui stesso in base al principio dell’uguaglianza delle nazioni.
Il presidente Poroshenko non può certo paragonarsi a Wilson, se non altro perché ricopre
il ruolo di presidente da così poco tempo che la storia non può ancora giudicarlo. Eppure,
se la guerra civile in corso in Ucraina non si arresterà, il magnate del cioccolato di Kiev sarà
ricordato come l’uomo sotto il quale l’Ucraina si è divisa.
I quattordici punti del piano Poroshenko
Il suo piano per la soluzione della crisi politico-militare è molto pratico, di valore strategico
e niente affatto simbolico: si prevede anzitutto l’istituzione di un cordone di sicurezza per
i filo-russi che intendono lasciare il Paese, ai quali sarà concessa l’amnistia, a patto che il disarmo delle milizie ribelli filo-russe sia immediato, e non vale per i reati più gravi.
Si prevede il decentramento dei poteri di Kiev sulle province, così come norme adeguate
per la protezione della lingua russa in Ucraina. Il presidente intende inoltre rinunciare volontariamente alla possibilità di nominare i governatori e i capi di amministrazioni statali
regionali e ha accettato di tenere anticipatamente le elezioni locali. Tutte iniziative su cui
Kiev punta da tempo e che erano in buona parte già state annunciate.
Ma se giudichiamo la fermezza e la tenuta dei patti dal cessate-il-fuoco annunciato solo
pochi giorni fa (che non è durato), non si può che dubitare della buona riuscita e del successo dei quattordici punti. Violenti scontri sono ancora in corso nell’Est, dove ribelli e militari si scambiano tanto i colpi d’artiglieria quanto i cadaveri che l’una e l’altra parte stanno
lasciando sul terreno.
Inoltre, dopo l’annuncio della chiusura dei rubinetti del gas da parte del colosso russo
degli idrocarburi, Gazprom, l’attentato al gasdotto nella regione ucraina di Poltava che conduce il gas di Mosca verso l’Europa non aiuta la conciliazione tra le parti.
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In ogni caso, nel tracciare i punti per la de-escalation, Poroshenko ha chiesto l’aiuto del
Cremlino, i cui vertici hanno convocato una riunione d’emergenza con i membri permanenti del Consiglio di sicurezza della Federazione Russa. Gli stessi protagonisti, Petro Poroshenko e Vladimir Putin, hanno poi parlato direttamente al telefono, confrontandosi sul
piano messo sul tavolo da Kiev, ma non è trapelata una sola parola sull’effetto di quella telefonata, se non le solite frasi di circostanza. Così come non filtra molto dalle telefonate di
Putin verso Francia e Germania.
La NATO e le manovre militari russe
A entrare a gamba tesa sulla distensione, però, ci ha pensato la NATO, che inspiegabilmente continua a soffiare sul fuoco della crisi ucraina. Per bocca del Segretario Generale
Anders Fogh Rasmussen, l’Alleanza Atlantica denuncia oggi un “nuovo rafforzamento militare russo” vicino al confine con l’Ucraina, che dovrebbe allarmare tanto Kiev quanto l’intero
Occidente. Lo ha detto il Segretario al think tank londinese di Chatam House, istituzione
dall’alto valore simbolico e tra le più influenti organizzazioni non governative al mondo.
Rasmussen ha riferito: “Posso confermare che vediamo un nuovo rafforzamento militare
russo di almeno qualche migliaio di truppe aggiuntive schierate al confine con l’Ucraina, e
osserviamo loro manovre in prossimità dell’Ucraina”. Il Segretario ha poi aggiunto: “Se
quelle truppe fossero schierate per sigillare il confine e fermare il flusso di armi e combattenti, questo sarebbe un passo in avanti positivo. Ma non è quello che stiamo osservando.
Considero questo un assai deplorevole passo indietro e sembra che la Russia intenda mantenere l’opzione di un intervento”. Per tale motivo, la comunità internazionale dovrebbe
“rispondere con fermezza se la Russia dovesse intervenire ulteriormente. Ciò comporterebbe sanzioni più pesanti, che avrebbero un impatto negativo per la Russia”.
Il vero punto per Rasmussen e la NATO, però, non è tanto il qui e ora, ma l’idea complessiva secondo cui va ripensata più in generale “la sicurezza del XXI secolo”. Intanto, l’Ucraina
firmerà un accordo di associazione con l’Unione Europea il 27 giugno, e i trattati che ne
scaturiranno disegnano un quadro per la cooperazione con l’UE che qualcuno legge già
come un passo importante verso l’adesione all’Unione.
