Pagine 01 - 64 (2016 completo) - Associazione Augusta

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Pagine 01 - 64 (2016 completo) - Associazione Augusta
Augusta
N. 48
Sommario
2016
COMITATO DI REDAZIONE
Direttore responsabile
Domenico Albiero
Coordinatore di redazione
Michele Musso
Membri
Michele Musso
Barbara Ronco
Luigi Busso
Foto di copertina
Madonna in trono con Bambino di Issime,
secolo XIII (legno scolpito e dipinto, altezza 70 cm.)
(Studio fotografico Gonella, Torino)
Foto della quarta di copertina
Issime, Vallone di San Grato – villaggio di Benecade,
1910 circa.
In primo piano i coniugi Jean Goyet (1852-1917) medico
e Hortanse Christillin Pintsche (1864-1919). Sullo sfondo
il villaggio di Écku e oltre la conca innevata di Roseritz.
Fondo dr. Goyet (Ass. Augusta, dono di Floriana Linty).
Altre foto: Roberto Cilenti, Rino Alessandrini,
Michele Musso, Elisabetta Brugiapaglia,
Sara Ronco, Imelda Ronco, collezione
Guido Pession, Foto Archivio Guido Cavalli,
Foto Archivio Guindani di GressoneySaint-Jean.
IL SOSTEGNO AL VALLONE DI SAN GRATO
DATO DA “LA CAROVANA DELLE ALPI”
2
SANDRA BARBERI
A volte ritornano. La ritrovata Madonna
col Bambino della cappella del Praz
4
ELISABETTA BRUGIAPAGLIA
Il Vallone di San Grato ed il suo ruolo
per la ricostruzione paleo ambientale
con particolare riferimento all’occupazione
umana. Importanza biologica e scientifica
delle torbiere
9
FRANCESCO SPINELLO
l S.I.C. “Ambienti glaciali del gruppo
del Monte Rosa”
20
SILVIA DAL NEGRO, MARCO ANGSTER
Francoprovenzale e walser nell’alta valle
del Lys
22
ANDREA ZENONI
Lessico di Gaby: tra derivazione romanza
e alemannica
27
VITTORIA BUSSO LIXANDRISCH
25 mérze 1945, d’varbrantun ketschi
im Tschachtelljer - Le case bruciate
del Tschachtelljer
36
IMELDA RONCO HANTSCH
Im Léjunh – A Lion
39
ELIDE SQUINDO
Cappella della S.S. Vergine della Neve
a Agren – Oagre40
MICHELE MUSSO
La place publique d’Issime42
Tutti i diritti sono riservati per ciò che concerne gli articoli
e le foto.
Rivista disponibile online: www.augustaissime.it
ISSN 1120-1320
Autorizzazione Tribunale di Aosta n° 18 del 22-05-2007
AUGUSTA: Rivista annuale di storia, lingua e cultura alpina
ROBERTO FANTONI
Il nome della Rosa. Le origini medievali
dell’antico nome del Monte Rosa
51
LAURA e GIORGIO ALIPRANDI
Sempre a proposito del nome
del Monte Rosa
54
IN MEMORIAM
Giovanna Nicco 55
IN MEMORIAM
Maria Stévenin
56
Proprietario ed editore: Associazione Augusta
Amministrazione e Redazione: loc. Capoluogo, 2 - 11020 - Issime (Ao)
Stampa: Tipografia Valdostana, C.so P. Lorenzo, 5 - 11100 Aosta
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A U G U S T A
Il sostegno al Vallone
di San Grato dato da
“La carovana delle Alpi”
L
a carovana delle Alpi ha quest’anno toccato il
Vallone di San Grato e confermato l’impegno
pluriennale di Legambiente a fianco dell’Associazione Augusta per la tutela di quel prezioso
territorio. Pubblichiamo la motivazione dell’assegnazione della Bandiera Nera di Legambiente al Comune di
Issime e alla Giunta Regionale della Valle d’Aosta, per avere
riproposto il progetto di valorizzazione del Vallone, già respinto nel 2010.
BANDIERA NERA
A CHI : Comune di Issime e Giunta Regionale della Valle
d’Aosta
MOTIVAZIONE : per la riproposizione del progetto di valorizzazione e urbanizzazione del Vallone di San Grato, nel
Comune di Issime, già bocciato nel 2010.
A volte ritornano, purtroppo. Negli anni 2009-2010 Legambiente si era schierata a fianco dell’Associazione Augusta (che
studia e salvaguarda i luoghi e la cultura Walser, tipica di alcuni comuni della vallata di Gressoney), per tutelare il vallone
di San Grato, a monte dell’abitato di Issime, unico per le sue
bellezze naturali e culturali, minacciato da un progetto di strada poderale, un acquedotto che avrebbe captato le sorgenti che
alimentano le zone umide, una rete di distribuzione di energia
elettrica e una centrale idroelettrica. La realizzazione di queste
opere avrebbe irrimediabilmente intaccato il pregio paesaggistico, naturale e architettonico del vallone. Il sito è infatti ricchissimo di testimonianze del modo di abitare e di svolgere
l’attività agricola in montagna nel passato, edifici in legno risalenti al XV secolo, l’antico sistema viario di colonizzazione,
gli antichi canali di irrigazione, gli opifici quali mulini e forge,
la divisione medievale delle proprietà. Il Vallone di San Grato
infatti nel suo stato attuale mostra i segni visibili della storia
della sua colonizzazione. In effetti, si tratta di un vallone di cui
una larga fetta del versante esposto a sud è stata nel medioevo divisa in lotti (particelle). I Walser, popolazione di origine
e lingua germanica, si sono installati nel Vallone e vi hanno
vissuto almeno a partire dal XIII secolo, utilizzando una parte
di queste grandi particelle, dopo aver disboscato parte del territorio in differenti modi. Il paesaggio presenta, quindi, gli elementi di modifica del territorio che ricordano i molteplici modi
di sfruttare la montagna a fini agricoli, sia estensivi (pascoli),
sia intensivi (campi e prati). Questo esempio di habitat diffuso,
dove hanno coesistito delle popolazioni di origine differente su
un territorio limitato, è unico in Valle d’Aosta.
Inoltre il vallone, dal punto di vista naturalistico, comprende
due importanti zone umide, che di recente, sempre ad opera
dell’associazione Augusta, sono state studiate dalla prof.ssa
Elisabetta Brugiapaglia dell’Università del Molise.
Lo studio ha evidenziato che i sedimenti delle torbiere del Vallone, a 2 m. e mezzo di profondità, sono datati al carbonio-14
al 9200 a.C. epoca in cui i ghiacci hanno iniziato ad abbandonare il Vallone ed è iniziata la colonizzazione arborea dello
stesso. È assai difficile e raro trovare dei sedimenti così antichi
ad altitudine elevata (1950m.s.l.m.) come nel caso del Vallone.
Gli ambienti umidi ospitano delle specie vegetali altamente
specializzate e quindi localizzate solo in particolari situazioni
ecologiche.
L’individuazione e la conservazione dei residui ambienti umidi, quindi, si impone non solo per ragioni naturalistiche, ma
anche perché essi vanno considerati come veri e propri archivi
storici in progressivo naturale aggiornamento.
Per questi motivi il sito è tutelato dal 1998 dal Piano Territoriale Paesistico della Valle d’Aosta. Il progetto presentato nel
2009, che avrebbe irrimediabilmente deturpato il vallone, compromettendone le testimonianze storico-architettoniche, era
stato proposto dall’amministrazione comunale, come valorizzazione agricola e turistica. Una prospettiva condivisibile, ma
che non richiedeva, per essere realizzata, la realizzazione delle opere previste, che anzi avrebbero banalizzato il territorio,
stravolgendone gli equilibri. Un collegamento stradale esiste, e
consente di superare un forte dislivello e giungere all’imbocco
del vallone. Su questo progetto, oltre ad organizzare iniziative
pubbliche e marce di protesta nel vallone, cittadini ed associazioni presentarono osservazioni nell’ambito della procedura di
Valutazione di Impatto Ambientale. Nei primi mesi del 2010
il Comitato Tecnico per l’Ambiente espresse una valutazione negativa sul progetto, che venne recepita il 23 aprile dalla Giunta Regionale con la Delibera n.1127. Sembrava finita.
Negli anni successivi l’Associazione Augusta ha continuato a
sottoporre il vallone a studi scientifici e ad avanzare proposte per una valorizzazione sostenibile che offrisse a visitatori
sensibili le bellezze che possiede. Poi, il 24 febbraio 2016, è
arrivata l’approvazione del nuovo PRGC di Issime, che prevede, nell’ambito di una valorizzazione agricola del vallone
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A U G U S T A
Torbiera della Mongiovetta, Vallone di San Grato
di San Grato, la realizzazione di una strada. Dalle successive
dichiarazioni apparse sui media, abbiamo appreso che Comune
e Regione concordano non soltanto sull’ipotesi di collegamento stradale, ma addirittura sull’idea di assumere come base di
partenza il progetto complessivo di urbanizzazione bocciato
nel 2010. Vale la pena ricordare le motivazioni addotte nella
sopra citata Delibera per la bocciatura di quel progetto. - gli
interventi proposti non sono coerenti con gli obiettivi previsti
dal PTP; - alcuni degli stessi ricadono in ambiti inedificabili e
non risultano accettabili ai fini della tutela dei siti naturalistici
(zone umide) coinvolti; - la strada e le relative opere accessorie
proposte risultano incompatibili con la salvaguardia di un sito
di rilevante interesse storico-culturale.
Nel 2010 la Giunta Regionale condivideva appieno le valutazioni tecniche degli uffici VIA. Oggi le rinnega, prospettando
la realizzazione di un insieme di opere che, devastando il vallone di San Grato, ne danneggerebbe anche la possibile fruizione
turistica. Sappiamo bene che alcune delle ragioni addotte per
difendere questa prospettiva (la necessità di portare acqua potabile ed energia elettrica nel vallone) si rivelano, a ben vedere,
pretestuose. Da molti anni ormai gli alpeggi delle nostre montagne si autoalimentano con mini impianti idroelettrici e che le
fonti da utilizzare per il consumo umano non mancano, senza
andare ad intaccare quelle che alimentano le zone umide! Siamo di fronte all’ennesimo tentativo di banalizzazione del territorio, e alla volontà degli amministratori locali e regionali di
ignorare le valutazioni tecniche espresse nel 2010.
Si deve sempre partire dal presupposto di valorizzare gli attrattori ambientali e culturali e non di penalizzarli. Il Vallone di
San Grato, antico insediamento walser rimasto intatto e quindi
ormai unico nel suo genere, è un potente attrattore. Comprometterlo con una strada ed altro ancora è un autogol. Perderemmo per sempre l’unicità di questo antico insediamento che ha
saputo armonizzare antropizzazione e ambiente naturale.
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A U G U S T A
A volte ritornano
La ritrovata Madonna col Bambino della cappella del Praz
Sandra Barberi
S
abato 5 marzo 2016, sotto una fitta nevicata
tardiva, la comunità di Issime ha festeggiato
solennemente il ritorno di questa preziosa Madonna col Bambino della quale si erano perse
le tracce da una sessantina d’anni, dopo che era
stata rubata nel 1957 dalla cappella del Praz.
La scultura figura nel Catalogo degli enti e degli edifici di culto
e delle opere di arte sacra nella diocesi di Aosta compilato
negli anni Cinquanta da mons. Edoardo Brunod, presidente
della Commissione diocesana di arte sacra dal 1957 al 19741:
125 album illustrati, scritti a mano in triplice copia (una per la
parrocchia, un’altra per l’archivio della Curia diocesana e la
terza per l’Autore), presentati per la prima volta al pubblico nel
1961, in occasione della IX Settimana di Arte Sacra a Roma,
e pubblicati con il sostegno dell’Amministrazione regionale in
nove tomi dal 1975 al 19952. Sono decine e decine le statue
e le suppellettili ecclesiastiche sparite nel lasso di tempo che
separa la redazione manoscritta e la pubblicazione dei repertori, a testimonianza di una realtà, quella dei furti a spese del
patrimonio artistico di proprietà ecclesiastica, che nella seconda metà del Novecento cresce in modo esponenziale, indirizzandosi indiscriminatamente verso opere di pregio e manufatti
popolari di scarso o nullo valore artistico. Nel 1987 la Soprintendenza regionale pubblica il volume La devozione in vendita, nato appunto – scrive Daniela Vicquéry nell’introduzione
– «dalla necessità di arginare quel fenomeno di dispersione del
patrimonio artistico locale che ha assunto nel corso di questi
ultimi decenni proporzioni tali da richiedere un’attenzione specifica»3. Il lavoro scheda le opere che a quella data mancavano
all’appello dal confronto con il catalogo del Brunod: una quantità impressionante di sculture, ornamenti e suppellettili, asportate da chiese e cappelle situate in tutti i comuni della Valle.
Molte altre sono scomparse in seguito, nonostante l’istituzione
dei musei parrocchiali a partire dalla metà gli anni ‘80 abbia
messo al sicuro gran parte degli arredi mobili delle cappelle rurali isolate. A parte casi eclatanti, come il San Valentino rubato
nel 1971 da una cappella di Brusson e acquistato un paio di
anni dopo dal Museo di Innsbruck, o il Saint Prejet scomparso
da una cappella di Challand-St-Victor e acquistato, sempre nel
1973, dal Museo Civico d’Arte antica di Torino4, il più delle
volte le opere trafugate si disperdono nella rete del collezionismo privato e scompaiono per sempre. Anche nel nostro caso è
impossibile ricostruire le vicende che nel corso dei primi anni
Sessanta hanno portato la Madonna del Praz, probabilmente
attraverso il mercato antiquario locale, in una collezione privata aostana. Ma almeno stavolta la storia si è conclusa con un
lieto fine: la foto pubblicata da Brunod ha permesso, infatti, di
identificare la scultura sottratta dalla cappella e di avviarne di
conseguenza il processo di recupero, condotto dai Carabinieri
del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale di Torino5. L’imponente lavoro di mons. Brunod non va quindi considerato solo un
ausilio per pochi addetti allo studio, ma anche un formidabile
strumento per la tutela del patrimonio artistico locale.
Il rilievo è ricavato da un unico massello di legno non svuotato;
la mano destra della Madonna con il palmo riverso (ancora presente nella fotografia del Brunod) e il braccio destro del Bambino, ora perduti, erano scolpiti a parte e assemblati con un
perno. I fioroni di gusto flamboyant della corona della Madre
sono un’aggiunta più tarda, in sostituzione di quelli trilobati
più stilizzati che in simili rilievi ornano il serto delle figure;
la corona che cingeva il capo del Bambino è stata scalpellata,
verosimilmente per essere sostituita da una metallica. Il retro
appiattito e il disassamento in avanti del collo della Vergine
lasciano intendere che la figura fosse in origine inserita entro
un tabernacolo o un’edicola.
L’iconografia deriva da quella di tradizione romanica della
Virgo Sedes Sapientiæ, dove la Vergine è assisa in posizione
E. Brunod, Bassa Valle e valli laterali I, Aosta 1985 (Arte sacra in Valle d’Aosta, IV), p. 168, fig. 42. Assieme alla Madonna era stato rubato
anche un San Giacomo del primo Cinquecento, di cultura tedesca (ibidem, p. 168, fig. 43).
2
Il primo volume dato alle stampe nel 1975 è quello relativo alla Cattedrale di Aosta, di cui è uscita una seconda edizione riveduta e corretta
nel 1996. Dopo la morte dell’Autore, nel 1988, il lavoro di pubblicazione è stato proseguito dal canonico Luigi Garino, che ha provveduto
all’aggiornamento dei repertori.
3
D. Vicquéry, La devozione in vendita. Furti di opere d’arte sacra in Valle d’Aosta, Roma 1987 (Quaderni della Soprintendenza per i Beni
Culturali della Valle d’Aosta, Nuova Serie, 4), citazione da p. 14. La Madonna del Praz si trova a p. 146, fig. 145 a p. 147 (le diverse misure
indicate sono evidentemente un errore di copiatura dal Brunod, che riporta invece un’altezza di circa 73 cm, congruente con quella reale).
4
B. Orlandoni, Appunti per una indagine sulla consistenza originaria e sulla dispersione del patrimonio artistico gotico in Valle d’Aosta, in
Vicquéry 1987, pp. 38-40.
5
La scultura era stata pubblicata come appartenente alla collezione Berthod da D. Daudry, Artigiani artisti ed arte popolare in Valle d’Aosta,
Aosta 1972, fig. 83. Ovviamente la riproduzione è di per sé garanzia della buona fede del proprietario, dopo la morte del quale le eredi decisero
di mettere in vendita la statua.
1
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A U G U S T A
A sinistra: la Madonna del Praz nella foto pubblicata da mons. Brunod, dove la figura della Vergine è ancora completa della
mano destra
A destra: la Madonna col Bambino dal 2010 nelle collezioni regionali di Aosta. (foto F. Lovera. Regione autonoma Valle
d’Aosta, Archivi Assessorato Istruzione e Cultura - Fondo Catalogo beni culturali, su concessione della Regione autonoma
Valle d’Aosta)
frontale su uno scranno, mentre il piccolo Gesù siede sul suo
ginocchio sinistro come fosse in trono, levando la destra in atto
di benedizione. Con gesto simmetrico, la Madre e il Figlio reggono in mano un attributo sferico: Maria, Nuova Eva, la mela;
il globo del mondo di cui è Re, il Bambino. La policromia primitiva affiora in minime tracce sotto la ridipintura posteriore,
visibile in un tassello di pulitura praticato sul ginocchio destro
della Vergine; sulla coscia destra della Madonna le lacune della
pellicola pittorica scoprono l’impannatura, cioè il rivestimento
di tela incollata sul legno destinato qui a rinforzare il supporto
in corrispondenza della fenditura e a mascherare il difetto.
La Madonna appartiene a una tipologia privilegiata per gli
altari valdostani duecenteschi, che ritroviamo anche, al di là
delle Alpi, in Savoia, Svizzera romanda, Vallese e Chiablese. È
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A U G U S T A
A sinistra: la Madonna col Bambino del Castello Tour de Villa, Gressan. (foto S. Barberi)
A destra: la Madonna col Bambino del Museo Stefano Bardini a Firenze.(da Il Museo Bardini a Firenze, a cura di E. Neri
Lusanna, L. Faedo, II, Milano 1986, II, tav. 119)
opinione diffusa che il successo di tale modello si spieghi con
la derivazione da un prototipo collocato in uno dei principali
luoghi di pellegrinaggio mariano negli antichi Stati di Savoia,
l’abbazia di Saint-Maurice, la cattedrale di Sion o – secondo
l’ipotesi più largamente considerata – quella di Losanna, ma
sfortunatamente nessuno di questi presunti archetipi si è con6
servato6. Tuttavia il modulo compositivo di queste Madonne in
maestà non è esclusivo dell’area alpina nord-occidentale, ma
conosce una distribuzione geografica europea, replicato nei diversi materiali e con varianti sia nella scelta degli attributi delle
figure, sia nell’indirizzo stilistico.
Nell’ambito valdostano gli esemplari più precoci, databili poco
L’ipotesi, riassunta nelle sue varie formulazioni da H. Schöpfer (in La Maison de Savoie en Pays de Savoie, catalogo della mostra, Losanna
1990, scheda XI/22, p. 224, con bibliografia precedente), è stata discussa da E. Rossetti Brezzi, Le vie del gotico in Valle d’Aosta, in G. Romano (a cura di), Gotico in Piemonte, Torino 1992 (Arte in Piemonte, 6), pp. 294-296; L. Golay, Les sculptures médiévales. La collection
du Musée cantonal d’Histoire, Sion, Lausanne 2000 (Valère, Art et Histoire, 2), pp. 90-91, 104-105; e G. Gentile, Migrazione e ricezione di
immagini, in Il Gotico nelle Alpi. 1350-1450, catalogo della mostra (Trento, castello del Buonconsiglio, 20 luglio - 20 ottobre 2002), a cura
di E. Castelnuovo e F. De Gramatica, Trento 2002, pp. 157-158. Jean-René Gaborit (Le problème de la copie dans la sculpture médiévale,
in “Tables de travail. Séminaire de recherche sur la conservation-restauration”, 23 marzo 2012, http://tablesdetravail.hypotheses.org/108)
avverte tuttavia che «L’idée, que, pour des raisons de dévotion, les statues de la Vierge reproduisaient de préférence des prototypes célèbres
demeure fort répandue ; si elle est relativement exacte pour les siècles les plus récents, elle n’est fondée, pour la période médiévale sur aucun
élément probant. » Il gruppo di Losanna, databile intorno al 1230 e scomparso nel Cinquecento con l’avvento della Riforma, ci è noto soltanto
attraverso sigilli e riproduzioni grafiche del XIII e del XIV secolo, dove il Bambino appare ora seduto, ora ritto sul ginocchio della Madre, che
impugna lo scettro (S. Castronovo, in Il Gotico nelle Alpi 2002, schede 31-32, pp. 480-483). In ogni caso, come sottolinea Gentile, il concetto
medievale di riproduzione si riferisce al significato spirituale di un’icona, che quindi può essere interpretato variamente senza implicare la
fedeltà oggettiva al suo aspetto reale.
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A U G U S T A
prima della metà del secolo, sono la Madonna col Bambino
proveniente dalla chiesa parrocchiale di Saint-Léger ad Aymavilles e ora nel Museo del Tesoro della cattedrale di Aosta,
quella rubata dalla cappella di Challancin a La Salle e quella
già a Cogne e poi passata in collezione Craveri-Giacosa e da
lì nelle collezioni regionali, tutte e tre strettamente apparentate
con gruppi analoghi conservati a Sion, Fribourg e Abondance7. Il carattere di ieraticità e l’andamento fluido dei panneggi
di questi rilievi rimandano ancora al nobile classicismo delle
oreficerie e degli avori mosani del primo ‘200. L’impostazione
si fa meno monumentale nella Madonna in origine a Valgrisenche e oggi al Museo Civico d’Arte antica di Torino e in
quelle provenienti dalle cappelle di Variney (Gignod) e di Plau
(Saint-Denis), di poco più tarde, dove la comparsa di pieghe
più profonde e spezzate attesta la progressiva affermazione del
linguaggio gotico in direzione francese. Nei gruppi della cappella di Nissod (Châtillon) e di una collezione privata torinese,
omogenei per stile ai precedenti, la gambetta destra levata del
piccolo Gesù attenua la rigidità della postura frontale, ulteriormente animata dal gesto amorevole della Madre che stringe il
piedino del Bimbo nella Madonna del castello di Quart, oggi
nel Museo del Tesoro della cattedrale, e in quella dell’Accademia di Sant’Anselmo8. Quest’ultima iconografia, riconducibile
all’ambito reno-mosano, è già ripresa anche dalla Madonna del
santuario di Rado (Gattinara), assegnata al 1220-12309, a testimonianza dell’ampia circolazione europea di una pluralità
di modelli trasmessi sulla base di manufatti o semplicemente
attraverso disegni, trasposti su pietra, legno, avorio o metallo
prezioso, e interpretati con sensibilità stilistiche differenti.
Il nostro rilievo si inserisce in una serie dal tono meno aulico
che riprende l’impianto formale dove il Bambino siede composto in posizione frontale, con le gambe parallele scostate e
i piedi di piatto. Ne fanno parte la Madonna del castello La
Tour de Villa di Gressan e quella trafugata dalla cappella di
Vigneroisa a Champorcher, le più simili a quella del Praz, e poi
La statua rubata dalla cappella di Vigneroisa, Champorcher.
(da E. Brunod, Bassa Valle e valli laterali I, Aosta 1985, p.
355, fig. 30)
Madonna da Aymavilles: V. M. Vallet, in Cattedrale di Aosta - Museo del Tesoro - Catalogo, a cura di E. Castelnuovo, F. Crivello, V. M. Vallet,
Aosta 2013, scheda n. 17, pp. 164-165 (con bibliografia precedente). Madonna di Challancin: E. Brunod, L. Garino, Alta Valle e valli laterali
II, Aosta 1995 (Arte sacra in Valle d’Aosta, IX), p. 188, fig. 78; Vicquéry 1987, p. 152 e fig. 154 a p. 154. Madonna da Cogne: E. Brunod,
Diocesi e Comune di Aosta, Aosta 1981 (Arte sacra in Valle d’Aosta, III), p. 469, fig. 413. Per gli esemplari transalpini si vedano: B. Schmedding, Romanische Madonnen der Schweiz, Freiburg 1974, pp. 38-40 (Sion), 40-41 (Fribourg-Nierlet), 41-42, 110-123 (Fribourg-Attalens),
62 (Fribourg-Les Giettes), 112, 168 (Abondance); L. Golay, Les sculptures médiévales. La collection du Musée cantonal d’Histoire, Sion,
Lausanne 2000, pp. 80-91, 100-105. Per la Madonna da Attalens cfr. anche S. Villiger, scheda del Musée d’Art et d’Histoire di Friburgo, 2002.
Si possono aggiungere inoltre due gruppi passati sul mercato antiquario, una Madonna da Sotheby’s nel 2006 e l’altra a Parigi, segnalatemi da
Bruno Orlandoni.
8
Madonna da Valgrisenche: E. Rossetti Brezzi, in La scultura dipinta. Arredi sacri negli antichi Stati di Savoia 1200-1500, catalogo della mostra (Aosta, 3 aprile - 31 ottobre 2004), a cura di E. Rossetti Brezzi, Aosta 2004, scheda n. 3, pp. 42-43 (con bibliografia precedente). Madonna
di Variney: E. Brunod, L. Garino, Cintura sud orientale della città, valli di Cogne, del Gran San Bernardo e Valpelline, Aosta 1993 (Arte sacra
in Valle d’Aosta, VII), p. 514, fig. 78. Madonna di Plau: Bassa Valle e valli laterali III, Aosta 1990 (Arte sacra in Valle d’Aosta, VI), p. 145, fig.
19. Madonna di Nissod: Brunod-Garino 1990, p. 64, fig. 58; Vicquéry 1987, p. 98, fig. 68 p. 99 (la statua, rubata nel 1971, è stata recuperata nel
2011). Madonna in collezione privata: L. Mor, Scultura lignea dal Medioevo al Rinascimento. Aggiunte al catalogo di antichi maestri e nuove
proposte, catalogo della mostra Antiquari a Venaria - IV Biennale di Torino (Reggia di Venaria Reale - Scuderie Juvarriane, 23 ottobre - 1°
novembre 2010), Biella 2010, fig. p. 15. Madonna da Quart: Vallet 2013, scheda n. 18, pp. 166-167 (con bibliografia precedente). Madonna
dell’Accademia di Sant’Anselmo: V. M. Vallet, La collection de l’Académie sur la scène : pièces choisies, in Les 150 ans de l’Académie SaintAnselme. Patrimoine et identité : l’engagement des sociétés savantes, Actes du Colloque international d’Aoste (28 et 29 mai 2005), réunis par
M. Costa, “Bulletin de l’Académie Saint-Anselme”, Nouvelle Série, IX, pp. 133-134.
9
Madonna di Rado: E. Rossetti Brezzi, La scultura in legno, in V. Natale e A. Quazza (a cura di), Arti figurative a Biella e Vercelli. Il Duecento
e il Trecento, Biella 2007, p. 112. Il gesto della Madonna che afferra il piede del Bambino si trova in un avorio mosano del Louvre assegnato
al 1220-1230 (D. Gaborit-Chopin, Ivoires médiévaux Ve-XVe siècle, Paris 2003, pp. 274-276).
7
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gli esemplari delle parrocchiali di Valsavarenche, Morgex (ma
proveniente dalla cappella di Blavy a Roisan), delle cappelle di
Grand Aury ad Arvier, di Ecours a La Salle e di Closellinaz a
Roisan, quella acquistata dall’Amministrazione regionale sul
mercato antiquario nel 2010 e infine una documentata tra le
foto di Jules Brocherel; fuori Valle una Madonna conservata
presso il Museo Bardini di Firenze, racchiusa in un tabernacolo
trecentesco, un’altra al Castello del Buonconsiglio di Trento e
una terza al Musée d’Art et d’Histoire di Ginevra10. Nel medesimo insieme si possono includere anche le Madonne della parrocchiale di Gignod e del castello Passerin d’Entrèves a SaintChristophe e quella nella collezione Pozzallo a Sauze d’Oulx,
contraddistinte da un diverso sistema di pieghe (più simile a
quello della Madonna da Aymavilles e delle sue “sorelle”) e
da una postura leggermente asimmetrica del Bambino11. L’iconografia è quasi identica in tutti gli esemplari, con l’attributo
sferico per ambedue le figure e la mano della Madre che cinge
con la presa orizzontale il petto del Bimbo, una sorta di citazione di revival romanico12; caratteristiche comuni sono la sagoma
stretta e allungata della Vergine, la resa dei capelli, forse intrecciati, a grosse ciocche stilizzate che le incorniciano il viso e si
raccolgono sulla nuca, la foggia della veste con lo scollo a punta, di gusto nordico, e il panneggio percorso da sottili pieghe
parallele con andamento verticale, mentre il Bambino presenta
sempre la medesima acconciatura con i capelli a onde morbide
tagliati dritti sotto le orecchie. L’altezza varia dai 30 centimetri
della statuetta di Closellinaz, che si presume destinata alla devozione privata, ai 75 circa della Madonna del Praz, fra le più
grandi assieme a quelle di Gignod, Vigneroisa e del castello
Passerin d’Entrèves. Questa produzione di stampo corrente e
su larga scala esce da botteghe senz’altro locali, attive verso il
terzo quarto del Duecento ma ancorate a modelli precedenti,
che riforniscono l’intera Valle delle statue mariane la cui presenza è prevista sugli altari di tutte le chiese: una ripetitività
che sembra per certi versi anticipare la diffusione ottocentesca
delle immagini seriali di Notre-Dame-des-Victoire o dell’Immacolata, ma anche una testimonianza dell’incredibile vitalità
della scultura lignea gotica in Valle d’Aosta, idealmente inaugurata all’inizio del secolo dal raffinato paliotto di Courmayeur conservato al Museo Civico d’Arte antica di Torino13, in
dialogo con esperienze diverse e in grado di soddisfare su vari
registri le esigenze di committenza.
