Lazio e Sabina 9 - SOPRINTENDENZA PER I BENI

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Lazio e Sabina 9 - SOPRINTENDENZA PER I BENI
L’Antiquarium del Santuario di Ercole Vincitore a Tivoli:
lettura del complesso monumentale
Maria Grazia Fiore – Filippo Coarelli – Maria Grazia Granino – Federico Rausa –
Laura Romagnoli – Guido Batocchioni
Una serie di complessi interventi realizzati negli anni
2008-2011, tuttora in fase di esecuzione, ha portato
al recupero e alla valorizzazione di una parte significativa del santuario di Ercole Vincitore, certamente
uno dei più straordinari complessi architettonici antichi che ci siano pervenuti. Un progetto articolato,
una vera sfida per rendere intelligibile un’area di tre
ettari sulla quale si sono stratificati venti secoli di storia fino a contenere insediamenti industriali all’avanguardia. L’ambizioso progetto, intrapreso dalla Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici
del Lazio di concerto con la Soprintendenza per i
Beni Archeologici del Lazio, ha preso l’avvio nel
2006 grazie ai fondi del Gioco del Lotto1 con la finalità di sviluppare una soluzione armonica fra la conservazione delle strutture antiche, il miglioramento
della loro percezione e la salvaguardia delle testimonianze di archeologia industriale. Più in particolare
il progetto comprendeva la fronte del grande tempio con la gradinata di accesso e l’antistante cavea
teatrale. A fianco di questi interventi è stata prevista
la realizzazione di un Antiquarium all’interno degli
ambienti industriali delle cartiere del ’900.
Il santuario di Ercole costituisce un unicum proprio per la compresenza di tanti elementi differenziati e sedimentati che hanno attribuito allo straordinario complesso una forte connotazione identitaria,
rendendolo uno dei luoghi più significativi del paesaggio dell’antica Tibur.
Esso è situato fuori dalle mura di Tivoli, lungo un
passaggio obbligato di collegamento tra il Lazio e le
aree appenniniche, percorso dall’antica via Tiburtina-Valeria. Il luogo, già segnato dalla transumanza,
era particolarmente adatto a un mercato di bestiame
(forum pecuarium), dove la sicurezza dei pastori e
dei mercanti era garantita dalla protezione di Ercole,
nume tutelare dell’allevamento, della transumanza e
delle transazioni commerciali connesse. Tali aspetti
essenziali furono garantiti, quando l’ampliamento
del complesso coinvolse la via, tramite un passaggio
sotterraneo (c.d. via tecta), che attraversa il grandioso podio del tempio, e la realizzazione di un annesso
mercato: un sistema a due piani, che tra l’altro allude
simbolicamente al rapporto gerarchico fra struttura
economica (sottostante e nascosta) e sovrastruttura
ideologico-religiosa.
La valorizzazione del percorso di visita ha tenuto
conto della compresenza delle complesse sedimentazioni dei volumi e delle varie fasi, considerandoli
come un unico organismo frutto di una compenetrazione plurisecolare fra strutture romane e industriali in cui tutte le varie componenti possono essere
adeguatamente messe in risalto. La chiave d’accesso
è proprio nel contesto storico e territoriale in cui il
complesso è situato: partendo dalle enormi dimensioni del sito e dalla grande difficoltà di comprensione, si è pensato di allestire un percorso per orientare
il visitatore nell’approccio e rendere comprensibili
i lineamenti architettonici resi irriconoscibili dalle
tante trasformazioni e mancanze sopraggiunte.
L’intervento ha avuto lo scopo di valorizzare le
strutture antiche e il percorso di visita, per migliorare
la percezione del complesso monumentale attraverso
installazioni scenografiche e allestimenti puntuali e
per presentare il complesso monumentale e le sue
ipotesi ricostruttive, suggerendo ambienti e scene di
vita legate alla storia dell’edificio che come in una
sequenza di fotogrammi facilitano la comprensione
degli spazi e la lettura della sua multiforme utilizzazione.
Lunghe e complesse vicende di spoliazioni e riutilizzi, insieme ad eventi naturali distruttivi, hanno
compromesso nel tempo l’intelligibilità e la lettura
delle strutture antiche da parte dell’osservatore moderno. Da qui è derivata la scelta di realizzare un Antiquarium che permette a un vasto pubblico di non
addetti ai lavori una migliore comprensione e quindi
una fruizione più consapevole del complesso, grazie
al percorso di visita concepito per accompagnare il
visitatore del sito nella ricostruzione visiva dell’edi-
1
Dott.ssa Maria Grazia Fiore (Responsabile Unico del Procedimento e Coordinatore scientifico), Prof. Cairoli Fulvio Giuliani
(Consulente scientifico). La realizzazione del progetto è stata attuata sotto la supervisione del Direttore Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Lazio Arch. Federica Galloni.
Lavori finanziati con i fondi del Gioco del Lotto (2004-2006,
D.M. del 22.10.2004). L’Appalto Concorso è stato espletato dalla
Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Lazio,
nella persona del Direttore Ing. Luciano Marchetti. Al progetto
hanno partecipato: Arch. Maria Piccarreta (Direttore dei lavori),
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Maria Grazia Fiore et alii
ficio antico e nella conoscenza del luogo e della sua
storia.
L’Antiquarium occupa gli ampi locali dell’ex
cartiera costruiti su una delle aule sostruttive di età
romana e dominati dalla torretta ottocentesca che ripropone lo spigolo nord-occidentale del santuario.
Gli ambienti ospitano alcuni tra i più rilevanti reperti scultorei, epigrafici e architettonici che originariamente decoravano il monumento e che ritrovano in
questa occasione la loro unitarietà e una sistemazione adeguata al loro prestigio2.
L’allestimento presenta per la prima volta la sintesi completa ed esaustiva dei dati scientifici emersi
dai ritrovamenti susseguitisi nel santuario dalla fine
dell’Ottocento alle recenti campagne di scavo3. La
fase preliminare di ricerca ha compreso l’attenta
rilettura delle fonti antiquarie e dei documenti epigrafici, operazioni fondamentali per ricostruire gli
aspetti civili, pubblici e religiosi della vita del luogo.
Sulla base dello studio comparativo dei reperti,
della conoscenza pregressa e dei nuovi dati di scavo
derivati dalle indagini recenti sono state elaborate
ipotesi ricostruttive dell’impianto e analisi interpretative del contesto che hanno ispirato indirizzi
e modalità dell’allestimento espositivo dei reperti
nell’Antiquarium.
I materiali sono stati esposti in rapporto allo spazio
a cui appartenevano con un criterio che privilegia la
presentazione contestualizzata dell’oggetto4. A causa
dell’estrema complessità del monumento si è ritenuto indispensabile partire dalla descrizione del contesto generale e dalla descrizione delle sue dimensioni
e forme originali ponendole a diretto confronto con
la consistenza dello stato attuale. Per aiutare questo
tipo di approccio è risultato particolarmente efficace
l’impiego di un grande plastico sistemato nella prima
sala (fig. 1), proprio all’inizio del percorso, appena
dopo la sezione introduttiva d’ingresso destinata
all’inquadramento nel territorio e agli aspetti storico-topografici. La rappresentazione tridimensionale
consente la percezione simultanea delle due fasi rappresentate: il modello dell’oggi è raffigurato su una
base d’appoggio di m 2,50 x 3,00 ca., mentre quello
dell’età antica è appeso a parete. L’impatto scenografico è amplificato dal fatto che la base del plastico
è sistemata su una parte del pavimento realizzata in
cristallo da cui si può vedere il livello originale del-
Fig. 1. Plastico del santuario (foto G. Batocchioni).
la pavimentazione che si trovava circa quattro metri
al di sotto dell’attuale. Nel piccolo ambiente attiguo
sono stati sistemati invece cinque modelli di altri
santuari scelti tra i più importanti esempi ellenistici e
laziali (Cos, Delo, Munigua, Terracina e Palestrina).
Modelli e confronti sono infatti indispensabili a chiarire i termini dell’architettura5.
Il santuario di Ercole Vincitore rappresenta, insieme agli altri grandi santuari con teatro-tempio laziali, la massima espressione di sviluppo del modello
compositivo ellenistico, ma interpretato alla maniera romana con l’assialità, la frontalità e soprattutto
con soluzioni architettoniche ardite. La costruzione
rappresenta un capolavoro dell’ingegneria romana
poiché mostra diversi aspetti innovativi. L’area sacra,
sottolineata su tre lati da portici a due piani con al
centro il tempio, sorge su un imponente terrazzamento che, lungo il lato rivolto verso il grande salto dell’Aniene, poggia su alte e potenti sostruzioni
costruite per colmare il forte dislivello. La fabbrica
comprendeva un articolato sistema di grandi ambienti voltati, collegamenti verticali e l’attraversamento
coperto della via Tiburtina. Il ruolo di controllo del
traffico tra Roma e il Sannio e l’offerta, in questo
punto, di una gradevole occasione di sosta crearono
nel santuario un vero generatore di ricchezza. Infatti
non si poteva evitare di attraversarlo e già questo ne
faceva un unicum nel panorama dei santuari coevi.
