Società partecipate: responsabilità delle società e degli amministratori

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Società partecipate: responsabilità delle società e degli
amministratori
“SOCIETÀ PARTECIPATE:
RESPONSABILITÀ DELLE SOCIETÀ E DEGLI AMMINISTRATORI”
Abstract:
Il seguente saggio è un breve commento sulle recenti pronunce giurisprudenziali in materia di
responsabilità dei singoli amministratori per la c.d. “mala gestio”, quale causa delle ripetute
perdite di esercizio delle società partecipate dalle pubbliche amministrazioni, nonché una breve
analisi sulla responsabilità delle società nei confronti dell’ente pubblico socio. Quest’ultimo
infatti provvede a ripianare le perdite predette con operazioni di rifinanziamento e
ricapitalizzazione che comportano un depauperamento del bilancio dell’ente pubblico; tali
operazioni peraltro vengono sempre più spesso “censurate”dalla Corte dei conti anche
nell’ambito della normativa sul contenimento della spesa pubblica.
SOMMARIO: Introduzione. – 1. Responsabilità societaria. - 2. Responsabilità del singolo
amministratore. - 3. Ricapitalizzazione e ripianamento perdite societarie. – 4. Conclusioni.
Introduzione
La partecipazione societaria da parte di una pubblica amministrazione è a tutt’oggi oggetto di
particolare attenzione non tanto per i vantaggi che questa offre- si pensi alla maggiore
flessibilità di azione derivante dall’utilizzo degli strumenti prettamente privatistici - quanto per la
sua attitudine, considerata l’esperienza italiana ed in particolare quella delle amministrazioni
comunali, a generare effetti negativi sui bilanci pubblici, tanto da essere osteggiata dal
legislatore nazionale con disposizioni limitative o addirittura di divieto assoluto.
Ed infatti dopo gli anni novanta si è assistito ad una privatizzazione degli enti detentori di
partecipazioni pubbliche a seguito del loro fallimento, e sulla scia di tale orientamento per la
pubblica amministrazione la società rappresentava un modello utile capace di agire nel mercato
e permettere in tali termini al soggetto pubblico un controllo mediato sullo stesso attraverso una
“entità” regolata, all’epoca, esclusivamente dal codice civile[1] e pertanto agente di operazioni
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più duttili rispetto a quelle realizzate da un ente pubblico economico.
Tuttavia come spesso accade, e come accaduto anche per i loro precursori, il passare del
tempo ha reso nota una realtà differente da quella prospettata al momento dell’assunzione
della partecipazione societaria. Una realtà che si è via via manifestata in modo sempre più
dirompente per effetto delle reiterate distorsioni generate proprio dall’azione della pubblica
amministrazione, tanto che il modello societario invece di assumere la veste di soggetto
formalmente pubblico ma sostanzialmente privato mediato con poteri privatistici si è rivestito - a
seguito delle deliberazioni del proprio socio pubblico - di un abito “burocratese” diventando lo
specchio del lato più negativo della pubblica amministrazione, quello della inefficienza,
diseconomicità e inefficacia di azione.
Proprio quest’ultimo aspetto ha portato il legislatore nazionale, sull’imput anche della Comunità
Europea, a modificare il quadro della disciplina delle società pubbliche con variegate novelle
che si sono succedute nel tempo, tanto da ritenere a tutt’oggi che la società abbia perso la sua
flessibilità civilistica e come tale il vantaggio determinante per la propria capacità attrattiva degli
investimenti pubblici .
Ed invero il legislatore nazionale per garantirsi un’assicurazione contro i perpetuati “sprechi”
generati dalle società pubbliche, in una fase di complessiva austerità dei conti pubblici al fine di
conseguire gli obiettivi del patto di stabilità, non soltanto si è limitato ad introdurre vincoli
inderogabili all’azione societaria nei confronti degli altri operatori economici presenti nel
mercato irrigidendo le posizioni comunitarie attuative del principio di concorrenza[2], ma ha
altresì previsto limiti alla costituzione di società da parte della pubblica amministrazione[3] per
giungere ad una obbligatoria messa in liquidazione di quelle esistenti[4] .
In tale breve studio cercherò di analizzare le responsabilità societarie e dei singoli
amministratori per la c.d. “mala gestio” , quale causa delle ripetute perdite di esercizio delle
società partecipate dalla pubblica amministrazione, ripianate con operazioni di rifinanziamento e
ricapitalizzazione che comportano un depauperamento del bilancio pubblico con immaginabili
effetti “economici”.
