Madri Assassine - Retroscena psicologico forense Mothers killer

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Madri Assassine - Retroscena psicologico forense Mothers killer
Madri Assassine - Retroscena psicologico forense
Mothers killer- Forensic psychological backstory
Cristina Virduzzo1, Valeria Verrastro2
Riassunto
Nulla è più atroce del togliere la vita a chi ancora non ne ha conosciuto gli odori, i sapori, i dolori e le gioie: nulla è più atroce del togliere la vita ad un bambino, specie
quando il gesto è compiuto da chi gliel’ha donata.
La storia delle madri che uccidono i propri figli affonda le proprie radici in tempi remoti e ritorna nei secoli, lasciando dietro di sé una scia di morte ed orrore, in un processo ciclico dove i “corsi e ricorsi storici” di cui parlava Gian Battista Vico si ripresentano continuamente, facendo della Sindrome di Medea un fenomeno sempre di stringente attualità. Il mito di Medea, la figura protagonista dell’omonima commedia di Euripide, può, infatti, essere considerato come una valida chiave di lettura per poter comprendere le fantasie che si celano dietro i gesti di chi si macchia di un crimine tale.
Questo gesto ha suscitato e suscita ancora il vivo interesse di psicologi e psichiatri perché una madre che sopprime i propri figli, punisce anche se stessa. Il vissuto psicologico delle madri – Medea è, infatti, ricco di emozioni e passioni contrastanti che, nonostante la crudeltà del gesto a cui sono correlate, affascinano e seducono, spingendo di
conseguenza a volerne conoscere le ragioni scatenanti.
Parole chiave
Figlicidio, depressione, madri assassine, infanticidio, giustizia.
Abstract
There is nothing more dreadful than taking life away from those who never enjoyed
smells and flavors of it, who never experienced its joys and sorrows. There is nothing
more dreadful than taking life away from a child, especially when this crime is committed by the same person who gave him life. The history of mothers killing their children
has ancient roots, and it repeatedly comes back, leaving around a scent of death, a
scent of horror. It is a cyclic process in which the "occurrences and recurrences of history", idealized by Gianbattista Vico in his theories, come around and turn the Medea
syndrome into a phenomenon which is always current. The myth of Medea, name of the
main character of the Euripide's greek tragedy, is a useful way of understanding the
mind of those who commit such an awful crime. This action, indeed, attracts the attention of psychologists and psychiatrists, because when a mother kills their own children,
she is punishing also herself. The psychology of a mother, nevertheless, is an element
embodying feelings and emotions that go one against another. This is principally why,
though the cruelty of the action itself, this behavior is fascinating and attracting so that
the reasons lying beyond it are widely considered a matter of study.
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Keywords
Filicide, depression, mothers killer, infanticide, justice.
La Sindrome di Medea: madri che uccidono i figli
Si parla di “Sindrome di Medea” solo in relazione al dramma dell’uccisione dei figli, è
una patologia che ha origini molto antiche; viene scatenata da una crisi di abbandono,
indotta dal partner, non risolta ed enfatizzata, che spinge così come il mito euripideo a
un desiderio di vendetta estremo e brutale.
Questo gesto suscita l’interesse di psicologi e psichiatri perché una madre che sopprime
i propri figli, punisce anche se stessa.
Da un punto di vista psicologico, nel momento dell’uccisione del figlio, la madre raggiunge l’apice del delirio di onnipotenza (tipico delle crisi psicotiche), e si autonomina
giudice di vita e di morte.
La madre Medea considera i figli una sorta di appendice del proprio corpo, come ancora
trattenuti dal cordone ombelicale che trasmette linfa vitale, una sorta di vincolo inscindibile.
Secondo la moderna psichiatria la Sindrome di Medea presenta nuove sfumature, in particolare la cancellazione della memoria dell’atto delittuoso, le madri omettono la propria
partecipazione e la loro presenza, un’auto proclamazione di innocenza ed una dichiarazione di protezione verso le proprie vittime.
I “figlicidi” oggi sono un fenomeno sottovalutato e sottostimato, poiché nello studio
della statistica in questione si evince che la maggior parte dei delitti non può essere riportata perché non denunciati o non arrivati ad omicidio conclamato.
Lo stesso Lombroso (1892), padre della Criminologia positivista, considerava una rarità
la donna violenta, nella quale lo sbocco naturale dell’aggressività si pensava fosse la
prostituzione.