Va da sé che la cappella di San Valentino, fondata probabilmente nella prima metà del XVII secolo, non dovesse essere la
collocazione primitiva della scultura14. È verosimile piuttosto
che quest’ultima provenga dalla chiesa parrocchiale, dove la
visita pastorale compiuta nel 1416 dal vescovo Ogier Moriset attesta la presenza di due statue (ymagines): una si trovava
sull’altare maggiore, assieme a quelle del patrono san Giacomo e di san Nicola, mentre l’altra, a cui l’estensore del verbale
della visita ha aggiunto in un secondo tempo l’aggettivo «bellissima» (pulcherrima), figurava sull’altare dedicato alla Beata
Vergine e a sant’Antonio15. A seguito della ricostruzione della
chiesa nel 1683, che comportò anche il rinnovamento degli altari, dovettero essere rimossi gli arredi medievali più antichi,
difficilmente integrabili nel nuovo contesto barocco. Come di
regola accadeva per icone venerate da secoli e ancora ben conservate, anche questa Madonna non fu eliminata, ma dovette
essere destinata a una sede di culto secondaria, in questo caso la
cappella del Praz16. Nella stessa occasione potrebbe essere arrivata qui anche la statua di san Giacomo scomparsa nel 1957,
verosimilmente proveniente anch’essa dalla parrocchiale.
Sulla Madonna del castello di Gressan, inedita, si veda la tesi di G. Bessone, Progetto di restauro della scultura lignea “Madonna in trono
col Bambino”. Castello La Tour de Villa di Gressan, Mantova, Scuola Laboratorio di Restauro e Conservazione Beni Culturali Istituti Santa
Paola, Corso di dipinti su tela, tavola e sculture lignee, triennio formativo 2009-2012. Madonna di Vigneroisa: Brunod, 1985, p. 355, fig. 30;
Vicquéry 1987, p. 95, fig. 59. Madonna di Valsavarenche: E. Brunod, L. Garino, Alta Valle e valli laterali I, Aosta 1995 (Arte sacra in Valle
d’Aosta, VIII), p. 209, fig. 21. Madonna di Gignod: Brunod-Garino 1993, p. 472, fig. 26. Madonna di Grand Aury: Brunod-Garino 1995, Alta
Valle I, p. 405, fig. 87. Madonna di Ecours: Brunod-Garino 1995, Alta Valle II, p. 172, fig. 61. Madonna di Closellinaz: Brunod-Garino 1993,
p. 309, fig. 32. Madonna in collezione regionale: Mor 2010, scheda n. 1, pp. 10-17 (nel testo sono citate e riprodotte quasi tutte le sculture qui
ricordate, compresa la stessa Madonna di Issime, a p. 15). Madonna fotografata da Brocherel: Assessorato Istruzione e cultura, Archivio BREL
- Fondo Brocherel-Broggi, LZZ 005737000. Madonna Bardini: E. Neri Lusanna, in E. Neri Lusanna, L. Faedo (a cura di), Il Museo Bardini
a Firenze, II, Milano 1986, scheda n. 113, pp. 220-221. Madonna di Trento: A. Bacchi, in Imago lignea. Sculture lignee nel Trentino dal XIII
al XVI secolo, catalogo della mostra, a cura di E. Castelnuovo, Trento 1989, scheda n. 2, p. 88. Madonna di Ginevra: Schmedding 1974, pp.
46-48.
11
Madonna di Morgex: Brunod-Garino 1995, Alta Valle II, p. 251, fig. 44. Madonna Passerin d’Entrèves: Brunod-Garino 1990, p. 417, fig. 42.
La Madonna della collezione Pozzallo è inedita.
12
Fa eccezione la Vergine di Ecours, che pare reggesse lo stelo di un fiore (il giglio virginale?) o lo scettro, anziché la mela. Inoltre in questa
stessa statua, così come nell’esemplare di Grand Aury, la mano sinistra della Madonna non allaccia frontalmente il petto del Bambino.
13
F. Cervini, in Tra Gotico e Rinascimento. Scultura in Piemonte, catalogo della mostra (Torino, 2 giugno - 4 novembre 2001), a cura di E. Pagella, Torino 2001, scheda n. 1, pp. 24-25 (con bibliografia precedente).
14
[G. Vesan], Congresso eucaristico interparrocchiale, Issime (Aosta), 18-25 maggio 1941, Aosta 1943, pp. 117-120; J. Domaine, Le cappelle
della Diocesi di Aosta, Aosta 1987, p. 172. La cappella, già esistente nel 1653, fu ricostruita più volte, la penultima nel 1772, dopo l’alluvione
del 1755, e infine nella sede attuale nel 1898, in forme neogotiche. I primi documenti non sembrano tuttavia anteriori al XVII secolo, epoca
della fondazione di gran parte delle cappelle del territorio, successive alla peste descritta nei Promessi sposi.
15 Aosta, Archivio della Curia vescovile, Visites pastorales, vol. 4, Mons. Ogerius, 1412-1421.
16
Vicquéry 1987, p. 146 e fig. 144 p. 147.
10
— 8 —
A U G U S T A
Il Vallone di San Grato
ed il suo ruolo per la
ricostruzione paleo ambientale
con particolare riferimento
all’occupazione umana.
Importanza biologica e scientifica delle torbiere
I
Elisabetta Brugiapaglia*
l paesaggio, così come viene attualmente percepito, è un insieme di variabili in continuo
movimento ed evoluzione anche se non sempre
siamo consapevoli di queste modificazioni. Il
paesaggio o fenopaesaggio, ossia quello che
vediamo, è la risultante di tanti ambienti visibili (boschi, pascoli, laghi, paludi, fiumi, strade, abitazioni, ecc..) e del cripto
paesaggio (stratificazione degli organismi nel suolo e fattori
chimico-fisici), ossia quello che non vediamo direttamente. Le
trasformazioni del paesaggio sono quindi in stretta relazione
con gli eventi naturali, in particolare quelli climatici e con le
attività antropiche, in particolare con l’espansione umana ini-
ziata a partire dal Neolitico, ossia circa 6000-7000 a.C. (8000
Before Present). Gli eventi climatici, in particolare le glaciazioni che si sono ciclicamente succedute ricoprendo la maggior
parte della Valle d’Aosta, hanno decimato la flora. Nonostante
ciò la densità floristica attuale è assai elevata in quanto la regione presenta una notevole diversità ambientale, altitudinale
e geologica. Grazie a questa diversità il contingente di specie
ammonta a circa 2000 taxa (Bovio, 2014).
Questa elevata diversità in una piccola area come la Valle
d’Ao­sta, rende alcuni ambienti estremamente fragili e sensibili anche a piccole modificazioni che possono determinare la
rarefazione se non la scomparsa di specie rare per la regione.
Fig. 1. Due specie molto rare per la Valle d’Aosta: Drosera rotundifolia e la Pinguicula vulgaris
* Dipartimento di Agricoltura, Ambiente e Alimenti, Università degli Studi del Molise - Campobasso.
— 9 —
A U G U S T A
Fig. 2. Lo sfagno è il muschio tipico delle torbiere
Fig. 3. Parnassia palustris
Tra gli ambienti maggiormente a rischio per la sensibilità alle
modificazioni esterne, in particolare quelle antropiche, sono le
paludi e le torbiere. Tra le specie vegetali che vivono in questi
ambienti possiamo ricordare: Ranunculus aquatilis, Polygonum amphibium, Drosera rotundifolia, Pinguicula vulgaris
(fig. 1), Lysimachia vulgaris, Saxifraga stellaris, Saxifraga aizoides, Parnassia palustris (fig. 3),, Filipendula ulmaria, Geum
rivale, Potentilla palustris, Potentilla erecta, Lythrum salicaria, Epilobium fleischeri, Epilobium alsinifolium, Menyanthes
trifoliata, Mentha longifolia, Pedicularis palustris, Utricularia
australis, Aster bellidiastrum, Cirsium palustre, Cirsium helenioides, Potamogeton natans, Juncus arcticus, Trichophorum
alpinum, Eriophorum angustifolium, Eriophorum scheuchzeri,
Carex rostrata, Carex flava, Carex atrofusca, Carex limosa,
Carex bicolor, Carex nigra, Carex microglochin, Sparganium
angustifolium, Typha minima, Typha latifolia, Tofieldia calyculata, Allium schoenoprasum, Iris sibirica, Epipactis palustris,
Dactylorhiza incarnata, Dactylorhiza cruenta, Dactylorhiza
majalis, Dactylorhiza maculata.
Alcune di queste specie sono presenti sulle torbiere e nei piccoli laghi del Vallone di San Grato in cui hanno trovato le condizioni ecologiche idonee alla loro sopravvivenza; sussistono
anche le potenzialità per la diffusione di altre specie rare per la
regione e che sopravvivono in limitatissime aree, alcune delle
quali anche limitrofe al Vallone di San Grato. Le popolazioni sono composte di solito da pochi individui estremamente
sensibili alle modificazioni ambientali in particolare a quelle
idrologiche, ossia alle variazioni del livello delle acque, alla
loro composizione chimica ed al loro drenaggio. Si tratta infatti di specie con una capacità di adattamento alle modificazioni ecologiche praticamente nulla essendo estremamente
specializzate solo per vivere in ambienti particolari: la loro
vulnerabilità è legata proprio alla loro estrema specializzazione. Se gli ambienti vengono alterati le piante inevitabilmente
scompaiono.
I laghi, le torbiere e le paludi, oltre che un serbatoio di biodiversità per le specie vegetali e animali, sono anche degli ar-
chivi naturali che ci possono raccontare la storia naturale ed
antropica del territorio.
La storia naturale di un territorio, ossia le sue vicende floristiche e vegetali, sono l’oggetto di studio della paleobotanica e
di altre discipline specifiche come l’analisi pollinica e dei macroresti, la paleoxilologia (studio dei legni fossili), mentre gli
studi sull’andamento demografico nel passato sono il campo di
ricerca dell’archeologia. I due approcci, archeologico e paleobotanico sono in stretta relazione in quanto le attività umane
sono state in grado di influenzare la copertura vegetale essendo
stata quest’ultima l’unica fonte di sopravvivenza per le popolazioni antiche. Inoltre l’introduzione di specie vegetali utili alla
vita delle popolazioni ha modificato in maniera più o meno importante la vegetazione naturale. Ad esempio l’introduzione da
oriente del frumento ha comportato anche l’arrivo dei semi delle specie infestanti come il papavero, il fiordaliso e il gittaione.
Le attività umane, in particolare quelle delle popolazioni che
occupavano aree particolarmente difficili almeno per una parte dell’anno, sono state influenzate anche dai fattori climatici,
quindi si può ipotizzare che durante i periodi più favorevoli le
popolazioni abbiano utilizzato i siti in altitudine, abbandonandoli o riducendo le attività durante i periodi più freddi e sfavorevoli all’occupazione umana. Le tracce di queste attività possono
essere portate alla luce grazie ai macroresti e microresti vegetali
e animali che si sono conservati nelle aree umide favorevoli alla
conservazione del materiale organico.
Tra la seconda metà dell’Ottocento ed i primi del Novecento
le torbiere, utilizzate soprattutto per l’estrazione del combustibile, vennero studiate da numerosi ricercatori europei per il
loro valore scientifico. Purtroppo però l’interesse economico
dell’industria estrattiva, gli interventi di bonifica e successivamente anche l’inquinamento, portarono alla drastica riduzione di questi fragili ambienti. Le residue zone umide vengono
quindi considerate meritevoli di particolare attenzione e protezione in quanto da esse dipende la conservazione di specie
idro-igrofile divenute oramai rare o rarissime, quindi dalla loro
conservazione dipende una buona parte della diversità sia bio-
— 10 —
A U G U S T A
Fig. 4. Sopra, localizzazione dei carotaggi nelle torbiere
indagate, e (a sinistra) operazioni di carotaggio
logica che ambientale. Per queste ragioni anche la Comunità
Europea, attraverso la direttiva Habitat (92/43/CEE) riconosce
il ruolo di queste formazioni (7 – Habitat di torbiera e palude).
Le torbiere hanno quindi assunto un ruolo di primaria importanza per le ricerche sia archeologiche che paleobotaniche grazie alle loro particolari condizioni ecologiche, ossia al valore
del pH acido fondamentale per la conservazione del materiale
organico. Grazie a tecniche di laboratorio, si possono riportare alle luce i materiali e successivamente ricostruire gli eventi
naturali e antropici che hanno interessato i nostri antenati ed il
loro territorio.
Due torbiere del Vallone di San Grato, situato sulla destra idrografica del torrente Lys, nei pressi di Issime, sono state oggetto di ricerche paleobotaniche: la torbiera di Mongiovetta e
quella di Réich (figura 5 e 6). Entrambe poste a circa 1900
m s.l.d.m. sono estremamente interessanti perché localizzate
ad un’altitudine ottimale per evidenziare le oscillazioni del limite altitudinale degli alberi e per registrare le modificazioni
della vegetazione determinate dalle attività umane. Purtroppo
gli eventi geologici, quali ad esempio le frane, hanno coperto
i sedimenti più antichi rendendole, solo apparentemente, più
recenti di quanto non lo siano.
— 11 —
A U G U S T A
Fig. 5. La torbiera della Mongiovetta
— 12 —
A U G U S T A
Fig. 6. La torbiera di Réich
— 13 —
A U G U S T A
a.
b.
c.
Polline estratto dal sedimento: a. Abete rosso (Picea), b. Romice (Rumex), c. Carice (Carex)
Metodologia
Per ricostruire gli eventi vegetali passati è stata utilizzata
l’analisi pollinica, metodologia che studia i granuli pollinici e
le spore conservati nei sedimenti. Tutte le piante appartenenti
alle Tracheophyta (Angiospermae e Gimnospermae) producono un ingente quantitativo di polline che rappresenta il gamete
maschile. La conservazione dei granuli pollinici prodotti dalla
vegetazione passata, si realizza in particolari ambienti umidi
quali i laghi e le torbiere. In particolare in queste zone d’altitudine, i laghi sono di origine glaciale, ossia formatisi in seguito
al ritiro dei ghiacciai. La vegetazione che in seguito al ritiro del
ghiacciaio comincia ad insediarsi sulle sponde del lago, fornisce la necromassa necessaria per il riempimento naturale del
lago che si trasformerà alla fine della sua evoluzione naturale in torbiera. Le torbiere, come già detto, sono degli ambienti
molto rari non solo in pianura per via dello sfruttamento a cui
sono state sottoposte nei secoli passati per l’estrazione della torba usata come combustibile, ma anche in altitudine. In Valle
d’Aosta in particolare, nella maggior parte dei casi sono state
interessate da successivi fenomeni franosi che ne hanno ricoperto la superficie. La torbiera è un ambiente conservativo in
cui la sostanza organica prodotta dalla vegetazione tende nel
tempo ad accumularsi invece di essere degradata come avviene
nei normali suoli. I fattori che rallentano la degradazione della
materia organica sono essenzialmente due: le condizioni climatiche umide che garantiscono una migliore conservazione della
sostanza organica morta rallentando l’azione dei microrganismi
decompositori, e l’abbondanza di acqua che impregna il suolo
e la materia organica depositata che blocca ulteriormente l’attività aerobica dei decompositori. Quindi grazie a questi fattori,
Fig. 7. Sedimento estratto dalla torbiera di Réich
— 14 —
A U G U S T A
Fig. 8. Alcuni macroresti estratti ed inviati al laboratorio di datazione
le torbiere sono degli archivi naturali in cui si conservano resti
vegetali come pollini, legni, semi ed altri parti vegetali per migliaia di anni in ottimo stato. Prelevando i sedimenti a partire
dal fondo fino alla superficie della torbiera si può ricostruire la
vegetazione che circondava il sito nei periodi passati.
I sedimenti della torbiera di Mongiovetta e quelli della torbiera
di Réich sono stati prelevati nell’estate del 2013 dopo averne
sondato diversi settori per individuare le aree con maggiore
spessore di sedimento. I sedimenti sono stati estratti utilizzando la trivella manuale di tipo russo che preleva carote di 60
cm di lunghezza e 6 cm di diametro. A Mongiovetta sono stati
estratti 150 cm di sedimenti continui, mentre a Réich si è raggiunta la profondità di 300 cm, ma non c’è sempre continuità
nei sedimenti in quanto sono stati attraversati livelli che, per
la loro composizione sedimentologica troppo ciottolosa, non
è stato possibile prelevare. Solo alcune parti meno resistenti
sono state prelevate con una trivella pedologica (figura 7).
I sedimenti prelevati sono stati riposti in contenitori e guaine di
plastica per evitarne la disidratazione; in laboratorio i campioni
da analizzare sono stati prelevati ogni 2 cm, sono stati trattati
chimicamente (Erdtman, 1952) per eliminare tutta la materia
inorganica e organica ed estrarre solo il polline e le spore.
Il residuo ottenuto dai 62 livelli della torbiera di Mongiovetta
e dai 50 per la torbiera di Réich, è stato montato sul vetrino
e sono stati contati almeno 200 pollini per ogni livello. I diagrammi realizzati con il programma GPalwin, sono stati suddivisi in zone che presentano composizione pollinica omogenea.
Inoltre sono stati prelevati i macroresti vegetali (figura 8) che
sono stati spediti al laboratorio di datazione 14C dell’Università del Salento che ha effettuato le datazioni assolute secondo la
metodica dell’AMS (Spettrometria di massa).
Risultati
I risultati sono rappresentati graficamente in due diagrammi
pollinici in cui sono stati riportati solo i taxa principali dei 73
individuati (figure 6 e 7). I diagrammi sono stati suddivisi in
zone in cui la composizione pollinica appare omogenea. Sul
lato sinistro dei diagrammi sono riportate la profondità, la stratigrafia e le datazioni.
Tabella delle da t a z i o ni
Mongiovetta Materiale datato
Età radiocarbonio (BP)
Datazione calibrata Codice CEDAD
M106-110
M130-140
M144-148
Scaglie coni di Abies
5039±45
3960-3710 BC
Picciolo di pianta acquatica
107.79±0.73 pMC
Semi di Carex e frammenti di legno 5037±45
3960-3710 BC
LTL 14391A
LTL 14390A
LTL 14389A
Réich
Materiale datato
Datazione calibrata
Codice CEDAD
R40-50
R70-80
R245-250
40 semi di Carexsp.
460±45
100 semi di Carexsp.
1189±40
Frammenti di legno, scaglie di coni 9578±45
1390-1520 AD
760-970 AD
9220-8760 BC
LTL 15970A
LTL 15971A
LTL 15973A
Età radiocarbonio (BP)
— 15 —
A U G U S T A
Diagramma di Mongiovetta (Fig. 9)
I risultati ottenuti dallo studio dei pollini e delle spore contenuti nei sedimenti della torbiera di Mongiovetta sono già stati
in parte presentati (Brugiapaglia, 2014). A questi dati si aggiungono ora quelli delle datazioni assolute. I livelli compresi
tra 148 e 144 cm di profondità, ossia la parte più profonda che
è stato possibile carotare, avrebbero un’età di circa 3960 BC.
I livelli 106-110 cm, sulla base delle date ottenute, avrebbero
la stessa età. Ciò appare assai difficile da giustificare se non
ammettendo una elevatissima velocità di sedimentazione che
tuttavia è da escludere visto che in circa 40 cm si verificano
delle modificazioni della vegetazione. Quindi la datazione di
3960 BC è da collocare o sul fondo della torbiera o 40 cm sopra il fondo stesso. La sedimentazione inizia nell’età del Bronzo e già durante questo periodo sono evidenti alcuni deboli
segnali di antropizzazione quali il polline dei cereali e della
canapa. Si tratta di percentuali molto basse, ma che stanno ad
indicare un utilizzo di queste piante da parte di alcune popolazioni che vivevano probabilmente a più bassa altitudine. La
presenza continua del polline di canapa differenzia la regione
alpina da quella appenninica in cui la coltivazione della canapa
inizia nel periodo romano (Mercuri et al., 2002). Percentuali
leggermente più elevate si osservano per i pollini delle specie
legate al pascolo quali Trollius e Asteroideae. La presenza di
frammenti di legno e scaglie di coni di abete testimonia con
certezza che l’area 3800 anni fa, che doveva essere un bacino lacustre come dimostra l’osservazione del polline di Potamogeton e di ranunculi acquatici (i taxa acquatici non sono
riportati nel diagramma sintetico), vedeva la presenza di alberi
in particolare larice, pini e abeti. Successivamente a 3800 BC
pare verificarsi un abbandono delle attività di pascolo perché si
riduce la percentuale di specie legate a questa attività, mentre
Fig. 9. Diagramma semplificato di Mongiovetta
— 16 —
A U G U S T A
aumenta il polline delle Ericaceae (rododendro in particolare) che di solito colonizzano le aree abbandonate dalle attività umane. Durante questa fase ad Ericaceae pare esserci stata
una stabilità nella vegetazione che è durata circa 1800 anni.
L’incremento delle attività umane si osserva invece in maniera
decisa a partire dalla biozona 5 in cui aumenta il polline dei
cereali (2%) e compare quello del castagno, che, per questo
settore delle Alpi, rappresenta un marcatore biocronologico in
quanto la sua introduzione è legata alla presenza dei Romani
che occuparono la valle.
Per quel che riguarda la vegetazione arborea naturale, è da
notare la diffusione tardiva dell’abete rosso (Picea), intorno a
2000 BP, che rappresenta un tratto comune con altri siti del
settore orientale della Valle d’Aosta in cui l’abete rosso si è
diffuso tardivamente. Le biozone 6 e 7 sono quelle in cui è
più evidente l’impatto antropico grazie all’aumento del polline
dei taxa legati al pascolo degli animali (Asteroideae, Cichorioideae, Trollius, Rumex) e all’agricoltura (cereali e canapa). Le
biozone 7 e 8 dovrebbero comprendere il periodo medioevale
ma non è stato possibile datarle per la scarsità dei macroresti.
Diagramma di Réich (Fig. 10)
Il diagramma ottenuto dall’analisi pollinica dei sedimenti è
stato suddiviso in 4 biozone a composizione pollinica omogenea. Il fondo della torbiera, come precedentemente descritto, è
rappresentato da sedimenti siltosi grossolani contenenti alcuni
macroresti che sono stati utilizzati per la datazione. I sedimenti prelevati tra 300-280 e tra 250-230 sono risultati sterili in
materiale pollinico essendo costituiti principalmente da argille
siltose di origine glaciale che mal conservano il polline. Tra
250 e 245 erano presenti frammenti di legno e scaglie di coni
(fig. 8) che sono stati datati e che testimoniano la presenza di
Fig. 10. Diagramma semplificato di Réich
— 17 —
A U G U S T A
Fig. 11. Campi d’incrocio del legno di pino
alberi, di cui però non si può stimarne la densità, intorno al
lago glaciale. Il risultato della datazione è stato di 9578±65 BP
(9220-8760 BC) evidenziando quindi sedimenti molto antichi.
A partire da questo periodo è iniziata la sedimentazione che ha
portato alla formazione di un lago prima e di una torbiera poi.
È assai difficile e raro trovare dei sedimenti così antichi ad altitudine elevata come nel caso di Réich. La maggior parte delle
torbiere analizzate (Brugiapaglia, 1996) a questa altitudine non
hanno mai rilevato un’età così antica, quindi vista l’eccezionalità dell’area sarebbe necessario approfondire le ricerche
mettendo in campo anche altre discipline come l’archeologia,
l’antracologia, la paleoentomologia.
La biozona 1 è caratterizzata da un sedimento di gjttya frammisto a materiale grossolano di tipo siltoso. Tra le specie arboree
si nota la presenza delle betulle e delle querce caducifoglie. La
specie dominante è il pino, di cui sono stati osservati anche gli
stomi ed i campi d’incrocio del legno (Fig, 11). Il polline non
arboreo è costituito principalmente da quello di specie di prateria come Apiaceae, Poaceae, Rumex e Cyperaceae.
Tra 195 e 120 cm di profondità, il sedimento non è stato prelevato perché costituito da materiale ciottoloso impossibile da
prelevare con i mezzi a disposizione e comunque di solito sterile per l’analisi pollinica.
A partire da 120 cm il sedimento è costituito da torba tranne tra
92 e 88 cm in cui è intercalato un sottile strato di argilla. Dal
punto di vista della vegetazione in corrispondenza di questo
strato di argilla non si riscontrano modificazioni.
Nella biozona 2 la vegetazione locale, come testimoniano i
macroresti (stomi, fibrotracheidi e campi d’incrocio), era costituita da pini e probabilmente anche pino cembro. A più bassa
altitudine dovevano essere presenti boschi di querce caducifoglie, nonché boschi di faggio e abete rosso.
L’abete bianco con percentuali basse, è stato abbastanza raro
in Valle d’Aosta (Brugiapaglia, 1997). Tra le specie erbacee è
da rilevare la presenza di taxa legati al pascolo, quali Rumex,
Cichorioideae e Asteroideae. Non lontano dovevano essere
presenti anche coltivazioni di cereali (15%) e canapa (7%).
La presenza continua del polline di castagno e noce ci induce
a datare il livello 120 almeno a 2000 BP.
La biozona 3, datata circa 1390 -1520 BC,
vede l’aumento di Alnus e la riduzione dei
cereali e della canapa che potrebbe essere
la conseguenza della peste che colpì tutta
l’Europa e la Valle d’Aosta tra il 1349 ed
il 1412 (Remacle, comunicazione personale). Si potrebbe anche trattare di una fase
fredda che potrebbe aver ridotto l’utilizzo
delle aree più elevate. Se quest’ultima ipotesi fosse vera, avremmo dovuto trovare
delle modifiche nel sedimento che invece è
costituito da torba apparentemente omogenea. Questo ci fa propendere per la prima
ipotesi.
Nella biozona 4 si verifica la riduzione di
Alnus e l’aumento dei cereali, della canapa
e di Rumex. Un più forte impatto antropico è anche testimoniato dalla scomparsa
dei macroresti di pino e dalla riduzione del
suo polline in quanto questa pianta veniva
sicuramente impiegata per ogni tipo di costruzione e di utensili ad uso quotidiano. In questa biozona pare realizzarsi un
importante aumento demografico con conseguente riduzione
del polline arboreo e l’aumento di quello dei taxa erbacei legati
alle attività umane.
Discussione e conclusioni
Le macrocorrelazioni tra i due diagrammi che hanno registrato
la vegetazione in modo simile, necessitano di alcune precisazioni:
• gli eventi vegetali registrati a Réich sono più dettagliati se
consideriamo che in 120 cm sono registrati almeno 2000
anni di storia, mentre a Mongiovetta gli ultimi 2000 anni
sono registrati in 50 cm.
• l’insieme delle due sequenze registra la totalità degli eventi
a partire almeno da 5000 BP.
• alcuni “eventi guida” correlano i due diagrammi con quelli
già noti per la Valle d’Aosta.
La sedimentazione nel sito di Réich è iniziata almeno a circa
9200 BC (250-245 cm) ma il ritiro del ghiacciaio era iniziato
già da prima, tanto che intorno alla torbiera si era formata una
vegetazione di arbusti/alberi, non evidenziabile con l’analisi
pollinica, ma grazie ai frammenti di legno e scaglie di cono
delle conifere. La mancanza di sedimento utile per le analisi
tra 195 e 120 cm (hiatus), ma solo la presenza di materiale incoerente, potrebbe testimoniare di un’avvenuta frana/valanga
che avrebbe eroso buona parte del sedimento torboso. A partire da 120 cm la sequenza ottenuta è abbastanza omogenea e
sulla base dei dati pollinici e cronologici, si è evidenziato che
le attività umane erano dedicate soprattutto alla coltivazione
dei cereali ed all’allevamento degli animali. Purtroppo, come
già evidenziato nel diagramma di Mongiovetta, non è possibile
stabilire la prevalenza di un’attività sull’altra essendo praticate
contemporaneamente. La torbiera di Réich rispetto a quella di
Mongiovetta ha avuto una sedimentazione più veloce tanto che
— 18 —
A U G U S T A
pare poter riconoscere anche il periodo tra il 1400 ed il 1300
in cui l’Europa e l’Italia furono funestate da una terribile peste, grazie alla riduzione dei taxa legati all’allevamento ed alla
agricoltura a vantaggio dell’ontano verde che aumenta in percentuale e probabilmente riconquista lo spazio non utilizzato
da queste attività. Anche la ripresa delle Ericaceae di solito è
un segnale di abbandono delle suddette attività. Successivamente a questa fase si verificò la ripresa di tutte le attività con
l’aumento dei Cereali, del Rumex, dell’Artemisia, delle Urticaceae e della Cannabis. Si riducono invece le specie arbustive e
arboree che nella fase precedente si erano espanse.