1. Responsabilità societaria
Per parlare di responsabilità della società nei confronti del socio, anche pubblico, è necessario
munirsi di un codice civile. Infatti in tale contesto non esistono differenziazioni tra le società
costituite e partecipate da soli soci privati rispetto a quelle con partecipazione minoritaria o
maggioritaria pubblica. Al riguardo l’unica disposizione che ci venie in soccorso è l’articolo
2497 del codice civile in tema di responsabilità delle società e degli enti che esercitano attività di
direzione e coordinamento di società, allorquando agiscono nell’interesse imprenditoriale
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proprio o altrui. in violazione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale delle
società medesime, per il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione
sociale, nonché nei confronti dei creditori sociali per la lesione cagionata all’integrità del
patrimonio della società.
Di particolare significato in tale contesto è l’uso del vocabolo “enti”[5] che introduce le persone
giuridiche sia pubbliche che private e l’inciso “attività di direzione e di coordinamento di
società”che si ravvisa pare nel c.d. “controllo analogo” che deve sussistere da parte di un ente
pubblico nei confronti di una società, quale uno degli elementi posti a condizione dalla
giurisprudenza comunitaria per configurare la legittimità di un eventuale affidamento diretto di
servizi, beni, forniture dall’ente alla società c.d. “in house”. .
Secondo una lettura orientata della disposizione per quanto in tale sede interessi, si rinviene
una responsabilità sulla società “capogruppo” quando la stessa agisce per una finalità
imprenditoriale, rappresentata anche dalla stessa attività di direzione e coordinamento, diversa
e confliggente con quella delle altre società c.d. “controllate” ma anche dei singoli soci delle
medesime siano essi pubblici o privati. La diversa finalità si deve conseguire ponendo in essere
comportamenti contrari ai principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale idonei a
causare un pregiudizio alla redditività ed al valore della partecipazione sociale del socio.
Pertanto anche l’ente pubblico quando agisce nella sua veste di socio sia esso di maggioranza
o minoranza lo fa per la cura di uno o più interessi pubblici mediante uno strumento prettamente
imprenditoriale, cosicché alla realizzazione della finalità imprenditoriale consegua nel contempo
la finalizzazione dell’interesse pubblico.
Se dunque l’esigenza pubblica invece che soddisfarsi pienamente viene ad essere smorzata
ed anche danneggiata dal comportamento omissivo o commissivo di una società, il socio
pubblico a fronte del pregiudizio alla propria partecipazione societaria può attivare l’azione
civilistica di cui all’articolo 2497 del codice civile.
Tuttavia è necessaria una precisazione. Tale disposizione inserita con la riforma societaria del
2003 intende tutelare in modo prevalente i soci ed i creditori delle società soggette ad attività di
direzione e coordinamento, ignorando nel contempo i soci ed i creditori della società che
esercita la precitata attività di coordinamento e di direzione.
Inoltre l’obbligo risarcitorio è imposto unicamente in capo ad una società mentre le persone
fisiche rispondono solo in veste di coobbligato in solido ai sensi dell’articolo 2497, comma
secondo[6] e tale scelta ha generato anche dubbi di legittimità costituzionale per violazione
dell’articolo 3 della Costituzione.
Per altro verso, censure di costituzionalità per violazione dell’articolo 27 della Costituzione[7] ha
sollevato la differente responsabilità a carico di enti collettivi, dipendente da reato commesso
dai propri dipendenti o amministratori, introdotta con il decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231
recante: “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e
delle associazioni anche prive di personalità giuridica.”
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Con la normativa citata si persegue la società che abbia tratto un vantaggio dalla condotta
illecita dei propri amministratori[8], e quindi realizzato un interesse societario, obbligandola al
pagamento di sanzioni amministrative pecuniarie o interdettive secondo l’orientamento paritario
in tema di responsabilità finanziaria della Comunità Europea che non distingue tra persona
fisica e giuridica. .
La legge richiede la coincidenza del comportamento degli organi con le finalità statutarie
affinché l’interesse proprio dell’amministratore diventi nel contempo interesse della società,
oltre alla sussistenza di un vantaggio rappresentato da una utilità economica – reale profitto- o
non economica – accrescimento di una posizione favorevole-.