Il percorso di visita dell’Antiquarium è articolato
in base a un criterio che individua le aree principali
del complesso monumentale, giustamente definito
2
I lavori di restauro e adeguamento funzionale degli ambienti
sono stati eseguiti dalla ditta Cobar S.r.l. su progetto degli Architetti Riccardo D’Aquino, Fabrizio de Cesaris, Donatella Fiorani,
Francesco Nardi e Mauro Olevano.
3
Le risorse economiche del Gioco del Lotto hanno permesso di
svolgere un’attività di catalogazione preliminare di tanti materiali
provenienti dagli scavi nel santuario; in particolare la ricerca degli
attacchi si è rivelata molto fruttuosa e ha permesso di ottenere
risultati per la conoscenza di ulteriori reperti appartenenti al santuario di Ercole Vincitore. Tali operazioni si devono alla collaborazione delle Dott.sse Maria Luisa Frandina e Marina Maietta.
4
Gli allestimenti e le scenografie realizzate sono a cura degli
architetti Laura Romagnoli e Guido Batocchioni che hanno progettato anche l’intero apparato della comunicazione ed eseguito
la realizzazione grafica con WM Design di Gualtiero Palmia e
Tag Studio di Giancarlo Verzilli. Gli orientamenti dell’intervento sono stati definiti e discussi con i contenuti in un proficuo e
piacevole lavoro di gruppo interdisciplinare a cui hanno partecipato, passo per passo, tutti gli scriventi insieme a Marina Maietta, Serafina Giannetti, Helen Patterson, Gabriella De Monte.
5
Tutti i plastici sono stati realizzati dalla Officina Materia e
Forma di Marco Travaglini sulla base degli studi e dei disegni
ricostruttivi elaborati da Laura Romagnoli e Guido Batocchioni
con la supervisione scientifica di Filippo Coarelli.
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L’Antiquarium del santuario di Ercole Vincitore a Tivoli: lettura del complesso monumentale
santuario delle tante basi con dediche onorarie che ci
svelano i nomi dei protagonisti della storia locale e,
di riflesso, della vicina Roma. Infatti sui colli tiburtini possedevano grandi ville molti senatori e cavalieri,
spesso di origine spagnola, alcuni dei quali gestirono
l’amministrazione del santuario (curatores fani). Sono
testimoniati inoltre, personaggi locali che rivestirono
la suprema magistratura di Tivoli (il quattuorvirato),
che il popolo e il senato di Tibur vollero onorare erigendo loro una statua nel luogo più rappresentativo
della città. Ma tra gli onorati troviamo anche attori
di gran fama come il pantomimo L. Aurelius Apolaustus Memphius7 condotto nel 166 d.C. come schiavo
a Roma dall’imperatore Lucio Vero, di ritorno dalla
campagna contro i Parti, con una schiera di istrioni.
Anche per le sue eccezionali doti sceniche ottenne
la libertà dallo stesso Lucio Vero e da Marco Aurelio (161-169 d.C.), piuttosto che da Marco Aurelio e
dal figlio Commodo, come indica la sua onomastica
(Augustorum duorum). A testimonianza della sua notorietà posiamo ammirare la base della statua eretta
in suo onore: la città di Tivoli non solo lo accolse tra
gli Herculani Augustales, il collegio degli Augustali che aveva assunto localmente, anche nel nome, il
culto poliade, ma gli concesse persino gli ornamenta
decurionalia, il decurionato onorario, grazie al quale Apolaustus, un liberto, poteva mescolarsi alla vita
pubblica, ai membri dell’élite locale e condividere
con loro i segni esteriori di dignità.
nucleo polifunzionale: luogo di culto, ma anche di
transito e di scambi, dove le potenti gentes locali, ma
anche senatori e cavalieri, avevano modo, attraverso
iscrizioni e statue celebrative, di esercitare un’esposizione mediatica ante litteram. Si viene così a costruire un racconto attraverso nomi e immagini degli uomini che in questo luogo sono passati e hanno voluto
lasciare traccia attraverso un’iscrizione o una statua
che li ricordasse. Si è proposta la ricostruzione di un
tratto del portico che circondava su tre lati il tempio
e precisamente l’angolo nord-occidentale, portato
alla luce negli ultimi anni del XIX secolo (figg. 2-3).
Qui si addensavano basi, statue, donari, iscrizioni commemorative, in un insieme tipologicamente e
cronologicamente variegato. È questo quadro che si
è voluto riproporre all’attenzione dei fruitori.
La prima fase del lavoro, perciò, è stata finalizzata
al recupero dei tanti reperti lì rinvenuti che, nel corso del tempo, sono andati ad arricchire le raccolte di
importanti musei come il Vaticano, il Museo Nazionale Romano, i Musei Capitolini. Questo percorso
è stato reso possibile dalla disponibilità di colleghe
generose come Rita Paris, che ha consentito di realizzare il calco del Generale di Tivoli e Daniela Velestino, grazie alla quale si è riproposta al visitatore la
testimonianza epigrafica delle liberalitates di Adriano verso le comunità della Betica6. Ma è soprattutto a Rosanna Friggeri che va il ringraziamento più
sentito: è a lei, infatti, che si deve la restituzione al
Figg. 2-3. Allestimento
del portico: dettaglio
(foto G. Batocchioni).
6
CIL XIV, 4235, cfr. 3577 = ILS, 318; cfr. Granino Cecere 2005,
720-721, n. 951. Dell’iscrizione, in verità, sono stati rinvenuti
due frammenti non contigui: il maggiore è quello attualmente
conservato nei Musei Capitolini (NCE 2469); il minore, finora
nel magazzino epigrafico del Museo Nazionale Romano alle Ter-
me di Diocleziano, è stato restituito, come molti altri reperti,
al santuario tiburtino dalla liberalità della Direttrice, Dott.ssa
Rosanna Friggeri.
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CIL XIV, 4254 = ILS, 5191 addenda; cfr. Granino Cecere
2005, 654-655 n. 873.
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Maria Grazia Fiore et alii
La più antica testimonianza di statua-ritratto è
un torso colossale in nudità eroica che, come il c.d.
Generale di Tivoli12, doveva prevedere una testa dai
caratteri realistici13. La revisione preliminare dell’intero materiale proveniente dagli scavi del 1985 e del
2002-2003 ha permesso di restituirgli la gamba destra (fig. 5). Il braccio sollevato, lavorato in blocco
di marmo distinto e assemblato tramite perno, era
probabilmente appoggiato a una lancia, come testimoniato dall’iconografia di altre statue del genere. La statua, in marmo pario, trova un immediato
confronto con il celebre ritratto di Ofellius Ferus14,
mercante romano presente a Delo, rinvenuta in una
nicchia del portico dell’Agorà des Italiens realizzata
verso la fine del II sec. a.C. dai due scultori ateniesi
Dionysios e Timarchides attivi anche a Roma. Le statue condividono l’iconografia del braccio sollevato,
la ponderazione della gamba sinistra avanzata e la
destra di appoggio, come sottolineato dall’anca sollevata e dalla contrazione del gluteo.
La statua del santuario è stata realizzata da un artista ellenistico di grande livello. La perdita della testa, delle braccia e della gamba sinistra non permette
un’identificazione sicura, anche se è probabile che si
tratti, piuttosto che di una statua ideale, del ritratto
Non mancano tra gli onorati anche le donne, madri e mogli di notabili locali, e una addetta al culto,
la Iulia Antulla sacerdotessa di Albunea8.
Ma le donne nel santuario tiburtino sono anche
delle dedicanti. Ecco Tullia Berenice che, con sua
figlia Blaesilla, erige due statue con le relative basi
per M. Tullius Blaesus9 e M. Tullius Rufus10, rispettivamente marito e figlio. Le due donne desideravano perpetuare nel santuario la memoria di Blaesus e
Rufus. Entrambi sono morti come indica la presenza
dell’urceus e della patera sui due lati delle basi. Berenice ricorda del marito l’importante ruolo pubblico:
egli è stato pontifex e salius, curator fani Herculis Victoris e soprattutto patrono della città. Il figlio Rufus
è morto in giovane età, senza aver potuto rivestire
funzioni pubbliche ed è per questo che nel coronamento della base si legge una benemerenza del
padre: egli aveva devoluto 200.000 sesterzi, nonché
finanziato 200 giornate lavorative per la costruzione
dell’anfiteatro cittadino.
Anche qualche frammento, a un esame più attento, ha riservato scoperte inattese. Ad esempio le
poche lettere, ma incise con eccezionale cura, di un
frammento che ricordano il personaggio forse più
noto nel panorama tiburtino: L. Munatius Plancus11.
Nelle due righe parzialmente conservate si possono
leggere il suo nome e le tappe più importanti del suo
cursus honorum (fig. 4).