Alcuni di questi eventi vegetali sono correlabili con quelli registrati in altri diagrammi provenienti da siti limitrofi. Ad esempio la biozona 3 di Réich si può correlare con una parte della
biozona 16 del Lago di Villa (Brugiapaglia, 2001). Anche al
Lago di Champlong (Brugiapaglia, 1997) nelle biozone 4 e 5
si potrebbe tentare una correlazione con quelle 3 e 4 di Réich.
Queste correlazioni dimostrano che lo stesso evento, nel caso
particolare la peste, avrebbe portato alla riduzione delle specie coltivate a vantaggio delle specie arbustive ed arboree che
avrebbero ricolonizzato le aree momentaneamente inutilizzate.
In conclusione si può certamente affermare che i due siti di
Mongiovetta e Réich nel vallone di San Grato, proprio per l’eccezionalità dell’habitat e delle caratteristiche intrinseche dello
stesso, sono degli archivi naturali che ci hanno permesso di
ritracciare gli eventi naturali ed antropici che si sono succeduti
a partire da circa 9000 BC. Sono due siti che meriterebbero di
essere inclusi nei SIC della Regione Valle d’Aosta mantenendone l’attuale livello di antropizzazione perché una maggiore
pressione ed in particolare le modificazioni del regime idrico
delle torbiere, comporterebbero
1 la scomparsa delle attuali specie vegetali altamente specializzate che garantiscono un elevato grado di biodiversità alle
aree e
2 la banalizzazione della flora attraverso l’ingresso di specie
cosmopolite ed aliene.
Ringraziamenti
La ricerca è stata resa possibile grazie al contributo dell’Associazione Augusta. Si ringrazia l’Area Botanica del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali dell’Università
Politecnica delle Marche per avermi permesso l’utilizzo dei
laboratori per le analisi polliniche.
Bibliografia
- Behre K-E., 1981 – The interpretation of anthropogenic
indicators in pollen diagrams. Pollen et speres, 23: 225-245.
- Bovio M., 2014 – Flora vascolare della Valle d’Aosta. Testoline editore.
- Bovio M., Broglio M., Poggio L., 2008 – Guida alla
flora della Valle d’Aosta. Blu edizioni.
- Brugiapaglia E., 2014 – La torbiera di Mongiovetta
(Vallone di San Grato): un archivio per ricostruire la storia
del territorio degli ultimi millenni. Augusta: 51-55.
- Brugiapaglia E., Mercuri A.M., 2012 – Raccolte
palinologiche. In “ Herbaria. Il grande libro degli erbari italiani”. Nardini editore: 201-207
- Brugiapaglia E., 1996 – Dynamique de la végétationtardiglaciaire et holocenedansles Alpes italiennesnord-occidentales. Thèseès Sciences Un iversité Aix-Marseille III:
148 pp.
- Holzhauser H., Magny M., Zumbühl H.J., 2005
– Glacier and lake-level variations in west-central Europe
over the last 3500 years. The Holocene, 15 (6): 789-801.
- Mercuri A.M., Accorsi C.A., Bandini Mazzanti
M., 2002 – The long history and its cultivation by the Romans in central Italy, schown by pollen records from Lago
Albano and Lago di Nemi. Veget. Hist. Archaeobot., 11:
263-276.
— 19 —
A U G U S T A
Il S.I.C. “Ambienti glaciali
del gruppo del Monte Rosa”
Francesco Spinello, Naturalista
I
SIC (Siti di Interesse Comunitario), a differenza
delle tradizionali aree protette, non rientrano nella
legge quadro n. 394/91 sulle aree protette , ma nascono con la direttiva comunitaria n. 92/43 ( detta
“Direttiva Habitat”), recepita dal D.P.R n. 357/97
e successivo n. 120/03, finalizzata alla conservazione degli
habitat naturali e delle specie animali e vegetali di interesse
comunitario e sono designati per tutelare la biodiversità attraverso specifici piani di gestione.1
I SIC, insieme alle Zone di Protezione Speciale (ZPS) costituiscono la Rete Natura 2000 concepita ai fini della tutela della
biodiversità europea attraverso la conservazione degli habitat
naturali e delle specie animali e vegetali di interesse comunitario. Le Zps, in particolare, sono previste e regolamentate
dalla direttiva comunitaria 79/409 (detta “Direttiva Uccelli”),
recepita in Italia dalla legge sulla caccia n. 157/92, il cui obiettivo è la “conservazione di tutte le specie di uccelli viventi allo
stato selvatico”, che viene raggiunta non soltanto attraverso la
tutela delle popolazioni ma anche proteggendo i loro habitat
naturali.
La Valle d’Aosta è ricca di Siti Natura 2000; ve ne sono 30, tra
SIC e ZPS, istituiti al fine di preservare la biodiversità degli
ambienti montani, su un totale di 2314 siti presenti in Italia.2
Il SIC del Monte Rosa
Gli ambienti glaciali del Monte Rosa rientrano in una di queste forme di protezione della biodiversità, anzi due: si tratta
di un’area individuata nel 2003 sia come SIC, sia come ZPS
(codice IT1204220), con un’estensione di 8645 ettari e un’altitudine che varia dai 2000 ai 4531 m.
Il sito comprende l’intero massiccio del versante valdostano
del Monte Rosa con le testate delle valli di Ayas e Gressoney e
l’area di crinale tra le conche di Valtournenche, del Breuil e del
Vallone delle Cime bianche in Val d’Ayas.
In questo sito si ha la presenza di vasti apparati glaciali caratterizzati da un notevole sviluppo di depositi morenici e litologie dominate dai micascisti albitici retromorfosati dell’insieme
pregranitico del massiccio del Monte Rosa.
3
4
5
1
2
La zona delle Cime Bianche è caratterizzata da una morfologia
di tipo carsico dovuto ai substrati calcarei del Trias della Zona
Piemontese.3
Il versante meridionale del Monte Rosa (Alta Valle di Gressoney) è di particolare interesse per gli elevati limiti altitudinali
raggiunti dalle piante fanerogame: sono state segnalate oltre
60 entità floristiche (tra specie e varietà) che raggiungono qui i
massimi limiti altitudinali nelle Alpi. Di queste superano i 4000
metri le seguenti entità: Ranunculus glacialis (fino a 4245 m),
Poa laxa (fino a 4245 m), Androsace alpina, Saxifraga oppositifolia, Saxifraga moschata.
Tra gli arbusti raggiungono quote eccezionali: Juniperus nana
(3570 m), Vaccinium uliginosum ( 3550-3630 m), Vaccinium
myrtillus ( 3000-3200 m), Vaccinium vitis-idaea (3000-3200
m), Rhododendron ferrugineum (3000 m). Il sito Corine si
presenta come una zona transfrontaliera per le linee migratorie
dello Stambecco che mettono in contatto popolazioni di Ayas,
Gressoney con Alagna e Macugnaga e da qui in Svizzera.
La zona delle Cime Bianche è stata segnalata dalla Società Botanica Italiana tra i biotopi italiani di rilevante interesse vegetazionale e meritevoli di conservazione.4
A questi dati eccezionali per la flora alpina, consultabili sul
portale internet della Regione Valle d’Aosta, si aggiungano ulteriori attuali variazioni dei limiti della vegetazione dovute allo
scioglimento del ghiacciaio del Lys e ai cambiamenti climatici
connessi.5
Si tenga presente inoltre che negli ultimi anni sono stati effettuati studi geomorfologici (riportati sulla rivista Augusta nelle
annate 2011-2014) al fine di reperire dati relativi ad eventuali
siti di interesse geologico (geositi), nonché studi pedologici/
palinologici sulle torbiere di Cortlys, che aggiungono interesse
al sito stesso, benché relativi ad aree poste ai limiti esterni del
SIC/ZPS. Da queste ricerche emerge la necessità di ampliare i
confini dell’area di interesse in modo da poter inserire anche
questi ulteriori siti e preservarli da possibili impatti negativi
dati dalla forte pressione turistica o dalla costruzione di infrastrutture, come viene evidenziato nel documento della Regione
Valle d’Aosta relativamente alle vulnerabilità del SIC.
https://www.politicheagricole.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/1008
http://www.minambiente.it/pagina/sic-zsc-e-zps-italia
http://www.regione.vda.it/risorsenaturali/conservazione/natura2000/siti_f.asp
NATURA 2000 Data Form . Codice sito: IT1204010
De Amicis M., Spinello F., Le morene del ghiacciaio del Lys, evidenze delle variazioni climatiche, Augusta 2013
— 20 —
Fonte http://www.regione.vda.it/risorsenaturali/conservazione/natura2000/siti/IT1204220/default_i.aspx
A U G U S T A
— 21 —
La microregione dell’alta valle del Lys, nella Valle d’Aosta orientale, costituisce uno dei punti
lungo i quali corre il confine linguistico fra area romanza e area germanica. In particolare per
A U G U qui,
S T A
quanto riguarda l’area alpina, di pertinenza
i contatti fra romanzo e germanico sono
plurisecolari, reciproci e fortemente stratificati; inoltre, entrambi i gruppi linguistici si
Francoprovenzale e walser
nell’alta valle del Lys
caratterizzano per un sostrato prelatino (celtico) e pre-indoeuropeo (cosiddetto mediterraneo). Tutto
ciò ha contribuito allo sviluppo di uno strato lessicale relativo alla cultura alpina almeno in parte
condiviso che deve aver favorito, nel corso dei secoli, la comunicazione interetnica e un senso di
appartenenza comune.
Tuttavia, rispetto all’area alpina di confine fra romanzo e germanico, il caso dell’alta valle del
Silvia DaldiNegro
* - Marco
Angster*
Lys, interessata, in epoca medievale, da migrazioni alto-alemanniche
provenienza
vallesana,
L
risulta particolarmente interessante per la sovrapposizione (e inglobamento reciproco) di diverse
a microregione dell’alta valle del Lys, nella Valle
vallesana, risulta particolarmente interessante per la sovrapcomunità
linguistiche,
al punto
chepunti
piùlungo
che di linea
di confine
risulterebbe
appropriato
di linposizione
(e inglobamento
reciproco)
di diverseparlare
comunità
d’Aosta orientale,
costituisce
uno dei
guistiche, al punto che più che di linea di confine risulterebbe
i quali corre il confine linguistico fra area romanunazasorta
“modello
a matrioska”
(vediri-la figura
1). In Valle
infatti,
le varietà
walser(vedi
e areadi
germanica.
In particolare
per quanto
appropriato
parlared’Aosta,
di una sorta
di “modello
a matrioska”
guarda l’areauna
alpina,
di pertinenza
qui, i contatti
la figuraminoranza
1). In Valle d’Aosta,
infatti,
le varietà walser costitucostituiscono
minoranza
all’interno
della più ampia
francofona
e francoprovenzale,
iscono una minoranza all’interno della più ampia minoranza
fra romanzo e germanico sono plurisecolari, reciproci e fortemente stratificati;
entrambi
linguistici
si caratfrancofona
e francoprovenzale,
quale è a sua volta dalla
dominata
la qualeinoltre,
è a sua
voltai gruppi
dominata
a livello
nazionale
dall’italiano
e a livello lamacro-regionale
terizzano per un sostrato prelatino (celtico) e pre-indoeuropeo
a livello nazionale dall’italiano e a livello macro-regionale dalpiemontese.
Diha fatto,
però,
questionela koinè
si complica
ulteriormente
prendiamo
in
piemontese.
Di fatto, però, se
la questione
si complica
(cosiddettokoinè
mediterraneo).
Tutto ciò
contribuito
allo la
sviluppo di uno considerazione
strato lessicale relativo
cultura alpina
in della
ulteriormente
prendiamo
nellovolta
specifico
nelloallaspecifico
la almeno
situazione
comunitàse di
Gaby, in
la considerazione
quale è a sua
parte condiviso che deve aver favorito, nel corso dei secoli, la
la situazione della comunità di Gaby, la quale è a sua volta
comunicazione
interetnica
e un sensodell’area
di appartenenza
comune.
un’enclave
all’interno
dell’area dal
dominata
(o meglio:
un’enclave
all’interno
dominata
(o meglio:
anticamente
dominata)
tedesco
walser, anticaal
mente dominata) dal tedesco walser, al punto che il villaggio di
Tuttavia, rispetto all’area alpina di confine fra romanzo e gerche il villaggio
di Niel
(parte del
Comune di
Gaby)
a lungo
un suo dialetto
di suo
manico, ilpunto
caso dell’alta
valle del Lys,
interessata,
in epoca
Niel
(parteha
delmantenuto
Comune di Gaby)
ha mantenuto
a lungo un
medievale, da migrazioni alto-alemanniche di provenienza
dialetto di tipo walser (ora estinto).
tipo walser (ora estinto).
ITALIANO E PIEMONTESE
FRANCESE E FRANCOPROVENZALE
DIALETTI WALSER DI ISSIME E GRESSONEy
PATOIS DI GABy
DIALETTO WALSER DI NIEL
†
1: Lingue e dialetti nell’alta valle del Lys
Figura 1: Lingue e dialetti nell’alta valle del Lys
Come è noto (Giacalone Ramat 1979, Zürrer 2009), il maggiore insediamento walser nella valle del Lys è quello di Gressoney (organizzata su due comuni e numerose frazioni), la cui
storia (precedente allo sviluppo turistico) di scambi, commerci e migrazioni orientata soprattutto verso le regioni germanofone a nord delle Alpi, ha favorito il mantenimento di una
continuità linguistico-culturale, integra fino almeno alla metà
del secolo scorso. L’altra comunità walser della Valle d’Aosta
è quella di Issime, originariamente insediatasi a macchia di
leopardo nell’area di metà valle in stretto contatto e parziale
sovrapposizione con la comunità francoprovenzale di Gaby
con la quale, fino al 1952, costituiva un unico comune amministrativo1. Con la creazione delle due entità comunali si avviò
un processo di polarizzazione delle comunità walser e francoprovenzale, processo completato quando anche il villaggio
walser di Niel passò al patois per essere poi definitivamente
* Università degli Studi di Bolzano e Università degli Studi di Torino.
1
La microtoponomastica locale rispecchia molto bene l’esistenza di due gruppi etnico-linguistici sul territorio e il loro sfruttamento dello stesso.
Un esempio classico di denominazione degli “altri” è quello del Pratum teotonicorum ‘prato dei tedeschi’ (attestato almeno a partire dal XVII
secolo, cfr. Musso / Bodo 1994), al quale corrispondono denominazioni di tipo diverso (maggiormente legate alla conformazione del terreno)
nel tedesco locale.
— 22 —
A U G U S T A
Amalia Tousco (Gaby) ved. Ronc
e Gotta Lina Busso (Issime) (foto Cavalli)
abbandonato come insediamento permanente. Il risultato di
queste trasformazioni è, sul piano linguistico, lo statuto del
tutto particolare del patois di Gaby, enclave francoprovenzale
all’interno del tedesco walser, a sua volta enclave della più
ampia area francoprovenzale valdostana. Tali processi di polarizzazione e separazione delle comunità non hanno comunque impedito lo sviluppo di un bi- e plurilinguismo tuttora
ben presente a livello locale, soprattutto per quanto riguarda
la comunità di Issime (cfr. Dal Negro 2002, Zürrer 2009, Dal
Negro / Valenti 2008).
Presentiamo in queste pagine uno studio pilota dedicato al lessico della varietà francoprovenzale di Gaby, svolto a partire
dai materiali che ci sono stati messi a disposizione dal gruppo
di lavoro “Tsèi de la móda dou Gòbi” (coordinato da Andrea
Rolando), per il tramite di Michele Musso2.
La nostra ricerca si è articolata in due fasi. In una prima fase
abbiamo selezionato casualmente un campione di un centinaio
di lessemi tratto da un corpus più ampio di 330 parole in uso
nel patois di Gaby, prevalentemente nomi, appartenenti al campo semantico agro-pastorale3. Questo campione è stato quindi
analizzato sulla base dello strato linguistico di appartenenza
(germanico o romanzo). Facendo riferimento ai consueti strumenti della linguistica storica, specifici per il dominio germanico e romanzo4, abbiamo tenuto nella dovuta considerazione
le risorse lessicografiche più specifiche per l’area e le varietà di
lingue di nostro interesse: i dizionari di titsch e töitschu pubblicati dal Walser Kulturzentrum tra il 1988 e il 1998, lo Schweizerdeutsches Idiotikon (ID) per i dialetti svizzeri e il dizionario
online dei patois della Valle d’Aosta5. Il nostro obiettivo, in
questa prima fase, era quello di individuare, all’interno di un
campione casuale di lessico di Gaby, la percentuale di termini
di origine germanica che potessero derivare direttamente dal
contatto con le parlate walser, in contrasto con il lessico romanzo ereditato.
L’operazione si è rivelata da subito molto più complessa del
previsto dal momento che in diversi casi le corrispondenze fra
patois di Gaby e dialetti walser sono dovute a fenomeni di sostrato comune o a contatti linguistici precedenti agli insediamenti walser a sud delle Alpi, sebbene non romanzi in senso
stretto. Per fare un esempio, una parola come brèn ‘crusca’,
pur appartenendo al lessico ereditato del franco-provenzale, è
un antico prestito gallico (REW 1284 *brennos) nelle varietà
gallo-romanze, e dunque anche nel francoprovenzale, la cui
origine, tuttavia, non può dirsi romanza in senso stretto.
Per riassumere, dunque, dei 102 lessemi del patois di Gaby
presi in considerazione, la maggior parte (79 = 77,5%) sono
risultati di origine romanza o comunque diffusi in area romanza (come nel caso di brèn), dieci (9,8%) sono di classificazione incerta, mentre il resto (13 = 12,7%) sono da attribuire al
contatto con parlate di tipo alto-tedesco (e dunque, presumibilmente, al contatto con il walser).
Più interessante, a questo punto, osservare come si distribuiscano, dal punto di vista dello strato linguistico, quei 27 tipi
lessicali, all’interno di questa lista, che Gaby condivide con
Issime, con Gressoney, o con entrambe le comunità walser, con
lo scopo di individuare eventuali asimmetrie e rapporti di dominanza sociolinguistica nel contatto linguistico.
Una presentazione del progetto di documentazione linguistica e alcuni primi risultati si possono leggere in Tsei de la móda dou Gòbi (2015).
Per averci messo a disposizione questi materiali in anteprima permettendoci di svolgere la presente ricerca, ringraziamo il gruppo di lavoro e
Michele Musso.
3
Il confronto con una ricerca recente di taglio tipologico e comparativo nell’ambito dei prestiti lessicali (Haspelmath / Tadmor 2009) mette
in luce come l’ambito dell’agricoltura e delle specie vegetali sia tutt’altro che immune al prestito: su un totale di 22 categorie concettuali si
classifica addirittura al sesto posto sulla scala di “prestabilità” ricavata dal progetto. Ciò potrebbe dipendere dal fatto che le tecnologie di
agricoltura e allevamento vengono spesso importate da una cultura ad un’altra, e con esse anche il relativo lessico.
4
E cioè il Romanisches Etymologisches Wörterbuch (REW), il Französisches Etymologisches Wörterbuch (FEW) e il Deutsches Worterbuch
(DWB).
5
Disponibile a questo indirizzo: http://www.patoisvda.org/it/index.cfm/dizionario-francoprovenzale-parole-patois.html.
2
— 23 —
A U G U S T A
Gaby (foto R. Alessandrini)
Germanico
Romanzo
Issime & Gressoney
10
4
Issime
210
Gressoney
01
Somiglianze lessicali con Gaby
Tab. 1: Corrispondenze lessicali fra Gaby e Issime/Gressoney
Una prima osservazione che si può fare osservando la tabella
1 è che, grosso modo, il lessico condiviso di origine germanica
è quantitativamente equivalente a quello di origine romanza,
il che fa pensare ad una lunga storia di bilinguismo diffuso
a livello di microregione e di contatti e influenze reciproche,
almeno per quanto riguarda il campo semantico delle attività
agro-pastorali. Andando più nello specifico dei dati, si può osservare che quando un termine è condiviso da tutti e tre i dialetti la probabilità che questo termine sia di origine germanica
(o meglio: tedesca) è molto alta e che, dunque, il prestito sia
passato dal walser al franco-provenzale. Viceversa, quando la
corrispondenza lessicale esclude Gressoney la componente romanza prevale (e la direzione dei prestiti va dunque dal patois
al walser issimese).
Questa prima indagine sembra dunque indicare due diverse
tendenze nei rapporti di dominanza sociolinguistica (così come
si riflettono nella direzionalità dei prestiti lessicali) nell’alta
valle del Lys. Per verificare la bontà della nostra ipotesi, tuttavia, abbiamo dovuto allargare il database lessicale sul quale svolgere l’analisi. In una seconda fase del lavoro abbiamo
così preso in considerazione un’ulteriore lista di 130 lessemi
(sempre estratti dalla preziosa banca dati raccolta dal gruppo
di lavoro “Tsei de la móda dou Gòbi”), diversa dalla prima
in quanto formata esclusivamente da parole per le quali vi
fosse una corrispondenza fra
il francoprovenzale (di Gaby
o nella varietà di Niel) e almeno uno dei dialetti walser
(per questo motivo la componente germanica risulta molto
più consistente di quanto non
fosse per la prima lista). Inoltre, tale elenco non è limitato
ai nomi ma comprende anche
verbi e aggettivi, e spazia su
più campi semantici.
A partire dall’analisi dei tipi
lessicali, non semplicissima
dati i numerosi fenomeni di
integrazione fonologica, morfologica e semantica che toccano i prestiti, soprattutto se
ben acclimatati come in questo
caso, siamo riusciti ad identificare una serie di schemi di
similarità o di corrispondenza
all’interno della microregione.
Quando un tipo è condiviso da
tutte e quattro le varietà linguistiche considerate (e dunque inclusa la varietà di Niel), questo può essere, come si è visto anche sopra, di origine germanica, di origine romanza, di origine
non chiara o comune ad entrambe le tradizioni linguistiche (e
dunque dovuto a sostrato). Un esempio di lessotipo germanico condiviso è gròbou (Gaby), groabo (Niel), groabe (Issime),
groabe (Gressoney), tutti con il significato di ‘canale di raccolta
del letame’ e collegato al tedesco Graben ‘fossato’. Per il caso
opposto (termine di origine romanza condiviso da tutte e quattro le varietà) si può citare djèra (Gaby) ‘ghiaia’, djéara (Niel),
dscheeru (Issime), dŝchärò (Gressoney). Si noti, in quest’ultimo caso, che i dialetti walser mantengono il genere femminile
del nome romanzo preso dalla lingua a contatto ma ne adattano
la forma per farla rientrare nella classe flessiva corrispondente
dei femminili in –u/-ò: un tale processo (attestato anche in direzione opposta, con femminili walser riadattati alla classe in
–a passando al francoprovenzale) denota la presenza di un alto
grado di bilinguismo e di conoscenza dei rispettivi sistemi linguistici per rendere possibile stabilire corrispondenze fra generi
e classi flessive nelle due lingue.
Un altro tipo comprende quei casi in cui il dialetto di Gressoney si distingue da tutti gli altri. Un caso interessante è quello
della serie zétsi (Gaby), zétsie (Niel), setzi (Issime), tutti da
ricondurre al tedesco setzen ‘sedere/sedersi’ ma riferiti ad un
seggiolino per bambini; curiosamente, per lo stesso oggetto
nel dialetto walser di Gressoney si usa un prestito romanzo,
kariélé, diminutivo di kariò ‘sedia’. L’altra tipologia riguarda i
casi in cui un lessotipo romanzo non raggiunge Gressoney. Si
considerino gli esempi di ‘cantina’ – Gaby crota, Niel crouata,
Issime kruatu, ma Gressoney char, e di ‘patata’ – Gaby/Niel
trìffoula, Issime trüffulu (oltre che heerdöpfil), ma Gressoney
héerfél (a partire dal composto, ora opacizzato, dal significato
letterale di ‘mela di terra’).
— 24 —
A U G U S T A
di Niel), che funziona da punto di riferimento7. L’intero corpus
di dati viene così trasformato in una matrice nella quale tutti
i casi di corrispondenza vengono indicati con 1 mentre tutti
i casi di mancata corrispondenza ricevono il valore 0; i casi
di dato mancante, invece, vengono ignorati dall’algoritmo. Un
esempio di matrice è rappresentato nella Tab. 2:
GaN I Gr
Ga=N=I=Gr
1111
Ga≠I=Gr
1
0
-
0
Ga=I=Gr≠N
1
0
1
1
Ga=I≠N≠Gr
1
0
1
0
Ga=N=Gr1 1 - 1
Issime, Villaggio di San Grato.
Casa delle colonne sec. XVII, al suo interno è inglobato
uno stadel del XV sec. (foto R. Alessandrini)
Due sono gli schemi risultati più frequenti per quanto riguarda
le corrispondenze lessicali: l’allineamento di tutte e quattro le
varietà su uno stesso tipo, romanzo o germanico che sia (60
casi), e l’opposizione di Gressoney alle altre tre varietà (36
casi, ai quali dovremmo aggiungere i 10 casi per i quali non
siamo riusciti a trovare un traducente adeguato per Gressoney).
Per quanto riguarda la classificazione in base allo strato linguistico, 52 lessemi sono di origine germanica e 45 romanza. In
ulteriori 10 casi il tipo attestato a Gaby può avere origine sia
germanica che romanza (sostrato comune pre-latino, oppure
tipo onomatopeico), mentre per 23 casi è stato impossibile attribuire con certezza un’appartenenza ad uno strato linguistico.
Incrociando i due parametri (corrispondenze lessicali e strato
linguistico) si può osservare che nei casi in cui un tipo lessicale
è condiviso da tutte le parlate in più di metà dei casi questo
risale allo strato germanico, mentre nei casi in cui Gressoney
si distacca dal gruppo lo strato germanico rende conto di meno
di un caso su quattro.
Oltre a questi schemi più frequenti, però, i dati presentano una
vasta gamma di altre possibilità, più o meno complete sul piano delle corrispondenze orizzontali fra varietà, ma che, singolarmente, contribuiscono a rafforzare (o viceversa a indebolire)
le tendenze più generali. Questo ci ha portati a integrare l’analisi con l’impiego di una metodologia diversa che permetta di
misurare la distanza relativa fra varietà linguistiche (Hamming
distance6) tenendo conto di tutti i casi in cui la variante lessicale di Issime o di Gressoney corrispondeva a quella di Gaby (e/o
Ga=N=Gr≠I
1
1
0
1
Ga≠N=I=Gr
1
0
0
0
Ga≠N=I≠Gr
1
0
0
0
N=I≠Gr
-
1
1
0
Ga=N=I≠Gr
…
1
1
1
0
Tab. 2: Matrice degli schemi di somiglianza
A partire dalla matrice esemplificata nella Tab. 2 è possibile calcolare i valori di Hamming distance tra le due varietà
di francoprovenzale e i due dialetti walser. Tali distanze sono
riportate nella Tab. 3. Qui si può osservare come il walser di
Gressoney sia molto distante sia dal patois di Gaby (.434) sia
dalla varietà di Niel (.374), che pure presenta un’alta proporzione di germanismi, ma evidentemente non corrispondenti ai
tipi riscontrati a Gressoney. Questi dati allontanano la parlata
di Gressoney dall’area più compatta di Gaby, Niel e Issime,
entro la quale i rapporti e gli scambi reciproci hanno contribuito alla formazione di una base lessicale condivisa e trasversale rispetto allo strato linguistico (germanico o romanzo) di
appartenenza.
IssimeGressoney
Gaby.091.434
Niel .056.374
Tab. 3: Calcolo della Hamming distance tra varietà walser
e varietà francoprovenzali
La Hamming distance calcola in generale la distanza reciproca tra due tipi (varietà linguistiche, specie animali o vegetali, corredi genetici ecc.)
facendo il rapporto tra il numero di comunanze di 0 o 1 tra i due tipi (vedi Tab. 2) e il numero di tratti considerati. Nel caso ad esempio della
distanza tra Gaby e Issime i tratti considerati sono gli oggetti/concetti e le comunanze sono i casi in cui sia Gaby che Issime presentano un 1. I
tratti che abbiamo considerato sono 121 (da 130 vanno sottratti un certo numero di casi in cui non abbiamo un lessotipo attestato per Issime o
Gaby) e il numero di comunanze è 20. Il risultato corrisponde a 121/20 = .091 (si veda Tab.3). Per altre applicazioni della Hamming distance
si veda von Waldenfels (2012); in ambito walser si veda Angster / Dal Negro (in stampa).