Prospettive
Chissà se questi 14 punti sono solo l’ennesimo annuncio-slogan che non risolve ma punta
a guadagnare tempo sulla pelle dei cittadini ucraini, nella prospettiva di una mano da Occidente. Irina Gerashchenko, incaricata di negoziare un accordo in nome di Kiev con le regioni di Donetsk e Lugansk, ha parlato di “una posizione chiara a negoziare solo con coloro
che son disposti a condividere il piano di pace del presidente”. Da ciò ne deriva che “nessun
negoziato con le Repubbliche Popolari di Lugansk e Donetsk può avvenire, poiché tali organizzazioni si devono assumere le proprie responsabilità per l’abbattimento degli aerei
ucraini con a bordo i nostri migliori soldati”.
Dunque, la questione resta anzitutto interna al Paese. Ma l’Ucraina è debole, debolissima
in questo momento (anche se agisce con violenza e pugno di ferro contro i rivoltosi) e il timore che la situazione si sclerotizzi su posizioni irremovibili è reale. Solo un aiuto esterno
– ma quale e chi se ne assumerà la responsabilità? – potrà forse contribuire a sciogliere i
nodi di una guerra civile che getta discredito su tutta Europa.
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eGitto - 21 GiUGno 2014
I volti nuovi (e quelli vecchi) del governo di Al Sisi
Il 17 giugno si è insediato il nuovo esecutivo formato dal primo ministro
Ibrahim Mahlab: 34 ministri con 14 new entry e 4 donne. Interessante il cambio
agli Esteri con la nomina del filoamericano Sameh Shoukry
A distanza di una settimana dall’investitura del neo presidente Abdel Fattah Al Sisi, l’Egitto
ha assistito alla nomina dei componenti del nuovo governo. Il 17 giugno hanno prestato giuramento i ministri dell’esecutivo formato da Ibrahim Mahlab, primo ministro già sotto la
presidenza ad interim di Adly Mansour dopo le dimissioni presentate da Hazem El Bablawi
lo scorso febbraio.
La nuova squadra di governo passa da 31 membri a 34 con l’eliminazione del ministero
dell’Informazione e l’inserimento del dicastero per lo Sviluppo Urbano. Tre ministeri inoltre
sono stati divisi: il ministero della Ricerca Scientifica forma adesso un ministero a parte rispetto a quello dell’Istruzione Superiore, il ministero per gli Investimenti è stato separato da
quello per il Commercio e l’Industria, mentre quello della Cooperazione Internazionale
adesso è opera autonomamente rispetto al ministero della Pianificazione.
Diversi ministri, in particolare quelli dell’area economica, sono stati mantenuti al loro posto. Sono invece 14 le new entry – tra cui Esteri, Giustizia, Cooperazione Internazionale, Irrigazione e Investimenti – e 4 le donne (Solidarietà Sociale, Sviluppo Urbano, Cooperazione
Internazionale e Manodopera).
Interessante notare il rimpiazzo del capo della diplomazia egiziana, Nabil Fahmy, con Sameh Shoukry, ex ambasciatore a Washington (2008-2012) ed ex rappresentante permanente
alle Nazioni Unite a Ginevra (2005-2008). Il suo predecessore, Fahmy, era stato nominato
dopo la destituzione di Mohammed Morsi nel luglio 2013, e da allora ha operato per “riallineare l’Egitto con il suo ruolo di Paese dall’identità araba e dalle radici africane”. A lui si
deve il riavvicinamento dell’Egitto alla Russia, motivo che però adesso potrebbe essere alla
base del cambio di guardia, visti i recenti segnali di distensione mandati da Al Sisi agli Stati
Uniti e le conoscenze di Shoukry negli ambienti diplomatici americani.
Nasce un comitato contro la legge anti-proteste
Intanto non si placa il fermento sociale. Un gruppo di egiziani aderenti a due ONG locali
(il Centro egiziano per i diritti economici e sociali – ECESR e il Centro a sostegno dello Stato
di Diritto, diretti rispettivamente dagli avvocati Khaled Ali e Tarek Al-Awady) ha presentato
un’istanza alla Corte Costituzionale Suprema per chiedere l’annullamento della legge antiproteste, emessa dall’ex presidente ad interim Adly Mansour lo scorso novembre per far fronte al crescente stato di caos.