Le sculture esposte nell’Antiquarium sono state oggetto di uno studio finalizzato all’analisi dell’intero arredo scultoreo del santuario, che si articolava in luoghi con
funzioni diverse e quindi caratterizzati da programmi
decorativi pertinenti. Il portico, l’area in cui si concentravano le funzioni civili del complesso, sembra il luogo
deputato ad accogliere la maggior parte delle statue celebrative e onorarie che si datano in un ampio arco cronologico compreso tra l’importante fase di monumentalizzazione del I sec. a.C. e la tarda età imperiale.
Fig. 5. Torso colossale in nudità eroica: restauro della gamba.
Fig. 4. Frammento dell’iscrizione di L. Munatius Plancus.
8
CIL XIV, 4262; cfr. Granino Cecere 2005, 672-673, n. 887.
CIL XIV, 4258 = ILS, 6233; cfr. Granino Cecere 2005, 648649, n. 870; Granino Cecere 2012, 50-51.
10
CIL XIV, 4259 = ILS, 5630; cfr. Granino Cecere 2005, 650651, n. 871; Granino Cecere 2012, 51-52.
11
CIL XIV, 4261; cfr. Granino Cecere 2005, 722-723, n. 956.
12
Roma, Museo Nazionale Romano (inv. 106513; alt. m 1,93; marmo greco a grossi cristalli); Giuliano 1979, 267-269, n. 164 (E. Talamo); Himmelmann1989, 219-224, n. 12, fig. 12; Reggiani 1998,
16-18; La Regina 1998, 33-34 (B. Germini); La Rocca – Tortorella
2008, 179-180, II.2.1 (T. Hölscher).
13
Tivoli, Santuario di Ercole Vincitore, Antiquarium (inv.55747
(torso) + inv. 55926 (braccio destro) + inv.55946 (gamba); alt.
cm 113, marmo pario); Aa.Vv. 1993, 42, n. 7, fig. 18 (M.C. Leotta); Reggiani 1998, 16-17, 26; Giuliani 2004, 52, fig. 37; Hallet
2005, 111, nota 7; Giannetti 2012.
14
Delo, Museo Archeologico (inv. A4340; alt. m 2,28, marmo
pario); Homolle 1881, 390-396; Himmelmann1989, 118-120,
fig. 46; Queyrel 1991; Marcadé 1996, 191-192 (F. Queyrel); Hallett 2005, 103.
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L’Antiquarium del santuario di Ercole Vincitore a Tivoli: lettura del complesso monumentale
di un personaggio di rilievo, appartenente all’aristocrazia romana o locale. Il confronto con l’Ofellius
Ferus di Delo permette di attribuire l’opera agli inizi
del I sec. a.C., in coincidenza con la prima fase di
monumentalizzazione del santuario.
Ad età imperiale si data invece il frammento del
ginocchio destro di una figura colossale con sostegno a tronco di palma decorato da una corona di
foglie e da due corposi grappoli di datteri. Il tipo di
sostegno, diffuso dall’età augustea in statue-ritratto
imperiali, il frammento di panneggio sul ginocchio,
pertinente alla veste corta indossata sotto la corazza,
e le dimensioni colossali confermano che si tratta di
una statua onoraria di imperatore in lorica15.
I materiali ritrovati nello scavo del teatro, iniziato
nel 2002 in collaborazione con Cairoli Fulvio Giuliani e Alessandra Ten16 e completato recentemente in
occasione dei lavori di restauro e valorizzazione, pur
essendo eterogenei e frammentari, hanno indirizzato
lo studio ricostruttivo della frons scenae, suggerendo
la partitura della decorazione architettonica nelle sue
linee essenziali che viene riproposta nell’allestimento
della prima sala al piano superiore (fig. 6). I caratteri
stilistici e l’uso del marmo di Carrara, accertato dalle analisi archeometriche17, permettono di attribuire
l’apparato decorativo agli inizi dell’età augustea. Le
statue terzine, rinvenute nel canale dell’aulaeum18,
appartengono a un ciclo decorativo unitario che il
contesto di ritrovamento e la lavorazione meno accurata del retro delle figure inducono a ritenere par-
Fig. 7. Statua marmorea terzina maschile con clamide (Ares?).
te della decorazione della scena. Nonostante la loro
frammentarietà alcuni dettagli riconducono a un
ciclo ideale di divinità: la figura femminile con chitone indossa un balteo19, segno distintivo della dea
Artemide; i buchi praticati simmetricamente sulle
spalle del giovane efebo lo identificano come Eros20;
la clamide poggiata sulla spalla del giovane stante è
comune alle immagini di Ares (fig. 7)21; mentre l’acconciatura e i tratti fisionomici della testa femminile rimandano ad immagini di Afrodite (fig. 8)22. Le
statue terzine mostrano in diversi punti l’uso di una
particolare tecnica scultorea antica che prevedeva
l’assemblaggio di parti realizzate in blocchi di marmo distinti e congiunte attraverso perni in metallo o
collanti23. A tal proposito una vetrina è interamente
dedicata ai numerosi frammenti rinvenuti nel santuario che testimoniano un analogo procedimento di
composizione.
Il percorso prosegue con le testimonianze dei
donaria per illustrare l’area sacra, tra cui spicca la
pregevole base con la dedica di un gruppo statuario
di Iuppiter Praestes e Hercules Victor generosamente consegnata dal Comune di Tivoli a cui si rivolge
un sentito ringraziamento e culmina nell’ultima sala
Fig. 6. Allestimento della frons scaenae.
15
Tivoli, Santuario di Ercole Vincitore, Antiquarium (inv.
55752); Reggiani 1993, 41, n. 2, fig. 14; Reggiani 1998, 16-17, 27;
Fiore – Mari 2002, 71, XII.4; Giannetti 2012.
16
Ten 2006; Pintucci 2008.
17
A tal proposito si ringrazia il Dott. Paolo Pallante che ha effettuato le analisi archeometriche.
18
Pintucci 2006.
19
Tivoli, Santuario di Ercole Vincitore, Antiquarium (inv.
115432; alt. cm 58, marmo pario dai cristalli a grana grossa lucenti); Pintucci 2006, 35, fig. 7; Giannetti 2012.
20
Tivoli, Santuario di Ercole Vincitore, Antiquarium (inv.
115433 (torso) + 112836 (frammento coscia destra); alt. cm 55,
marmo pario cristallino); Pintucci 2006, 35, fig. 8; Giannetti
2012.
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Tivoli, Santuario di Ercole Vincitore, Antiquarium (inv.
115437a (torso) – b (gamba sinistra) – c (gamba destra) – d
(braccio sinistro) – e (braccio destro) + 132294 (pianta del piede
destro); alt. cm 108, marmo pario cristallino); Pintucci 2006, 35,
fig. 9; Giannetti 2012.
22
Tivoli, Santuario di Ercole Vincitore, Antiquarium (inv.
115428; alt. cm 22, marmo pario); Pintucci 2006, 34, fig. 2;
Giannetti 2012.
23
Sulla tecnica del piecing cfr. Jockey 1999; Brusini 2001; Gasparri 2002.
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Maria Grazia Fiore et alii
Fig. 8. Testa femminile marmorea di dimensioni terzine (Afrodite?).
Fig. 10. Antiquarium, IV sala: testa marmorea di giovane elmato.
dedicata al culto del dio (fig. 9). Piccole statue raffiguranti Ercole ornavano le fontane sui due lati della
scala di accesso al tempio, moltiplicando nei riflessi
dell’acqua l’immagine del dio. Per spiegare il mito di
Ercole e il suo legame con Tivoli, abbiamo quindi ricomposto in una sorta di ideale cella di tempio tutti i
reperti riferibili all’iconografia di Ercole: dall’Ercole
giovane alla testa in cui è rappresentato in età matura, fino ai frammenti di lastre fittili di tipo Campana,
appartenenti alla decorazione architettonica, con la
scena della contesa di Apollo ed Ercole, dove sono
rappresentate leonté e clava. Tra gli altri merita una
particolare attenzione la testa di giovane elmato24 che
rappresenta probabilmente un sacerdote addetto al
culto dell’Hercules Victor tiburtino (fig. 10).
Il materiale prevalente dei rinvenimenti è il marmo, moltissime varietà di marmo. Studi, confronti e
analisi hanno rivelato una significativa presenza del
pregevole marmo dell’isola di Paro, attestando consistenti rapporti con il mondo greco e in particolare
con l’isola di Delo; Tivoli infatti era una fiorente città
a vocazione mercantile ed è facile immaginare che
notabili locali, arricchitisi grazie ai commerci con il
mondo egeo, si servissero di botteghe di scultori della Grecia insulare. Questo, unito alla molteplicità dei
luoghi di provenienza di marmi pregiati, testimonia
la centralità del santuario nel mondo antico, contrariamente alla marginalità attuale. Ciò ha suggerito
di realizzare una grande mappa dell’impero romano
per rappresentare in modo tangibile tale fenomeno e
restituire visivamente la distanza dei luoghi di provenienza dei marmi preziosi e colorati.
Maria Grazia Fiore
Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio
[email protected]
Filippo Coarelli
Professore emerito dell’Università di Perugia
Maria Grazia Granino
[email protected]
Federico Rausa
[email protected]
Laura Romagnoli
Studio di architettura Strati
[email protected]
Guido Batocchioni
Studio di architettura Strati
[email protected]
Fig. 9. Allestimento fontane e Sala del culto.