L’unica esimente ammessa è infine l’adozione “preventiva” di un modello organizzativo che
consenta alla società di esercitare un controllo adeguato sugli organi di vertice, mediante la
istituzione anche di un Comitato indipendente di controllo con il compito di vigilare sul
funzionamento e sull’osservanza di tali modelli. La società pertanto non risponde se prova che
l’autore del reato ha agito eludendo fraudolentemente i modelli e nel contempo non vi è stata
una omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo di controllo. Tutto ciò esclude la
responsabilità previo sindacato del giudice[9].
2. Responsabilità del singolo amministratore
In tale ambito si è assistito ad una svolta di orientamento da parte della Corte di Cassazione[10]
che fino al 2009 aveva pacificamente riconosciuto la competenza giurisdizionale della Corte dei
conti in forza di una responsabilità degli amministratori di società pubbliche finalizzata a causare
un depauperamento delle risorse pubbliche parimenti alla responsabilità erariale dei funzionari
pubblici.
Le motivazioni del favor del giudice contabile erano rappresentate dalla necessità di tutelare la
gestione delle risorse pubbliche, anche quando queste venivano investite in società nei
confronti della “mala gestio” degli amministratori.
Il tutto però in totale assenza di una disposizione normativa attributiva del potere giudicante.
Ed è proprio la carenza di tale norma in combinato disposto, per converso, con il precetto
dell’articolo 16bis del decreto legge c.d. “milleproroghe” n. 248 del 2007 – per cui i giudizi di
responsabilità di talune società partecipate in misura inferiore al 50 per cento e quotate nel
mercato borsistico attivati dopo l’entrata in vigore del medesimo decreto spettano alla
giurisdizione ordinaria – hanno indotto il giudice della Suprema Corte a ritenere che le società
partecipate da un soggetto pubblico non debbano perdere la loro natura di enti di diritto privato
per il solo fatto che il loro capitale sia alimentato anche da conferimenti provenienti dallo Stato e
da altro ente pubblico.
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Da ciò la impossibilità di prevedere una coesistenza di azioni, una contabile, l’altra civilistica,
nei confronti dei medesimi soggetti in qualità di amministratori di una società pubblica e come
tale la necessità di escogitare il sistema per evitare il ne bis in idem. [11]
La conseguenza a cui perviene la Cassazione è distinguere le ipotesi di attivazione delle due
diverse azioni che ad avviso delle Sezioni Unite riguardano il medesimo fatto materiale e sono
finalizzate ad un unico obiettivo[12]: la prima quella contabile deve essere fatta valere
esclusivamente quando il danno arrecato è diretto al socio pubblico ed in particolare al suo
patrimonio; la seconda quella civilistica trova il suo fondamento quando il danno arrecato è
diretto alla società in quanto tale, ed in particolare al suo patrimonio sia pubblico che privato.
Tipico esempio di danno arrecato direttamente al socio e già riconosciuto proprio dalla Corte dei
conti è il c.d. danno all’immagine dell’ente pubblico che derivi da atti illegittimi posti in essere
dagli amministratori di una società partecipata. [13]
Per altro verso, una esemplificazione di danno arrecato direttamente al patrimonio societario,
come quello della decisione in commento, legittima l’esperibilità di azioni civilistiche di cui agli
articoli 2393, 2393 bis e 2476 c.c.
L’iter argomentativo della Corte discende da un unico presupposto: lo statuto di una società
pubblica non è diverso da quello di una società privata e come tale entrambe le società devono
essere assoggettate alla medesima giurisdizione, ossia quella civilistica rappresentata dalle
disposizioni che attivano le azioni di responsabilità. [14]
A contrario deve essere adeguatamente considerata la specificità di singole società a
partecipazione pubblica il cui statuto sia soggetto a regole legali particolari.
Il medesimo iter argomentativo viene tuttavia denegato nella stessa sentenza allorquando si
introduce una nuova ipotesi di responsabilità amministrativa.
Infatti la Cassazione cerca di riespandere l’ambito di giurisdizione della Corte dei conti, appena
escluso nelle ipotesi di danno arrecato direttamente alle società, rinvenendo una nuova
responsabilità erariale per i rappresentanti del socio pubblico che omettano, per dolo o per
colpa grave, di attivare gli strumenti civilistici a propria disposizione chiedendo l’azione di
responsabilità sociale al fine di superare l’eventuale inerzia, collusiva, degli organi societari
idonea a generare un danno alle risorse pubbliche costituite dalla partecipazione societaria.