7
In questo senso il modello non può essere utilizzato per misurare le distanze reciproche fra i due dialetti walser di Issime e Gressoney ma solo
di ciascuno di essi nei confronti del patois di Gaby o della varietà francoprovenzale di Niel.
6
— 25 —
A U G U S T A
L’analisi proposta, pur circoscritta al lessico, ha confermato la
considerando la semplice distribuzione geografica dei dialetti.
natura composita delle varietà francoprovenzali in uso a Gaby
La maggiore somiglianza del lessico issimese, rispetto a quello
e, al tempo stesso, ha messo in evidenza la complessità delle
con i dati raccolti a Gaby avvalora l’ipotesi, già
raccolti a Gaby avvalora l’ipotesi, già avanzata a gressonaro,
partire dagli
studi sulla toponomastica (cfr. Bodo /
relazioni sociolinguistiche reciproche nel territorio dell’alta
avanzata a partire dagli studi sulla toponomastica (cfr. Bodo
valle del Lys.
Innanzitutto,
fattolungo
di trovarsi
circondato
da
/ di
Musso
di un lungo
periodo
di contatto
di tipo simMusso
1994),perdiil un
periodo
di contatto
tipo1994),
simmetrico
delle
comunità
germanica
e
metrico delle comunità germanica e romanza nell’area di Gaparlate alemanniche, il lessico del patois di Gaby si caratterizza, come poteva
essere
facilmente
per la percentuale
by-Issime
di adstrato
fralaleconseguenza
due parlate, condila
romanza
nell’area
di previsto,
Gaby-Issime
e del rapporto di
adstratoe del
fra rapporto
le due parlate,
con
consistente di germanismi. Meno prevedibile, sulla base del
conseguenza di molte influenze reciproche. Viceversa, i prestiti
“modello molte
a matrioska”
schematizzato
sopra, èViceversa,
invece il fattoi prestiti
romanzi
nel walser
Gressoney
più facilmente
influenze
reciproche.
romanzi
neldiwalser
disono
Gressoney
sonointerprepiù
tabili sulla base degli effetti del superstrato gallo- e italoromanche i due dialetti walser di Gressoney e Issime non siano risultati equidistanti
dal patois
di Gaby sulla
degli
schemi
più ampio, non
trovando
necessariamente
facilmente
interpretabili
sullabase
base
degli
effetti delzosuperstrato
galloe italoromanzo
più corrispondenze
ampio, non
di similarità lessicale, come dovrebbe essere in teoria il caso
immediate nel patois di Gaby.
trovando necessariamente corrispondenze immediate nel patois di Gaby.
ITALIANO E PIEMONTESE
FRANCESE E FRANCOPROVENZALE
DIALETTI WALSER
WALSER
DI ISSIME
FRANCOPROVENZALE
DI GABy
Figura 2: Lingue e dialetti nell’alta valle del Lys (revisione)
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Figura 2: Lingue e dialetti nell’alta valle del Lys (revisione)
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A U G U S T A
Lessico di Gaby: tra derivazione
romanza e alemannica
Andrea Zenoni*
I
l patois di Gaby (AO) e quel che resta della parlata del borgo di Niel sono oggetto negli ultimi
anni di un interesse linguistico sempre maggiore, principalmente legato all’iniziativa cittadina
della redazione di un dizionario dialettale. Anche
se il lavoro vero e proprio sul dialetto inizia ora, il patois di
Gaby è già stato oggetto in passato di indagini linguistiche,
soprattutto a latere di studi condotti sulle parlate walser della
Valle del Lys. Tra questi 1, menzionano il patois di Gaby Zinsli
(1968) e, soprattutto, Zürrer (2009), sottolineando – come già
aveva fatto anche Christillin (1897) (citato da Zürrer) – come
il patois di Gaby risulti essere una parlata romanza che pure
presenta residui alemannici nella sua stratificazione lessicale,
certamente dovuti alla convivenza sullo stesso territorio delle
due popolazioni (alemannica e romanza) attestata fino ai primi
anni del 1900.
Gaby e Niel, ricordiamo, nascono come borghi del comune
unito di Issime-Gaby, territorio interamente romanzo prima
dell’arrivo dei walser. L’odierno centro issimese venne popolato nel corso del XV-XVI sec. dalle popolazioni walser prima
attestate ad alta quota nei valloni laterali di San Grato e Stolen
o di Bourrines (la popolazione romanza si trasferì nel borgo
di Gaby), diventando a tutti gli effetti un centro multilingue
(gli alemanni parlavano anche francoprovenzale); Gaby invece divenne un borgo abitato da entrambe le comunità, che
però vivevano fianco a fianco nel paese in una situazione di
bilinguismo, mentre nei borghi di Niel e Gruba nel vallone laterale omonimo (così come nella frazione di Pont Trentaz) erano stanziati solo gruppi alemannici. Questa doppia situazione
di convivenza linguistica andò avanti fino ai primi del 1900,
quando gli abitanti d’alta quota si trasferirono in paese abbandonando gradualmente la loro parlata alemannica. Nel 1952 il
paese di Gaby ottenne poi l’autonomia comunale (e linguistica): la popolazione di parlata germanica rimase circoscritta nel
comune di Issime, e quella di parlata romanza nel neo comune
di Gaby. Ma le testimonianze di queste periodo rimangono in
entrambi i dialetti, attori di prestiti e contatti linguistici (Rizzi
1993).
Indagine linguistica sul lessico di Gaby
Da alcuni elenchi lessicali presentati da Zürrer (2009), sulla
base di testimonianze della storica Jolanda Stevenin, e da nuo-
vi elenchi di parole – raccolte da Michele Musso e dal gruppo
dei patoisants volontari di Gaby che stanno lavorando dal 2015
alla redazione del Ditsiounèri dou Gòbi (Augusta 2015), è iniziata dunque anche la mia indagine linguistica realizzata tra
l’agosto 2015 e il febbraio 2016 destinata alla stesura della tesi
di laurea2 , alla ricerca di quelle parole gabesi che non risultano
appartenere al dominio romanzo e che sono invece esito di una
probabile (anche se non sempre certa) derivazione alemannica.
Grazie allo studio etimologico e al confronto sistematico con il
walser e con le altre varietà locali (francoprovenzale, piemontese, francese, italiano), oltre ad un cospicuo numero di parole
registrate ed analizzate in un corpus, siamo riusciti a formulare
alcune riflessioni sulla parlata locale di Gaby.
Riflessioni sulla parlata di Gaby
in relazione con il walser
In primo luogo, abbiamo confermato, come ci si poteva attendere, la presenza di prestiti lessicali alemannici (v. oltre). Si
tratta di parole, riscontrabili generalmente anche nel titsch di
Gressoney o nel töitschu di Issime, che riguardano principalmente ambiti e pratiche tradizionali delle popolazioni montane, o altrettanto spesso di espressioni gergali e idiomatiche. Alcune di queste parole presentano un significato diverso rispetto
ad altri dialetti walser o al tedesco standard, probabilmente
attingendo ad altre derivazioni dell’alemanno o a dialetti svizzeri. Per esempio lou holt, che a Gaby significa “scomparto”
di una cassapanca (da confrontarsi con l’issimese khoalt con
lo stesso significato); oppure lou balcòn, un termine già lungamente attestato in ambito romanzo, ma che nel patois di Gaby,
come nei comuni walser, significa “persiana” e non “balcone”.
Generalmente questi prestiti lessicali (con lo stesso significato
o con significato traslato) sono prestiti integrati, cioè adattati foneticamente e fonologicamente al patois fprv. di Gaby. È
interessante però notare come in alcuni casi il prestito walser
abbia conservato un tratto prosodico tipicamente germanico
come l’accento rizotonico: alcune parole del patois di Gaby
riportano infatti l’accento sulla sillaba iniziale, come per esempio hòrbeta, hùrgeilla o zìdilla. In altri casi invece l’integrazione prosodica è avvenuta, e dunque troviamo vouillètta, che
rispetto all’issimese wélljutu integra il termine walser nel patois con trasposizione di suffisso e conseguente spostamento
dell’accento sulla penultima sillaba.
* Università degli Studi di Torino
1
Per una panoramica bibliografica più ampia, cfr. Fazzini Giovannucci (1999 e 2002); cfr. inoltre Dal Negro (2011).
2
Tesi di laurea triennale inedita in Dialettologia Romanza, dal titolo Indagine lessicografica a Gaby (AO), comunità romanza fra i walser, a.a.
2015/2016 (rel. Matteo Rivoira).
— 27 —
A U G U S T A
Archivio G. Cavalli
Un altro aspetto relativo all’evoluzione o, viceversa, alla conservazione di tratti fonetici dei prestiti alemannici, riguarda la
presenza nel patois di Gaby, e maggiormente la varietà di Niel,
di una serie di dittonghi atipici per una parlata francoprovenzale, condivisi invece dal walser. Il confronto più immediato
è con il töitschu di Issime: esso presenta oltre ai dittonghi derivanti dal germanico (ai, au, oei) altri derivanti dalle vocali
lunghe del medio alto tedesco oa, ua, ie, ei, ou, öi, üe. Molti di
questi dittonghi sono presenti anche a Gaby [ˈoa̯ ], [ˈua̯ ], [ˈou̯] e
[ˈau̯], e spesso sono semplicemente tendenze di maggiore apertura o chiusura di vocali o dittonghi stessi.
Un esempio sono alcuni verbi nella variante del dialetto parlato a Niel: brettòar “impunturare” per esempio invece che brettòr, o anche boutounòar “abbottonare”: in questo caso l’esito
-òr che troviamo normalmente a Gaby, derivante da una velarizzazione della a latina del suff. -are dei verbi della prima coniugazione, è sostituito da -òar che corrisponde al trattamento
di a (derivante da ā del medio alto tedesco, ma non solo) nelle varietà di Issime e Gressoney (schoaf “pecora”, oalt “vecchio”, goa “andare” ecc.). Tale dittongazione si trova anche
in alcuni sostantivi, senza differenziazione specifica tra Niel o
Gaby, ma semplicemente a seconda della tendenza dei parlanti, sempre come realizzazione di ò aperta oppure di á chiusa
(entrambe esito di una più antica a), per es. grobou “canale
di scolo” che in alcuni casi è sentito come groabou, magoari
“magari” o lo stesso Gobi, detto talvolta Goabi. Frequente è
anche il dittongo [ˈou̯], un es. còouser “cucire”, come esito
della vocale chiusa [u]; si veda anche òoula “pentola per la
polenta” e pòousa “polvere”. In questo caso è facile stabilire il
parallelo con l’analogo dittongo Issimese (ma non con quello
gressonaro) che costituisce l’esito di û del medio alto tedesco
(Iss. pour “contadino”, bouch “pancia”, ecc.). Per quanto riguarda, infine, il dittongo [ˈau̯], si consideri come es. craouma
“panna”; possiamo intendere che si tratti di un’evoluzione di a
(< gall. crama), rimane invece più difficile stabilire il parallelo
con le varietà walser (nell’issimese, abbiamo aug “occhio” e
strau “paglia”).
Sono riscontrabili, inoltre, elementi walser sul piano della morfologia. Nel corso della ricerca infatti sono state registrate una
serie di forme verbali (v. oltre) di origine walser e integrate
nel patois tramite una terminazione verbale specifica in -ou.
Le coniugazioni di Gressoney (in -o, -u) e Issime (-un, -en),
esiti delle antiche classi dei verbi forti e deboli dell’alemannico
superiore, sono infatti passate attraverso un piccolo gruppo di
verbi anche nella parlata di Gaby, dando luogo a una classe
nominale in /-u/. Alcuni di questi verbi sono per es. scheissou
“defecare”, tsalou “pagare”, schéingou “zoppicare”, hippou
“rubare”. Si tratta generalmente di prestiti non del tutto integrati nel patois, poiché, anche se adattati alla fonetica di Gaby
sono comunque esiti di formazioni verbali walser che ne portano il marchio morfologico.
Nella maggior parte dei casi queste forme verbali sono usate
prevalentemente come sostantivi e sono perlopiù in disuso o
ricordate da pochi. Occasionalmente possono essere coniugati
alla 1° o 3° persona sing. (usata in senso impers.): per es. el
botsia “lampeggia”, relativamente al tempo atmosferico. Alcuni esempi: y è eun poc de brentou “c’è del bruciato”, l’è egrou
“è difficile/ richiede sforzo”, recou “piangere” oppure “pianto
di un animale” ecc. Dunque potremmo dire che, più che di un
vero e proprio gruppo di verbi, si tratta forse di una nuova classe di sostantivi esiti di una nominalizzazione di verbi derivati
dal walser, che in alcuni (pochi) casi vengono ancora coniugati. L’analisi degli stessi è ed è stata particolarmente difficile
proprio perché la maggior parte delle volte i parlanti non riconoscono più tali forme verbali, ormai utilizzate maggiormente
come sostantivi o comunque con funzione nominale.
Oltre alla terminazione verbale, un altro indicatore del prestito
di questi verbi/sostantivi è di nuovo l’accento ritratto del walser
al quale abbiamo già fatto cenno. Se nelle forme verbali tipiche
del dialetto di Gaby, in -òr (coniugazione più diffusa), -er, -ir,
l’accento è sull’ultima sillaba (come per es. lavòr, fòr, prejòr
“parlare”, mindjòr “mangiare”, mourér “morire”, ér “andare”),
nei verbi presi in prestito dall’alemanno l’accento è sempre ritratto sulla prima. Questo tratto prosodico specifico acquisito
dal walser è ancora più evidente quando coesistono nel patois
di Gaby sia i verbi derivati dal walser sia gli equivalenti romanzi che si sono formati successivamente sulla base dei primi (lessotipi alemannici): per es. brettòr derivato da brèttou,
o schmaltsòr da schmòltsou e via dicendo. Si tratta potremmo
— 28 —
A U G U S T A
dire di una seconda fase di prestito e di adeguamento, in cui
la morfologia derivata dal walser tende ad integrarsi sempre
di più al fprv. di Gaby. Ad ogni modo, e per via di questa tendenza, in questo momento nella parlata di Gaby coesistono sia
verbi di matrice e terminazione alemannica (con le caratteristiche dette sopra), che i corrispettivi di matrice alemannica ma
terminazione romanza.
Questo fenomeno di prestito “morfologico” dal walser però,
sebbene circoscritto, non si è fermato qui, anzi è risultato ancora più produttivo. È infatti emerso nelle ricerche un piccolo
gruppo di verbi/sostantivi che definiremmo “ibridi”, tra quelli di terminazione alemannica -ou, che presentano una base
lessicale non walser bensì di origine romanza (cegou/ kegou
“cacare”, lappou “bere, lappare del cane”, ticcou “litigare”).
In questi verbi si possono appunto distinguere due parti, una
lessicale romanza e una morfologica alemannica che rivelano
il loro carattere “ibrido”: pare che il verbo indigeno fprv. abbia
perso la propria desinenza acquisendo un morfema di formazione walser. Non dobbiamo escludere però che la modifica di
alcuni di questi verbi (di origine romanza) sia avvenuta nella
parlata di Issime, ricca di prestiti romanzi, per poi “rientrare”
nel patois di Gaby già modificati, con terminazione “walser”.
Anche se il fenomeno non risulta eccessivamente diffuso, e addirittura tali formazioni verbali (o sostantivi) risultano ormai
essere in disuso e sostituiti dalle equivalenti forme romanze,
è evidente a qual punto si sia spinto il contatto tra il walser e
il patois di Gaby (prestiti morfologici sono indicativi di uno
stadio non indifferente di contatto linguistico).
A livello di morfologia, benché la tendenza di questi verbi in
-ou [u] sia ormai quella di adattarsi sempre di più alle forme
romanze dei verbi o di acquisire la funzione di sostantivo (che
non li rende più riconoscibili), sono da considerarsi comunque
e a tutti gli effetti residui verbali alemannici in una parlata romanza.
Parole di origine alemannica
nel patois di Gaby 3
ahcrella/ ahcrèlou, -i [aχˈkʀɛlːa]/ [aχˈkʀɛlu]
n.f./ m. straccio, panno
La forma si ritrova uguale ad Issime: chrelle, come anche a
Niel: ahcrella, -e. Potrebbe trattarsi forse di una derivazione
dal ted. Kralle/ Gralle/ Krelle, verbo krallen, derivato probabilmente da kratzen con il significato (anche nel tedesco moderno) di “graffiare, raschiare” (KLUGE). Lo stesso lessotipo
si ritrova anche nello svizz. chralle(n), da chräuwel “unghie”
(IDIOTIKON III: 807).
ardzò [arˈdzɔ]
n.m. capriccio
Stesso lessotipo di Gressoney, tratza, da una derivazione mat.
tratz, trutz, trotz, si veda anche il ted. mod. trotzig agg. “capar-
3
bio” e tretzen, trotzen “sfidare”. Il termine è conosciuto in tutta
l’area svizzera e austriaca (IDIOTIKON XIV: 1657). Utilizzato a Gaby nelle espressioni quali l’è tacoi l’ardzò, per intendere
un bambino che si lamenta.
arnetta [aʁˈnɛtːa]
n.f. polentina molle, di segale
Il termine è lo stesso tra Gaby e Niel, e anche a Issime e Gressoney, dove troviamo rispettivamente hannetu, hannetò. Sembra essere riconducibile anticamente ad un germ. *ahaz da ie.
*akos con il significato “paglia, grano”, con l’aggiunta poi nel
walser del suff. diminutivo -etu/-etò, e a Niel e Gaby -etta.
artsèffa, artsaffi [arˈtsɛfːa], [arˈtsafːi]
n.f. pigna del pino cimbro (cirmolo)
Il lessotipo è lo stesso di Issime oarzapf/ oarfaz e Gressoney
oarbòzaf, e anche di Niel artsaffe. Ci troviamo in tutti i casi
probabilmente di fronte ad un composto del tipo “pigna del
pino”. Il primo termine è da confrontarsi con *arua “pinus
cembra” poi arbe, arve e il suo diminutivo *arulla, da cui deriva probabilmente anche l’indicazione per la pigna stessa. Il lessotipo è conosciuto oggi generalmente nello svizzero tedesco
(arve), ma anche in Romanìa (arvele) (FEW I: 150) e in area
romanza (in Francia arole, arve, anche se è più comune il termine pin cembro). La testa del composto sembra invece derivare dal ted. Zapfen “pigna”, aat. zapfo, mat. Zapfe (KLUGE).
Si veda lo svizz. Arvenzapfen o anche Ar-zapfen (IDIOTIKON
I: 421), “pigna del cimbro”.
balcòn [balkˈɔŋ̃ ]
n.m. persiana
A Gressoney balke, Issime balkunh. Da afranc. *balke “trave”
aat. palcho, balko (DWB I: 1089), mat. balke (MHW I: 79),
ted. Balken; il termine è penetrato anche in ambito romanzo ma
con il significato di “balcone, terrazzo”; col valore di “persiana” è dunque da considerarsi prestito dall’alemannico .
berquia, -i [ˈbɛʁkja]
n.f. tronco di legno
Si tratta più precisamente di un segmento cilindrico di una porzione di tronco, tagliato in verticale, lungo 60 cm ca. È una
parola di origine alemannica entrata in uso anche nella lingua
francese, con diversi significati (tra cui “rompere”); si fa risalire al mat. brechen da cui poi è passato tramite afr. breka in area
romanza (FEW XV/I: 261-262). Anche a Niel il termine noto è
berquia, -e, così come a Issime beertju.
bitsi [ˈbɪtsi]
agg. poco (Niel)
Usato nella locuzione eun bitsi “un poco” principalmente a
Niel, (Issime an bitz, Gressoney es bétzié; dal ted. Bisschen,
lett. dim. di “morso”). A Gaby, anche se ricordato, è ormai soppiantato dal romanzo eun póc.
Le forme issimesi e gressonare citate sono tratte dai dizionari D’Eischemtöitschu. Vocabolario italiano-issimese, Aosta: Musumeci; Greschòneytitsch. Vocabolario italiano-titsch, Aosta: Musumeci. Le forme francoprovenzali dei comuni limitrofi da Lo Gnalèi = Sportello Linguistico
della Regione Valle d’Aosta, Glossario [nella versione on line: http://www.patoisvda.org/pa/index.cfm/moteur-de-retsertse.html]
— 29 —
A U G U S T A
Gaby (foto R. Alessandrini)
Gaby (foto R. Alessandrini)
blis [ˈblisː]
n.m. grosso masso
La derivazione non è chiara, forse legato ad un germ. *blada,
mat. blat con il significato di “foglia, foglio” (ted. mod. Blatt)
da una rad. *bʰel, da cui blühen e blähen con i significati di
“soffiare” (KLUGE 128-129). La base germanica non ha un significato chiaro: dovrebbe rimandare a qualcosa di leggero, ma
a tale significato si affianca anche un senso di spessore, grossezza (si veda blass, FEW XV/I: 151), per cui a Gaby l’agg.
potrebbe aver finito per indicare un oggetto pesante sul punto
di cadere e rotolare via. Si dice per es. l’en gros blis riferendosi
ad un enorme pietra di quelle che si spostavano per le frane
di alta montagna. Ad Issime troviamo forse riconducibili alla
medesima base il termine bloatru “frana” (mat. blātere, sempre
derivante da blähen), bloas “soffio”, bloasen “soffiare”; anche
a Gressoney bloase “soffiare”.
zen, bleckezzen, poi blecken con il significato di “lampeggiare”
(KLUGE).
botziou/ botsiou [ˈbotsju]
v. lampeggiare, balenare di lampi, minacciare di piovere (tempo incerto)
Conosciuta solo la forma all’infinito (usata per lo più come
sostantivo) botziou o l’impersonale el botsia. Dello stesso lessotipo, a Gressoney blétzkò e blétz “fulmine”, Issime blljitzkun,
da cui il sost. blljitzku. Deriva da un mat. bliczen, aat. bleckaz-
brentou [ˈbʀɛñ tu]
v. bruciare
A Gaby il termine si usa in particolare per indicare una minestra (o una pietanza) che cuoce troppo e si attacca sul fondo
della pentola: es. y è eun poc de brentou. cioè “c’è del bruciato”, usato con valore di sostantivo. Da confrontarsi ad Issime
con il verbo intr. brentun, brentut “bruciacchiare di cibi” e a
Gressoney con (an)bräntò, (an)bräntòt, ted. mod. brennen.
brettou [ˈbʀɛtːu]
v. impunturare le suole delle pantofole
Verbo specifico utilizzato per la fabbricazione dei zoc o sock
(sokha, in töitschu). A Gaby rimane il prestito tedesco brettou con terminazione verbale specifica, ma viene riconosciuto
anche l’adattamento fprv. brettòr (come a Niel, bréttoar). A
Issime bretten, Gressoney brätte o brätten.
breusma [ˈbʀøsma]
n.f. briciola
Il lessotipo si ritrova ugualmente a Gressoney e Issime, dove
abbiamo rispettivamente bròsmò e brüasmu (ted. mod. Bro-
— 30 —
A U G U S T A
same). Il termine oggi a Gaby risulta essere ormai poco conosciuto poiché al suo posto è penetrato il romanzo friseilla.
brom/ bromi [ˈbʀom]/ [ˈbʀomi]
n.m. strato o spessore di aghi di pino sul terreno
Il termine non è di chiara derivazione, potrebbe trattarsi di un
prestito dal linguaggio botanico bromus secalinus (dal gr. bromos) come “avena” o “erbaccia”, tuttavia il significato non è
del tutto accomunabile al cosiddetto “bromo dei prati”, poiché
non si tratta di un erba/graminacea ma di un vero e proprio
strato di aghi di pino secchi che ricopre il terreno come una
coperta. Si ritrova uguale a Issime e Gressoney bromm.
Da confrontarsi con lo svizz. bārm, parola dai molteplici significati tra cui “ciglio, bordo (di superfici piane, di oggetti)
ruvido, cima” ma anche “pelliccia, copertura”, e più precisamente brāme(n) “gemme, boccioli di fiori e piante da frutto” o
“rami” degli stessi, raccolti o caduti per cause naturali (vento,
tempesta ecc) (IDIOTIKON V: 597-602; 607).
brorquiqui/ brorquii/ brorquiti
[ˈbʀoʁkiki]/ [ˈbʀoʁkiː]/ [ˈbʀoʁkiti]
n.m. zuppa di pane e latte; polenta e latticini (a pezzetti)
Detta lou brorquii o brorquiqui (dim.) e a volte anche lou
brourcor (nominalizzazione del verbo): si trattava di una polenta o zuppa a base di pane raffermo, latte e spesso anche brodo e formaggi, un piatto povero composto da diversi avanzi di
cibo (il termine a volte è usato per riferirsi anche alla scodella
dove veniva mangiata tale pietanza). Stesso lessotipo anche ad
Issime brochetu e il suo dim. brochitji. Prestito dal tedesco,
con i significati di “sbollentare, fare in brodo, cuocere” (mat.
brüejen), ma anche e soprattutto da mat. brocken/ bröckeln,
“spezzettare pane od altro e gettarlo nella zuppa” (da cui anche
ted. in Brocken zerfallen) (KLUGE 151).
brourcòr [bʀuʁˈkɔʁ]
v. mangiare polenta e latticini
byir/ bîr [ˈbjiʁ]/ [ˈbiːʁ]
n.m. contenitore per il bucato (la biò)
Il termine byir deriva dallo svizz. con il significato di “secchio
per l’acqua del bucato”, “contenitore/ cesto in legno”, “cucchiaio in legno per togliere il formaggio dalla caldaia” (FEW
XV/I: 93; IDIOTIKON IV, 1454). A Gaby era usato come cesto dove mettere in ammollo vestiti e lenzuola sporchi, insieme
alla cenere (come la guepsa).
cegou/ kegou [ˈkɛgu]
v. cacare, defecare
Dal lat. cacare. Da una base romanza, presenta terminazione
verbale walser in -ou.
choousi/ crouzi [ˈʃuːsi]/ [kruzi]
n.m. boccale di vetro, con coperchio
Ritroviamo lo stesso lessotipo sia a Gressoney che a Issime. Si
tratta forse di una derivazione dal ted. Krug “osteria” ma anche
“recipiente, vaso, boccale”, mat. kruoc aat. kruog (KLUGE
542): chrusò a Gressoney, Issime chlousi. Sempre dalla stessa
derivazione, a Gaby troviamo anche un’altra variante crouzi
(più vicina forse al gressonaro), mentre a Niel hoousie.
cus [ˈkys]
n.f. bufera di neve, tormenta
Termine diffuso nello svizzero tedesco, deverbale da chösle(n).
Tra i significati originari ritroviamo l’uso impers. del tempo
“piovere e nevicare al tempo stesso” (IDIOTIKON III: 525).
A Gressoney kòcks, e Issime küsch. A Gaby si intende più che
altro un vento molto forte che può trasportare la neve (detta in
questo caso cuséira “neve trasportata” der. di cus).
egrou [ˈegʀu]
v. sforzare, es. un meccanismo (intr.); trovare difficile (fig.).
Usato all’infinito o sostantivizzato, per es. l’è egrou “è duro,
difficile”. È probabile che il termine sia collegato con la sfera
semantica della “forza”. Ad Issime troviamo dello stesso lessotipo eggurun, keggurut “tribolare, affaticarsi“.
foulquie [ˈfulkjɛ]
n.m. cuscinetto per gli spilli (Niel)
Nonostante a Gaby il tipo lessicale predominante sia il romanzo cusseun (cussunet de lli euylli), a Niel è ancora attestato
foulquie, tipo tedesco che ritroviamo a Gressoney fólch e Issime fulk.
gan [ˈgɑ̃ŋ]
n.m. entrata della stalla
Pare che il termine si conosca ancora sia a Gaby che a Niel.
Risale probabilmente ad un mat gān poi anche gēn, aat. gān
– gām in ted. moderno Gang, connesso con il verbo gehen “andare” (IDIOTIKON II: 1-7).
golda [ˈgɔlda]
n.f. giglio selvatico, giglio di San Giovanni
Il tipo tedesco è gold, da un germ. *gulþa- “oro” (KLUGE). Il
significato nel termine gabese è da collegarsi con il colore del
fiore stesso, un giallo-arancio punteggiato di sfumature nere.