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Pintucci 2006, 34-35, fig. 3; Giannetti 2012.
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L’Antiquarium del santuario di Ercole Vincitore a Tivoli: lettura del complesso monumentale
I secolo a.C.”, BdA, 13, 3-32.
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Granino Cecere M.G. 2005: Supplementa Italica. Imagines.
Latium vetus 1 (CIL, XIV; Eph. Epigr., VII e IX), Latium vetus
praeter Ostiam, Roma.
Granino Cecere M.G. 2012: “Tullii a Tibur”, in Lazio e Sabina,
8, 49-54.
Hallet C. H. 2005: The Roman Nude, Heroic Portrait Statuary
200 BC-AD 300, Oxford.
Himmelmann N. 1989: Herrscher und Athlet. Die Bronze vom
Quirinal (Catalogo della Mostra, Bonn 1989), Milano.
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Jockey Ph. 1999: “La technique composite à Délos à l’époquehellénistique”, in Archeomateriaux. Marbresetautresroches (Actes de la IVème Conférence international, Bordeaux-Talence,
1998), Bordeaux, 305-316.
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La Rocca E. – Tortorella S. 2008 (eds): Trionfi Romani
(Catalogo della Mostra, Roma, 5 marzo-14 settembre 2008,
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Vincitore a Tivoli”, in Lazio e Sabina, 3, 245-248.
Pintucci A. 2008: “La ricostruzione della decorazione architettonica del teatro del santuario di Ercole Vincitore a Tivoli”, in
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Reggiani A.M. 1998 (ed.): Tivoli. Il santuario di Ercole Vincitore,
Milano.
Ten A. 2006: “Le recenti acquisizioni nel teatro del santuario di
Ercole a Tivoli”, in Lazio e Sabina, 3, 29-32.
Ten A. 2008-2009: “Il teatro nel santuario di Ercole Vincitore a
Tivoli dai dati inediti delle campagne di scavo 1983-1985, Rend­
PontAcc, 81, 129-167.
Abstract
A series of complex interventions undertaken from 2006 has
led to the recovery and the enhancement of a significant part of
the Sanctuary of Hercules Victor, one of the most extraordinary
ancient architectural complexes still in existence today. In
particular the project included the facade of the great temple
with the entrance stairway and, facing the latter, the cavea of
the theatre. Along with these interventions a museum has been
created within the industrial area of the 20th century paper-mill,
built over one of the great substructures of the Roman period and
dominated by the nineteenth century tower which gives an idea
of the original aspect of the north-western corner of the sanctuary.
The museum presents, for the first time, a complete synthesis of
the scientific data recovered from the end of the nineteenth century
to the recent excavation campaigns. The rooms house some of the
most important sculptures, inscriptions and architectural pieces
which decorated the monument, which can now be seen in their
entirety in a setting worthy of these prestigious objects.
Bibliografia
Aa.Vv. 1993: Santuario di Ercole Vincitore (Catalogo della Mostra), Roma.
Brusini S. 2001: “La decorazione scultorea della villa romana di
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Giannetti S. 2012: “Il santuario di Ercole Vincitore a Tivoli.
I. Le sculture di età repubblicana ed i rapporti con i centri di
produzione artistica greco-insulare tra la fine del II e l’inizio del
17
Appalto Concorso per le opere di valorizzazione e restauro del Santuario di Ercole
Vincitore a Tivoli
Riccardo D’Aquino – Fabrizio De Cesaris – Donatella Fiorani
go tunnel voltato: il tema si incentrava proprio sul
restauro del teatro (un tempo capace di ben 3.600
spettatori), mediante la riattivazione delle gradinate, degli accessi laterali e della scena; l’area avrebbe
potuto, quindi, riacquistare la valenza di luogo per
spettacoli e incontri culturali. Inoltre il tratto coperto della via Tiburtina (c.d. via tecta), raccordata alla
viabilità contermine, sarebbe tornato a svolgere la
sua antica funzione di attraversamento e visita del
Santuario, con possibilità di ammirare l’architettura,
le tabernae e i magazzini ai lati del percorso.
Fulcro dei due interventi sul teatro e sulla via
tecta era il Centro di Accoglienza – divenuto poi un
Antiquarium – comprensivo di bookshop, localizzato all’angolo del lato frontale verso l’Aniene entro
gli ampi locali dell’ex cartiera costruiti sui resti del-
1. Obiettivi architettonici del concorso
Il Santuario di Ercole Vincitore a Tivoli – uno dei
grandi complessi cultuali sorti nel Lazio fra il II e il
I sec. a.C., capolavoro dell’architettura romana sostanziata di elementi greci – è noto principalmente a
studiosi e a cittadini interessati grazie alle visite organizzate dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici
del Lazio. La sua notevole estensione e gli enormi
problemi di recupero che ha sempre posto hanno
fatto in modo che rimanesse fuori dal tessuto vivo e
dai percorsi turistici della città di Tivoli.
La situazione topografica del complesso, sul ripido pendio nord-occidentale della collina cittadina, ultima propaggine dell’Appennino occidentale
prospiciente la Campagna Romana, a cavallo della
ripida salita della via Tiburtina, determina la straordinaria importanza del complesso attraverso tutta la
sua storia: l’ubicazione del Santuario risponde alla
sua funzione di elemento sacrale per la città di Tivoli,
mediatrice di tutti i traffici tra Roma e la campagna
laziale sin da tempi molto antichi.
Non minore importanza riveste il luogo come
punto di confluenza e passaggio delle acque del fiume Aniene, la più rilevante fonte per l’approvvigionamento idrico di Roma grazie ai grandiosi acquedotti che passano proprio per Tivoli. Nel Santuario
di Ercole l’acqua era parte integrante dell’arredo,
come dimostrano le fontane ornamentali sulla fronte
del tempio e nell’orchestra del teatro; ed è soprattutto l’acqua che determinò le profonde trasformazioni
e i diversi riusi delle rovine del santuario antico, a
partire dal Rinascimento, per fini manufatturieri e
industriali1.
Il concorso, bandito nel 2007 dalla Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Lazio
e dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici del
Lazio, prevedeva il recupero del lato del complesso
rivolto verso Roma, ove è stata riportata alla luce,
negli anni Ottanta del secolo scorso, la cavea theatralis, compresa fra le rampe di accesso alla sovrastante
area sacra, e ove la via Tiburtina entrava in un lun-
Fig. 1. Schizzo del concorso del 2007.
1
Per la conoscenza generale del complesso si rinvia ai meritori studi di C.F. Giuliani: Giuliani 1970, 162-201, n. 103;
Giuliani 1998-1999; Giuliani 2004. Inoltre v. Coarelli 1987,
85-103.
19
Riccardo D’Aquino – Fabrizio De Cesaris – Donatella Fiorani
le strutture romane e dominati, oggi, dalla torretta
ottocentesca che perpetua lo spigolo originario del
Santuario; nello spazio compreso tra il torrino Canevari e il futuro Centro di Accoglienza si sarebbe dovuto realizzare un giardino, mutuato dai disegni del
Thierry2. Con il recupero del teatro e della via tecta
era intenzione restituire al visitatore l’intero livello
inferiore del complesso.
2. Principi progettuali del progetto “Vincitore”
I criteri adottati nella definizione delle scelte progettuali, nonché i criteri da seguire in fase di realizzazione delle soluzioni proposte, sono stati i seguenti:
– restauro conservativo delle parti antiche, della
via tecta, dei vomitoria del teatro e del suo muro di
contermine verso il tempio; restauro critico degli elementi moderni che sancirono la trasformazione del
Santuario in struttura industriale;
– principio di assoluta ‘reversibilità’, esteso fino agli
aspetti di dettaglio, laddove questi siano in qualche
modo dipendenti da accertamenti e indagini: a titolo
di esempio, nell’area aperta antistante il previsto centro accoglienza (la piazza), per sottolineare l’originaria “internità” del sito (occupato dalle sostruzioni
del portico inferiore), era prevista una pavimentazione suggerita dalle tracce delle strutture sottostanti,
ipotizzate in base al ritmo delle murature adiacenti
al tratto conservato della via tecta, tenendo conto di
eventuali strutture emerse nel corso degli scavi;
– rifiuto di qualsiasi intento ‘ricostruttivo’ della figuratività originaria, preferendo elementi immediatamente distinguibili da quelli antichi, capaci di
sottolineare, oltre la ‘riconoscibilità’ degli interventi,
il sostanziale ‘carattere effimero’ di quelle parti che
nella fase progettuale erano comunque riproposte
come volano di un progetto culturale più ampio;
– ricostituzione della massima ‘unità visiva’ del com-
Fig. 3. Schizzo di rilievo in situ quote orchestra e teatro.
plesso a scala edilizia e paesaggistica, ovvero la rivitalizzazione dei rapporti originari tra le singole parti
ora violentemente frammentate.
– realizzazione per fasi successive.