L’assassinio condotto da una donna, sembra essere in contrasto con il ruolo attribuito
oltre che al sesso femminile in generale anche alla madre in particolare vista come protettrice della famiglia; da un punto di vista evoluzionistico il figlicidio risulta “contro natura” per la sopravvivenza della specie di cui la madre è portatrice.
Un’importante riflessione può nascere se paragoniamo il Complesso di Medea con la
“Sindrome del molestatore assillante”, ovvero lo Stalking: possiamo notare in entrambi i
disturbi un eccessivo bisogno di controllo sugli altri, in particolare sulla persona amata
sia essa il proprio figlio (Sindrome di Medea) o il proprio partner (Stalking).
Secondo alcuni studiosi l’origine viene fatta risalire ad una sensazione genetica alla gelosia, nel momento in cui entra in gioco la paura di perdere una persona importante, ma
questa paura è riferita non alla persona in sé, ma alla perdita in se stessa.
Carotenuto affermava che “Si nasce traditi”, dopo nove mesi di contatto materno, la
madre avverte una sensazione di abbandono e perdita del proprio figlio fino ad allora
percepito come parte di sé; gradualmente la madre si accorge che il suo amore potrà essere sostituito da altre forme di amore (amici e partner) che la rimpiazzeranno.
Un’altra caratteristica del Complesso di Medea è il bisogno di sentirsi unici ed esclusivi,
la sensazione che molte madri hanno di perdere una parte di loro stesse è influenzato dal
proprio ruolo sociale, infatti per le madri la massima realizzazione di sé è data
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dall’accudimento del marito, della casa, dei figli verso i quali opera il cosiddetto investimento emotivo.
L’uccisione di un essere innocente è tra i fatti di cronaca più atroci nella nostra civiltà, a
maggior ragione quando le autrici di questo delitto sono le madri; questi casi si riempiono di studiosi in cerca del seme della follia che ha scatenato la malattia mentale, a
sua volta interpretata come causa, movente ed attenuante.
La Sindrome di Medea viene menzionata solamente in relazione al dramma
dell’uccisione dei figli.
Jacobs (1988), definisce il Complesso di Medea come:
“Il comportamento materno finalizzato alla distruzione del rapporto tra padre e figli dopo le separazioni conflittuali: così l’uccisione diventa simbolica e ciò che si mira a sopprimere non è più il figlio stesso ma il legame che ha con il padre”.
L’abuso emotivo nei confronti dei figli inizia quando, durante una separazione conflittuale, gli ex coniugi coinvolgono i propri figli in una “gara di lealtà” (Byrne, 1989) forzandoli a scegliere il genitore preferito, a formare una nuova famiglia solo con il genitore prescelto; nei soggetti con età compresa fra i 9 e i 12 anni questo fenomeno è stato
chiamato “allineamento del minore con un genitore” (Wallerstein, Kelly, 1980),
l’obiettivo è escludere l’altro genitore dalla propria vita.
Le madri Medea, sono affette da gelosia patologica, che può essere considerata anche
come una passione (visto che deriva dal greco “patire”), in quanto il geloso non agisce,
ma subisce (Van Sommers, 1993), o più precisamente prima di agire subisce.
Complesso di Medea e Sindromi associate al fenomeno
Nell’ambito dell’argomento trattato, meritano particolare attenzione alcune patologie
misconosciute e controverse, sebbene direttamente coinvolte nel fenomeno, che spiegano le ragioni che conducono a una più generale sottovalutazione del figlicidio.
Queste patologie sono note come, la Battered Child Syndrome, la Sindrome di
Münchausen per Procura (SdMpP) e la Sudden Infant Death Syndrome (SIDS).
Battered Child Syndrome
La Battered Child Syndrome, è una condizione clinica riscontrata nei bambini piccoli
che hanno ricevuto gravi abusi fisici da parte materna, che ne provocano la morte o
un’invalidità permanente.
La sindrome dovrebbe essere considerata in ogni bambino che presenti fratture, ematoma subdorale, ritardo di crescita, gonfiore dei tessuti molli o lividi nel corpo.
Fattori psichiatrici sono probabilmente di primaria importanza nella patogenesi del disturbo, ma la conoscenza di questi fattori è limitata; i medici hanno il dovere e la responsabilità verso il bambino di richiedere una valutazione completa del problema per
garantire il non verificarsi del trauma (Battered Child Syndrome, Kempe, Silverman,
Steele, Jama, 1962).