Si ritrova lo stesso lessotipo a Issime goldu e Gressoney nei
composti goldbliemò o goldmejò.
grobou [ˈgʀo̯bu]
n.m. canale di scolo per la raccolta del letame nelle stalle
Ritroviamo lo stesso lessotipo a Issime e Gressoney groabe, e
a Niel groabo. La derivazione: da mat. gruobe aat. gruoba, da
un germ. *grōbō “fossato, miniera, cava” e da *grab-a da cui
deriva poi anche il verbo graben “scavare” e il ted. mod. Grab
“tomba” (KLUGE).
gouteraife/ goutereifa [gutəˈʁajfə]/ [gutəˈʁɛjfa]
n.f. croco, zafferano alpino
Il nome è tedesco, anche se la derivazione poco chiara. A Issime
e Gressoney troviamo rispettivamente rutturoeif e ruetòreif. Sia
nei comuni walser che a Gaby si tratta di un composto la cui
testa raife/reifa potrebbe forse derivare dal ted. reif, mat. rīf(e),
a sua volta da un germ. *reipja con il significato di “maturo”. A
Gaby il termine che accompagna (goute) potrebbe essere forse
collegato al ted. gut “buono”, definendo dunque il fiore come
“ben maturo” (KLUGE), “sbocciato”; stesso ragionamento anche a Niel dove si riscontra lo stesso tipo goutéraife. Non si
spiega inoltre se Gaby e Niel presentino una differenziazione
autonoma nel lemma rispetto ai due composti walser (alquanto
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A U G U S T A
difficile, soprattutto considerando che il composto rimane alemannico in ogni caso) o una mutazione consonantica da r < g
(comunque improbabile) avvenuta nel passaggio dai walser ai
comuni vicini fprv. o in tempi più remoti.
grigou [ˈgʀigu]
v. bisticciare; darsi da fare per il proprio tornaconto
A Issime chrigen e Gressoney chriege, con i significati di
“combattere, battagliare, contendersi qualcosa”. Per la derivazione si veda il ted. kriegen e lo svizz. chriege(n) (FEW XVI:
387; IDIOTIKON III: 797).
guepsa [ˈgɛpsa]
n.f. tinozza
Il lessotipo si ritrova uguale nei comuni walser ossolani ma
con il significato di “conca per il latte”. Il termine deriva
dall’aat. gebiza < gebita, lat. *gabăta (REW III: 625; IDIOTIKON II: 393 Gēpse – Gepsli). A Gaby il termine guepsa
indica una “tinozza” generica, utilizzata frequentemente per il
bucato insieme a lou byir. La parola è presente anche a Issime
gébsu e Gressoney gebsò, con i significati però di “tinozza,
mastello”.
gugui [ˈgygi]
n.m. insetto, lucciola; piccola luce
Parola di origine alemannica, mat. Gueg (goug) = Gachel, Gackel, Baumwanze = Gauch con il significato di “cimice, insetto” (IDIOTIKON II: 161). A Gressoney troviamo guege la
“coccinella” e così pure ad Issime gügi “insetto, coccinella”.
A Gaby il termine è generalmente riconosciuto come “lucciola”, e per questo motivo il termine stesso veniva usato anche
per riferirsi ad una “luce” piccola e fioca.
hippou [ˈhipːu]
v. rubare
A Gressoney e Issime prevalgono altri lessotipi tedeschi, rispettivamente hludrò, stäle, gstolet e stellen, gstolle, chrümpen.
In questo caso si tratta di un verbo legato allo svizz. kippe(n)
“rubare, portare via qualcosa di nascosto” prestito dal lat. clapere. Alla velare iniziale dello svizz. corrisponde consonante
fricativa nel dialetto di Gaby.
hotsou [ˈhotsu]
v. vomitare, buttar fuori (conato)
Lo troviamo nella forma svizz. chotze(n) con il significato di
“vomitare, essere nauseati, sputare” (IDIOTIKON III: 599). La
velare dello svizz. è passata nel dialetto walser mutandosi in
fricativa. A Gressoney con lo stesso lessotipo troviamo chotzò,
kotzòt, Issime chotzun.
holt [ˈɦolt]
n.m. scomparto in cui è divisa una cassapanca; divisore in legno
Ritroviamo lo stesso termine a Issime khoalt, con il significato
di scomparto. A Gaby, e anche a Niel hoalt, il significato è invece leggermente diverso. Si intende infatti una tavola di legno
usata come divisore in una cassapanca.
hòrbeta/ horbètta [ˈɦɔʁbeta]/ [ɦɔʁˈbɛtta]
n.f. quantità, carico di una gerla/ cesto
A Gressoney chòrb “gerla”, chorbetò “contenuto, unità di misura”; a Issime chorbetu (stesso significato). A Gaby la velare
iniziale è caduta ed è stata sostituita da una fricativa o un’aspirazione, hòrbeta. Il tipo lessicale deriva dallo svizz. chorbe(n):
chorbete(n), “gerla, cesto pieno” (IDIOTIKON III: 455), da
confrontarsi con il ted. Korb a sua volta dal lat. corbis (KLUGE).
hurgeilla/ hurgilla [ˈhuʁgɛʎa]/ [ˈhuʁgɪʎa]
n.f. tosse, catarro
Si tratta di un prestito dai vicini walser, dai verbi hirgele “respirare malamente, gorgogliando” (Gressoney) e hürgelljen
“tossicchiare” (Issime). Da ricondurre allo svizz. churre(n)
“brontolare” ma anche “respirare a fatica, rantolare, essere malato”, da cui il sostantivo churri “tosse, catarro”, agg. churrig
(IDIOTIKON III: 449).
lappou [ˈlapːu]
v. lappare
Si tratta di un termine dell’ag. lapian poi passato in area romanza successivamente con il significato di “mangiare rumorosamente” (FEW V: 175). Il lessotipo del verbo è perciò forse
da considerarsi romanzo, sebbene qui con terminazione walser.
È presente anche ad Issime, lappun, da cui deriva.
lèipita/ làipeta [ˈlɛjpita]/ [ˈlajpeta]
n.f. resti di cibo lasciati nel piatto, avanzo
Si tratta di un termine di derivazione incerta. Forse legato al gr.
*lobós “straccio” come ted. Lappen, ma anche al lat. lappare,
inteso “leccare, mangiare rumorosamente”, verbo onomatopeico; in ambito germanico possiamo risalire alle forme mat. lappe aat. lappo/lappa, forse successivamente legate all’idea del
“ripulire con la lingua” quindi “leccare”. IDIOTIKON riporta
lo svizz. lāpe(n), dim. lāpele(n) 1) lavorare con le dita, ripulire
grossolanamente 2) lavorare lentamente, mangiare senza appetito, non riuscire a finire il cibo per nausea; da qui, i “resti che
si tirano su con le dita”, cioè che non si mangiano, lāpete(n)
(IDIOTIKON III: 1351). Il termine è lo stesso di Issime e Gressoney (rispettivamente leipetu e leiptschetò).
leirou [ˈlejʀu]
v. rubare
Si tratta di una derivazione romanza, dal lat. latro “ladro”,
aprov. laironar, mbfr. larron (FEW V: 201). La forma verbale
però è quella dei prestiti tedeschi (terminazione in -ou).
leuschta/ leuchta [ˈlœʃta]
n.f. sacca a tracolla
A Gressoney “lenzuolo” generico si dice léntuech (ted. Leintuch), e a Issime lljireche. A Gaby, il termine più diffuso è l’equivalente romanzo lou lentseul/lentsoulèt (lat. lĭnteŏlum).
Nel caso della leuchta però si tratta di un tipo di lenzuolo specifico: una sacca di tela usata esclusivamente dalle donne per
raccogliere l’erba fresca sui dirupi (un pezzo di stoffa rettangolare legata con una corda). Ad Issime si dice lljüeschetu. Il
lessotipo è lo stesso e va confrontato etimologicamente con il
Vallese lisch, liesch “piccoli ciuffi di erba selvatica che crescono su terreni acquitrinosi, erba raccolta e data da mangiare a
cavalli e pecore”. Aat. lisca, mat. liesche, poi mutato nel ted.
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A U G U S T A
Gaby, Santuario di Vouri (foto R. Alessandrini)
parlato risch. Si tratta dei cosiddetti “ciuffi di palude” (IDIOTIKON III: 1459).
mèch [ˈmɛʃ]
n.m. colica dei neonati
mèchou [ˈmɛʃu]
v. frignare, piangere; il piangere dei neonati ad ore regolari
Dallo svizz. mäschel, m. meissel, f. măschi, che indica il nome
di una malattia definita come “colica, asma” (IDIOTIKON IV:
502-503). Troviamo a Gaby sia il termine lou mèch, che il verbo mèchou. A Issime meschal, e Gressoney mäschle.
meurlou/ meuroul [ˈmœʁlu]/ [ˈməʁul]
n.m. bastone della polenta
A Gressoney pólentómeral, Issime puluntumörrul. Il lessotipo
di Gaby è lo stesso della testa dei due composti walser. Deriva probabilmente dal mat. mërn, mëren con il significato di
umrühen e mischen, “mescolare” (MHD I: 2115).
nescht [ˈneʃʈ]
n.m. covo, giaciglio
Troviamo il termine anche ad Issime e Gressoney, rispettivamente nescht, näscht (ted. Nest). Dal mat. nest aat. nest, a
sua volta da una rad. germ. *nista, ig. *nizdo da cui lat. nīdus
(KLUGE).
recou [ˈʀɛku]
v. piangere, gridare, lamento disperato (di animale)
Gressoney reeku - réekò (ted. kreischen) “urlare, gridare (di
ghiandaia)”, Issime reekun “belare”. Si tratta di un verbo che
denota il lamento di un animale. Il lessotipo potrebbe essere
confrontato con lo svizz. äken “lamentarsi, gridare” tramite
prefisso er- (IDIOTIKON I: 163), oppure con rüwe(n) “sentire, provare dolore” (IDIOTIKON VI: 1887). Usato anche con
valore di sostantivo, anche se a Gaby esiste anche réqueta, a
Issime reeketu.
richca [ˈʀiʃka]
n.f. raganella o battola, strumento in legno
Si usava durante i Tenèbri, in settimana santa, per simulare le
grida della folla di fronte a Pilato nella passione di Gesù. Il
termine potrebbe forse risalire a rasche(n) con i significati di
“rumore” (ted. Geräusch), “scrosciare, frusciare”; più verosimilmente dallo svizz. ted. ritsch “grido scrosciante, sonoro, assordante”, nelle forme ratsch, rätsch, der. ritsche(n): tra i significati che riporta IDIOTIKON (VI: 1853), proprio “raganella”.
rièp [ʀiˈɛp]
n.m. bevanda a base di vino con zucchero e latte
Si tratta di un “intruglio”, una bevanda che veniva data spesso
ai bambini come ricostituente. Quando si mungeva, si tenevano da parte le filate del latte più dense e ricche (dette la bourra), e le si mescolavano con un cucchiaio di zucchero e con
del vino. Nel lessico tedesco troviamo, vicino al nostro significato, aat. rāt “rimedio, scorta, provvista” (FEW XVI: 700).
Inoltre, l’IDIOTIKON riporta il termine Rappis – Rappis(s)er,
(der. di rapp, da un tardo mat. rappe e trappe) con il significato “vino direttamente spillato dai grappoli d’uva”, “mosto”
o ancora “bevanda ricavata dai grappoli freschi d’uva, molto
dolce” (IDIOTIKON VI: 1183), con aggiunta magari di altri
ingredienti: in questo caso, zucchero, filate del latte.
schass [ˈʃasː]
n.f. diarrea
Stesso lessotipo a Issime schéissu, da confrontarsi con i signifi-
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A U G U S T A
cati di schasse(n) “mandare, cacciare via” e scheiss “agitazione
di stomaco” (IDIOTIKON VIII: 1322-1323).
scheissou [ˈʃɛjsːu]
v. cacare, defecare
Anche a Issime e Gressoney, rispettivamente schéissen e schisse (ted. scheißen).
schènga, -gui [ˈʃɛŋga]
n.f. gamba, stinco
schéingou [ˈʃejŋgu]
v. camminare (male)
Il termine schènga potrebbe derivare da un incrocio di mat.
schin(e), rad. germ. *skinō, con il significato di “stecca” da
cui il ted. Schienbein “osso della tibia”, e una derivazione dal
ted schiegen “camminare male, zoppicando, storto” (KLUGE).
Ritroviamo lo stesso lessotipo a Issime e Gressoney, schingu
e schéngò “tibia”. Il termine generico per gamba registrato a
Gaby invece è il romanzo tchamba.
schmoltsi [ˈʃmɔltsi]
n.m.p. grasso intorno alle budella
schmoltsou [ˈʃmɔltsu]
v. pulire le budella del maiale
Il lessotipo è lo stesso di Issime e Gressoney schmoalz, ted.
schmalz “strutto, grasso della carne”; da mat. smazl, da cui poi
il v. smelzen “fondere, sciogliere” (IDIOTIKON IX: 937). Il
verbo è conosciuto sia nella forma alemannica schmòltsou (accento ritratto) che nel relativo fprv. schmaltsòr.
schop/ chop [ˈʃɔp]
n.m. boccale per la birra
Prestito dal tedesco schoppen, diffuso soprattutto nella zona
dell’Alsazia (schoppe), passato poi in uso anche in Francia con
il significato di “grande bicchiere da birra” (FEW XVII: 54). A
Gressoney schopp e Issime chopf.
schós/ schóos [ˈʃoːs]
n.m. grembo
Il termine è legato al tipo ted. Schoß, “grembo, seno, falda”,
aat. scôsz, scôszo, scôsza, mat. schôsz (KLUGE). Nei comuni
walser di Formazza, Macugnaga e Bosco Gurin viene utilizzato nel significato “grembiule”, mentre come “grembo” a Gressoney e Issime (schuass), a Niel (schouas, presente ancora il
dittongo tedesco) e infine anche a Gaby.
schoùmitti [ˈʃumitːi]
n.m.p. brossa, prodotto caseario derivato dal siero del latte
Viene ricavato insieme alla ricotta portando ad ebollizione il
siero avanzato dalla produzione del formaggio; sono le ultime
proteine del latte che affiorano in superficie durante il procedimento, sotto forma di schiuma. Il termine potrebbe derivare dal
longob. *skūm incrociato con il lat. spuma, *spumŭla, *spluma
(TRECCANI), ita. schiuma, da intendersi dunque come diminutivo “schiumetta”. Da confrontarsi anche con il ted. Schaum
“schiuma, spuma”, aat. skūm, mat. schūm, schoum (KLUGE).
A Niel schoumméte (accento non più ritratto), Issime e Gressoney schummiti.
schtega/ štega [ˈʃtɛga]
n.f. piccola scala in legno
Dall’aat. stīga mat. stige (KLUGE 879). Lo stesso lessotipo a
Gressoney stägò, e Issime steegu.
schtuba/ štuba [ˈʃtuba]
n.f. camera in legno
Il termine è noto sia a Issime (stubbu, camera dello stadel o
“soggiorno”) che a Gressoney (stòbò, “camera”), stesso tipo
del ted. Stube, parola diffusa soprattutto in area austriaca con
il significato di “luogo dove passare il tempo e stare al caldo in
inverno” (IDIOTIKON X 1173). A Gaby il termine è noto ma
non è così chiara la natura dell’oggetto. Il più delle volte dai
parlanti è stata definita schtuba una stanza foderata in legno
utilizzata generalmente per la conservazione del cibo, l’essiccazione del fieno o eventualmente anche per riporre la legna.
Un luogo asciutto, in ogni caso isolato. Altri dicono che può
trattarsi anche di una stanza (stesso tipo e utilizzo) aperta e
arieggiata, oppure al contrario di un balcone chiuso. Si può intendere con il termine anche il locale principale del tipico stadel di montagna (quindi forse per estensione, lo stadel stesso).
Nel dialetto walser di Issime con il termine stubbu si indica,
oltre ad una stanza in legno nello stadel, e a quella stanzetta
in legno sul balcone coperto nella parte anteriore degli stadel,
anche una costruzione in legno utilizzata come granaio e/o per
conservare il fieno. Ne rimane un esemplare nel villaggio di
Hubal, uno appunto all’alpeggio di Tourrison sup., qualche anziano ne ricordava uno nei pressi del villaggio di Chröiz per salire verso Ruassi. Questa accezione del significato del vocabolo
era conosciuta da pochissimi anziani. È comunque rimasto nella toponomastica Stubbu; Stubbun acher: un campetto di patate
vicino ad un piccolo rascard ora crollato, nel villaggio di Écku
nel vallone di San Grato; Stubbi per la presenza di alcuni piccoli rascard oggi scomparsi ma di cui rimangono i basamenti;
Joakisch Stubbi piccolo rascard abbattuto nel 1944 per costruirvi una baita d’alpeggio. A Gaby si usava il termine schtuba per indicare un granaio, oggi in disuso (fonte M. Musso).
ticcou [ˈtikːu]
v. litigare
Derivazione romanza (FEW XIII: 326), tra cui si veda npr. tico
“disputa”, terminazione walser. Il lessotipo non è presente a
Issime e Gressoney.
toquyi rouss [ˈtokjiˌʀusː]/ [ˈtokjiˌʀou̯sː]
n.m. diavoletto dispettoso, lett. “diavoletto rosso”
La derivazione è la stessa di tohca “bambola”, da mat. tocke. Si tratta di una “sagoma, personaggio, figura”, uno piccolo
spiritello dalle sembianze umane, un folletto. A Issime e Gressoney si chiama rispettivamente tockhji e tockié. L’aggettivo
rouss “rosso” era associato forse per il colore dei vestiti o per
le guance paonazze, arrossate, o addirittura in relazione alla
sua “cattiveria”.
tohca/ torca [ˈtoʁka]
n.f. bambola di pezza o stracci
Issime tochu e Grossoney tochò. Ci sono numerosi significati e
derivazioni legati al lessotipo svizz. Tra questi l’IDIOTIKON
(XII: 1153) riporta “figura, personaggio, bambola (giocattolo),
marionetta”; da aat. tocha, tocch(h)a, mat. tocke.
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A U G U S T A
tsalou [ˈtsalu]
v. pagare
Prestito dal tedesco (ted. Zahlen, “pagare, contare”), mat.
zal(e)n, aat. zalōn (KLUGE), troviamo a Gressoney zalò e a
Issime zallen. A Gaby usato per es. nella forma l’è tsalou? “ha
pagato?”, quasi più come un participio pass. che un infinito del
verbo.
veimou/ vaimou [ˈvɛjmu]/ [ˈvajmu]
n.m. schiuma del latte, pellicina su liquidi o semiliquidi
A Gaby si trova il termine romanzo fiourà (cfr. ita. affiorare)
per intendere appunto lo strato o pellicina che si forma in particolare sulla superficie del latte. A Niel però è riscontrato veim,
che viene ricordato ancora da alcuni gabesi nella forma veimou
(forse verbo sostantivato), del tipo ted. f-äim, presente anche a
Gressoney feim e Issime veim. Da mat. veim aat. feim “schiuma
sottile, talvolta con impurità, sui liquidi, su latte, burro, panna”
(IDIOTIKON I: 825), a sua volta da una radice *faima (KLUGE 283; PALWaM).
vouillètta [vuˈʎɛtːa]
n.f. minestrina di semolino
Era una minestrina a base di farina (di solito segale). Il termine
è lo stesso di Issime wélljutu “minestrina di farina”. Si tratta
forse di una derivazione da mat. wallen aat. wallan, collegata
a una rad. ig. *wer- “ribollire, ondeggiare”, ted. mod. wallen
(KLUGE).
vouschou [ˈvuʃu]
v. pomiciare, baciarsi, abbracciarsi
Usato per esempio nella formula gabese van vouschou “si abbracciano, vanno ad abbracciarsi”. Il lessotipo è presente anche ad Issime e Gressoney, rispettivamente vüchten, gvücht e
afiechte. Il significato delle parole in uso nel walser è un po’ diverso, “inumidire”, derivazione da mat. viuhte poi fücht “umido”, da cui il v. füechten (IDIOTIKON I: 669).
zads [ˈzads]
n.m. fondo del caffè
In uso anche a Gressoney dove troviamo sats, il termine è un
prestito dal tedesco con il significato di “fondo, deposito” di diverse sostanze: spesso del caffè, ma anche dell’olio e del vino.
Da mat. saz, probabilmente der. da setzen e sitzen. Il termine
è arrivato in parte anche nelle lingue romanze, con il significato agg. “intenso” e v. “battere, pressare” (IDIOTIKON VII:
1517 e segg; FEW XVII: 17). Si veda il piem. satì “addensare,
comprimere”, probabilmente germanismo dal ted. satt “solido,
duro”.
zic/ zîc [ˈzik]/ [ˈziːk]
n.m. burro fuso
Si tratta del burro “chiarificato”, la parte grassa del burro separata dalla componente dell’acqua e dalle proteine del latte.
Il lessotipo è lo stesso di Gressoney gség “residuo del burro
fuso”, e Issime gsig “fondo del burro fuso” e anche “fondo del
caffè” (termine riportato anche da Zürrer come gsig).
zoc/ sock [ˈzok]
n.m. pantofole in stoffa
Il lessotipo è lo stesso di Issime sokh, sokha e Gressoney sock,
socka; si tratta di un lessotipo romanzo (lat. sŏccus) presente
anche in ambito tedesco: mat. soc(ke) passato dal genere maschile al femminile odierno (KLUGE). In questo caso è abbastanza probabile che il termine usato a Gaby sia di origine
walser, soprattutto perché la fricativa iniziale è sorda (come in
walser e nelle lingue germaniche) e non sonora come in quelle
romanze, ma anche perché si tratta di una pratica artigianale di
tradizione walser.
Bibliografia
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Teubner/ Helbing & Lichtenhahn/ Zbinden (1922-2002)
[anche nella versione on line: https://apps.atilf.fr/lecteurFEW/index.php/page/view].
-Idiotikon = Schweizerisches Idiotikon. Wörterbuch der
schweizerdeutschen Sprache, Frauenfeld: Huber (18812012) [nella versione on line: https://idiotikon.ch/].
- Kluge = Kluge, Friedrich (201125 [1881]), Etymologisches
Wörterbuch der deutschen Sprache, 25. Auflage, Berlin: de
Gruyter.
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A U G U S T A
25 mérze 1945, d’varbrantun
ketschi im Tschachtelljer
Le case bruciate del Tschachtelljer
Vittoria Busso Lixandrisch
I
scht gsinh le 24 mars ’45 (le
vingt-quatre mars quarante cinq),
un sén arrivurut di töitschini z’Éischeme un a schupputu manna sén
askappurut un sén dŝchi kannhen
khoalten ouf im Tschachtelljer. Déi manna sén
gsinh z’Nottrisch Luéi, z’Nottrisch Benjamin,
Stoffultsch Guido, Stoffultsch Aldo, Chrischtellje
Giuseppe, un Sansì1, un ischt gsinh auch Gioanin
dla Mongiovetta das ischt gsinh a chnecht van
Giuseppe. Un du das sén arrivurut di töitschini
in d’Piatzu hentsch dŝchi gleit doa un hentsch
glugut mit dam velspigal allu d’beerga das sén
gsinh héi ouf. Un ouf im Tschachtelljer, malheureusement, hentsch gsian eis doa z’vuadruscht
dan krüp, woa ischt da wéissen pillunh, un darnoa séntsch parturut un séntsch kannhen um
goan im Tschachtelljer wa hentsch gvielt da weg,
L’unica casa del Tschachtelljer rimasta miracolosamenta intatta
invece goan im Tschachtelljer séntsch kannhen
(foto Sara Ronco)
im Hubal. Wa wénn sén gsinh ouf halbe weg van
im Hubal hentsch gvoan a a schisse, un hentsch
gschossen vider am Tschachtelljer. Un té sua déi doa sén ellun Güstinhsch Joseph2, un ündŝcha, wa ündŝcha ischt gsinh
ji askappurut dür tur da woald vider Pischu. Dan tag drouf
as söiri wéitur, un déja va Jüliji auch ischt gsinh as söiri wéiséntsch kannhen amouf un hentsch amum kiat da weg van
tur van diŝchene. Séin kannhe ouf vür d’Winnacht mit da chüim Hubal un hentsch gvunnen da weg das ischt kannhen in
ne. Zu hentsch varbrént allu diŝch ketschi, un den tag méin
d’Walkhu. Van in d’Walkhu hentsch treversurut alli da woald
mamma van za Rollju ischt kannhe ambri im Gran Proa. Un
un séntsch gcheen im Tschachtelljer. D’manna sén ellji askapz’Endrusteg hetsch ampieeme dar énkra don Vesan, un hetsch
purut un darnoa dür tur d’nacht séntsch gcheen amum zam
mu gseit “Vous voiez Monsieur le Curé comme le Tschachtellhous, un té zu da Mundŝchuvetter, doa as wier dür vider Pijer brȗle”, un don Vesan het ra antcheede “Et bien Angeline
schu hemmu keen a chuarb um muan arrivurun das nöit hetti
priez, priez, si vous avez la foi votre maison ne brȗlera pas”
keen im aug dan andre, het mu keen a chuarb in d’aksli un
un d’ketschu ischt blljibben noch! Però sén gsinh zwei troali,
is arrivurut im Duarf z’Éischeme. Un zu hentsch gvoan a an
das hen aschuan kheen griffe, das ischt gsinh dra d’broasu un
geen vöir un doa ischt gsinh a schupputu ketschi, van a schuphen dŝchi arlljöscht.
putu lljöit ellji van Éischeme, ischt gsinh Chrischtillje Jüliji
Ich don Vesan hen nji gremmursiurut gnug, wa zar Heilugu
‘Pellisier Jüliji’, Gotta Clotildi z’Loeisch, z’Loeisch Éméléji,
troanumu génh a chérzu un as bett vom grab.
Giovanni Busso Héntsche.
Joseph-Jacques-Louis Busso Güstinhsch detto z’Lennha “della Lunga” (1890-1963) sposa Stella Yon di Eugène e di Louise Stévenin di Gaby
> figli: Mario Busso Güstinhsch ; Agostino Busso Güstinhsch > Beppe e Sandra Busso. Güstinhsch Joseph era figlio di Augustin Busso
(1848-1919) e di Anna-Marie-Fidèle Linty (1857-1931) z’Loeisch Méji detta d’Lennha “la Lunga”. La proprietà del Tschachtelljer gli proveniva da quest’ultima z’Loeisch Méji. Erano tre sorelle figlie di Louis Linty z’Avukatsch (1822-1904) e di Christine-Marie Linty (1832-1895),
discendenti di Jean-Pantaleon Linty ultimo giudice della Valle del Lys, Anna-Marie-Fidèle Linty z’Loeisch (1857-1931), Clotilde-Arcadie
Linty z’Loeisch (1862-1951) che sposò Joseph-Jean Stévenin (Fiskaltsch in origine Dummene) dai quali nacquero dieci figli, sette maschi e tre
femmine, e Emilie-Louise Linty z’Loeisch (1864-1935) z’Loeisch Emeleji, che ebbe due figli naturali, Clotilde-Reine Linty z’Loeisch (18881936) inferma mentale e Louis Linty detto ‘dar Loeis’ (*1900†?).
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Le case del Tschachtelljer in una cartolina dell’inizio degli anni ’30 del ‘900. In primo piano Emilie-Louise Linty (18641935) z’Loeisch Éméléji, dietro la figlia Clotilde-Reine Linty z’Loeisch (1888-1936)
Era il 24 marzo ’45, arrivarono i tedeschi ad Issime e molti uomini scapparono e andarono a nascondersi su a Tschachtelljer.
Quegli uomini erano Luigi Linty, Beniamino Linty, Guido
Consol, Aldo Consol, Giuseppe Christille e Giovanni Busso,
c’era anche Giovanni di Montjovet, che era un aiutante di Giuseppe. Quando arrivarono i tedeschi in Piazza si misero a guardare con il binocolo la montagna e i mayen che sono qui sopra.
E su a Tschachtelljer, purtroppo, hanno visto un uomo sul ciglio del burrone, dove c’è il pilone bianco, e dopo partirono per
andare a Tschachtelljer ma sbagliarono percorso, invece di andare a Tschachtelljer andarono a Hubal. Quando furono a metà
strada su per Hubal cominciarono a sparare, e spararono verso
Tschachtelljer. Così quegli uomini scapparono tutti nel bosco
verso Fontainemore. Il giorno dopo i tedeschi tornarono su e di
nuovo presero il sentiero per Hubal e trovarono il sentiero che
porta a Walkhu. Da Walkhu attraversarono tutto il bosco e arrivarono a Tschachtelljer. Gli uomini che erano scappati durante
la notte tornarono a casa e a quello di Montjovet qualcuno di
Fontainemore diede una gerla per poter rientrare senza dare
nell’occhio, gli diede una gerla in spalle e arrivò in Piazza a
Issime. Poi i tedeschi cominciarono a dare fuoco e lì c’erano
parecchie case, di tanta gente di Issime, c’erano Giulia Christille, la signora Clotilde Linty, Emilia Linty e Giuseppe Busso e la nostra, ma la nostra era un po’ distanziata e quella di
Giulia anche era un po’ lontana da queste. Andavano su prima
di Natale con le mucche. Quindi i tedeschi bruciarono tutte
queste case e quel giorno mia mamma3 da Rollie andò giù a
Grand Pra4, E oltre il ponte incontrò il parroco don Vesan e
gli disse “Vedete signor parroco come brucia Tschachtelljer”
e don Vesan le rispose “Allora Angelina pregate, pregate, se
avrete fede la vostra casa non brucerà” e la casa rimase integra! Però due travi avevano già preso fuoco, c’era tutta la
brace intorno ma si spensero.