3. Le progettazioni realizzate
3.1. Sistemazione del teatro
La realizzazione del teatro romano e il suo progetto
di variante recepiscono le indicazioni della nota del
3 marzo 2009, a firma del Direttore Regionale Ing.
Marchetti: “… valutare, relativamente alle sedute, la
possibilità della realizzazione di elementi modulari
prefabbricati in c.l.s. in modo da avere sul sedime
appoggi puntuali o lineari; la finitura di tali sedili
potrebbe essere in graniglia o cocciopesto ed evitare
pavimentazioni lignee (previste dal progetto esecutivo del concorso appalto), a meno del palcoscenico,
Fig. 2. Pianta di progetto del teatro (2007).
2
In D’Espouy 1929.
20
Appalto Concorso per le opere di valorizzazione e restauro del Santuario di Ercole Vincitore a Tivoli
Fig. 4. Pianta di progetto dell’orchestra (2009).
acque parallelo al primo gradino, indispensabile per
capire le quote originali e sottrarre il Santuario a un
andamento “collinare” che ne falsava completamente la lettura architettonica.
Nell’individuare una nuova risposta architettonica, si è pensato di migliorare anche la sostruzione
dell’ima cavea, realizzando un getto di calce idraulica, pozzolana, sabbia e pezzame di tufo e laterizio
senza armature e con giunti che ne permettono la
dilatazione e i piccoli movimenti di assestamento
(ovviamente al di sopra di un elemento di interposizione costituito da ‘tessuto non tessuto’ e da uno
strato di sabbia).
La dimensione dei gradini dell’ima cavea è risultata molto particolare ad una osservazione diretta
del sito una volta rimossa la camicia di protezione
sovrapposta alle strutture antiche: l’alzata appare essere stata di cm 24, inferiore dunque ad un piede romano (forse a conferma della sua costruzione come
“scala” più che come “seduta” del teatro), mentre la
pedata era di cm 73 ovvero in un cubito e un piede
per problemi di manutenzione”. Sono state progettate, quindi, pavimentazioni lapidee o in conglomerato, differenziando percorsi e settori con i formati
e le tessiture, con una logica orizzontale di disegno
dei parterre ed una sensazione verticale di alleggerimento delle certezze architettoniche: questo perché,
nel suo crescere in elevato, la conoscenza e lo stato
attuale di conservazione della struttura antica mutano, divenendo ambedue meno certi. In questo senso
si può leggere anche la finitura degli elementi che
compongono il teatro e l’area soprastante verso la
scalinata di accesso al tempio: a partire dal pavimento dell’orchestra, in masselli di pietra bocciardata, le
gradinate di seduta dell’ima cavea sono risolte con
un conglomerato di cocciopesto, la cui finitura è stata lavata e spazzolata per fare emergere le graniglie.
Salendo, gli spalti della summa cavea sono disegnati con masselli simili, ma di colore maggiormente “neutro”; tra teatro e scala di accesso al tempio
si è pensato di riprodurre una porzione del piano
dell’area sacra individuata dal canale di scolo delle
21
Riccardo D’Aquino – Fabrizio De Cesaris – Donatella Fiorani
Fig. 5. Teatro: ima cavea e summa cavea.
Fig. 6. Teatro: dettaglio dell’ima cavea.
(44 + 29 centimetri). Per la summa cavea il discorso è
poco diverso, non essendo stato possibile rilevare od
osservare nulla di conservato: per questo, osservando lo spazio risultante tra la praecinctio – individuata
dalla conclusione delle murature dei vomitoria – verso l’area sacra e tra le loro quote probabili, si è stabilito un rapporto di alzata-pedata di cm 44 per 88 ca.
Di grande importanza è la ristabilita connessione
tra summa cavea ed area sacra, anche se in origine il
sistema di risalita era diverso, tra teatro e tempio di
Ercole.
Il secondo motivo è, per così dire, in prospettiva:
terminata la fase degli scavi sul fianco del tempio e
verso il triportico, si è realizzato un nuovo ingresso
al teatro anche da quella parte, percorrendo lo scavo
e il triportico – sistemati per la fruizione e posti in sicurezza – e arrivando al teatro dall’alto, secondo una
modalità di fruizione possibile anche in epoca antica.
Gli adita, rispetto al progetto di concorso, sono
anch’essi modificati per quanto espresso dalla Soprintendenza: in luogo delle rampe di ferro e legno,
per l’aditus sinistro – per chi proviene dalla via tecta – sono state progettate delle vie di accesso al piano
dell’orchestra con murature e getti pavimentali, di
più semplice manutenzione, distaccate dalle murature antiche. Non è stato realizzato nulla per l’aditus
destro, in quanto la scarsa conoscenza delle murature medioevali che gravano sui piani di bordo al percorso di ingresso, la loro apparentemente precaria
consistenza – in alcuni tratti sono scoperte le fon-
dazioni – non consigliano un passaggio di persone a
ridosso delle strutture per l’accesso al teatro.
3.2. L’Antiquarium – edificio dell’ex-cartiera
La progettazione relativa ai due corpi di fabbrica, attestati sull’ingresso della via tecta da ovest, conserva
l’originale attenzione del progetto per la conservazione del carattere proto-industriale della fabbrica
e la valorizzazione della dialettica istituita fra architettura moderna e preesistenza romana: qui si raccolgono i reperti derivanti dallo scavo del Santuario
e una galleria didattica relativa alle vicende storiche
del complesso.
La “vocazione industriale” del sito si manifesta
fin dall’inizio del XVII secolo, quando vi si impianta
una ferriera camerale, che svolge la sua attività fino
al 1709. Nel 1795 Pio VI impianta nel complesso una
fabbrica d’armi. La fabbrica d’armi fallisce nel 1802 e
viene rilevata da Luciano Bonaparte che ne amplia la
produzione introducendovi una fonderia di cannoni.
Per circa trent’anni lo stabilimento industriale subisce frequenti cambiamenti di gestione e produzione:
nel 1815 vi s’introduce la lavorazione della canapa e
del lino, ma, dopo 9 anni, tale attività s’interrompe;
nel 1830 viene fondata la ferriera Graziosi Carlandi.
Fino a questo momento l’opificio è ospitato interamente dal Santuario, ma, nel 1846, è documentata
la presenza di una nuova costruzione prossima alla
via tecta, probabilmente realizzata intorno al 1840 e
22
Appalto Concorso per le opere di valorizzazione e restauro del Santuario di Ercole Vincitore a Tivoli
trica che comprendeva, oltre l’invaso del Santuario,
il fabbricato a valle cosiddetto ”Acquoria”. Nel 1892
è stato realizzato il primo impianto idroelettrico progettato dall’Ing. Canevari: tale impianto convogliava l’acqua, intercettata presso le cascatelle di Vesta,
tramite un canale a superficie libera che attraversava
l’area e correva parallelo agli edifici, raggiungendo la
condotta forzata collocata nella torretta ancora esistente.
Nel 1889 alla ferriera è subentrata la Cartiera
Tiburtina Segré che impegnava interamente gli ambienti del Santuario, mantenendo alcune ‘servitù’
alla Società delle Forze Idrauliche. I due edifici ottocenteschi vengono destinati al cosiddetto locale
delle ‘mezzepaste’ (dove si otteneva un materiale di
produzione intermedio nel ciclo di lavorazione della
carta); al piano terreno erano disposte le vasche di
sgocciolamento e di raccolta del materiale, mentre
al piano superiore erano collocate le vasche olandesi
imbiancatrici con alcuni uffici e ambienti di servizio.
I circa settanta anni di permanenza delle attività produttive della cartiera comportarono diverse trasformazioni con l’allungamento del corpo di fabbrica
meridionale e con l’inserimento e lo spostamento dei
macchinari produttivi.
La variante propone la conservazione degli ambienti della ferriera e della cartiera, con nuovi inserimenti necessari per trasformare i locali e accogliere
un piccolo Antiquarium, destinato ai reperti di scavo
del Santuario, e una galleria didattica relativa alle vicende storiche del complesso.
In generale, le murature originali sono intonacate, i pavimenti sono in conglomerato che mostra una
differente granulometria fra i tracciati corrispondenti all’andamento delle murature romane sottostanti
(maggiori dimensioni degli inerti) e spazi fra le strutture. Viene ancora previsto il recupero e l’inserimento nel conglomerato dei binari della décauville, secondo il tracciato esistente.
L’accesso al piano terreno avviene dal cortile
adiacente la via tecta ed è filtrato da uno spazio informativo; tale ambiente è in comunicazione con il
fabbricato adiacente – verso il muro Canevari – solo
parzialmente disposto alla stessa quota dell’ingresso:
il tratto settentrionale dell’ambiente, infatti, si trova
in quota con il piazzale esterno di età industriale, a
-64 centimetri rispetto all’accesso verso la via tecta;
tale dislivello viene pertanto superato da una rampa
lungo la parete esterna e da una piccola scala parallela ma più vicina al muro di spina.