Questo orientamento “nuovo” delle Sezioni Unite fa sì che la partecipazione pubblica comporti
una responsabilità a monte del rappresentante dell’ente per le decisioni che esso assume nei
confronti delle risorse pubbliche, ivi compreso l’obbligo e non più la mera facoltà di agire in via
giudiziaria di fronte al comportamento collusivo degli organi sociali.[15] Ne consegue che il
rappresentante dell’ente pubblico da una parte potrebbe essere considerato responsabile, in
via erariale, per le scelte irrazionali e contrarie al buon andamento se queste comportano un
depauperamento delle risorse pubbliche, dall’altra anche nelle ipotesi di scelte oculate e
ragionevoli potrebbe essere assoggettato alla giurisdizione contabile per omessa azione contro
gli amministratori “danneggiatori”, anche se nominati dal medesimo rappresentante[16]. E’
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necessario al riguardo rammentare che qualunque opzione operativa del soggetto pubblico
deve essere valutata in ragione delle sue possibilità di successo, considerando il rapporto tra
costi e benefici per cui se per un verso la minaccia di una responsabilità amministrativa fa venir
meno il rischio di azioni non seriamente fondate, dall’altra rende obbligatorie azioni che
presentano poche possibilità di successo con correlato dispendio di risorse pubbliche non
giustificato dal bilanciamento.
D’altro canto la responsabilità amministrativa deve essere agganciata anche alle partecipazioni
societarie in quanto trattasi di beni pubblici che devono essere gestiti anch’essi come qualsiasi
altro bene pubblico in modo trasparente, corretto e con oculata gestione. [17]
3. Ricapitalizzazione e ripianamento perdite societarie
Il ripianamento delle perdite da parte dei soci pubblici è il motivo per cui attualmente il
legislatore guarda con sfavor le società con partecipazione pubblica. Ed invero proprio l’obbligo
dell’ente di assolvere ai suoi impegni con contestuale necessità di sopperire ai deficit contabili
societari è sinonimo di sperpero economico e depauperamento delle risorse pubbliche con
grave incidenza sui bilanci dei soggetti pubblici. Anche la nuova normativa in materia di
contabilità – legge n. 196 del 2009 – richiede che nel bilancio la gestione propria
dell’amministrazione pubblica sia affiancata dalla gestione degli enti strumentali o dipendenti
ovvero delle società partecipate cosicché le risultanze di un ente o di una società si influiscano
a vicenda sia positivamente che negativamente. In tale sede considerando il solo aspetto
negativo molte volte l’amministrazione pubblica oltre ad essere obbligata ad una
ricapitalizzazione dal codice civile nella ipotesi in cui la perdita sociale comporta il decremento
del capitale al di sotto del limite previsto, si trova costretta ad un ripianamento delle perdite per
evitare che le stesse creino un vortice di passività capace di espandersi anche sulla gestione
propria del soggetto pubblico[18]. Da ciò il divieto del legislatore statale di procedere a
ricapitalizzazioni a favore di società che per tre anni consecutivi abbiano avuto perdite, ai sensi
dell’articolo 6 comma 19 del decreto legge n. 78 del 2009. Infatti la circostanza che per più di
un esercizio la società riporti delle perdite dovrebbe indurre la pubblica amministrazione ad una
diversa decisione ossia ad adottare interventi di risanamento societario nell’ambito di un
preciso piano strategico o industriale che, considerando i costi ed i benefici, rappresenti una
opzione per il soggetto pubblico appetibile[19]. Diversamente la pubblica amministrazione è
tenuta a verificare se persiste l’interesse pubblico a detenere la partecipazione in una società
in reiterata perdita per deficienze strutturali di gestione non eliminabili con un mero apporto di
risorse finanziarie da reperire con fondi di riserva .
Nelle ipotesi in cui si decida per la liquidazione della società, che rammentiamo per i comuni
con popolazione inferiore a trenta mila è un obbligo - fermo restando le deroghe ivi previste - e
non una scelta dettata dalla situazione fattuale, secondo una recente deliberazione della Corte
dei conti Sez. regionale di controllo per la Basilicata, 17 maggio 2011 n. 28 non “sussisteun
obbligo per l’Ente di assumere a carico del proprio bilancio i debiti societari rimasti insoddisfatti
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all’esito della procedura di liquidazione della società.”. Infatti secondo il giudice erariale se il
socio pubblico con una scelta del tutto discrezionale decide di rinunciare al limite legale della
responsabilità patrimoniale per debiti, occorre che motivatamente individui lo schema causale di
contratto al quale ricondurre l’operazione di assunzione del debito e che si dia conto delle
ragioni di vantaggio e di utilità che giustifichino tale opzione.