L’istanza presenterebbe le ragioni dell’incostituzionalità della normativa agli articoli 8 e
10 che garantiscono alle autorità la possibilità di accordare o meno determinati cortei o assembramenti contrariamente a quanto invece sancisce la Costituzione, che all’articolo 73
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specifica il diritto di ogni cittadino di organizzare manifestazioni pacifiche e marce di protesta
(previa la notifica alle autorità competenti e senza il bisogno di ottenere relativa autorizzazione). Il verdetto della Corte – che potrebbe annullare la recente legge in via inappellabile
– è atteso per il prossimo ottobre. Molti partiti e movimenti, in particolare giovanili e rivoluzionari, sono a favore dell’annullamento.
I nuovi ministri del governo egiziano
Affari Esteri: Sameh Shoukry
Cooperazione Internazionale: Najla Al-Ahwani
Giustizia: Mahfouz Saber
Affari parlamentari: Ibrahim Al-Heneidi
Irrigazione: Hossam El-Din Moghazy
Agricoltura: Adel Al-Beltagy
Istruzione superiore: Al-Sayed Abdel Khaleq
Ricerca scientifica: Sherif Hammad
Beni archeologici: Mamdouh Al-Damaty
Cultura: Gaber Asfour
Investimento: Ashraf Salman
Sviluppo urbano: Laila Iskander
Trasporti: Hani Dahi
Ambiente: Khaled Fahmy
I ministri confermati:
Interno: Mohamed Ibrahim
Difesa: Sedki Sobhi
Turismo: Hisham Zaazou
Istruzione: Mahmoud Abou El-Nasr
Comunicazioni: Atef Helmy
Salute: Adel Al-Adawi
Affari religiosi: Mohamed Mokhtar Gomaa
Industria: Mounir Fakhry Abdel Nour
Pianificazione: Ashraf El-Araby
Petrolio: Sherif Ismail
Elettricità: Mohamed Hamed Shaker
Manodopera: Nahed Al-Ashry
Sport e gioventù: Khaled Abdel Aziz
Produzione militare: Gen. Maggiore Ibrahim Younis
Aviazione civile: Hossam Kamal
Edilizia: Mostafa Madbouly
Approvvigionamenti: Khalid Al-Hanafi
Finanze: Hany Kadry Dimian
Solidarietà sociale: Ghada Wali
Sviluppo locale: Adel Labib
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iraQ - 22 GiUGno 2014
L’impero economico di ISIS
Mentre sono in corso i combattimenti per il controllo della grande raffineria di
Baiji, spunta il report annuale delle attività dello Stato Islamico dell’Iraq e del
Levante. Ecco come viene alimentato il potere militare del gruppo guidato da
al-Baghdadi
Dopo l’avanzata irresistibile degli ultimi giorni in Iraq, ISIS (Stato Islamico dell’Iraq e del
Levante) sa già di poter guardare con fiducia alla chiusura del bilancio delle attività svolte
nel 2014. Lungo la scia di attacchi e violenze che ne stanno contraddistinguendo la marcia
verso Baghdad, si scopre adesso che il gruppo jihadista guidato dal leader Abu Bakr al-Baghdadi ha alle spalle una vera e propria pianificazione aziendale, con tanto di report annuali
sulle entrate e le spese del movimento e un ufficio stampa che ne cura nei dettagli la comunicazione al fine di trasmettere in Medio Oriente e nel mondo l’immagine di un’organizzazione ben strutturata, efficiente, disciplinata e, per tali motivi, capace di attrarre nuovi soci
e investitori.
Dunque, dietro l’obiettivo ufficiale di fondare un califfato islamico basato sull’applicazione
radicale della Sharia nella Mesopotamia, ISIS punta al sodo badando principalmente ad aumentare la propria potenza militare e a far lievitare il proprio fatturato attraverso la conquista
dei punti nevralgici del sistema economico ed energetico dell’Iraq. Nell’ultima settimana,
infatti, uno dietro l’altro sono finiti nelle sue mani i principali centri petroliferi del Paese:
l’ultimo potrebbe essere l’importante raffineria di Baiji, che rifornisce undici province irachene (1/4 del fabbisogno nazionale) e dove in queste ore sono in corso i combattimenti
con le forze governative.