Secondo alcuni studi condotti Michael Klein e Leo Stern, la Battered Child Syndrome
può essere causata dal basso peso alla nascita; cinquantuno casi che presentano la Battered Child Syndrome, osservati per un periodo di nove anni, presso l’ospedale di Montreal, sono stati rivisti per esplorare la possibilità che il basso peso alla nascita predispone a questa condizione.
Da questi studi emerge che il maltrattamento di neonati che presentano basso peso alla
nascita (23,5 %), può essere dovuto ad un elevato grado di isolamento e separazione dei
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bambini dai genitori nel periodo neonatale (degenza media di 41,4 giorni), questo può
essere inteso come privazione nella storia materna (Klein, Stern, 1971).
Esaminando la letteratura riguardante i maltrattamenti sui minori, emergono altri studi
condotti da Smith e Selwyn M. sui bambini maltrattati di Birmingham (Smith, Selwyn,
1976).
In questo studio sono stati esaminati 134 neonati maltrattati e bambini sotto i 5 anni di
età, ed i loro genitori sono stati osservati per un periodo di 2 anni; i genitori sono stati
sottoposti a colloqui psichiatrici, psicologici e sociali standardizzati, ed i risultati sono
stati confrontati con quelli dei genitori di un gruppo di bambini ricoverati in ospedale
come casi di emergenza.
Dai risultati si evince che l’età media dei bambini abusati è di 18,5 mesi e non vi è nessuna differenza fra i sessi; il 15% riporta basso peso alla nascita rispetto al 5-7% della
popolazione generale; non è stato trovata alcuna relazione tra il maltrattamento e le difficoltà durante la gravidanza, il travaglio o le difficoltà dopo la nascita; l’età media delle
madri che abusano dei loro figli è di 23,5 anni circa quattro anni più giovani rispetto la
media nazionale britannica di madri che hanno dato alla luce il loro primo bambino.
Importanti fattori riscontrati sono stati la mancanza di coesione familiare, ed il 75% delle madri e il 66% dei padri ha una personalità anormale; tra le madri emergono minori
disturbi di personalità ma maggiori caratteristiche di immaturità emozionale e di dipendenza (ibidem).
Sindrome di Münchausen per Procura (SdMpP)
La madre Medea non si mostra incurante o maltrattante, ma è al contrario, premurosa e
ansiosa per la salute e il bene dei propri figli; questo è quanto accade nella Sindrome di
Münchausen per Procura, conosciuta anche come Sindrome di Polle o come Disturbo
Fittizio per Procura, una patologia simile alla Sindrome di Medea, per cui trae in inganno una madre Medea apparentemente affettuosa e amorevole verso i figli, e loro stessi,
nell’età evolutiva, non sono in grado di discernere.
La Sindrome di Münchausen per Procura è una sindrome in cui la madre attribuisce al
bambino sintomi e malattie di cui non soffre realmente, e lo sottopone ad inevitabili cure ed accertamenti, nella condizione delirante che sia affetto da qualche patologia fisica.
Il nome di questa Sindrome deriva da un personaggio effettivamente esistito, il barone
di Münchausen, che visse in Germania nel XIX sec. questo nobiluomo, che ad un certo
punto della sua vita si ritirò nella tenuta di famiglia dalle parti di Hannover, era noto per
i suoi racconti estremamente fantasiosi ed avvincenti, ma soprattutto umoristici.
Questa patologia è una grave forma di abuso in cui il bambino rischia seri danni fisici e
psicologici e spesso anche la vita.
La Sindrome di Münchausen per Procura è sempre stata oggetto di studio, soprattutto
per le particolari modalità di estrinsecazione e per il coinvolgimento di bambini in qualità di pazienti (Meadow, 1982; Hathaway, 1984; Karlin, 1995; Bools, 1996).
Tale sindrome si caratterizza per il coinvolgimento di un adulto - generalmente un genitore, più spesso la madre-che sottopone il figlio a lunghe analisi o ad accertamenti diagnostici a volte molto invasivi per l’accertamento della patologia “raccontata”
all’operatore sanitario, l’autore fa assumere alla vittima lo stile di vita del malato.
I metodi impiegati dalle madri nel tentativo di procurare la malattia nei propri figli sono
molteplici e talmente ben predisposti che si rende difficile da parte dei medici, capire le
innumerevoli malattie “fittizie” create appositamente a danno delle piccole vittime
(Agosti, Gentilomo, Merzagora Betsos, 2000).