4. Conclusioni
I risultati a cui è possibile pervenire a seguito della breve prospettazione delle diverse azioni
possibili è che nonostante il legislatore del 1942 avesse indicato nella propria relazione che è lo
Stato che si assoggetta ai principi civilistici e non il contrario, per converso persiste comunque
l’orientamento di distinguere le società prettamente privatistiche da quelle pubblicistiche
adombrando una responsabilità amministrativa contabile proprio nelle caratteristiche intrinseche
diverse di quest’ultime entità che devono risultare dichiaratamente con norme specifiche
ovvero mediante un’attenta analisi degli atti societari.[20] Ed invero solo da una accurata
indagine del caso concreto dipesa dalla lettura dello statuto e dall’organizzazione societaria
reale è possibile riscontrare quei caratteri diversi e speciali finalizzati all’interesse pubblico a
cui conseguentemente correlare la responsabilità erariale differente e non aggiuntiva rispetto a
quella civilistica. Ciononostante si tratta di elementi che non accertano in senso definitivo ma
piuttosto alquanto dubitativo, la natura pubblicistica della società. Si pensi alla “concessione del
servizio”; alle “forme di controllo”, al “sovvenzionamento con risorse pubbliche”, all’”obbligo
dell’utilizzo delle regole di evidenza pubblica”; alla “coincidenza tra finalità dell’ente socio e
finalità
delle
società”;
tutti
elementi
che
ad
avviso
dell’autore
Gianluca
Romagnoli [21]costituiscono prove indizianti che tuttavia generano una responsabilità oggettiva
da “contatto sociale” per lesione dell’articolo 97 della Costituzione. Tale ragionamento
affievolisce non poco la libertà derivante dall’aspetto manageriale della società privatistica
basata esclusivamente sul lucro[22] che nelle società pubbliche viene ad essere “sbocciato” da
una funzionalizzazione di pubblico interesse correlata ad una attività amministrativa autoritativa.
[23]
Chi è Stefania Del Negro:
Stefania Del Negro è funzionario della Direzione Affari Legislativi della Giunta regionale del
Veneto dal 3 ottobre 2001. Laureata nel 1998 in Giurisprudenza presso l’Università degli studi
di Ferrara, con una tesi dal titolo "Il diritto di recesso del socio nelle società di capitali", ha
conseguito l’abilitazione alla professione di avvocato dopo aver svolto la pratica forense nel
biennio 1998- 2000 presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Venezia.
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*Articolo aggiornato alla data del 10 luglio 2011.
[1] Come si evince dalla stessa relazione al codice civile è “lo Stato che si assoggetta alla legge
della società per azioni per assicurare alla propria gestione maggiore snellezza di forme e di
nuove possibilità realizzatrici. La disciplina comune della società per azioni deve pertanto
applicarsi anche alle società con partecipazioni dello Stato o di enti pubblici senza eccezione, in
quanto norme speciali non dispongano diversamente.”
[2] Articolo 13 del decreto legge n. 223 del 2006 per cui le società a capitale interamente
pubblico o misto costituite o partecipate da soggetti pubblici non possono svolgere prestazioni a
favore di altri soggetti pubblici o privati, nè in affidamento diretto nè con gara, e non possono
partecipare ad altre società o enti aventi sede nel territorio nazionale.
[3] Articolo 3, commi 27 e ss. della legge n. 244 del 2008 che vieta alle pubbliche
amministrazioni di costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi
non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere
o mantenere direttamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società.
[4] Articolo 14, comma 32 della legge n. 78 del 2010 che impone ai comuni con popolazione
inferiore a trenta mila abitanti di procedere alla liquidazione delle proprie società ovvero a
cedere le partecipazioni, fermo restando le deroghe ivi previste.
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[5] Termine interpretato in via autentica dal legislatore dall’articolo 19, comma 6 del decreto
legge 1 luglio 2009, n. 78 convertito con modificazioni dalla legge n. 102 del 2009 secondo il
quale “per enti si intendono i soggetti giuridici collettivi diversi dallo Stato che detengono la
partecipazione sociale nell’ambito della propria attività imprenditoriale ovvero per finalità di
natura economica e finanziaria.” Una critica alla interpretazione dello Stato è presente
nell’articolo “ I controlli delle società partecipate dagli enti pubblici” di P. Principato pubblicato in
Le Regioni, fascicolo n. 5 del 2009.