Don Vesan non lo ringrazierò mai abbastanza, ma per i Santi
mi reco sempre sulla sua tomba per portare una candela e dire
una preghiera.
Angeline-Marie Christille Pöizersch (1895-1964) sposa Henry Busso Lixandrisch. Era figlia di Marie-Christine-Bernardine Busso - Schützersch
Téini (1862-1920) e di Joseph-Jacques-Pantaleon Christille Pöizersch (1867-1910).
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La famiglia si spostava durante il corso dell’anno fra l’abitazione di Rollie (edificata nel 1863 come indicato sulla trave di colmo) che proveniva dai Busso Schützersch, fra quella di Grand Pra che proveniva dai Consol Dŝchantinhsch, ed i mayen del Tschachtelljer e di Valbona,
quest’ultimo era in affitto.
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L
a casa del Tschachtelljer rimasta miracolosamente
intatta apparteneva alla famiglia Busso Schützersch
originaria del villaggio di Rollie inferiore, una trave
del tetto reca incisa la data del 1794 con il simbolo religioso
IHS, un’altra le iniziali JJB Jean-Jacques Busso, un’altra PB
Pierre Busso, e un’altra ancora JPB Jean-Pierre Busso. Tre
fratelli figli di Jean-Pierre Busso Schützersch (1727-1797) e
Maria Jacobea Goyet di Jean-Antoine: Jean-Jacques Busso
(1764-1842) sposa il 28 gennaio del 1800 Marie Antoinette
Consol Dŝchantinhsch (1780-1849), Pierre Busso (17711854) sposa il 28 gennaio 1800 Marie Ronco, e Jean-Pierre
Busso1 (1773-1841) divenne prete il 2 giugno 1798, fu vicario ad Issime, poi parroco a Sarre dove morì.
Jean-Jacques Busso Schützersch e Marie-Antoinette Consol
Dŝchantinhsch, figlia di Jean-Jacques e di Marie-Antoinette
Freppa di Issime-Saint-Michel (Gaby), ebbero cinque figli, tre femmine2 e due maschi, Jean-Pierre (1812-1882)
Schützersch Piru, e Jean-Jacques (1814-1891) Schützersch
Dŝchan Dŝchoaku. Il primo erediterà la casa avita dei Busso
Schützersch (oggi Consol) a Rollie inferiore dagli zii Pierre
e Jean-Pierre prete, un’antica dimora ricostruita nel 1825,
una abitazione a Rickurt superiore (oggi Consol), e costruì
una nuova abitazione a Pioani, portata via dall’alluvione
del 1948. Il secondo erediterà la casa della madre a Grand
Pra3, il mayen del Tschachtelljer, un alpeggio nel Vallone
di Tourrison (Tourrison superiore, Lei Kier e Krecht), e nel
1863 costruirà una nuova abitazione di fronte a quella della
famiglia a Rollie inferiore.
Marie-Antoinette Consol Dŝchantinhsch aveva una sorella
Marie-Christine (1785-1831) che sposò il 12 giugno 1804
Christophle Consol (1781-1859) il capostipite degli attuali Consol Stoffultsch e Stoffeltisch. Le due sorelle, soprannominate Dŝchantinhsch érpi (ereditiere) uniche eredi del
patrimonio di famiglia, portarono in dote ciascuna metà
dell’alpeggio di Tourrison costituito dalle alpi di Tourrison
superiore, Lei Kier e Krecht. Marie-Antoinette Consol portò
in dote anche la casa del Grand Pra che come abbiamo visto
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ereditò il figlio Jean-Jacques Busso (1814-1891). Quest’ultimo vendette nel 1877 la metà dell’alpeggio proveniente
dal patrimonio materno al cugino Jean-Bapstiste Consol
Stoffultsch detto ‘dar Dŝchan-Batistu’ (1821-1902) figlio di
Christophle e di Marie-Christine Consol Dŝchantinhsch che
ne possedeva l’altra metà. La tradizione riferisce che dovette vendere l’alpeggio per sposare quella che diventerà la
sua terza moglie4 Marie-Louise-Emilie Christille Pöizersch
(1842-1925) lui 62 anni, lei 34 anni, e che i vicini d’alpeggio, gli Stévenin originari di Gaby, usavano dire “Lou vill
Busso l’a vendeui la mountoagna per tchetòr na Pucchia”
il vecchio Busso ha venduto la montagna per prendere una
Pucchia (in töitschu Puttchju indica una donna della famiglia dei Pöizer in senso quasi dispregiativo). Jean-Jacques
Busso si riservò una porzione di un incolto sopra l’alpeggio
di Tourrison chiamato Schützersch schelbit, e la possibilità
di ritirare il fieno selvatico nel piccolo stadel (rascard) che
si trova all’alpeggio, ancora oggi i discendenti5 conservano
questo diritto. Da questo appezzamento potevano ritirare
una decina di trusse (balle di fieno).
La tradizione riferisce anche che le due sorelle avessero
sposato due uomini ipovedenti, e si ripete la frase come una
filastrocca “Dŝchantinhsch érpi, Dŝchantinhsch érpi hen
kiat an blljinne ma van eim” le sorelle Consol han preso un
uomo cieco ciascuna. A conferma due gli indizi, Christophle
Consol fece costruire nel 1837, come ex-voto all’alpeggio
di Tschavanellji, un piccolo oratorio, per essere scampato
ad un pericolo, l’incontro con un lupo, ad avvisarlo del
pericolo imminente fu il suo piccolo cane che si nascose
fra le sue gambe, è probabile infatti che la sua vista fosse
debole. L’altro indizio è che le discendenti di Jean-Jacques
Busso, le sorelle Busso Lixandrisch, Vittoria, Laura e Giulia
conservano a Grand Pra, nella casa di Jean-Jacques Busso
che fu dei Consol Dŝchantinhsch, un’antica statuetta in
legno dorato di Santa Lucia protettrice della vista6.
Michele Musso
Bussoz Jean Pierre de Jean Pierre de Jean Jacques, né à Issime S. Jacques 10 Novembre 1773, pretre 2 Juin 1798, Vicaire à Rhemes
Saint George 1798-1800, Issime Saint Jacques 1800-1801, Saint Barthelemi 1801, Fontainemore 1805-1808, La Thuile 1808-1809,
économe à La Thuile 28.07 1809, curé à La Thuile 14.12 1809-19.08 1820, Sarre 31.01 1821-41 mort à Sarre 25.07 1841. Tratto da:
Pierre-Etienne Duc, Le Clergé d’Aoste au XVIII siècle, Turin Imprimerie salésienne 1881.
Maria Antonia Delfina (1801-1866), Maria Jacobea Josephina (1803), e Maria Joanna Albina (1809)
Nel volume “Année de grȃce 1915” (pubblicato dall’associazione Augusta nel 2015) a pag.163 si dice che Jean-Jacques Busso
(1814-1891) ‘con il secondo matrimonio erediterà la casa a Grand Pra’, nuove indagini invece ci dicono che la casa apparteneva alla
madre Marie-Antoinette Consol Dŝchantinhsch.
In prime nozze Jean-Jacques Busso (1814-1891) sposò il 24 novembre 1846 Marie-Antoinette-Victoire Christille Pöizersch, dalla
quale ebbe una figlia Marie-Antoinette-Victoire che morirà nel 1880 a 31 anni, si dice impazzita; in seconde nozze sposerà il 13
aprile 1852 Marie-Antoinette Ronco Pétéretsch (1819-1862), figlia di Jean-Pantaleon Ronco (1786-1861) e di Marie-Jeanne Consol
del villaggio di Grand Pra, la quale morì di parto il 2 luglio 1862, figli: Jacques Busso (1855-?) e Marie Christine Bernardine Busso - Schützersch Téini (nata il 30 giugno 1862 † 1920, morta per malattia di cuore). Quest’ultima sposa Joseph-Jacques-Pantaleon
Christille Pöizersch (1867-1910, ucciso ad Annecy, lavorava in un cantiere) dai quali nascerà Angeline-Marie Christille (1895-1964)
la protagonista del racconto, madre di Vittoria Busso. Jean-Jacques Busso sposerà la terza moglie civilmemente il 22 aprile 1877.
Le sorelle Busso Lixandrisch, Vittoria, Laura e Giulia
I racconti della tradizione orale riportati nel testo, raccolti da Michele Musso, sono tratti da interviste con Albertina Fresc (19051991), Filippo Consol Stoffultsch (1908-1993), Laura e Vittoria Busso Lixandrisch.
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Im Léjunh – A Lion
Imelda Ronco Hantsch
z’russmandji het toan z’glljöisch
z’streckhun um goan ouf tur
z’chömmi, d’gotta het pruavut
z’is stuasse un “Puvì pas sü?”
hetsch mu gvriegit, un is “Gotta
Maréji, piénni di mi nöit?” D’gotta Maréji het kiet an gruass lounu un het mu gseit alltsch, heen
allz antrénkurut un z’chömmi
sinh blljibbe wi z’ischt gsinh, wa
auch um dŝchi heen gloan sua argoeikhjen!
D
’gotta Téini ischt gsinh d’éltra ar gruass fammullju un dé d’junhun brudara hen geeren dŝcha
toan z’aschturne. Méin mamma, das ischt gsinh
junhfarwa z’Stoffultsch, het mer zéllt das an tag
im Léjunh gotta Téini het kheen Skine Maréji
z’toawan, noa dam ümmis di zwienu sén kannhen a mumanh
röschten, darwil di zwian boffi sén gsinh z’machun süni béi
z’gmach un hentsch areit a hoptschul. Dé eis jit “Goan ne
lécken in d’kaffutiuru, wénn d’fümmili arwache machuntsch
z’kaffi, sua lugewer wi z’gannhi”. Wénn Téini ischt arwachit
hets gleit z’wasser in d’kaffutiuru un hets gsian zannen as
hopt, dé het allz gloa valle nidder un rawiti u wickiti, bürt tor
a vuss un tor dan andre allz aspalmuruts … Di zwei sén gsinh
ousna z’lache wi tockhjini, darnoa hentsch gvriegit Maréji was
is heji gmüssurut gsian Téini tun sua leid, un dŝchöi “Ich hen
dénght Téini wieri gchee sturrenz!”
Süscht wénn dŝchi sén ra kannhe helfe mischtun, mit dar beeru
z’vir stolli, um bürren d’beerutu mischt Téini ischt kannhen
va vuarna un dar hilf het dŝchi gchiert hinnersich, sua eis het
zuahe von a séitu un z’andra von d’andra un dé … rawiti un
schümpfiti.
D’junhu tün geere spottu
Z’Amisch im iesten oaberllje as junhs mandji ischt kannhen
zar gotta Maréji allz disgissuruts, dŝchi toan z’passru vür as
russmandji, ra vriege ol dŝchi hetti wéllje russun z’chömmi un
diŝcha alli d’ackuart ischt kannhe süjen a leitru, kwénkt d’hüeli, z’brannéise un allz was ischt gsinh von d’heerblattu. Wa
La signora Cristina era la maggiore di una numerosa famiglia e
i fratelli giovani le facevano volentieri degli scherzi. Mia mamma, che era a servizio dei Consol,
mi ha raccontato che un giorno
a Lion la signora Cristina aveva
pure la signora Maria Squindo a
giornata, dopo pranzo le due andarono un momento a riposare mentre i ragazzi erano intenti a
ripulire i due ruscelli vicino alla casa e presero una rana. Allora
uno disse “Andiamo a metterla nella caffettiera, quando le donne si svegliano fanno il caffè, così vediamo come va a finire”.
Quando Cristina si svegliò mise l’acqua nella caffettiera e vide
spuntare una testa, fece cadere tutto in terra urlando e strillando
e sollevando ora una gamba ora l’altra, in preda allo spavento
e i due ragazzi fuori se la ridevano; dopo chiesero alla signora
Maria cosa avesse pensato vedendo Cristina così scossa e lei
“Io pensavo fosse diventata matta!”
Altre volte, quando la aiutavano a ripulire la stalla, con la carriola da portare in due; per sollevare il carico di letame Cristina
si metteva davanti e l’aiutante si voltava nella direzione opposta, così uno tirava in avanti e l’altro indietro e allora … urla e
sgridate da parte di Cristina.
I giovani scherzano volentieri
A Plane nella casa dei Consol il primo di aprile un giovanotto si recò dalla signora Maria, tutto mascherato si spacciò per
spazzacamino e le chiese se volesse pulire il camino e lei, d’accordo, andò a cercare una scala, tolse dal focolare la catena, il
treppiede e tutto quello che c’era. Ma lo spazzacamino fece finta di avere difficoltà a salire su per la canna fumaria, lei provò
a spingerlo dicendogli “Puvì pas sü?” (Non riuscite a salire?) e
lui “Signora Maria, non mi riconoscete?” La signora si arrabbiò
moltissimo e gliene disse di tutti i colori, la scocciava il fatto
di aver preparato tutto e concluso niente e soprattutto di essersi
lasciata ingannare!
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Cappella della S.S. Vergine
della Neve a Agren – Oagre
Elide Squindo
L
a cappella di Oagre fu fondata dal sacerdote Johann Joseph Curtaz nel 1776. Johann Joseph
Curtaz apparteneva al ramo dei Curtaz detti del
Capoluogo-Prédelais, nacque a Gressoney-SaintJean nel 1725, figlio di Johann Jacob e Kattrine
Knobal. Fu parroco di Issime dal 1771 fino alla fine del 1784,
anno della sua morte.
I due rami della famiglia Curtaz, uno di Castell-Chemonal, e
l’altro del Capoluogo-Prédelais (Predeloasch), hanno come
capostipite Jean-Angelin Curta, notaio di Castell, vissuto a cavallo del XVI-XVII secolo. La casa avita della famiglia Curtaz
si trova nel villaggio di obrò Chastall (Castell sup.). L’edificio
fu costruito lungo la mulattiera che risaliva la Valle, e si trova di fronte alla cappella privata fondata nel 1670 da Angelin
Curta notaio, dedicata a Nostra Signora delle Grazie e a San
Giovanni Battista. La casa aveva, sul lato della mulattiera, uno
sporto del tetto molto ampio che fungeva da riparo per i viandanti, è infatti conosciuta col nome di ‘De vorschäre’. Sotto il portico e su una trave di sostegno dello stadel era incisa
la scritta, ora nascosta dalle modifiche apportate all’edificio,
“Halt dich wohl und leb mit Eren, vertrau allein Gott deinen
Herr” Vivi bene e con onore, confida solo in Dio tuo Signore,
e la data 1580.
La cappella di Agren è situata nel cantone di Staffal a Gressoney-La-Trinité, alla distanza di più di otto Km dalla chiesa. Questa cappella ordinariamente e volgarmente è chiamata
“Gnaden Brunnen”, fontana delle grazie dal nome di una fontana che scorre a fianco. La sua fondazione e dotazione è dovuta al Rev. Johann Joseph CURTAZ parroco d’Issime dall’atto
dell’11 luglio 1776 Giov. Gius. CURTAZ notaio. Il mantenimento della cappella è a carico dei consorzisti. Una leggenda
racconta che l’11 febbraio 1701 la madre del pio fondatore,
Kattrine Knobal, essendosi avvicinata alla fontana di Agren
che era coperta di ghiaccio, vide come dipinta nel ghiaccio una
bellissima immagine della B. V. Maria che teneva nelle sue
braccia il suo Divin Bambino sotto svariati, vivi e bellissimi
colori. Questa visione durò circa un’ora, dopo la quale questa
donna virtuosa credente in Dio raccontò tutta bagnata di lagrime al suo parroco dettagliatamente il fatto come lo si trovò
scritto nelle note del Rev. Johan Peter Schwarz parroco della
Trinité e che è del testo seguente: “1701, die 11 februarii, venit
ad me Catharina Knobal uxor I. Jakobi Curtaz filii Petri, mulier
1
optima et timens Deum, quae lacrimis perfusa mihi dixit se
accessisse ad fontem Agrensem glacie tectum et in glacie quasi depictam pulcherrime imaginem B. Virginis Marie tenentis
infantem in brachiis, vivis et pulcherrimis coloribus in parva
figura coloratam. Hanc gratiosam B. Virginis imaginem circiter per horam in glacie perseverasse dixit.”
Non è da escludersi che il Rev. J.J. Curtaz credendo alla verità
del racconto di sua madre abbia voluto fondare questa cappella
in memoria della grazia che aveva ricevuto1.
La Cappella di Oagre è diventata per Gressoney un centro di
devozione mariana, meta di pellegrinaggi; vi sono testimonianze di grazie insigni qui ricevute.
De Tschappòlò von Oagre –
Gnaden Brunnen
De tschappòlò von Oagre tuetsché fénne én Staval, es dòrfié
von Oberteil. Escht kanget am hejò 1776 vòn Johannés Joseph
Curtaz buté. Eer éscht pfoahér vòn Ischeme gsid òn fer désch
gréndòng, hätter en schréft méttem notär J. Curtaz gmacht.
D’stòre tuet verzelle das der 11 feber 1701 d’ejò vòm fromme pfoahér, Katriné Knòbal, wib vòn Jakob Curtaz, siggé
zem bronne kanget fer wasser z’gé. Z’wasser éscht gfròrenz
gsid, aber òf òm isch, éscht es wònderbars béld erschinet, mé
schéne läbenè foarba: d’Muettergottés méttem heilégen chénn
ém oare.
D’erchinòng hät òngefer e stònn durt, Nachdém détz andechtégs wib, fascht én der nòt òn en de tréne, hät dem pfoahér
vòn Oberteil, J.J. Schwarz bichtòt was éscht éra gschiet. De
pfoahér hät alz ufgschrébet fer z’chònno détz wonder bezigò.
Channt ganz täll si das de pfoahér J.J. Curtaz, sécchere vòn
de wòrté vòn der ejò , heigé welle de tschappòlò bue alz erénnerong òn dankbarkeit der Muetergottés. Frienòr sinnd’litté
fascht andechtégé gsid òn sintsch oft én d’Oagre kanget fer
d’Muettergottés z’bättò.
Attilio Squinobal sélég, vòn Oberteil, hät verzellt das es wib
me véll gloube, méttem brochne rèkgroad, hättsché bés bi dem
bronne zochet. Mòrendesch hätsch wéder chònnò goa. Wegedem én der tschappòlò sinn chrécke gschtuerté.
Joaré zròck , em sòmmert, de sònntag, hät don Saino fer de
dòrflitté òn ou fer d’fremdò d’mäsch gläst. Hitzòtag, don Ugo,
éndsche pfoahér, am 5. ougschte, tuet e mäsch läse òn, em endé
vòm manòt meje, d’litté vòm Méttelteil òn vòm Oberteil tien
doa allé zéeme de ròsòchranz bättò.
Fonte: Abbé P.-E. DUC, Histoire des églises paroissiales de Gressoney-Saint-Jean-Baptiste et de Gressoney-Très-Sainte-Trinité, Aoste 1866.
- Tradotto in italiano da Alphonse Curtaz 1936.
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La place publique d’Issime
1
In ricordo di Giovanna Nicco
U
Michele Musso
n’espressione di Gressoney dice: “Détz hus éscht
mis òn doch nid mis. Dée woa vor mier éscht
gsid, äs éscht ou nid dschis gsid. Dée woa noa
mier chént mòs ou usgoa. Drom tuené mé frege:
vòn wellem éscht détz hus?” Questa casa è mia e
non è mia. Colui che mi ha preceduto non ne era proprietario.
Colui che mi seguirà dovrà anche abbandonarla. Per questo mi
chiedo: di chi è questa casa?
Alcune case però a volte prendono il nome da antichi loro proprietari. Nella foto qui pubblicata della piazza di Issime, del
1888 circa, riconosciamo da sinistra verso destra: la casa del
notaio Mathieu Christillin, la casa del tailleur Jacques Freppa, la casa del giudice Jean-Pantaleon Linty, la casa del notaio
Blaise-Aimé Linty, la casa con giardino dei nobili Biolley e i
tetti delle case poste dietro la piazza dei notabili Alby-Lintin.
L’assetto attuale della piazza di Issime risale alla prima metà
del XVIII secolo, quando sotto l’influsso dei nobili Biolley2,
da pochi anni nobilitati dal Duca di Savoia Vittorio Amedeo
II, la piazza pubblica divenne il luogo privilegiato di dimora
e di rappresentanza. Fu l’avvocato Jacques Biolley ad essere
nobilitato nel 1704, secondo figlio di Mathieu Biolley, il quale
da Issime si trasferì ad Aosta, ove si fece accettare come “Citoyen” ed iniziò un’ambiziosa carriera. Nell’ambito cittadino,
ricoprì uffici sempre più importanti. Per diversi anni fu uno
dei Luogotenenti del Balivato ed infine Procuratore Generale
del Ducato, carica che conserverà fino alla morte, avvenuta ad
Aosta il 29 luglio 1715. Il fratello di quest’ultimo, l’avvocato
Mathieu Biolley3, collaborò fattivamente con l’allora parroco
di Issime Jean-Pierre Biolley suo zio, così come col successore di quest’ultimo il parroco Jean Praz, con Jacques d’AlbyLintin, e col Sire Jean Lintin4 padre di Jean-Pantaleon Linty,
al progetto per la totale ricostruzione della chiesa di Issime a
partire dal 1683. Infatti l’antica chiesa romanica fu completamente sostituita con una nuova e più moderna chiesa in stile
barocco, chiesa che tutt’oggi ammiriamo.
La famiglia Biolley era originaria del villaggio del Biolley, posto all’inizio del Vallone di Tourrison, vallone laterale di Issime. I Biolley si occuparono con fortuna di commerci e si arricchirono, tant’è che, sia per comodità sia per prestigio, un certo
Jaques di Pierre Biolley acquistò “une maison sise dans le village d’Issime, confinant le chemin public”. L’atto fu stipulato
il 27 novembre 1618 nella “maison forte d’Arnad”, poiché chi
vendeva era la Dame Octavie de Saint-Martin, vedova del Barone Jean Frédéric de Vallaise del ramo dell’Hôtel. Quasi tutta
la famiglia si trasferirà nel capoluogo e questa sarà la loro dimora fino alla fine della casata5. La casa fu poi acquistata negli
anni precedenti il 1835 da Jean-Lin Christillin Loeisch-Mattisch (1785-1853), lontano cugino dell’altro ramo dei LoeischMattisch discendenti del notaio Mathieu Christillin, che fu sindaco di Issime e di cui si conserva un bel ritratto. La erediterà
il figlio di quest’ultimo, Jean-Leopold (1821- Moȗtiers 1891),
che sposò la pronipote di Jean-Pataleon Linty, Marie-Joséphine Linty z’Avokatsch (1820-Moȗtiers 1890). Ebbero nove figli
e intorno al 1865 la famiglia si trasferì in Francia nella Vallée
de la Maurienne, quindi a Moȗtiers e successivamente a La
Roche-sur-Foron. La casa sulla piazza fu venduta alla famiglia
Bastrenta, attuale proprietaria.
I Biolley possedevano sulla piazza altre due abitazioni, una
acquistata da un ramo dei Christillin denominato “Suinanz”,
come risulta da un documento di locazione stipulato il 21 febbraio 17266 fra il nobile Charles Biolley, figlio di Jacques morto nel 1715, e Louis del fu Jacques Lintin, e l’altra a fianco della loro, sul lato opposto della mulattiera che risale la Valle. Da
un atto del 17 settembre 17357 sappiamo che il nobile Charles
Biolley vendette quest’ultima abitazione all’avvocato e giudice Jean-Pantaleon Linty: “un maison que j’ay en la ville d’Issime consistant en estable, crotte, poile, maison focale, cabinets,
chambres, paillers, gallatas, et autres appartenances avec les
courts planes et petit jardin confinant du levant le grand chemin qui tend de l’église vers le tiers dessus, du midy la pla-
Le fonti della ricerca per la stesura del presente lavoro sono orali e archivistiche. Fondamentale è stato l’apporto di Giovanna Nicco (19382015), discendente diretta del tailleur Jacques Freppa, per la sua conoscenza sulla storia della famiglia e per i documenti in suo possesso, e
dell’impareggiabile Guido Pession discendente diretto di Mathieu Biolley, di Jean-Pantaleon Linty, di Mathieu Christillin, e del tailleur Jacques Freppa. Ringrazio inotre per il prezioso aiuto nell’analisi delle fonti d’archivio il dott. Roberto Bertolin e il notaio Gian Maria Soudaz.
2
cfr. G. Pession, Una nobile famiglia di Issime: i Biolley, in “Augusta”, Issime 2008, pp. 31-34.
3
Mathieu Biolley offrì i due quadri a lato dell’altare maggiore rappresentanti la Madonna Incoronata e San Giuseppe nel 1715, in occasione
della dedica della Chiesa alla Vergine SS.ma Incoronata, la cui ricorrenza è l’ultima domenica di agosto. Morì il 1 agosto 1741.
4
Jean Lintin morì ad Issime il 21 aprile 1741, viveva nel villaggio di Rickurt di mezzo e sposò una certa Anthonia morta nel 1722.
5
G. Pession, op. cit., p. 31. Si evidenzia che per un mero refuso è stata indicata, nell’articolo di Pession, la data 1616 in realtà è 1618. Vedi anche
R. BERTOLIN, Aspetti della dominazione dei Vallaise nel Trecento, a Issime, in “Augusta”, Issime 2014, pp. 9-11.
6
Collezione Guido Pession.
7
Collezione Guido Pession.
1
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Castello Vallaise di Arnad, nell’anticamera dell’appartemento dei Baroni de Vallaise sono raffigurati i territori a loro infeudati, nello specifico il paese di Issime. La decorazione è stata realizzata negli anni settanta del XVII secolo.
ce commune d’Issime, du couchant les hoirs de Jean Baptiste
Cervier et du septentrion le grand chemin publique pour la
somme de sept cents livres au Sieur advocat Jean Pantaleon
Linty”.
Il nobile Charles Biolley era il cugino primo di Anna Maria
Squinobal, moglie di Jean-Pantaleon; il padre Jacques Biolley
infatti era il fratello di Christine, primogenita di Mathieu Biolley, suocera di Jean-Pantaleon.
Questa abitazione, posta all’incrocio fra la mulattiera che risale
la Valle ‘le grand chemin’ e il vecchio ‘chemin publique’ che
corre dietro gli edifici che si affacciano sulla piazza, si intravede nella lunetta dipinta (anni ’70 del XVII sec.) del Castello
di Vallaise di Arnad, e nell’ex-voto del 1755, disposta perpendicolare alla piazza comunale e a fianco dell’abitazione della
famiglia dei nobili Biolley. Fu ingrandita nel 1848, occupando
il vecchio giardino, da Blaise-Aimé Linty8 notaio (1809-1882)
pronipote di Jean-Pantaleon. Si realizzò così nel XIX secolo
una nuova facciata sulla piazza. L’architrave in pietra della
porta d’entrata, all’interno del cortile, reca incise le iniziali
LBAN Linty Blaise Aimé Notaire e la data 1848.
Da un manoscritto9 del 1850 di Louis Christillin Loeisch-Mattisch sappiamo che: “La vecchia casa dei Linty, ultimamente
ricostruita dal notaio e segretario Blaise Linty, si chiamava
sempre prima d’ora “Veiss haus” casa dei Linty-Blancs”.
Sono infatti due le case chiamate Wéisse Hous, l’una dei notabili Alby già Alby-Lintin al Letz Duarf, oggi casa Bastrenta,
e l’altra la casa dei Linty sulla piazza comunale. Così come la
tradizione attribuisce agli Alby e ai Linty lo stesso soprannome
Wéisse10. Questo particolare cela la comune origine dei cognomi Alby e Linty, cognome che fino all’inizio del XVIII seco-
Jean-Blaise-Aimé Linty z’Avukatsch (1809-1882) figlio di Jean-Blaise (1778-1809) e di Marie-Françoise Ronco fu notaio e segretario comunale, sposò Marie Françoise Alby Griffisch figlia di Jean-Joseph Alby Wéisse notaio e greffier (segretario del Tribunale) e di Marie-Elisabeth
Christille. Il giudice Jean-Pantaleon Linty era il suo bisnonno.
9
Il manoscritto contiene istruzioni genealogiche della famiglia Alby eseguite da Louis Christillin Loeisch-Mattisch (1776-1859) figlio di Louis
avvocato (1745-1778) e di Françoise Alby, il quale nacque ad Issime nella casa di famiglia sulla piazza del paese costruita nel 1739 dal nonno,
il notaio Mathieu Christillin (1712-1772). Louis Christillin si laureò in legge il 9 agosto 1802 in diritto naturale delle genti. L’originale del
manoscritto non è più rintracciabile, ne esistono due copie, una a Parigi (non completa), l’altra a Torino nell’archivio di famiglia di Emmanuel
e Giulio Alby. Il brano riportato è stato tradotto dal francese e fedelmente ricopiato da Renato Alby di Torino nel volume inedito ‘La famiglia
Alby: notizie storiche genealogiche e biografiche della casata raccolte e narrate da Renato Alby’ dattiloscritto del 1982.