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Le modalità con cui si manifesta la Sindrome di Münchausen per Procura sono varie,
può essere attivata sia un’opera di suggestione per convincere il bambino di essere malato, o possono essere indotti sintomi somministrando sostanze nocive.
Si possono, quindi, osservare alcuni comportamenti che vengono messi in atto dalla
madre, come: l’omissione di cure, la somministrazione di droghe o sostanze nocive, la
somministrazione di sale o veleni, fino ad arrivare al soffocamento.
La causa di questo comportamento spesso è dovuta ad un attacco verso il partner che è
un padre emotivamente distante e fisicamente assente, questo è l’elemento che accomuna la Sindrome di Münchausen per Procura alla Sindrome di Medea, poiché la crisi matrimoniale dà alla madre la giustificazione di vendicarsi dell’uomo che ha vicino e con il
quale ha avuto un figlio, attaccando proprio il bambino.
Normalmente nelle coppie che si verifica la patologia, il padre è l’elemento passivo, e la
madre appare come la persona che decide all’interno della famiglia, spesso la differenza
fra i coniugi è evidente anche a livello intellettivo, culturale e sociale e questo squilibrio
è in genere a favore della donna.
In genere la madre è colta ed ha avuto una formazione medica o infermieristica senza
essere necessariamente laureata o diplomata, è un soggetto affascinato dalla medicina,
segue programmi medici in tv o legge riviste e giornali di approfondimento.
La diagnosi spesso arriva di sorpresa perché la madre viene ritenuta come un esempio di
genitore amorevole; gli aspetti patologici riscontrati sono le reazioni paranoidi, la convinzione maniacale che il figlio sia davvero malato e la personalità sociopatica.
Possiamo inoltre riassumere schematicamente le varianti descritte da Libow e Schreier
(Jacobi, Dettmeyer et al., 2010), sono:
•
L’induttore attivo (active inducers), induce i sintomi, procurando deliberatamente lesioni o somministrando sostanze (chimica abuse) che alterano qualitativamente o quantitativamente l’equilibrio omeostatico della vittima.
•
Il “cercante” aiuto (help seeker).
•
Il medical shopping per procura (doctors addicts).
Per concludere possiamo affermare che la Sindrome di Münchausen per Procura consta
di due componenti: la vittimizzazione del bambino, e la motivazione che genera il comportamento del responsabile, che è il bisogno di attenzione, di essere percepito come un
bravo genitore o come un martire (Sanders, Bursch , 2002).
Infine la Sindrome di Münchausen per Procura può essere riassunta nelle seguenti tre
parole chiave: induce-fabbricate-exagerate, vale a dire indurre (forma severa) - inventare (forma moderata) - esagerare (forma lieve) segni/sintomi.
I soggetti appartenenti alle ultime due categorie falsificano in modo passivo la presentazione clinica, amplificando o alterando il quadro per ottenere l’attenzione desiderata da
parte delle figure mediche e pertanto rappresentano, almeno teoricamente, forme meno
gravi (Levin, Sheridan, 2001).
Sudden Infant Death Syndrome (SIDS)
La Sindrome della morte Infantile Improvvisa è la prima causa di morte nei neonati e
lattanti apparentemente sani (Byard, 2004).
Quando si parla di Sindrome della morte Infantile Improvvisa o di “morte in culla”, si fa
riferimento alla morte di un bambino di età inferiore ad 1 anno per cause improvvise e
che appaiono inspiegabili anche dopo l’autopsia, la valutazione della storia clinica e
l’esame del luogo in cui è avvenuto il decesso.
La sindrome della morte Infantile Improvvisa è la prima causa di morte nel primo anno
di vita di un neonato, circa il 40% dei decessi nel periodo post natale, e nel 90% dei casi
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i bambini non hanno raggiunto i sei mesi di vita, la massima incidenza si verifica tra i
due e i quattro mesi.
Ma sovente è stato scoperto che la vera causa di morte del neonato era infanticidio, laddove era stato diagnosticato in prima istanza la sindrome da morte in culla, è stato stimato che tra il 5% e il 20% dei casi la Sindrome della morte Infantile Improvvisa è in
realtà infanticidio.
Nonostante le numerose ricerche ad oggi l’eziopatogenesi della SIDS, definita malattia
delle 100 ipotesi, rimane sconosciuta.