Il gioco dei dislivelli viene ulteriormente accentuato dalla presenza di una pedana a quota +240
centimetri – appoggiata su setti rivestiti in travertino – posta a copertura di una saletta-proiezioni presente al livello inferiore; la pedana ospita un piccolo
reparto espositivo, dotato di una vetrina perimetrale
contenente i reperti più piccoli dell’Antiquarium.
Nelle due sale al piano terreno è stata studiata la
successivamente ampliata.
I due edifici trasformati in Antiquarium sono stati
quindi realizzati in più riprese. Il primo, a nord-est,
contiguo al muro romano e perpendicolare alla via
tecta, accoglieva in origine gli uffici della ferriera; è
stato poi rialzato di un piano e ampliato (prima del
1861) con la realizzazione dell’edificio contiguo a
sud-ovest, che ospitava anche le funzioni produttive.
Vi sono stati inseriti così il carbonile (deposito del
materiale combustibile) e gli ambienti per la lavorazione finale.
Nel 1885 lo stabilimento è stato ristrutturato dalla Società delle Forze Idrauliche e connesso con il
più vasto impianto per la produzione di energia elet-
Fig. 7. Antiquarium: pianta piano terra e piano primo,
sezione.
23
Riccardo D’Aquino – Fabrizio De Cesaris – Donatella Fiorani
pali dell’appalto, ovvero la fruizione della fascia del
Santuario verso valle: la piazza, quindi, non era più
realizzabile sia per il voluminoso interro necessario sia
per la sua necessaria temporaneità in vista di un eventuale approfondimento conoscitivo degli scavi.
Resta comunque il tema di un’area collegata sia
alla nuova funzione dell’Antiquarium che alla prevista stagione di attività teatrale, quale foyer durante gli spettacoli e terrazza di affaccio verso l’edificio
tardo-antico noto come Tempio della Tosse.
4. Il percorso del triportico
Fig. 8. Antiquarium: allestimento della frons scaenae.
Il tema archeologico del triportico è un elemento divenuto preminente in tutto il Santuario, ovvero ne domina la connotazione architettonica e la conoscenza
archeologica: questo sopratutto a seguito della volontà
di organizzare un nuovo percorso di visita a partire dal
nuovo Centro Servizi che è stato alloggiato nella porzione del fabbricato già ospitante il laboratorio paleoantropologico, in sostituzione dello spazio destinato
all’Antiquarium. Il Centro Servizi prevede la discesa dei
tre livelli esistenti per distribuire il centro informativo,
il bookshop e gli spazi per un ristorante, prodotto dagli
indirizzi di miglioria delle aree archeologiche secondo
le linee guida di valorizzazione del Ministero dei beni e
delle attività culturali e del turismo.
La realizzazione del percorso del triportico nasce
dall’intenzione di organizzare un altro accesso, diverso dall’aditus destro, per migliorare la fruizione del
nuovo teatro: l’idea era di evidenziare, come percorsi
per la visita al monumento e per l’accesso all’area per
lo spettacolo, i due tracciati archeologici principali e
maggiormente suggestivi per il visitatore.
Le opere di scavo sul lato orientale del tempio di
Ercole hanno rafforzato il carattere archeologico del
percorso del triportico, ferma restando la necessità
di “trovare” un collegamento diretto tra quest’ultimo e il fianco dell’edificio sacro, laddove un crollo
delle volte della struttura romana ne ostruisce completamente il passaggio verso l’area sacra.
disposizione del materiale archeologico del Santuario: la prima, verso la via tecta, è organizzata secondo un sistema espositivo che rievoca la “densità” di
statue e cippi iscritti del triportico; la seconda, passando accosto al grande plastico che rende coscienti
delle dimensioni del Santuario, è legata al culto e al
mito di Ercole.
Al piano superiore le sale esistenti ospitano il materiale didattico e documentario relativo al Santuario:
una prima grande ricostruzione – su pannello di acciaio corten – della frons scaenae del teatro introduce
ai temi delle due sale, appena usciti dal corpo scala;
segue l’esposizione di frammenti di marmi colorati, a
testimonianza della ricchezza del monumento.
Nella seconda sala, oltre alla ricostruzione di una
delle due fontane originarie ai lati della scala del
tempio, domina l’apparato informativo costituito
dalla cartografia e dall’iconografia legata al Santuario. Questo spazio è attraversato da una piattaforma
elevatrice che comunica con il piano terreno e con
la quota superiore del torrino Canevari: il collegamento con questo livello è realizzato per mezzo di
una scala in acciaio, a quattro rampe, inserita in un
pozzo di vetro strutturale aperto verso l’esterno. Le
coperture sono realizzate in travi di legno lamellare,
capriate lignee armate con tiranti metallici e lamiere
grecate con getto in calcestruzzo, con una geometria
che asseconda le geometrie esistenti.
3.3. La piazza: sistemazione degli scavi antistanti l’Antiquarium, il canale Canevari e la via tecta
Lo scavo intrapreso nell’area in cui, dal progetto esecutivo, era prevista una piazza ha portato alla luce
tracce murarie che confermano la struttura geometrica del basamento del Santuario, alternanza di campate (una il doppio dell’altra) e gli allineamenti della via
tecta e con gli adita del teatro: osservazione archeologica, dunque, che costituiva l’immagine principale del
progetto della piazza pensata come uno scavo in divenire. Lo scavo è stato però interrotto, poiché avrebbe
comportato un allontanamento dagli obiettivi princi-
Fig. 9. Antiquarium: sala di Ercole Vincitore.
24
Appalto Concorso per le opere di valorizzazione e restauro del Santuario di Ercole Vincitore a Tivoli
DR LAZ 004-UFFPRO
Inizio lavori marzo 2008
Gruppo partecipante
Arch. S.A. Barbaliscia – Arch. C. Bozzoni –
R. D’Aquino (capogruppo) – Arch. F. De Cesaris –
Arch. A. Cirillo Gomez – Arch. D. Fiorani – Arch.
L. Franciosini – Ing. A. Gallocurcio – Ing. F. Iacobelli – Arch. F. Nardi (dal 2009) – Arch. M. Olevano – Ing. D. Mertens – Arch. G. White
Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Lazio
Ing. L. Marchetti concorso ed inizio lavori 20072008
Arch. F. Prosperetti 2009
Arch. F. Lolli Ghetti 2010
Arch. F. Galloni 2010-2011
Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio
Dott.ssa M. Sapelli Ragni
Fig. 10. Schizzo della piazza-foyer dell’Antiquarium.
RUP e Responsabile scientifico
Dott.ssa M. Grazia Fiore
Il nuovo accesso dal lato del triportico, nel punto
in cui questo si congiunge al fianco del tempio di Ercole, trova un esito architettonico molto semplice,
una soluzione “temporanea” che presenta una passerella in acciaio e legno, semplicemente poggiata
sul terreno, la quale, dal triportico, sale per superare
l’area di crollo e discende parallelamente al tempio
in direzione del teatro; il sistema non è fondato, ma
semplicemente appoggiato e, quindi, perfettamente rimovibile, in attesa di nuovi scavi – un’indagine archeologica approfondita di almeno parte del
deposito attualmente ricoperto dalle volte – e di
susseguenti acquisizioni che potrebbero orientare la
sistemazione dell’area verso un progetto di anastilosi o di sollevamento e riposizionamento delle volte
crollate del triportico, secondo gli intenti della Soprintendenza.
Consulente scientifico
Prof. C.F. Giuliani
Esecuzione lavori
Direttore dei lavori
Arch. Maria Piccarreta
Imprese esecutrici
Perforesine S.r.l.
Cobar Costruzioni Barozzi S.r.l.
Varianti al progetto di concorso
18 giugno 2009 (variante al definitivo)
21 luglio 2009 (esecutivo)
20 gennaio 2010 (variante esecutivo)
Ente banditore e date di concorso
Riccardo D’Aquino
Sapienza - Università di Roma
[email protected]
Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo
Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Lazio
Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio
Fabrizio De cesaris
Sapienza - Università di Roma
[email protected]
Consegna elaborati 28 febbraio 2007
Affidamento il 19.12.2007, prot. 0016782 – MBAC
Donatella Fiorani
Sapienza - Università di Roma
[email protected]
25
Riccardo D’Aquino – Fabrizio De Cesaris – Donatella Fiorani
Abstract
which inform the transformation of the Sanctuary into an industrial structure; principle of absolute reversibility; rejection
of any attempt of original figurative elements reconstruction
instead of an immediately distinguishable intervention; reconstruction of the visual unity of the complex both as construction
and as landscape.
The Sanctuary of Hercules Victor at Tivoli is one of the great
worship complex arose between the Second and First century.
b.C. The competition, launched in 2007 by Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Lazio and Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio, expected the complete
recovery of the side complex facing Rome. Here was revealed,
in the Eighties, the cavea theatralis: the design theme was based on the restoration of the Theater and the rebuilding of the
bleachers, the lateral access and the scene. Anti-pole of the Theater intervention was the Welcome Center - who was later designed as Antiquarium: the ancient factory that is now hosting
the Antiquarium was placed on the other side of the axis of the
via tecta. The whole system would have returned to the visitor
the entire lower level of the complex and regained significance
of place for shows and cultural events. The criteria used in the
definition of the design choices were as follows: restoration of
antique pieces, via tecta, vomitoria of the Theater and its wall
close to the temple; critical restoration of the modern elements
Bibliografia
Coarelli F. 1987: I santuari del Lazio in età repubblicana,
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Giuliani C.F. 2004: Tivoli. Il santuario di Ercole Vincitore, Tivoli.