10
Wéisse significa ‘dei bianchi’ ed Alby è la forma latina dal termine ‘albus’ plurale ‘albi’, da cui Alby.
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Ex-voto offerto alla Madonna di Oropa dagli abitanti di Issime, scampati miracolosamente nel 1755 all’inondazione del Lys.
lo era appunto Alby-Lintin e che subì un fenomeno comune
nell’evoluzione dei nomi di famiglia: la segmentazione.
Sappiamo che in seguito Jean-Pantaleon Linty acquistò da
Charles Biolley anche la casa Christillin “Suinanz” che rimodernò nel 1751, casa che si affaccia direttamente sulla piazza,
la terza casa da sinistra nel ex-voto del 1755 e nella foto del
1888, quella con il balconcino al primo piano.
Ma veniamo ora a Jean-Pantaleon, chi era? La famiglia Linty
proveniva dal villaggio di Rickurt di mezzo, dove possedeva
l’abitazione avita e dove nel 1666 fece edificare la cappella
dedicata a San Luigi Re di Francia, tutt’oggi esistente, per
testamento datato 15 luglio 1661 di Louis Lintin, antenato di
Jean Pantaleon Linty. Possedeva inoltre l’antica casa di Eimattu sotto Rickurt, una montagna nel Vallone di Bourinnes costituita dagli alpeggi di Stuale, Tschachtulljustein, Goaventschi,
Piannhi11, e Chléckh.
Parte di questa montagna Tschachtulljustein e Chléckh appartiene ancora oggi ad Agostino Busso, Eligio e Carmen Girod,
diretti discendenti di Jean Pantaleon Linty; mentre gli alpeggi
di Stuale, Goaventschi e Piannhi passarono in eredità ad un
altro ramo dei Linty, l’ultimo proprietario fu il notaio BlaiseAimé Linty z’Avukatsch (1809-1882) che li vendette, verso la
metà del XIX secolo, alla famiglia Christillin Pintsche per poter edificare la casa sulla piazza che realizzò nel 184812. Furono
poi acquistati dalla famiglia Liscoz di Gressoney, e quindi nel
1918 da Ferdinando Fresc di Gaby.
Ma torniamo a Jean Pantaleon. Nacque ad Issime nel villaggio
di Rickurt e fu battezzato il 18 ottobre del 1708; l’atto di battesimo così recita: “Lintin Joannes Pantaleo filius discreti Joannis et Antoniae jugalium Lintin baptisatus fuit die 18 octobris
1708. Patrinus eius fuit nobili et spectabilis Avocatus Jacobus
Biolley madrina Maria filia quondam Jacobi Laba Issima. J
Praz curatus”. Nel battesimo era già scritto il suo destino, sposerà infatti Anna Maria, figlia del notaio Jean-Jacques Squinobal di Gressoney e di Christine Biolley di Mathieu, diventerà
così nipote acquisito dell’avvocato Jacques, del giudice Jean e
dell’altro avvocato Mathieu Biolley, fratelli di Christine. Dal
matrimonio nacque Jean-Jacques Linty (1743-1791), figlio
Sulla trave maestra della baita di Piannhi è incisa la data 1789 e la scritta JJLinty, Jean Jeacques Linty (1743-1791) era figlio di Jean Pantaleon.
Informazione di Guido Pession.
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Issime, Duarf (Capoluogo) 1888 circa.
unico, che sposerà il 7 aprile 1761 la figlia maggiore Marie del
notaio Mathieu Christillin Loeisch-Mattisch (1712-1772) e di
Marie Consol. Ebbero sette figli, cinque maschi e due femmine: Pantaleon Linty z’Avukatsch (1762-1813), letterato ; Jean-Louis Linty z’Avukatsch (1764-1845), notaio e cancelliere
del Cantone di Fontainemore, che abitò nella casa del nonno
sulla piazza del paese, l’edificio centrale nel cortile interno ;
Jean Linty z’Avukatsch (1767-1793), medico morto prematuro a Torino ; Jean-Jacques Linty z’Avukatsch, prete (*Issime
1770 † Châtillon 1847), canonico nel 1821 ; Anne-Marie Linty z’Avukatsch (*1772) ; Jean Blaise Linty z’Avukatsch, medico (1778-1809) da cui discendono gli attuali Linty di Issime
e Guido Pession che abita la casa di Jean-Pantaleon, ed infine
Marie-Antoinette-Christine Linty z’Avukatsch (*1787).
In un atto di procura del 30 agosto 174813 il suocero di JeanPantaleon, il notaio e citoyen d’Aoste Jean-Jacques Squinobal,
affida i suoi beni al genero, e nello stesso documento JeanPantaleon è definito “Spectable Sieur Jean Pantaleon Linty
docteur en droits des Seigneur impairs siegeants an Conseil
des Connoissances d’Aoste et premier juge d’Issime”.
Fu infatti nominato giudice del Tribunale della Vallaise il 5
novembre 1734 dal barone Philibert Antoine de Vallaise, poiché alla fine dell’anno precedente era mancato il giudice Jean
Biolley14. Inoltre siedeva nella Cour des Connaissances15, una
istituzione valdostana peculiare con funzioni giurisdizionali,
un tribunale locale formato dai ceti che si trovano al vertice
della gerarchia sociale, composta dai signori “pairs” i signori
di antica nobiltà, i “nompairs” la nobiltà di recente nomina, e
i “coutumiers” i signori consuetudinari. La sede ordinaria della Cour des Connaissances ad Aosta nel corso del Settecento era l’Hôtel des États. Essa era competente nelle cause più
importanti nelle materie civili, quali l’azione di ricognizione
feudale, la rivendicazione e il possesso di cose eccedenti il valore di cinquanta fiorini e, sempre, in materia di reati punibili
con sanzioni gravi, e in quella penale. I processi penali, infatti,
non potevano essere esaminati dai giudici ordinari in via defi-
Collezione Guido Pession.
L’atto di nomina è conservato da Guido Pession.
15
Vedi: A. ZANOTTO, Storia della Valle d’Aosta, Musumeci, Aosta 1993, p. 105 ; M. CAVALLINI, La Cour des Connaissances, in Les institutions du Millénaire, Musumeci, Aosta 2001, pp.107-111.
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Issime, Duarf (Capoluogo) 1888. La casa in primo piano
è quella di Mathieu Christillin, a lato sulla destra si intravede la casa di Jacques Freppa. (foto Archivio Guindani di
Gressoney-Saint-Jean)
Lastra fondale in ghisa per camino del 1750 recante le iniziali IPL e A&I Jean-Pantaleon Linty Avocat & Juge, e
della moglie Anne-Marie Squinobal A M S. Al centro, a
sinistra lo stemma dei Linty, a destra degli Squinobal. La
lastra è conservata nella casa Linty in piazza ad Issime.
(proprietà Guido Pession)
nitiva senza aver sentito il parere vincolante (avis) della Cour
des Connaissances. Anche relativamente all’uso della tortura
i giudici non potevano procedere senza il suo parere. La Cour
des Connaissances fu abrogata con le riforme degli anni 17701773. Jean-Pantaleon Linty morì ad Issime nella sua abitazione
sulla piazza il 29 marzo e fu sepolto il 2 aprile del 1771 ‘in ecclesia’ nella tomba dei suoi antenati, fu l’ultimo giudice della
Valle del Lys.
La casa sulla sinistra della piazza era del notaio Mathieu
Christillin (1712-1772) figlio di Jean, anch’egli notaio. Come
Jean-Pantaleon Linty, anche Mathieu Christillin siedeva nella Cour des Connaissances. Mathieu apparteneva a quel ramo
dei Christillin chiamato Loeisch Mattisch (Mathieu de Louis),
discendeva da un certo Jacques Christillin a sua volta notaio,
suo bisavolo. Quest’ultimo compare nel ‘Livre Terrier du Tiers
Dessoubz soit du Plan’ di Issime del 1645 come ‘Egrege Jaques notaire filz de discret Mathieu de Louys Cristellin’ i quali
vivevano nel villaggio di Grand Champ nella casa avita della
famiglia, casa in cui nacque Mathieu nel 1712. Quest’ultimo
si fece costruire la nuova abitazione sulla piazza del paese nel
1739. Fu costruita ex-novo, infatti è assente nella veduta di
Issime dipinta negli anni ’70 del Seicento nel Castello Vallaise
di Arnad. Di questa casa così scrive Ugo Torra nel volume “La
Valle di Gressoney: le sue antichità, II edizione, Ivrea 1966,
p. 104”: «All’angolo della piazza, a sinistra, vi era fino a poco
tempo fa, una grande casa che anticamente fu già sede del Comune; davanti ad essa era collocato il seggio [quello su cui
sedeva il Giudice della Vallesa fino al XVIII, conservato fino
alla metà dell’Ottocento proprio presso l’abitazione del notaio
Mathieu Christillin]. Questa casa è stata demolita per costruire
il nuovo Municipio. Aveva la data 1739, con iniziali e nodo
sabaudo nella trave principale nonché sugli architravi in pietra degli ingressi anteriore e posteriore». La casa fu demolita
nell’inverno del 1962-63.
Il nipote di Mathieu, l’avvocato Louis Christillin (1776-1859)
così lo ricorda: «notaio dei Signori Esperti Collegiati della
Cour des Connaissances e del Consiglio di Giustizia, cioè
dei giudici dei diritti consuetudinari, e commissario esterno di
tale Corte per le informazioni e le inchieste»; soprannominato
“l’avvocato del diritto consuetudinario” per essere particolarmente ferrato nel diritto romano (come risulta dalle sue memorie e dai suoi appunti), partecipò in qualità di membro e
giudice di detta Corte all’Assemblea dei Tre Stati del 1755 e
del 176616.
Queste informazioni sono ricavate da un manoscritto di Louis Christillin già citato nella nota 8.
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Il figlio di Mathieu, Jean Christillin Loeisch-Mattisch (17381808) fu protagonista d’eccellenza della storia valdostana
di fine Settecento. Nacque ad Issime nella casa di famiglia a
Grand Champ, si laureò in legge a Torino nel 1763. Partecipò
come oratore ad Aosta all’ultima Assemblea degli Stati Generali nel 1766. Nel 1767 fu nominato sostituto avvocato fiscale,
nel 1768 membro della Royale Délégation. Quest’ultima era
una commissione composta da quattro membri e presieduta dal
vice-balivo, per la verifica dei beni privilegiati a titolo di feudalità o perché appartenenti all’antico patrimonio della Chiesa.
Dal lavoro della commissione prende le mosse il primo catasto
generale delle terre valdostane, base per una ripartizione delle
imposte proporzionale alla vastità dei beni fondiari e alle stime
dei rendimenti dei terreni. Nel 1780 divenne avvocato fiscale.
Nel 1780 sposa Maria Teresa Mazé, figlia del senatore Paolo.
Nel 1799 divenne prefetto e capo del consiglio di Giustizia dal
1802; presidente del tribunale di prima istanza ad Aosta nel
1804, fu quindi nominato magistrato. Nel 1799 nutrito delle
idee illuministe scrisse ‘Origine, progrès, révolution et finale
paralysie du Conseil des Commis’.
Ma il personaggio che più va ricordato per intraprendenza
e grandi capacità imprenditoriali fu il tailleur Jacques Freppa (1707-1775), protagonista della piazza di Issime per tutta
la parte centrale del Settecento, che vestì le famiglie notabili del paese per almeno cinquant’anni. Il padre di quest’ultimo, discret Jacques Freppa di Jacques, già defunto nel 1728,
originario del “Tiers dessus” attuale Gaby, acquistò una casa
nell’angolo della piazza, a sinistra. L’edificio è ben evidenziato
nella lunetta della fine del XVII secolo del Castello Vallaise
di Arnad. In un documento stilato dal notaio Mathieu Christillin del 14 marzo 1735 in cui il fratello di Jacques Freppa,
Jean-Jacques, si presenta come debitore nei confonti di Jeanne Marguerite veuve de feu discret Jean de Pierre Christille
creditrice di 48 lire, di cui 7 lire di prestito nuovo, il restante
Jean-Jacques si fa carico del debito del fratello Jacques, debito
che quest’ultimo aveva contratto per la somma di 11 lire il 15
marzo 1717, e per la somma di 30 lire il 10 maggio 1722 per
un totale di 41 lire. Jean-Jacques come garanzia nei confronti
della creditrice, ipoteca la terza parte dell’eredità paterna. Nel
documento si fa riferimento alla divisione avvenuta fra i fratelli
Freppa, Jean-Jacques, Jacques (tailleur) e Jean-Baptiste, senza
però precisarne la data. Fra le proprietà è descritta la casa del
padre sulla piazza di Issime: “un tenement de domiciles siz en
la presente ville d’Issime, appellé le domiciles de feu Jacques
Freppa consistant en estable, boutique, poile, maison focale,
palliers, loges, ensemble le crot de fumier et joint à quoy confinent les hoirs de noble Jacques Biolley, la place publique,
l’alloir et passage commun et le chemin publique ensemble sa
part de pretention au rescard de Laba”.
Lo stesso giorno Jacques Freppa acquista17 una stalla a fianco
della loro casa sulla piazza, chi vende è “discret Jean de feu
sire Jean Jacques d’Antoine Alby”, e l’oggetto dell’acquisto
“scavoir tout un estable moitie sans solevan qu’est au dessous le rescard sur jambes de Labaz, sis en la presente ville
d’Issime appellé l’estable de feu discret Jacques Ronc auquel
confinents du levant et midÿ l’alloir et degrés du dit acquereur,
du couchant le dit vendeur pour son cellier et place au devant
le dit sceillier joinct au dit estable vendu et separez par une
muraille de long en long dans laquelle il y ay presentement
une porte que l’acquereur pourra boucher et du septentrion le
chemin public”.
Da questi due documenti ricaviamo che l’abitazione dei Freppa si trova a fianco di un rascard situato a nord di essa, di cui
loro sono già proprietari della parte in legno sorretta da funghi
“rescard de Laba”, e che quest’ultimo confina a nord con il
vecchio “chemin publique”, camminamento che corre dietro
gli edifici che si affacciano sulla piazza così come oggi, ed è
separato dalla loro casa da un passaggio comune da cui partono
le scale che conducono alla loro abitazione ed al letamaio che
si trova a levante del rascard, dietro la casa che apparteneva ai
nobili Biolley18.
Un documento di ratifica del 2 aprile dello stesso anno stilato
dal notaio Joseph Albert approva l’acquisto da parte di Jacques
di “un estable siz et jesant sur la place pubblique d’Issime,
et au dessoubz un rescard sur jambes, appellé le Rescard de
Laba, contract receu par egrege Mathieu Christillin le quatorze mars proche passé, appellé l’estable de Jacque Ronc”.
Nello stesso documento il fratello di Jean Alby, il venditore,
“honneste Jean Joseph de feu le dit sire Jean Jacques Alby”
rinuncia al suo diritto di prelazione sulla stalla, in cambio riceve del danaro da Jacques Freppa e l’annullamento di un debito
che ha nei suoi confronti per l’acquisto “de marchandise de
boutique”. Un indizio chiaro su chi fossero i clienti del nostro
tailleur.
Da un documento di molti anni successivo, la divisione dell’eredità fra i figli di Jacques Freppa: “Parteges faits entre discret
Jean Jacques, Jacques Antoine, et Jacques Joseph freres fils
à feu le taillieur Jacques Freppa d’Issime – 25 fevrier 1777”
del notaio Louis Christillin, sappiamo che la casa sulla piazza
spettò a Jean-Jacques, ed è così descritta: “un tenement de domicile, situé sur la place publique du present lieu contennant
boutique, estable, cave, basse cour, creux de fumier, et chesal
au premier êtage, ensuitte cuisine et poile, chambre, cuisine superieur, foiniere, gallatas, galleries et autres annexes et
dependances quelconques, à quoy confinent du levant je notaire soussigné et le dit sieur Jean Jacques Lintÿ, midi la place
publique, couchant je notaire soussigné, et au nord le chemin
publique”.
Le differenze fra la descrizione dell’abitazione in quest’ultimo
documento e in quello del 14 marzo del 1735 sono immediate: la
casa si è alzata di almeno due piani con l’aggiunta di diversi altri
locali, ma soprattutto non si ha più traccia del rascard, i confini
della nuova abitazione lo comprendono. I confinanti sono cam-
Contratto d’acquisto del 14 marzo 1735 stilato dal notaio Mathieu Christillin.
Il rascard occupava la parte più a nord del sedime dell’attuale abitazione, oggi in parte occupato dalla base di un loggiato e dalle attuali cantine. La finestra a chiglia rovesciata presente nel vicolo è certamente un riutilizzo. Mentre il letamaio si trovava dove oggi sorge un fabbricato
costituito da piano terra (ripostiglio) e primo piano, con corpo separato rispetto alle altre abitazioni, di proprietà di Guido Pession. La madre di
quest’ultimo acquistò il sedime del letamaio da Beniamino Busso (1866-1951) ultimo discendente di Jacques Freppa che abitò la casa Freppa.
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Il notaio Jean-Blaise-Aimé Linty z’Avukatsch (1809-1882)
(proprietà Guido Pession)
biati, non troviamo più gli eredi del nobile Jacques Biolley, sappiamo infatti che Charles Biolley ha venduto l’abitazione confinante con i Freppa a Jean-Pantaleon Linty con un atto del 17
settembre del 1735, a ponente non compare più Jean Alby con
“la place” davanti alla cantina e alla stalla ma Louis Christillin
(1745-1778), il figlio del notaio Mathieu (1712-1772).
Cosa era successo nel frattempo? Sappiamo che nel 1739 il
notaio Mathieu Christillin fece costruire, a fianco ed a ponente dell’abitazione dei Freppa e del loro Rascard, la sua nuova
dimora che affaccia sulla piazza del paese, probabilmente sul
terreno acquistato da Jean Alby, che aveva venduto la stalla
a Jacques Freppa. Quest’ultimo si trovò così ad avere le sue
proprietà incuneate fra l’abitazione del giudice e avvocato
Jean-Pantaleon Linty e quella del notaio Mathieu Christillin,
con la vista oscurata a ponente dall’abitazione di quest’ultimo.
Certamente non poteva rinunciare ad avere la boutique da sarto sulla piazza del paese, luogo privilegiato dal punto di vista
sociale, economico, ed anche sede delle pubbliche istituzioni,
civili e religiose. È allora che probabilmente decise di sfruttare
l’appezzamento a sua disposizione stretto e profondo e di realizzare una nuova abitazione così come la vediamo oggi, abbat-
tendo l’antico rascard e la vecchia casa. Ma è quasi certo che
si sia accordato con Mathieu Christillin e che i due edifici si
siano edificati nel contempo. Infatti la scala in legno di accesso
al fienile dell’abitazione di Mathieu giungeva ad un ballatoio
comune dal quale si accedeva da un lato al fienile e al ballatoio
del terzo piano di Jacques Freppa, e dall’altro al fienile di Christillin, come è ben evidente nella foto del 1888 qui pubblicata.
Curiosità toponomastica, il vicolo fra le due abitazioni, un tempo molto stretto, è ancora oggi chiamato Muntutun Kwettu, un
bugigattolo, un luogo angusto.
L’ex-voto del 1755 ci da già l’immagine della casa così come è
descritta nel 1777 e come è giunta ai nostri giorni.
Jacques Freppa fu battezzato il 10 gennaio 1707 nella chiesa
parrocchiale di Issime, l’atto di battesimo così cita: “Freppa
Jacobus filius Jacobi et Anthonia jugalium Freppa, baptisatus
fuit die 10 januarii 1707 cuius padrinus fuit discretus Joannes
Petrus Cervier madrina Jacoba filia quondam Anthonii
Cherrera Issima, Praz Curatus”. Sposò il 7 gennaio del 1734
Marie Creux19 (1712-1773) del villaggio di Chenchere (Crest):
“Discretus Jacobus quondam Jacobi Freppa et Maria filia
quondam Petri Creux et Annae Mariae”, testimoni egregio
Mathieu Christillin (1712-1772) notaio, e egregio Joseph Alby
(1708-1785) notaio. Abitarono nella casa sulla piazza ed ebbero
10 figli: Jacques Freppa (1735-1783) dichiarato imbecille nella
divisione del 1777 fra i fratelli Jean-Jacques, Jacques-Antoine
e Jacques-Joseph ; discret Jean-Jacques Freppa (1739-1800)
sposa il 6 febbraio 1776 Marie Alby (1742-1818), vivevano nel
capoluogo di Issime in casa Freppa sulla piazza, non avranno
figli. Fa testamento il 25 febbraio 1800, nomina la moglie
usufruttuaria dei beni, e nomina eredi i due fratelli JacquesAntoine e Jacques-Joseph. La casa la erediterà il nipote JosephPhilibert Freppa (1796-1852) figlio di Jacques-Joseph ; Marie
Freppa (*1740) ; Marie-Anne Freppa (1742-1789) dichiarata
imbecille nella divisione del 1777 fra i fratelli Jean-Jacques,
Jacques-Antoine e Jacques-Joseph ; Marie-Magdalena Freppa
(*1745) ; discret Jacques-Antoine Freppa (1747-1805) sposa
nel 1777 Marie Ribola (1755-1831) del fu Pierre, vivevano
nella casa dalla colonna di Ceresole, già del tailleur, l’ultima
discendente fu Vittoria Freppa (1904-1995) che sposò nel 1926
Jean Goyet (1899-1972) vivevano nel villaggio di Preit in casa
Goyet ; Marie-Jacobeé Freppa (*1750) ; Jeanne-Marie Freppa
(*1752) ; Marie-Françoise Freppa (1753-1807) ; discret
Jacques-Joseph Freppa (1754-1809), sposa nel 1777 MarieJacobeé Gal (1754-1824) del fu Jean-Joseph, vivevano nella
casa al Buade, già del tailleur. Il ramo dei Freppa che discende
da Jacques-Joseph sarà chiamato Tuaŝchisch20.
L’ultimo discendente di Jacques Freppa che abitò la casa sulla
piazza fu Beniamino Busso (1866-1951), chiamato Stockhsch
Benjamin, figlio di Marie-Jacobée Freppa (1824-1880) e di
Jean-Pierre-Sebastien Busso (maçon), il quale sposò nel 1894
Romaine-Marie Ronco Péterétsch (1865-1942). Beniamino
Busso fu protagonista di un evento che accadde nell’inverno
La famiglia Creux viveva oltre il villaggio di Chenchere ad Issime, ed apparteneva linguisticamente, assieme ai Gris e Rolland che vivevano
in quel villaggio (fino al XVIII secolo), al gruppo francofono di Fontainemore.
20
L’ultima discendente di questo ramo vissuta ad Issime fu Antonietta Freppa - Tuaŝchisch Tunni (1908-1989) madre di Giovanna Nicco. Mentre Cristina e Augusto Freppa, sono gli ultimi viventi, residenti ad Aosta, che portano il cognome Freppa (Tuaŝchisch) come discendenti del
tailleur.
19
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A U G U S T A
del 1888 “Désastres causés par les avalanches - L’année 1888
.... Issime St-Jacques - 2 mars: Au pied du vallon de Borines [è
il villaggio del Praz superiore], une maison [la casa è quella dei
Christillin Pietersch, oggi Girod] habitée par cinq personnes a
été enveloppée par une avalanche. On s’en aperçut des habitations voisines. On sonna aussitôt le tocsin. On accourut. On
délivra les cinq prisonniers; mais on dut laisser le bétail et les
denrées au milieu des neiges. Une correspondance postérieure
ajoute: Les grandes neiges ont fait sortir de leurs tanières les
loups qu’on croyait disparus pour toujours de ces montagnes.
En effet, le 6 mars courant, on entendit les hurlements d’un
loup (lynx) non loin du village d’Issime-St-Jacques, du côté
de la montagne. Vers les 7 h du même jour, quelques jeunes
gens le virent à peu de distance des domiciles et ils auraient
peut-être été attaqués, si Busso Benjamin, jeune homme qui
n’a compté que sur son courage, ne l’avait mis en fuite”21.
È giunto a noi anche il testamento di Jacques Freppa e della
moglie Marie Creux, riporto in nota la parte relativa alle disposizioni per il funerale e riti religiosi22, fra questi una messa
da celebrare nell’anno successivo alla sua morte, nella chiesa
di Sant’Ulderico ad Ivrea, chiesa che si trova in via Palestro
ormai quasi oltrepassata piazza di Città. L’epoca della fondazione della chiesa si può fissare a prima del 1000. I lavori di
restauro del 1952 riportarono alla luce all’altare dell’Immacolata, sotto il quadro di quest’ultima, opera del pittore ottocentesco Giovanni Stornone, un gran paio di forbici sovrastate
da un’iscrizione dipinti sull’intonaco, era un altare dedicato
al patrono dei sarti Sant’Omobono. Altare che fu eretto dalla
Società dei sarti di Ivrea a cui probabilmente il nostro tailleur
Jacques Freppa apparteneva.
Le piazze storiche rappresentano i luoghi privilegiati per lo studio dello sviluppo di un determinato centro, non solamente dal
punto di vista dell’abitato ma anche da quello sociale, economico, funzionale e rituale. Storicamente la piazza è definibile
come uno spazio d’uso pubblico e di significativa qualità architettonica, centro di convergenza o baricentro di un determinato
territorio. A proposito di spazio pubblico cito quanto ha scritto
Roberto Bertolin sulla piazza di Issime “Vi erano, per contro,
diversi “luoghi pubblici” ove si era soliti celebrare liturgie laiche. Uno di questi era rappresentato dalla chiesa, dove vennero
ad esempio concesse alcune delle carte di franchigia. Vi era poi
la piazza della chiesa, nella quale si distingueva lo spazio “ante
portam ecclesie” da quello posto dinanzi al cancello del cimitero, dove il mestral pubblicava le grida dei signori temporali.
Molto utilizzati erano poi il “prato della chiesa” e il “rascard
della casa parrocchiale”. Anche la giustizia era amministrata
nei pressi della chiesa, in un luogo non identificabile con precisione; nel XVI secolo il tribunale risulterà collocato in uno
spiazzo nei pressi della casa degli eredi di Ludovico de Closo,
e si riunirà talvolta all’interno della casa stessa in caso di maltempo” (Augusta 2014). Il rascard a fianco della chiesa è citato
in diversi documenti fino al XVII secolo, fra i quali uno del
25 marzo 1473 in cui la comunità si riunisce ‘ante rascardum
curie dicti loci Yssime’ per nominare i propri procuratori. È
probabile che il rascard sorgesse dove fu realizzato all’inizio
del Settecento l’edificio che ospitò gli uffici comunali al primo
piano e locali della parrocchia all’ultimo23.
La piazza di Issime ha radici storiche profonde, da un primo
villaggio alpino, con la piccola chiesa in stile romanico, le case
circondate da orti, giardini e granai, diventa a partire dalla fine
Tratto da: P. L. VESCOZ, Phénomènes atmosphériques : souvenir des principales anomalies du temps observées en Vallée d’Aoste dans le
cours du XIXe siècle : notes extraites de diverses publications, Aoste : Stevenin, 1918, pp. 37-38.
22
“Testament de discret Jacques et Marie jugaut Freppa, le 8 fevrier 1752. L’an 1752 et le jour huittieme de fevrier … discret Jacques de
feu Jacques Freppa et honnête Marie sa femme fille de Pierre de Jacques Creux”, danno disposizione: “Ils ont en premier lieu ordonné la
sépulture de leurs corps au vas et tombeau des ancêtres [La tomba dei Freppa all’interno della chiesa si trova sulla sinistra guardando l’altare
maggiore, vicino all’altare del Rosario voluto dal parroco Jean-Angel Ronco, in prossimità del primo banco, banco in cui sedeva la famiglia
Freppa Tuaŝchisch] du dit Freppa qu’est en la venerable église du présent lieu, et que le jour de leur respective sepulture soient pour chacun
d’eux cellebré trois messes de Requiem l’une en chant et les autres à basse voix avec luminaire, offrandes, son de cloches, libera me et autres
offices accoustumés de faire lorsqu’on enterre un bon chef de famille de cette paroisse. Item que le jour de leur ditte sépulture soit distribuée
aux pauvres une aumone suffisante et raisonnable en pain, fromage et soupe de chatagnes et un diner à ceux qui les porteront à sepulture ou
prendront autrement peÿne au tour de leurs cadavres. Item léguent l’offrande dominicale en pain et chandelles pendant l’an et jour suivant
la coutume du présent lieu. Item ordonnent que dans l’an de leur déces soient cellebrées dans le couvent des Reverends péres capucins de
Chattillon les devotes Messes de Monseigneur Sainct Gregoire et celles des cinq principalles plaÿes de Notre Seigneur Jesus Christ pour la
retribution des quelles leguent la somme de 17 livres et demÿ pour chaque testateur, de quoÿ les heritiers bas nommés rapporteront quittance.