Le indagini epidemiologiche hanno individuato numerosi fattori di rischio alcuni dei
quali non modificabili: etnici (negli USA è 2-3 volte più frequente negli afro americani
e negli indo americani), costituzionali, e stagionali (mesi freddi); ed altri modificabili: il
fumo materno durante e dopo la gravidanza, la posizione prona durante il sonno, strutture inadeguate per il sonno, ed elevata temperatura.
L’American Academy of Pediatrics nel 2001, per accertare i casi di Sindrome della morte Infantile Improvvisa ed i casi di omicidio, ha stabilito che la diagnosi debba essere
formulata dopo un’indagine medico legale condotta secondo precisi protocolli che consentano la in equivoca esclusione di qualsiasi trauma, abuso, incuria, avvelenamento e
di cause patologiche naturali, tra cui le malattie genetiche o le malattie metaboliche.
Il mondo psicologico della madre che uccide i propri figli
La maggior parte delle madri che compie un figlicidio non presenta malattie mentali riconosciute come alterazioni mentali o psicosi, gravi a tal punto da avere rilievo penale
(Nivoli, 2002).
Si tratta quindi di madri killer che la giustizia priva di libertà, ponendole in un carcere
comune e non in un ospedale psichiatrico giudiziario alternativa per le madri dichiarate
dalla legge “incapaci di intendere e di volere”.
Analizziamo di seguito alcune motivazioni che possono spingere una madre al delitto di
figlicidio (ibidem):
•
L’atto impulsivo delle madri che sono solite maltrattare i figli.
Si tratta di una tipologia di madre (battering mothers) violenta, che è solita maltrattare i
figli usando la violenza fisica, in modo sadico e crudele; queste madri in seguito ad un
pianto del figlio vanno incontro ad un impulsivo agito aggressivo per cui possono percuotere il figlio con un oggetto contundente, affilato o soffocarlo; queste madri non
hanno messo in atto un progetto omicidario preordinato, ma avevano intenzione di usare
la violenza come precedentemente fatto in passato; queste madri presentano disturbi di
personalità, aspetti depressivi, scarsa intelligenza ed irritabilità, inoltre vivono in situazioni familiari problematiche: numerosi figli, condizioni economiche indigenti, difficoltà legate al lavoro o all’alloggio, problemi con il partner; spesso queste donne provengono a loro volta da famiglie problematiche ove loro stesse sono state vittime di maltrattamenti ed abusi.
•
L’agire omissivo delle madri passive e negligenti nel ruolo materno.
In alcuni casi la morte del figlio può essere la causa di atti omissivi della madre che non
lo accudisce e tutela in modo adeguato, ad esempio la madre non vuole o non è in grado
di vestirlo in modo adeguato alla temperatura, portarlo dal medico e farlo curare in tempi utili, provvedere a nutrirlo in modo efficace ecc.; si tratta di madri (coping maternel)
che non sono in grado di affrontare la loro funzione materna, per ignoranza, incapacità
personale, insicurezza, non riescono più a percepire in modo naturale i bisogni del neonato, ma iniziano a vivere le esigenze del figlio come qualcosa di strano, di estraneo che
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complica e rovina la loro vita; alcune di queste madri possono avere anche problemi di
natura psicotica, con paure e angosce di annientamento, che le rendono inadatte a prendersi cura del figlio; in questi casi l’omicidio avviene in modo passivo: alimentazione
insufficiente, malattie non curate ed incidenti mortali.
•
La vendetta della madre nei confronti del compagno.
In alcuni casi la madre può uccidere il figlio per vendicarsi dei torti subiti dal marito, in
modo da arrecare un dispiacere al proprio compagno, questa dinamica è nota come Sindrome di Medea; queste madri “vendicative” presentano invece disturbi di personalità
con aspetti aggressivi, tendenze suicidarie, comportamenti impulsivi; inoltre le loro relazioni con i compagni sono spesso ostili, e tendono ad utilizzare il figlio come un oggetto inanimato, una sorta di arma vendicativa conto il proprio partner.
•
Le madri che uccidono i figli non desiderati.
Alcune madri uccidono i figli deliberatamente, in modo attivo e cosciente, perché non
desiderato; sono madri che non hanno desiderato la gravidanza e spesso il figlio “non
voluto” ricorda loro momenti tristi e penosi della loro vita: abbandono dal parte del
compagno, indigenza economica, episodi depressivi e violenze sessuali subite; queste
madri presentano tratti di personalità impulsivi ed antisociali, hanno anche una storia di
comportamenti devianti e di abuso di droghe.
•
Le madri che uccidono i figli trasformati in capri espiatori di tutte le loro
frustrazioni.