[6] Per cui “risponde in solido chi abbia comunque preso parte del fatto lesivo e, nei limiti del
vantaggio conseguito, chi ne abbia consapevolmente tratto beneficio”.
[7] Il divieto della responsabilità per fatto altrui di cui all’articolo 27 primo e secondo comma
della Costituzione viene ed essere eluso con il principio dell’immedesimazione organica dei
soggetti rappresentativi. L’ente collettivo non viene considerato privo di volontà e quindi non
responsabile se si considera che l’ “entità” diversa da quella delle persone fisiche, abbia
omesso di adottare una adeguata azione interna di contrasto, o peggio ancora abbia accettato
l’illecito penale come strumento per il raggiungimento dei propri scopi, anche se leciti perché
previsti nello statuto.
[8] I soggetti responsabili dei reati tassativamente indicati nella normativa possono essere i
dirigenti, i soci occulti maggioritari, gli amministratori ed i dipendenti con funzioni gestionali.
L’orientamento francese, per converso, è quello di una responsabilità oggettiva non limitata ad
una casistica penale in quanto la responsabilità colposa del rappresentante comporta ex sé
responsabilità della medesima persona giuridica da lui rappresentata.
[9] In Parlamento giace un disegno di legge di modifica della normativa. Tra le novelle inserite vi
è l’inversione dell’onere della prova relativa all’adozione dei modelli nelle ipotesi in cui questi
siano stati codificati da società apposite, rimanendo in capo al pubblico ministero l’onoere della
prova contraria.
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[10] Decisione delle Sezioni Unite n. 26806 del 2009, commentata criticamente da Gianluca
Romagnoli in in Gedit.it. ; D’Auria “Non esiste (con eccezioni) la responsabilità erariale per i
danni cagionati alle società pubbliche dai loro amministratori” in Foro it. 2010, I, 1477; da
Cagnasso e da Patrito in “Responsabilità di amministratori di società a partecipazione pubblica:
profili di giurisdizione e di diritto sostanziale” in Giur. It. 2010, n. 853 e ss.; ad ancora in Foro
amm. Cons. Stato, 2010, n. 71 e ss con note di Sinisi “ Responsabilità amministrativa di
amministratori e dipendenti di s.p.a. a partecipazione pubblica e riparto di giurisdizione:
l’intervento risolutivo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.” e di Tenore “La
giurisdizione della Corte dei conti sulle s.p.a. a partecipazione pubblica.”
[11] La Corte dei conti con la decisione n. 114 del 2006 aveva individuato nella doppia azione
un rafforzamento di tutela a vantaggio degli azionisti privati che cumulando alle normali azioni
civilistiche quelle di stampo erariale potevano in tali termini bilanciare così i minori poteri dei
medesimi derivanti dalla posizione minoritaria nella compagine societaria.
[12] Tale passaggio argomentativo viene censurato da Ferruccio Capalbo nella sua nota
“Ambiti di giurisdizione della Corte dei conti alla luce dei recenti orientamenti della Corte
costituzionale e delle Sezioni Unite della Cassazione.” in Lexitalia n. 1/2010 che rinvia ad una
decisione della Corte di Cassazione n. 13662/07 laddove il medesimo giudice rilevava la piena
autonomia ed indipendenza tra le due tipologie di azioni.
[13] Paolo Tesauro nel suo commento recante “La responsabilità degli amministratori delle
società a partecipazione pubblica, a seguito della recente giurisprudenza della Corte di
Cassazione” evidenzia come il danno all’immagine del socio pubblico sia di difficile
quantificazione nonché difficilmente attivabile qualora il danno derivi da un’attività in perdita
causata dalle scelte manageriali proprio del socio pubblico danneggiato. Nel contempo secondo
l’autore non viene richiamato un danno diretto e maggiormente più attendibile quale quello del
reato di falso in bilancio. Inoltre, secondo Martina Sinisi cit., un grave vulnus all’effettività
dell’azione contabile per danno all’immagine della pubblica amministrazione è stato inferto dal
comma 30ter dell’articolo 17 del decreto legge n. 78 del 2009 che ha introdotto l’obbligatoria
pregiudizialità penale. Peraltro la Corte dei conti sez. giurisdiz. Regione Lazio 18 febbraio 2010,
anteriormente alla dichiarazione di inammissibilità della questione di costituzionalità sollevata
dinanzi alla Corte costituzionale avvenuta con decisione n. 355 del 2010, interpretava la nuova
disposizione che subordina la possibilità di esercitare la relativa azione all’accertamento della
sussistenza di un reato, precisando che tale deve intendersi anche la mera conoscenza da
parte della Procura regionale del rinvio a giudizio degli imputati e non dunque necessariamente
il solo giudicato penale.