È così che ISIS, sfruttando le tensioni settarie che da mesi minano la stabilità del governo
sciita del premier Nuri Al Maliki e forte dell’alleanza con una miriade di gruppi jihadisti sunniti (tra cui anche il partito Ba’ath dei seguaci dell’ex dittatore Saddam Hussein), ha aumentato in maniera esponenziale la propria influenza tra l’Iraq e la Siria ponendosi come una
minaccia non solo per il Medio Oriente ma direttamente – per stessa ammissione della Casa
Bianca – per gli Stati Uniti e l’Occidente.
I numeri forniti nell’ultima relazione annuale Al Naba (La Notizia, un documento di 400
pagine inizialmente diffuso solo in lingua araba), relativi al 2013 e diffusi dall’Institute for
the Study of War (ISW), parlano chiaro. In questo lasso di tempo ISIS dichiara di avere ai
propri ordini 15.000 miliziani: di questi la maggior parte proviene dai Paesi del Medio Oriente, mentre circa 2.000 sono arrivati dall’Europa, principalmente dalla Gran Bretagna. ISIS
dichiara inoltre di essere stato responsabile di 9.540 operazioni in Iraq, 1.083 omicidi e di
aver liberato centinaia di islamisti radicali dalle prigioni irachene. Nel suo fondo cassa, invece,
sarebbero custoditi oltre 13 milioni di dollari, derivati dal contrabbando di gasolio, rapimenti,
estorsioni, racket e altri traffici illeciti. Solo con l’assalto alla banca centrale di Mosul ISIS si
sarebbe impossessata di circa 425 milioni di dollari.
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il settimanale
16-22 GiUGno 2014
Rispetto al rapporto, precisa l’ISW, i dati per ciascuna categoria rendicontata dall’organizzazione sono quasi raddoppiati. Compare inoltre la nuova voce degli “apostati pentiti”, presentata per mettere in evidenza i risultati della guerra di religione combattuta dal gruppo.
“Dalla sua nascita fino al 2014 – spiega l’ISW – ISIS ha dimostrato di possedere una struttura
di reporting riferita a tutte le sue unità subordinate e a tutte le sue aree operative. In questo
momento sta attuando dei cambiamenti nelle proprie strategie militari principalmente in
Iraq. Ciò dimostra che possiede una leadership forte e coerente che dall’alto comanda l’intera struttura”.
Il punto sui combattimenti
Le forze governative hanno dichiarato di aver respinto i miliziani di ISIS dalla raffineria di
petrolio di Baiji (nella foto), situata circa 200 a nord della capitale Baghdad. Secondo le ultime stime fornite dall’esercito, tra la giornata di ieri e questa notte sarebbero stati uccisi almeno
40 miliziani jihadisti. Altre fonti segnalano invece che ISIS sarebbe ormai entrata in possesso
della maggior parte dell’impianto. Dall’area nelle ultime 48 ore, grazie alla mediazione delle
tribù locali, sono stati fatti evacuare i circa 15.000 lavoratori della struttura, compresi un centinaio di tecnici stranieri. Qualora la raffineria di Baiji dovesse cadere nelle mani di ISIS l’Iraq
potrebbe subire un contraccolpo energetico molto rilevante non avendo più garanzie per ciò
che concerne i rifornimenti di carburante e la distribuzione di energia elettrica.
La tensione resta alta anche a sud di Kirkuk, dove negli scontri tra ISIS e le forze armate
del Kurdistan iracheno (Peshmerga) sono state uccise 13 persone. Ieri ci sono stati violenti
scontri anche a Baquba, circa 60 chilometri a nord di Baghdad, dove gli jihadisti hanno provato ad assaltare la prigione locale. Gruppi di miliziani sciiti si sono invece organizzati per
difendere dagli attacchi sunniti la provincia di Diyala e la vicina città di Samarra, sede di un
importante santuario sciita.
Intanto il governo Al Maliki aspetta risposte dagli USA. Poche ore fa il presidente americano
Barack Obama ha comunicato ai leader del Congresso che assumerà le prossime decisioni
in merito a una eventuale azione militare in Iraq senza passare per il voto alle due Camere.
Ieri presidente del US Joint Chiefs of Staff, il generale Martin Dempsey, capo di stato maggiore della Difesa USA, ha avvertito che l’esercito statunitense non avrebbe ancora a sua disposizione le conoscenze di intelligence sufficienti per agire. Obama però sembra ormai
deciso a premere per l’ennesima volta il grilletto sull’Iraq.
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