Vi sono delle madri che ritengono che i figli abbiano rovinato drammaticamente la loro
esistenza, queste madri hanno la percezione che il loro figlio abbia “sformato” il loro
corpo, le abbia condizionate a vivere in un ambiente non gradito, e le abbia costrette a
vivere con un compagno che non amano; queste donne somatizzano tutte le loro frustrazioni di vita sul bimbo che ritengono essere l’unica causa del loro fallimento esistenziale; sono in genere madri insicure con tratti di personalità borderline, possono inoltre
presentare tratti impulsivi ed aggressivi, alcune di loro possono soffrire di malattie mentali con elementi persecutori, deliranti e paranoici, per cui possono percepire il loro
bimbo come un persecutore.
•
Le madri che negano la gravidanza e fecalizzano il neonato.
Ci sono madri che lasciano morire il neonato subito dopo il parto, generalmente sono
molto giovani, non hanno una situazione sociale chiara e definita con il compagno che
in genere è più adulto e dopo averle messe incinta le abbandona; queste donne hanno
una forte dipendenza dai legami familiari, sono immature, hanno tratti regressivi, infantili e narcisistici, spesso tali madri negano la loro gravidanza, comportandosi come se
nulla fosse, si vestono in modo inadeguato, non richiedono consulenze specialistiche e
ginecologiche; tendono inoltre a partorire da sole e in condizioni clandestine, gettando il
feto partorito nelle discariche, come se si trattasse di un prodotto fecale, cioè un oggetto
privo di vita, altre madri invece abbandonano i loro figli in luoghi pubblici con la speranza che possano essere ritrovati.
•
Le madri che ripetono sul loro figlio le violenze che avevano subito dalla
propria madre.
Numerose madri figlicide hanno avuto a loro volta una madre che non si comportava
nei loro confronti in modo adeguato, infatti le madri che uccidono i propri figli hanno
avuto una madre che le minacciava di abbandono, le ha rese vittime di abusi psicologici,
di violenza, di promiscuità sessuale e di trascuratezza; queste madri che hanno avuto
una “madre cattiva” non sono riuscite ad avere una buona identità materna, sono confuse nel loro ruolo femminile e non tollerano le frustrazioni; sono madri che con i loro figli pur desiderandolo non riescono ad essere delle “madri buone”; ripeteranno gli stessi
errori della loro madre con i propri figli, usando loro violenza sino a compiere gesti
omicidari.
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•
Le madri che spostano il desiderio di uccidere la loro madre cattiva ed
uccidono il figlio cattivo.
Numerosi autori sostengono che tra i motivi che stimolano una madre al figlicidio, risiedano l’odio e l’astio nei confronti della “madre cattiva”, in questo modo vi è un grave
conflitto con la propria madre percepita come cattiva, che si vorrebbe distruggere; questa aggressività si sposta verso il figlio, che spesso è vissuto non come è nella realtà, ma
come le reazioni emotive della madre ed i suoi meccanismi psicologici di difesa lo fanno apparire (Rodenburg, 1971).
•
Le madri che desiderano uccidersi e uccidono il figlio.
Ci sono madri depresse che non hanno più alcun interesse di vivere su questa terra e decidono di togliersi la vita, queste donne vivono in una situazione depressiva senza speranza (hopelessness), senza possibilità di ricevere aiuto da alcuno (helplessness), afflitte
dalla loro percepita pochezza e indegnità (whortlessness), e si convincono che loro figlio non potrà vivere in un mondo così ostile e cattivo senza di loro; per questo motivo
uccidono il bimbo e si suicidano, sono madri che si muovono in un progetto si “suicidio
allargato”.
•
Le madri che uccidono il figlio perché pensano di salvarlo.
Queste madri si muovono in un contesto mentale di tipo paranoideo persecutorio, per
cui ritengono che l’unico modo per poter sfuggire ad un mondo crudele e maligno che le
perseguita sia la morte propria e del proprio figlio; queste madri oltre a presentare aspetti depressivi e di tipo persecutorio, possono essere anche vittime di allucinazioni uditive, cioè sono convinte di udire voci che non esistono, che esigono la morte del bimbo
come unica possibilità di salvezza; può trattarsi di un figlicidio di tipo altruistico.
•
Le madri che uccidono il figlio per non farlo soffrire.