Item ordonnent leur étre cellebré riere le present lieu le troisiéme, septiéme, trentiéme et anniversaire pour chaque testateur, ce dernier en
chant et les autres à basse voix. Item le dit testateur ordonne que dans neuf ans apres son decés soit faite une neuvaine chaque trois ans au
Sacré mont d’Oroppe, par une personne de la maison, s’il est possible, ou du moins par quelqu’autre et en faisant dire une messe au même
lieu à chaque neuvaine. Item le dit testateur ordonne luÿ ètre cellebré dans cinq ans apres son decés cinq messes à l’autel privillegié pour
les ames du pourgatoire qu’est dans la venerables église des reverends pères conventuels de Sainct Francois en la cité d’Aoste. Item le dit
testateur légue aux venerables Confreries du très Sainct Sacrement, Sainct Rosaire et Sainct Carme ésquelle il a le bonheur d’être aggregé, et
erigées en la venerable église du present lieu la somme de 20 livres, de 20 sols pièce bonne monnoÿe courante paÿables dans trois ans apres
son decés. Item at la ditte contestatrice legué à la ditte venerable coufrerie du très sainct Sacrement de l’autel, la somme de 3 livres, moÿennant
quoÿ prie les confrères et soeurs de la ditte compagnie d’assister en habit blanc à sa sepulture. Ce que tout ont legué pour le salut de leurs
ames, et de celles de leurs ancêtres. Plus at le dit testateur ordonné luÿ être cellebré en la venerable église du present lieu une messe le jour de
Sainct Jacques le Majeur, autre le jour de Sainct Antoine de Padouve, autre le jour des Saincts Anges Gardiens, qui écherront dans l’année de
son decés, et ancore autre messe à l’honneur de Sainct Hommebon dans l’église de Sainct Adorÿ en la cite d’ÿvré, et ancor une messe pour
chaque testateur en la venerable chapelle de notre Dames de Graces sur les Foures Dessus, tiers du plan du present lieu”.
23
Vedi I. REBOULAZ, Issime: la vieille cure – d’oaltun köiru, in “Augusta”, Issime 2008, pp.35-37.
21
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A U G U S T A
ereditata dalla storia, e pertanto nella prefigurazione del futuro sarebbe insensato sottovalutare l’importanza della simbologia
custodita nella ‘attrazione del luogo’.
A questo proposito riporto il testo dello
studioso di origine tedesche Albert Schott24
pubblicato nel volume Die deutschen Colonien in Piemont (1842), che visitò Issime
alla fine di luglio del 1839, e che albergò
proprio nella casa di Mathieu Christillin
Loeisch-Mattisch, ospite del notaio e avvocato25 Louis Christillin (1776-1859),
nipote di Mathieu. Il brano dà un’immagine della ‘piazza’ di quel periodo, in parte
ancora vicina all’oggi: “Finita la messa, il
notaio e oste Cristalin rientrò a casa e io
trovai nella Stube al piano alto, fresca e
con vista sulla piazza della chiesa, un piacevolissimo ristoro dalle ore più calde del
giorno. Mi misi ad osservare prima il paesaggio alpino che mi circondava e che era
ben visibile dal balcone, e poi i numerosi
gruppi di paesani che si formavano prima
di rientrare nelle loro case nelle diverse
frazioni. Mi mischiai fra loro per osservarne il costume, l’aspetto e per ascoltarne la
lingua. Di queste cose parlerò poi meglio
dopo, della lingua comincio però ad anticipare che del dialetto “silvano” [dialetto
tedesco] non capii una singola sillaba in
quanto molto distante dall’alemannico al
quale ero abituato, perché la scuola è francese e perché i traffici degli issimesi non
sono rivolti verso Germania e Svizzera. E
così ho dovuto parlare francese con la genIl notaio Jean-Blaise-Aimé Linty z’Avukatsch e la moglie Marie-Françoise Alby
te. Tanto più divenni curioso di conoscere
Griffisch (proprietà Guido Pession)
il silvano attraverso l’unico mezzo che mi
era possibile, e cioè la traduzione, che il
mio gentile oste si offrì di tradurre la parabola del figlio prodigo nella lingua del suo paese. L’impresdel Seicento centro pulsante della vita pubblica, civile e relisione che mi hanno fatto le sue prime parole è stata vivissima,
giosa con le case dei notabili che si costituiscono in un unico
poiché, dopo le prime esperienze fatte non potevo aspettarmi
quadro d’insieme a costituire il perimetro della piazza con la
di sentire una parlata influenzata dal tedesco “libresco”, né dalnuova chiesa barocca come elemento architettonico dominanlo svizzero tedesco. Nel paragrafo sulla lingua riporto il lavoro
te. Mentre l’antica dimora dei nobili Biolley, che fu dei Baron
fatto da Cristalin con l’aiuto di due avventori, due muratori
de Vallaise, una sorta di quinta di scena della piazza con il
seri e amichevoli del paese. Mi ritorna sempre in mente la fegiardino che affaccia sulla stessa, è rimasta immutata nella sua
organizzazione originale, vestigia medievale. Nella piazza di
lice sorpresa che provai dopo aver sentito le prime parole di
Issime si è sedimentata non solo una struttura fisica dello spaCristalin: “ę mâ hęgg’hèbbę zuèi chinn”, che dimostravano
zio sociale costruito, ma anche una costellazione immateriale
quanto i Silvani parlassero un dialetto non solo molto particodi valori culturali e di simboli collettivi. Una eredità culturale
lare, ma anche schiettamente tedesco.”26
Albert Lucian Constans Schott (nato nel 1809 a Stoccarda , † a Stoccarda nel 1847) filologo e antropologo, insegnò presso la Scuola cantonale
(Gymnasium) di Zurigo dal 1830 al 1840. È stato un pioniere della ricerca sui Walser meridionali.
25
Un tempo poteva succedere che le attività commerciali, come quella di una osteria o di una tabaccheria, fossero esercitate da persone che nella
vita professionale svolgevano incarichi pubblici, o comunque che avessero disponibilità economica, il denaro scarseggiava ed era di pochi.
Questo avveniva soprattutto quando ci si ritirava dalla vita professionale, non esisteva infatti il sistema pensionistico.
26
Il testo è stato tradotto in italiano dall’originale da Silvia Dal Negro: A. SCHOTT, Die deutschen Colonien in Piemont, ihr Land, ihre Mundart
und Herkunft. Ein Beitrag zur Geschichte der Alpen, Cotta’scher Verlag, Stuttgart/Tübingen 1842, pp. 12-13.
24
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A U G U S T A
Il nome della Rosa
Le origini medievali dell’antico nome del Monte Rosa
Roberto Fantoni
L
e creste e le cime delle montagne prima dell’arrivo
di topografi e alpinisti non avevano nome. Facevano eccezione a questa regola le montagne che
costituivano un punto di riferimento locale o regionale. Il Monte Rosa, visibile da tutto il settore
centro-occidentale della Pianura Padana, era una di queste eccezioni. In un lavoro dedicato proprio al nome del Monte Rosa,
il geografo e alpinista americano William Coolidge ad inizio
Novecento scriveva: “Più studio le vecchie carte delle Alpi o gli
scritti degli antichi topografi, più mi accorgo con un certo stupore quanto mostrino di ignorare persino le più importanti vette
della catena alpina; o tutt’al più le indichino tanto vagamente
da poterle individuare con precisione. Sono invece convinto
che gli archivi locali sono suscettibili di offrirci, se un giorno li
andremo a scandagliare, un’infinità di notizie sulla storia delle
cime che li sovrastano. Fino ad oggi tuttavia questi archivi, così
preziosi per la topografia storica delle Alpi, non sono stati ancora opportunamente esplorati”. A distanza di cento anni dalla sua
formulazione, questo lavoro cerca di assolvere al suggerimento di Coolidge. Per raggiungere questo obiettivo la ricerca si è
concentrata sull’analisi dei confini dell’ultimo luogo utilizzato
dall’uomo, l’alpeggio, attraverso lo studio della documentazione medievale.
Macugnaga 999: in glacia
Nel più antico documento riguardante la regione del Monte
Rosa, la permuta di beni tra la chiesa di S. Pietro di Brebbia e
l’abbazia di S. Salvatore di Arona del 22 giugno 999, la regione
confinante con le alpi della valle Anzasca viene semplicemente
indicata come in glacia (Bianchetti, 1878).
In un documento del 1423 tra i confini delle alpi Pedriola e
Rosareccia (Macugnaga) compare il culminis Giaziarii (Rizzi,
2006). Tra i confini di queste alpi in un documento del 1451
compaiono nuovamente i ghiacciai (Bertamini, 2005). In un
altro documento del 1457, tra i confini delle alpi di Macugnaga,
compare ancora una cima glazarii (Bertamini, 2005).
In una lettera del 1556 il cardinale Madruzzo scriveva ancora che l’Anza nasce da una montagna di giazzo (Bianchetti,
1878). Nella relazione del Cesati, delegato del Magistrato delle regie entrate del governo di Milano del 26 dicembre 1651,
veniva citata ancora la montagna del Giacciaro (Bertamini,
2005).
Gressoney 1377: la rosa
Un altro nome generico indicante un ghiacciaio è utilizzato anche in altri luoghi sul versante meridionale del Monte Rosa.
In un documento del 13771 tra i confini dell’alpe Orsia (Gressoney), oltre alla sommità e alla creste delle montagne (summitatium montium, crista montium) è citato il riale de Zaval2
che esce de la rosa (ASCGr, Consorteria di Orsia, f. O/1). Nel
documento compare per la prima volta la voce rosa. Il nome,
scritto in minuscolo nel documento3, non è ancora un nome
proprio, è soltanto un nome comune indicante un ghiacciaio da
cui esce un ruscello.
Il documento è importante anche per chiarire definitivamente
l’etimologia della voce rosa. Beccaria (1774) sosteneva che
il nome derivava dalla disposizione dei picchi che ricordava la
corolla di una rosa. Fino dalla fine del Settecento il de Saussure (1779-1796) aveva però notato, parlando del ghiacciaio Ruize de Miage, che “dans la Vallée d’Aoste on donne aux glaciers
le nom de Ruize”. Nonostante questa osservazione la disputa
seguì anche altre strade. Egli (1880) negava in modo assoluto
la derivazione dal colore rosa, proposta da alcuni Autori, e sosteneva che derivasse dal celtico ros, parola che sopravviveva
nel bretone e nel gallico con il significato di picco, corno. L’ipotesi fu ripresa, senza citare la fonte, dal Richter (1883) e
criticata da Freshfield, che continuava a sostenere che il nome
derivasse dal colore assunto dalle vette al crepuscolo.
Tra fine Ottocento e inizio Novecento, Baretti (1880), Martelli (1886), Tonetti (1891) e Coolidge (1912) proposero
un’origine etimologica che accoglieva la segnalazione del de
Saussure. Martelli ricordava che l’appellativo, variamente pronunciato nei diversi gerghi locali, roesa, roise, ruiza nel dialetto valdostano significavano ghiacciaio, o meglio i pianori
del ghiacciaio. L’autore segnalava anche i diminutivi Roisetta
o Ruistetta e gli accrescitivi Roesazza o Roisazza. L’ipotesi fu
poi condivisa da Guarnerio (1916), a cui alcune fonti attribuiscono il merito di aver dimostrato “che il nome del Monte Rosa
non ha nulla a che fare col nome del colore rosa, ma rispecchia
una forma preromanza che vive nei dialetti franco-provenzali
sotto le forme ruise, ruiza, reuse, rosa col senso di ghiacciaio”
(Tagliavini, 1934).
Successivamente Henry (1938) estese l’elenco delle voci dialettali utilizzate per designare i ghiacciai: roése, roesy, reuse,
ruise, ruiz, roise, royse, roysy, ruse, ruje, rosa, rose.
Il documento è riportato, senza commenti, in una traduzione italiana di Favre (1977).
Chaval nella traduzione francese allegata al documento conservato nell’archivio di Gressoney e nella traduzione italiana di Favre (1977)
(“il fiumicello di Chaval che esce dalla Rosa”). Chaval è una delle frazioni più alte di Gressoney; il ‘riale’ (ruscello) prendeva probabilmente
il nome dalla frazione.
3
Nella traduzione settecentesca francese e in quella italiana di Favre (1977) il nome compare in maiuscolo.
1
2
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A U G U S T A
Documento del 1377 con la citazione de la rosa a Gressoney
La derivazione di rosa dalle voci del patois valdostano roisa,
ruiza, roeza con il significato di ghiacciaio è confermata nel
Dizionario di toponomastica da Queirazza et alii (1990), che
ne ipotizza un’origine prelatina, ed è attualmente accettata in
modo concorde in bibliografia (ad esempio da Aliprandi e
Aliprandi, 2007)
Le forme citate in letteratura sono però assenti nel dizionario
on line del patois valdostano alla voce ghiacciaio, dove compaiono invece le forme djachéi, djassoi, glasé, guiahì, guiahìn,
guiaséi; guiasi, guiatsé, guiatsì, iatsé, llaché, llachéi, llachì,
llachì, llachì, llachì, llahié e llassé. Solo a Champorcher e ad
Ayas compaiono rispettivamente le voci roizi e rouja (www.
patoisvda.org).
Raffaella Lucianaz e Daniel Fusinaz (Guichet Linguistique
della Regione Valle d’Aosta) confermano l’assenza di queste
voci, che ritengono forme arcaiche sostituite recentemente
dalle quelle attestate nel dizionario (comunicazioni personali,
maggio 2015). Negli attuali gerghi franco-provenzali la voce
è quindi scomparsa, ma la rosa è un fossile che risulta ampiamente conservato nella toponomastica dell’intera regione di
cui rimangono anche numerosi attestazioni documentarie.
Henry (1938, p. 41) segnala i toponimi Roise de Banque (Rosa
dei Banchi, 3163 m) a Champorcher; Comba de la Roesa a
Challand; Mont Roisetta o Roesetta (3321 m) a Valtournanche; la Roisetta, piccolo ghiacciaio (3320 m) a NE di Point de
Champ; il Plateau Rosaz e il Plan Rosaz al colle del Teodulo;
l’alpe de Resy (2066 m) e il Palon de Resy (2676 m) ad Ayas; la
tete des Roéses a Bionaz (3233 m); le punte Grand Roise (3354
m) e Petit Roise (3253 m) a Saint Marcel.
La voce sembra essere estesa anche alla microtoponomastica
delle zone glacio-nevate. Ad Issime è ad esempio presente il
toponimo Roseritz, assegnato ad un piccolo alpeggio in cui fino
a qualche anno fa era presente un piccolo nevaio persistente
anche nella stagione estiva.
La voce rosa compare in numerosi documenti valdostani indicanti un ghiacciaio. Una forma analoga a quella utilizzata a
Gressoney si trova alcuni anni dopo in un documento di Bionaz
(1468) in cui è citata aqua descendent et labens de la Roesy de
Cresta Sechy (il ghiacciaio di Crete Sèche). In un documento
del 1474 è citata la Roysie de Miage (Henry, 1938). Ricorre poi
nella corrispondenza seguita alla inondazione dovuta alla rottura dello sbarramento di ghiaccio del lago di Rutor avvenuta nel
1595. In un proposta di lavori, allegata alla supplica del 1596 al
Duca d’Aosta per prendere provvedimenti per evitare la ripeti-
zione di simili disastri, Simon Tubinger citava la rosa; l’ingegner
Giacomo Soldati, il funzionario incaricato dal Duca di Savoia di
redigere una relazione sul lago di Rutor, scriveva in una relazione del 1596, che “tanta gran massa di neve congelata, nominata da li paesani rosa”, aveva sbarrato il canale che manteneva il livello del lago; e più avanti precisava che “la ditta Rosa
ha lasciato una bocca larga tre trabucchi” (Baretti, 1880).
La voce è infine presente in una serie di istruzioni ufficiali redatte nel 1688 dal governatore della val d’Aosta sui provvedimenti da adottare per evitare invasioni dei Vallesani attraverso
il colle del Teodulo: “ai piedi della Royse verrà costruito uno
sbarramento così da poter respingere tutti coloro che si avventurassero a voler valicare la Royse” (Vaccarone, 1884).
Alagna 1420: nevallum
Pochi decenni dopo ad Alagna compariva una voce simile a
quella usata a Macugnaga e Gressoney per definire il confine
superiore degli alpeggi. Nel processo informativo del 1420 per
riconoscere i beni della Mensa vescovile di Novara in Valsesia,
erano nominate otto alpi con le relative coerenze; tra i confini
dell’alpe Auria compariva un generico nevallum (Fantoni e
Fantoni, 1995).
Anche ad Alagna, come a Macugnaga e a Gressoney, il confine
superiore degli alpeggi era individuato soltanto con un termine
che specificava le condizioni permanentemente innevate delle montagne. Un termine equivalente (gletscher) era citato nel
1574 da Simler anche per il lato vallesano del monte.
Alagna 1413: lo biosson
Nello stesso periodo però, in altri atti riguardanti le alpi appartenenti al vescovo di Novara poste sul versante valsesiano della montagna, comparve per la prima volta un toponimo
specifico. In un documento del 1411 relativo alla cessione
dell’alpe Bors veniva citato un toponimo apparentemente incomprensibile, il crossuz sue flura de croso Biossuz. Ma altri
documenti degli anni immediatamente successivi restituiscono piena comprensione alla voce Biossuz. Un documento del
1413 relativo all’alpe Auria specificava in dettaglio i confini
dell’alpe, costituiti dall’alpe Bors, attraverso l’acqua del Sesia,
dalla colma Machugnaghe, e da lo Biosson. In un altro documento dell’anno successivo lo stesso toponimo (lo Biosson)
era usato anche per identificare il confine settentrionale dell’alpe Bors, ubicata sull’altro lato del Sesia rispetto all’alpe Auria
(Rizzi, 1983). Negli stessi anni dai notai della Curia novarese
era utilizzato il toponimo generico nevallum, descrittivo delle
condizioni permanentemente innevate delle montagne a nord
dell’alpe. Altri notai locali utilizzavano un toponimo con un
nome singolare: Biosson.
I notai valsesiani continuarono ad usare toponimi simili anche
nei secoli successivi. Il Bioso compare confine di un fondo in
un documento del 1553 e in un atto relativo al pagamento di
un affitto del 1564 compare ancora tra i confini delle alpi di
Alagna il mons appellatus il Boso (Fantoni, 2008).
I nomi del Monte Rosa
Il nome valsesiano era utilizzato anche dagli eruditi rinascimentali. Pietro Azario nel 1365 cita una Montanea Boxeni,
Flavio Biondo nel 1451 un monte chiamato Boso e Leandro
Alberti nel 1550 il Monte Boso. Anche Leonardo, nella sezione
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A U G U S T A
Monte Rosa, Ghiacciaio del Lys - Gressoney-La-Trinité, Sant’Anna, 19 settembre 2016, gregge in discesa verso Sitten.
(foto Roberto Cilenti)
intitolata “Del colore dell’aria” del Codice Leicester, nel 1508,
utilizza lo stesso toponimo, scrivendo: E questo vedrà come
vid’io, chi andrà sopra Momboso, giogo dell’Alpi che dividono
la Francia dalla Italia. Nel Seicento il termine venne utilizzato
anche in tutte le opere lessicografiche pubblicate in Europa (da
Filippo Ferrari a Milano nel 1627, da Johan Jakob Hoffman a
Basilea nel 1677, dal Baudrand a Parigi nel 1681, da Thomas
Corneille a Parigi nel 1708). I notai valsesiani, il milanese Leonardo, gli eruditi rinascimentali italiani e i redattori dei dizionari enciclopedici europei utilizzavano tra Trecento e Seicento
un solo toponimo: Monboso.
Nel Cinquecento fece la sua comparsa nella cartografia geografica anche un toponimo che trasformò il nome generico rosa
nel nome proprio Monte Rosa. La voce comparve per la prima volta nella carta del Ducato di Milano (realizzata nel 1560
dal milanese Giovanni Giorgio Settala ed inserita dal 1570
nell’Atlante di Abramo Ortelio) come M. Rosio.
Per un paio di secoli nella cartografia europea il Monboso
continuò a competere con il Monte Rosa. In alcune carte della
prima metà del Settecento i due nomi comparivano ancora affiancati. Ma dalla metà del Settecento il Monboso scomparve
definitivamente anche dalle carte geografiche e per tutti rimase
un solo nome: Monte Rosa
Rigraziamenti
Si ringraziano Raffaella Lucianaz e Daniel Fusinaz del Bureau pour l’ethnologie et la linguistique (BREL) di Aosta per le
informazioni sulla voce ghiacciaio nel patois aostano; Valeria
del Centro Culturale Walser di Gressoney per la collaborazione
nella ricerca bibliografica e documentaria e il comune di Gressoney per la riproduzione del documento del 1377; Michele
Musso per la segnalazione dl toponimo Roseritz a Issime.
Il testo è tratto da un articolo (I nomi del Monte Rosa) pubblicato negli atti del convegno I nomi delle montagne prima di cartografi e alpinisti (Valsesia e Milano; 16, 24-25 ottobre 2015),
a cui si rimanda per i riferimenti bibliografici e archivistici.
Gli atti sono scaricabili dal sito www.nomidellemontagne.it.
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A U G U S T A
SEMPRE A PROPOSITO DEL
NOME DEL MONTE ROSA
I
n margine allo studio di Roberto Fantoni sul nome del Monte Rosa, vogliamo segnalare che, se pur non in epoca medievale, un altro curioso toponimo è stato attribuito alla montagna e cioè Gran Giazzaro.
In uno scritto rimasto inedito sulla storia della Valle Anzasca, del notaio Jacopo Gorrino di Vanzone, della seconda
metà del ‘700, un capitolo di detta storia era intitolato Del Gran Giazzaro volgarmente detto la Rosa d’Italia, facendo
chiaro riferimento al Monte Rosa. Questa notizia si trova in una pubblicazione di Pier Enea Quarnerio dal titolo Intorno
al nome del Monte Rosa (divagazione alpina di un linguista), Athenaeum, Pavia, ottobre 1916, pp 1-16. L’estratto è stato
da noi consultato presso la Biblioteca Nazionale del Club Alpino Italiano a Torino.
La denominazione Gran Giazzaro non sarà più ripetuta in letteratura, per quanto ci risulta, tuttavia Enrico Bianchetti nel
suo testo L’Ossola inferiore del 1878, nel vol. II a pag. 497, riferisce che il cardinale Madruzzo in una lettera del 1556
scrive che il torrente Anza discende da una montagna di giazzo e in realtà il nome del Monte Rosa è sempre stato legato
all’idea del ghiaccio (gletscher, ruise, roesa ecc.).
Laura e Giorgio Aliprandi
All’Archivio di Stato di Parma è conservata una “enorme, bellissima carta manoscritta in sei fogli” secondo il giudizio di Roberto Almagià come riportato nel suo testo “Monumenta Italiae Cartographica”, Firenze 1929 (p. 59).
La carta è della prima metà del Seicento, e comprende tutta l’Italia settentrionale, ed è stata da noi consultata più di
venti anni fa. Nel particolare del foglio VI, che illustra l’alto Piemonte e la regione alpina, dalle sorgenti del Sesia
sino al lago dei Quattro Cantoni, accanto al S. Bernardo è indicato il M. Rosio Il più alto d’Italia.
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A U G U S T A
IN MEMORIAM
Giovanna Nicco (1938 - 2015)
R
icordare Giò, una personalità poliedrica, sfaccettata, di carattere aperto, ma allo stesso tempo
chiuso e riservato, è impresa non facile. Ho avuto la gioia di conoscerla … sì un diamante sfaccettato. È stata certamente una donna moderna,
con l’accezione di oggi, ha studiato a Torino all’Istituto Tecnico Commerciale Sommeiller diplomandosi come ragioniera,
ha lavorato all’Olivetti di Ivrea, città dove ha vissuto. Con gli
amici e i colleghi ha condiviso le ansie di giustizia e di pace, ha
partecipato alle lotte sindacali, è stata comunista, poi radicale,
ma mai estremista, sempre critica a qualsiasi estremismo. Chi
la sentiva periodicamente sapeva che al mattino e alle 17.00 era
collegata a Radio Radicale con il suo amico Marco Pannella,
scomparso anche lui pochi mesi dopo la morte di Giò, a quell’ora Giò non era disponibile! Le sue idee politiche, sempre vissute con passione, le possiamo racchiudere in una frase: ‘portare
la speranza nel sociale’. Il suo motto, preso da Dante “nati non
foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”,
lo ripeteva in farsetto, in una maniera tutta sua, la gioia di conoscere ed informarsi. Sempre critica, e aperta al confronto, a
volte anche acceso, per fortuna, consapevole della ricchezza
dello scambio delle idee. I suoi consigli sempre utili e preziosi.
Lucida, sobria e obiettiva nel dare un suo pensiero ed opinione
su un fatto accaduto, mai inquinato da idee preconcette o pregiudizi, o da altre finalità, dote rara! Sì lucida, sobria e obiettiva anche nell’affrontare la sofferenza, così come negli ultimi
mesi della sua vita.
Amava Torino, ne conosceva la storia, ogni angolo e via, era
lei che spiegava a me, ‘torinese’, quella città, ed io la contraccambiavo per quanto riguarda Issime! Mi parlava in piemontese, ed a volte intercalava in töitschu. Sì lei aveva un piede
ad Issime, ma il resto era in giro per il mondo. Sarà capitato a
molti di sentirsi dire, quando la si chiamava al telefono: “oggi
sono a Parigi, o a Nuova Delhi o in qualsiasi altra parte”. Se
guardava un evento in televisione, soprattutto sportivo, trasmesso da qualche parte del mondo, subito tirava fuori dalla
sua libreria, libro e cartina di quel luogo e iniziava la lettura.
Entusiasta quando andò nel 1979 in Perù, come la vediamo al
mercato di Pisac nella foto qui pubblicata. Consapevole che
nulla ci portiamo nella tomba, Giò era desiderosa di trasmettere ciò che conosceva della storia e della cultura di Issime e
Gaby (il padre era di Gaby). A questo proposito recentemente
era riuscita ad acquistare da un cugino un bel ritratto di un suo
trisavolo Jean-Lin Christillin z’Loeisch-Mattisch (1785-1853)
che fu sindaco di Issime, colui che acquistò la casa dei nobili
Biolley nel Capoluogo intorno al 1835. Era il padre di MarieChristine-Victoire Christillin (1825-1895), la bisnonna di Giò.
Era contenta, probabilmente sarebbe andato perduto, disse:
“fatto, continuerà a rimanere ad Issime”.
Chi non ricorda il suo ‘salotto issimese’, l’oratoire come qualcuno lo definiva scherzosamente, dan hof il cortile davanti alla
sua casa di Issime, sempre aperto a tutti, ritrovo abituale dei
pomeriggi estivi. L’associazione Augusta è a lei grata, molte
delle informazioni su Issime utilizzate nelle pubblicazioni hanno un marchio inconfondibile, quello di Giò. Ci hai lasciato il
14 dicembre del 2015, eh sì ci manchi!
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A U G U S T A
IN MEMORIAM
Maria Stévenin (1917-2015)
L’
associazione Augusta vuole ricordare Maria
Stévenin ved. Linty, conosciuta ad Issime
come Vitorsch Maréji, scomparsa lo scorso
30 novembre 2015 all’età di 98 anni. Con lei
si è chiuso un prezioso libro di storia, scrigno
di conoscenze della cultura del suo paese Issime/Gaby. Nata il 4
agosto del 1917 ad Issime al villaggio del Praz, figlia di Stévenin Vittorio (1859-1938) figlio a sua volta di Stévenin Vittorio,
della famiglia chiamata Pitou Djoan originari di Gaby e stabilitisi ad Issime, e di una Chamonal di Issime; la madre Louise
Stévenin (1897-1978), anch’essa della famiglia dei Pitou Djoan proveniva da Gaby, chiamati ad Issime Dŝchannetsch, Djanet a Gaby. Maria imparò il töitschu dal padre che era bilingue,
e come dice Maria: “In casa si parlava il patois di Gaby, mentre
in campagna con il papà si parlava töitschu”. La sua testimonianza non è passata inosservata all’associazione Augusta, con
lei abbiamo raccolto moltissimi vocaboli delle due parlate, del
töitschu e del patois, abbiamo raccolto i toponimi del Vallone
di Bourinnes, dove lavorò per anni nell’alpeggio di famiglia, e
quelli dei villaggi del Praz e di Champrion e abbiamo raccolto
molte storie e leggende, tutte pubblicate. Nonché innumerevoli
registrazioni multilingue su svariati argomenti. Molti contributi comparsi sulla rivista Augusta sono stati scritti anche grazie a
lei. Ma con lei abbiamo anche condiviso il dolore per la perdita
prematura dell’unico figlio che non scordava mai di ricordare
tutte le volte che l’abbiamo incontrata. Anche in questo caso
la sua testimonianza di vita, affrontata con dignità e compostezza se pur nel dolore incolmabile, ci ha dato la possibilità di
riflettere su come la vita vada vissuta non centrata su di sè ma
donata per quanto possibile.
Siamo debitori di un prezioso retaggio che, grazie alla sua
disponibilità a volerlo trasmettere, non è andato perduto. La
vogliamo ricordare anche per la sua simpatia e straordinaria accoglienza che ci ha sempre riservato. Grazie Maria – Mercéi!!!
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