26
La statuetta di Ercole giovane seduto e l’iconografia dell’Ercole Vincitore1
Serafina Giannetti
mettono di ricostruire la posizione delle braccia, conservate entrambe fino a metà dell’omero. Il braccio
destro, ritratto indietro, poggiava probabilmente su
una clava capovolta puntata a terra. Il rinvenimento
negli scavi del 2009 del frammento di una clava di
dimensioni compatibili e di marmo identico sembra
confermare tale ipotesi (fig. 2)5. Il braccio sinistro era
proteso in avanti con la mano tesa a reggere un oggetto oggi perduto.
La gamba destra spezzata subito sopra il ginocchio era allungata in avanti, mentre la sinistra, che lo
La statuetta di Ercole giovane, alta 42 centimetri e
realizzata in una pregiata varietà di marmo pario,
raffigura l’eroe nudo seduto su una roccia coperta
da leonté (fig. 1)2. È stata rinvenuta nella campagna
di scavi del 1985 nella fontana all’angolo sud-est della terrazza su cui si ergeva il tempio3 e faceva parte
probabilmente di un ciclo di sculture in miniatura
raffigurante l’eroe in varie sembianze collocato nelle
due fontane che fiancheggiavano la scala d’accesso
al tempio4.
Ercole è rappresentato in aspetto giovanile, imberbe e con una muscolatura massiccia, ma non
pienamente sviluppata. La postura della figura e il
confronto con raffigurazioni analoghe dell’eroe perFig. 1. Tivoli, Santuario di Ercole Vincitore, Antiquarium: statuetta di Ercole giovane seduto.
Fig. 2. Tivoli, Santuario
di Ercole Vincitore, Antiquarium: frammento di
clava in miniatura.
1
Il presente contributo è un estratto dalla tesi di Specializzazione
“Le sculture dal santuario di Ercole Vincitore a Tivoli. Ritrovamenti
dall’inizio del ’900 agli scavi del 2002/2003”, elaborata dalla scrivente sotto la supervisione del Prof. Federico Rausa (Università
degli Studi di Napoli “Federico II”) e della Dott.ssa Maria Grazia
Fiore (Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio). Ringrazio la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio per aver
sempre favorito l’accesso ai materiali e alla documentazione grafica e fotografica. Ringrazio il Prof. Carlo Gasparri per i preziosi
suggerimenti, la Prof.ssa Maria Grazia Granino Cecere e il Prof.
P.J. Chatzidakis (Museo Archeologico di Delo) per la disponibilità
dimostrata nel fornirmi dati e documentazione fotografica.
2
Tivoli, Santuario di Ercole Vincitore, Antiquarium, inv. 55789;
alt. cm 42, marmo pario (lychnites). Reggiani 1998, 20-23; Fiore Mari 2002, 69-70, n. XII.2; Fiore 2009, 130, n.73.
3
Giuliani 2008-2009, 109-127, partic. 114, fig. 16; Ten 20082009, 137-143.
4
Fiore 2009, 131; Mari 2012, 264.
5
Tivoli, Santuario di Ercole Vincitore, Antiquarium, inv.144827;
alt. cm 6,8, marmo pario.
27
Serafina Giannetti
conserva, era ritratta indietro. Il busto segue la posizione degli arti inferiori, con la spalla sinistra portata
leggermente in avanti e il torso ruotato verso destra.
La testa è invece frontale e la capigliatura è corta con
ricci disposti su file, più piccoli e delineati sul davanti, più corposi sul retro. Sul lato sinistro della roccia,
sotto la testa del leone, è posta un’armatura a corsetto, mentre un elmo poggia a terra.
La statuetta è stata messa in rapporto con il tipo
dell’Herakles Epitrapezios6, con il quale presenta
notevoli elementi in comune. Le caratteristiche iconografiche essenziali del tipo ci sono tramandate da
Marziale7 e Stazio8, che concordano nel definirla una
creazione di Lisippo realizzata per Alessandro Magno. L’effige descritta dai due poeti era in bronzo e
di piccole dimensioni. L’eroe riposa al termine delle
sue fatiche in attesa dell’apoteosi, sedendo su una
roccia coperta dalla pelle di leone con la clava nella
mano sinistra e la coppa nella destra e con il capo
rivolto verso l’alto.
Esistono numerose effigi dell’eroe che rimandano
al tipo descritto, datate tra il I sec. a.C. e il II d.C.,
di dimensioni diverse e realizzate in marmo, bronzo
e terracotta. Le repliche in bronzo sono di piccole
dimensioni e conservano tutte la testa di un Eracle
maturo con la barba, in accordo con le fonti letterarie che descrivono l’eroe alla fine delle sue fatiche
e quindi in età avanzata9. Tra le repliche in marmo
emerge il colosso di Alba Fucens10, il quale però, divergendo dalla maggior parte delle testimonianze del
tipo per motivi stilistici, iconografici e dimensionali,
è stato interpretato piuttosto come una rielaborazione del I sec. a.C. liberamente ispirata al tipo. Il
gruppo più consistente di repliche in marmo infatti
si caratterizza per omogeneità non solo iconografica,
ma anche delle dimensioni: sono tutte statuette che
oscillano tra i quaranta e i cinquantacinque centimetri di altezza.
Come spesso capita per le raffigurazioni dell’eroe
di età ellenistica e romana, le repliche e le interpretazioni sono talmente numerose, variate e distribuite
in una ricca serie di monumenti, da non rendere agevole l’individuazione dei prototipi.
Mentre il Floren e la Bartman hanno identificato
il prototipo nella serie omogenea di statuette in marmo, il Moreno ha individuato nel bronzetto di Vienna (fig. 3) l’esemplare maggiormente rispondente
agli stilemi di Lisippo e alla iconografia tramandataci
dalle fonti. La Latini infine propone per la serie di
statuette in marmo un prototipo di II sec. a.C. creato
in Asia Minore, dipendente dall’archetipo lisippeo,
Fig. 3. Vienna, Kunsthistorisches Museum: statuetta in bronzo di Ercole del tipo dell’Eracle
Epitrapezio (da Moreno 1995).
del quale invece sarebbe replica fedele, come sostenuto dal Moreno, la statuetta bronzea di Vienna.
La statua tiburtina, pur condividendo le dimensioni della serie di statue marmoree in miniatura,
presenta notevoli differenze iconografiche. Innanzitutto mostra l’eroe in sembianze giovanili, mentre
tutte le repliche che conservano la testa lo raffigurano barbato e in età matura, come il bronzetto di
Vienna e in accordo con le fonti letterarie. Differisce
inoltre per la postura invertita della figura, per la posizione speculare della clava e per l’aggiunta dell’armatura e dell’elmo, attributi che rimandano alla particolare accezione del culto tiburtino dell’eroe, la cui
fondazione era collegata a una vittoria militare sui
Volsci11.
In considerazione di questi elementi la statuetta va piuttosto interpretata in relazione ad un tipo
iconografico attestato da alcune serie monetali di
età imperiale, che raffigurano l’eroe giovane seduto
su una congerie di armi, in cui generalmente spiccano due corazze, poste lateralmente e affiancate in
maniera varia da elmi, scudi e schinieri. Le prime e
più consistenti emissioni, che testimoniano l’adozio-
6
Sul tipo cfr. Floren 1981; Palagia 1988, 774-775, nn. 957-983;
Bartman 1992, 147-186; Moreno 1995, 140-147; Latini 1995.
7
Epigr., IX, 43-44 (M. Valerio Marziale, Epigrammi, trad. di
G. Norcio, Torino 1980, 574-575).
8
Silv., IV, 6 (Statius, Silvae IV, trad. di K.M. Coleman, Oxford
1988, 36).
9
Vienna, Kunsthistorisches Museum, inv. VI.342 (Palagia 1988,
775, n. 976; Bartman 1992, 185-186, fig. 79-80; Moreno 1995,
146-147, n. 4.17.2); Stoccarda, Landesmuseum Württemberg,
inv. R89.61 (Bartman 1992, 185, fig. 78); Istanbul, Museo Archeologico (Palagia 1988, 775, n. 978; Bartman 1992, 117).
10
Chieti, Museo Archeologico Nazionale, inv. 4724 (De Visscher 1960; Palagia 1988, 776, n. 986; Latini 1995).
11
Giuliani 1970, 27; Fiore 2009, 118.