Si tratta di figlicidi ove le madri decidono di uccidere il proprio figlio per non farlo più
soffrire da malattie reali, nei casi più classici il figlio è affetto da una grave malattia organica che lo obbliga a soffrire giornalmente grandi dolori; bisogna distinguere questi
omicidi compassionevoli (mercy killing) in cui la madre privilegia il bene del figlio, dagli omicidi pseudo compassionevoli, dove la madre uccide un figlio malato, portatore di
handicap solo per ottenere un guadagno personale e liberarsi di un così penoso e grave
fardello di preoccupazioni; queste madri uccidono nella convinzione di salvare il figlio
dalle sofferenze future.
•
Le madri che prodigano cure affettuose al figlio ma in realtà lo stanno
subdolamente uccidendo.
A questa categoria appartengono le madri che sono affette da Sindrome di Münchausen
per procura, queste madri provocano nel figlio lesioni spesso gravi che simulano delle
malattie al fine di ottenere l’attenzione da parte del medico; le madri affette da Sindrome di Münchausen per procura possono essere distinte dalle madri ricercatrici di aiuto
(help seekers), cioè quelle madri che continuano a richiedere esami medici per i propri
figli a causa dei disturbi che loro hanno indotto; le madri affette dalla Sindrome di help
seekers, si differenziano in quanto la ricerche di cure mediche è più saltuaria, la patologia indotta è meno grave ed è motivata da un preciso bisogno della madre che necessita
di un sostegno da parte di medici, infermieri, nell’allevamento del bambino.
La Depressione Post Partum come causa di figlicidio
Sono molte le motivazioni che portano una madre ad uccidere il proprio figlio, oltre le
patologie psichiatriche come la Sindrome di Medea e la Sindrome di Münchausen per
procura, anche la Depressione post partum sembra essere responsabile.
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Colpisce circa il 10% delle neo mamme; ed è caratterizzata da sintomi riconoscibili quali tristezza, senso di inadeguatezza, disturbi dell’alimentazione, isolamento sociale,
perdita di interesse e trascuratezza di sé.
La percentuale di incidenza della depressione post partum oscilla tra il 10% e il 20%
nelle società occidentali, percentuale che sembra essere in costante crescita nell’ultimo
ventennio.
Alcuni studi riportano tassi di prevalenza tra le donne dal 5% al 30%, tra gli uomini, invece, l’incidenza di depressione post partum è stata stimata tra il 2% e il 25%.
La depressione post partum è considerata il “lato oscuro” della maternità, è una patologia che se individuata in tempo può essere curata, per cui è fondamentale intervenire
preventivamente soprattutto perché ci sono fattori presenti anche durante la gravidanza
come la familiarità psichiatrica, la vicinanza tra due gravidanze, una gravidanza non desiderata, oppure un rapporto conflittuale di coppia.
Contro il rischio di infanticidio causato dalla depressione post partum è stato proposto il
Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO).
La maternità rappresenta un periodo di grande vulnerabilità, ed è proprio in questo periodo che si corre il rischio di scivolare in patologie che interessano la psiche, la depressione ante partum che insorge durante la gravidanza è un valido predittore di depressione post partum; la nascita di un bambino è causa di notevole squilibrio poiché diventare
genitori implica un riadattamento della situazione personale, familiare e di coppia,
quindi è anche possibile parlare di depressione post partum del nucleo familiare.
I disturbi psichiatrici post partum che possono essere causa di infanticidio possono essere di vario tipo, quindi è utile innanzitutto distinguere la depressione post partum dal
Baby blues, che è un breve periodo di infelicità e tristezza che colpisce almeno il 50% 70% delle donne nel periodo post natale, di cui solo il 20% degenera in depressione post
partum.
Fa parte dei processi di adattamento della madre alla nascita del bambino, i sentimenti
di gioia si alternano ai sentimenti di tristezza; il picco si realizza intorno alla quinta
giornata e si risolve in genere entro i dieci giorni dal parto, la neo mamma si sente triste,
spossata ed ha una inconsueta facilità al pianto, ha una buona componente di cause ormonali e fisiologiche combinate al forte stress del parto.
Generalmente il Baby blues si risolve da solo, e ricevere aiuto e sostegno nella gestione
della casa e del piccolo, per avere qualche momento per sé, aiuta a non farlo degenerare.