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[14] Secondo D’Auria cit., “Se è vero, infatti, che il regime di responsabilità degli amministratori
risponde alla regola della non interferenza fra i rapporti patrimoniali della società e quelli
dell’ente-socio, non dovrebbero esservi ragioni per non applicare la stessa regola alla
responsabilità dei terzi nei confronti della società per i danni a questa recati nello svolgimento di
prestazioni da essa richieste.”
[15] Stefano Glinianski in “La responsabilità dell’ente socio per omesso esercizio dell’azione di
responsabilità sociale nei confronti degli organi societari” in Lexitalia n. 6/2010 ritiene che
rendere obbligatoria l’azione di responsabilità sociale sconfessi il precedente ragionamento
delle Sezioni Unite. Secondo l’Autore o si ritiene che l’azione sociale sia connotata da quella
discrezionalità che tipizza la disciplina civilistica tanto da poter rinunciare alla stessa od essere
oggetto di transazione; oppure, ove si ritiene sussistere un sindacato del giudice contabile
relativo all’omissione di azione, implicitamente si riconosce la peculiarità dello statuto delle
società partecipate e quindi la loro diversità rispetto a quelle civilistiche al 100 per cento.
[16]L’azione di responsabilità esercitata dai soci di cui all’articolo 2393 bis del codice civile
assolve ad una duplice funzione: offrire uno strumento per una tutela più energica delle
minoranze rappresentativa di una quota congrua del capitale sociale; introdurre il giusto
contrappeso al potere gestorio degli amministratori costituito dall’azione di responsabilità
considerata la tradizionale riluttanza degli azionisti di controllo a deliberare l’azione sociale di
responsabilità nei confronti degli amministratori espressi da loro medesimi.
[17] Il nuovo orientamento della Corte di Cassazione è stato confermato anche nella recente
ordinanza delle Sezioni Unite 5 luglio 2011 n. 14655 relativa alla società per azioni Autovie
Venete partecipata anche dalla Regione Veneto.
[18] Peraltro considerando il patto di stabilità interno le somme impiegate per il ripiano delle
perdite non rappresentano un investimento e quindi non possono essere finanziate attraverso il
ricorso al debito.
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[19] La Corte dei conti in più occasioni ha osservato che il principio costituzionale di cui
all’articolo 119 ultimo comma della Costituzione si ponga come limite all’azione amministrativa
volta al salvataggio a tutti i costi di strutture ed organismi partecipati che versano in situazioni di
irrimediabile dissesto. Non sono quindi ammissibili interventi tampone con dispendio di
disponibilità finanziarie a fondo perduto, erogate senza un programma industriale o una
prospettiva che realizzi l’economicità e l’efficienza della gestione nel medio e lungo periodo.
(vedi per tutte Corte dei Conti Sez. di controllo Lombardia deliberazione n. 753 del 2010)
[20] Si pensi al caso RAI ( decisione della Cassazione n. 27092 del 2009) e al caso ENAV
(decisione della Cassazione n. 5032 del 2010)
[21] Secondo l’autore l’amministratore di società a partecipazione pubblica in sede contabile
risponde per un qualche cosa di diverso e ragionevolmente per una rosa di ipotesi più ampia
rispetto a quelle che potrebbero essere fatte valere sul versante civilistico esercitando l’azione
per danno diretto.
[22] D’altro canto anche l’ambito della libertà di scelta imprenditoriale di un amministratore di
una società pubblica attiene alla sfera della capacità imprenditoriale di diritto privato con il solo
limite della violazione di norme imperative di ordine pubblico.
[23] Per converso l’ambito di scelta discrezionale amministrativa di una pubblica
amministrazione si riferisce al contemperamento degli interessi pubblici oggetto di tutela che
comporta una scelta tra più opzioni possibili.
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