La depressione post partum, nella forma di episodio depressivo maggiore, è la più comune tra le complicanze gravi del post partum, e viene diagnosticata quando la donna
da più di due settimane dopo il parto presenta umore disforico, perdita di interesse, piacere a svolgere attività insolite, in aggiunta ad almeno quattro dei seguenti sintomi: disturbi del sonno, scarsa autostima, sensi di colpa, scarsa energia, riduzione della capacità di prendere decisioni, attivazione o rallentamento psicomotorio, assenza di speranza
per il futuro, ideazioni di suicidio ed atteggiamento scettico nei confronti dei principali
valori della vita.
Nel caso della depressione post partum, a questi sintomi si aggiunge quello di inadeguatezza al ruolo materno, con eccessiva ansia per la salute del bambino.
La sintomatologia può durare da qualche settimana ad alcuni mesi, posto che una delle
caratteristiche è la tendenza alla cronicità.
Ha un’incidenza che si aggira intorno al 20 - 25%, ed può essere diagnosticata anche
molto più tardi.
In rari casi (1:1000 nati vivi) i sintomi depressivi del post partum possono essere accompagnati da sintomi psicotici, come: allucinazioni, perdita di contatto con la realtà,
paranoia, delirio, comportamento bizzarro, alti livelli di impulsività, euforia.
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In questi casi si verifica la psicosi puerperale, si tratta di un disturbo psichiatrico severo
ad esordio improvviso (entro due settimane dal parto), che può culminare con
l’infanticidio e/o il suicidio della madre.
Ha fortunatamente un’incidenza molto bassa, 1-2%.
Lo strumento maggiormente usato per lo screening della depressione post partum è la
Scala di Edimburgo (EPDS), ideata nel 1987, da Cox, Holden e Sagovsky, si tratta di
uno strumento convalidato da numerosi studi, semplice, facile da usare ed affidabile, sia
nella pratica clinica, sia nella ricerca.
La diagnosi di questa patologia è spesso ritardata poiché la depressione suscita molto
spesso sentimenti di colpa e di vergogna, che aumentano la reticenza dei pazienti a
chiedere aiuto agli specialisti.
Conclusioni
Sembra evidente, che le cause scatenanti di un infanticidio, come anche i retroscena psicologici e l’anamnesi di ciascun colpevole, siano completamente diverse tra loro.
Ciò fa riflettere sul fatto che, nonostante possano essere talvolta riscontrate delle costanti nel comportamento degli autori di reato in genere, non possono essere perfettamente
elencati e racchiusi in parametri standard le modalità di azione, i profili psicopatologici
e le storie di vita dei soggetti che commettono lo stesso reato.
Ciò comporta (o dovrebbe comportare) un atteggiamento differente da parte della giustizia nei confronti di ciascun singolo caso.
Tuttavia, potrebbe sembrare che non sempre la Legge sia bendata per garantire rigore ed
equità. Alla luce di tale osservazione, si potrebbe riflettere sul fatto che non esistono
modalità standard di azione da parte della giustizia in termini di pene e misure cautelative di fronte a casi tra loro simili: è vero che ogni caso, come ogni individuo, è differente l’uno dall’altro, ma la Legge dovrebbe essere chiara e dovrebbe mantenere una linea di condotta costante ed uguale per tutti.
Si tratterebbe semplicemente di delineare ed applicare misure d’azione standard, mettendo sullo sfondo le differenze contestuali e personologiche per guardare invece alla
tangibilità dei fatti e punire quelli tra loro simili nella medesima maniera.
La depressione post partum in particolare può essere considerata come il “lato oscuro”
della maternità, una patologia che se individuata in tempo può essere curata e per cui sarebbe fondamentale intervenire preventivamente.
In conclusione, appare a tal punto importante invitare a riflettere su quanto sia importante aiutare la madri a sostenere la maternità, proprio perché la depressione post - partum ha oggi più che in passato un’incidenza maggiore.
Sono parole sbagliate e dannose quelle che associano mamme depresse al TSO.
Parole che suggeriscono il disimpegno di fronte al richiamo di una madre disperata, sola
e fragile; suggeriscono l’impotenza di quella medicina che vuole giustificare tutto con
squilibri ormonali e molecole.
Suggeriscono, purtroppo, la mancanza di attenzione nei confronti della maternità: lacuna che interessa mariti e neo-padri, gente comuni, amici, e molti professionisti del settore.
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Psicologo Clinico. Esperto in Psicologia Giuridica. Specializzando in Psicoterapia Strategica – Istituto
per lo studio delle psicoterapie, Catania.
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Ricercatore in psicologia dello sviluppo e dell’educazione, Università degli Studi di Cassino e del Lazio
Meridionale.
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