28
La statuetta di Ercole giovane seduto e l’iconografia dell’Ercole Vincitore
ne del tipo, risalgono a età adrianea, ma l’immagine
viene riutilizzata anche in emissioni di epoca successiva12. In alcuni conii è possibile distinguere la pelle
di leone distesa sulle armi e nel medaglione in bronzo di Antonino Pio (fig. 4)13 l’eroe, rappresentato
frontalmente, appare seduto su una roccia affiancata
dalle armi e non direttamente sulle corazze. Se la tipologia del sedile e la disposizione delle armi varia
da conio a conio, in dipendenza anche dalla maggiore o minore precisione nella ripresa dei dettagli,
fisso resta l’aspetto dell’eroe. È raffigurato sempre in
sembianze giovanili, imberbe e con corti capelli ricci;
siede allungando la gamba destra, mentre la sinistra
è ritratta; il braccio destro, leggermente portato indietro, è appoggiato ad una clava rovesciata a terra.
Nella mano sinistra protesa in avanti si alternano un
oggetto biforcuto, variamente identificato, una Vittoria alata o un ramoscello.
Il tipo è stato interpretato come l’immagine
dell’Hercules Invictus dell’Ara Maxima. Secondo la
Squarciapino la creazione iconografica risalirebbe ad
età adrianea e sarebbe stata realizzata per una statua dedicata dall’imperatore Adriano in occasione
di una vittoria militare14. La Palagia, prendendo in
esame alcune raffigurazioni di età classica in cui appare Ercole giovane seduto su una roccia affiancata
dalle sue armi tipiche, la clava e l’arco, ipotizza che la
creazione adrianea si ispirasse ad una statua di epoca
classica già presente all’Ara Maxima15.
L’esistenza di una statua di culto di Ercole in siffatte sembianze è confermata da uno dei rilievi tondi di età adrianea dell’Arco di Costantino. Il rilievo
presenta, sullo sfondo di una scena di sacrificio, un
Ercole giovane nudo, seduto frontalmente su una
roccia coperta dalla leonté, del tutto assimilabile alle
immagini monetali. Ai lati del sedile, poggiate a terra,
ci sono due corazze e l’eroe regge una Vittoria alata
sulla mano sinistra. L’interpretazione della scena e la
sintassi generale dei tondi confermano che si tratta
effettivamente della rappresentazione di una statua
di culto. La narrazione aveva inizio nella parte sinistra del lato sud dell’arco con la raffigurazione della
partenza per la caccia. Seguono tre scene di sacrificio in santuari campestri a Silvano, Diana ed Apollo
alternate a scene di caccia all’orso e al cinghiale. Il
ciclo è concluso dal tondo con la più solenne scena
del sacrificio ad Ercole caratterizzata da un fondale
architettonico che definisce il ritorno dalla caccia e il
rientro nell’area urbana16.
Tre repliche del tipo sono state riconosciute in
tre statuette in marmo raccolte da C.L. Visconti in
un articolo del 1887, pubblicato in occasione del ritrovamento in via Leonina a Roma di una di esse17.
Quest’ultima si distingue per la ricchezza e preziosità nell’esecuzione delle armi. Sul davanti restano due
corazze e due scudi di forma ovale e sul retro distinguiamo una pelta e uno scudo argolico con umbone,
uno scudo gallico e uno scudo rettangolare posto
sotto una testa di elefante.
Il cospicuo numero di emissioni monetali adrianee ha indotto a datare l’elaborazione dello schema
iconografico in età adrianea. La statuetta rinvenuta
nel 1985 nel santuario tiburtino dimostra invece che
l’associazione iconografica di armi e simboli militari
al giovane eroe assiso preesisteva ad una eventuale creazione adrianea, che potrebbe aver rivisitato
il tema, arricchendolo di nuovi simboli, come ad
esempio la Vittoria. I suoi caratteri stilistici e il confronto con una scultura del museo di Delo (fig. 5),
inserita nella serie di repliche del Eracle Epitrapezio18, datano la statuetta tiburtina al I sec. a.C. e
permettono di circoscriverne con certezza l’ambito
di produzione. La statuetta delia presenta il sedile
appena sbozzato, aggiungendosi ai numerosi frammenti marmorei non rifiniti rinvenuti sull’isola che
documentano ampiamente la produzione di sculture in miniatura a Delo19. La scultura delia purtroppo non conserva la testa, ma nulla vieta di supporre
che raffigurasse, proprio come quella tiburtina, un
Ercole giovane.
Fig. 4. Medaglione in bronzo di Antonino Pio (da Squarciapino
1949-1950).
12
Squarciapino 1949-1950, 205-214.
Gnocchi 1912, 11, nn. 17-18, tav. 45.4; Mattingly – Sydenham
1930, 141; Squarciapino 1949-1950, 207-208, fig. 3.
14
Squarciapino 1949-1950, 210-212. Sulla contaminazione del
tipo dell’Eracle Epitrapezio con il tipo dell’Hercules Invictus cfr.
De Lachenal 2011, 35-37.
15
Palagia 1988, 772, n. 911, n. 916; 825, n. 1568; si tratta di vasi
attici e monete magnogreche.
16
Calcani 1996-1997, 175-201.
17
Visconti 1887, 299-305; Giuliano 1982, 57-58 n. II, 26 (A.
Manodori).
18
Delo, Museo Archeologico, inv. A 206 (Marcadé 1963, 351358, tav. 5.2; Bartman 1992, 174, fig. 93).
19
Jockey 1998.
13
29
Serafina Giannetti
Le due sculture condividono le dimensioni, la
forma della base rocciosa e l’esecuzione della clava
e della leonté. È possibile infatti evidenziare la somiglianza della zampa anteriore che, scendendo sul
davanti a fianco del muso, si allarga assumendo una
forma triangolare, per terminare con grosse dita, e
l’aspetto di legno nodoso che la clava condivide con
il frammento proveniente dal santuario.
La statua tiburtina differisce da quella di Delo oltre che per la posizione speculare anche per l’aggiunta dell’armatura e dell’elmo, attributi che rimandano
alla particolare accezione del culto dell’eroe a Tivoli.
La posizione della clava è stata cambiata e rivolgendola verso il retro rimane libero l’angolo anteriore
per inserire l’elmo in primo piano. La presenza degli
attributi militari, evidentemente riferibili solo all’Ercole Vincitore, l’accurata fattura e la qualità pregiata
del marmo inducono a credere che la statuetta sia
stata commissionata specificatamente per il nostro
santuario. Dal recente studio del materiale scultoreo, realizzato in occasione dell’apertura dell’Antiquarium, è emersa una prima fase cronologica, risalente al I sec. a.C, in cui si riscontrata una fortissima
influenza della produzione insulare e in particolare
di Delo nella decorazione scultorea del santuario, sia
ideale che ritrattistica20.
La nostra statuetta colloca quindi in ambito tiburtino e in un’epoca anteriore alle attestazioni adrianee
l’elaborazione del tipo dell’Ercole giovane assiso
affiancato da armi. Tale ipotesi è avvalorata da un
passo del libro sulle antichità tiburtine di Ligorio21.
L’architetto napoletano, nell’identificare i luoghi di
culto dedicati all’eroe nell’antica città di Tivoli, descrive in questi termini l’aspetto dell’Ercole tiburtino, sottolineandone la peculiarità rispetto alle più
comuni immagini dell’eroe: “[…] Adoravano esso
heroe per uno iddio, come facevano tutte le greche
nationi et l’universale delle gente, e facevano di lui
particolare e principale memoria diversamente però
dall’altre imagini che di Hercole si dipignevano, […]
così parimente i Tiburtini, formando il loro Hercole,
lo fecero assiso o impiedi sopra della pelle del leone distesa sopra d’alcune armature, o vogliamo dire
spoglie o arnesi colla clava et li pomi hesperidi in
mano. Altre immagini assise anchora sull’armi colla
mazza et colla Vittoria in pugno […].
Così etiandio Hercole, essendo valoroso per havere superate ancho le amazone, oltre ai mostri, gli
posero sotto di piedi il scudo in forma di luna, come
erano le pelte lunate di quelle donne […].
Et per che egli vinse altri popoli de la Beotia, ha
altre sorte di greche armature che non sono le pelte
e le bipende, arme dell’Amazone […]. Et per che il
scoglio ancho dove talvolta l’hanno fatto assiso sul
spoglio del leone, vi hanno aggiunto anchora la corazza et la torace pelle del tauro marathonio, la celata
et li schienieri allato o sotto di piedi, et colla clava o
vogliamo dire mazza in mano et dall’altra i pomi tolti
all’Hesperio giardino […]”.
Dal territorio tiburtino proviene un’ulteriore
testimonianza del tipo. Si tratta di una statuetta di
Ercole, rappresentato in età avanzata e barbato, seduto su una congerie di armi coperta dalla pelle leonina (fig. 6). Sul plinto quadrangolare una cornice
racchiude l’iscrizione con la dedica a Hercules Invictus22. La testa però non è pertinente e quindi non è
escluso che la scultura originariamente raffigurasse
un Ercole giovane23.
È all’Hercules Victor tiburtino piuttosto che
all’Hercules Invictus dell’Ara Maxima che va quindi
attribuito il tipo dell’Ercole giovane seduto su roccia
con armi e corazze ai suoi piedi. Spiegando l’origine dell’iconografia dell’Ercole venerato a Tivoli, Ligorio sembra fare riferimento ad immagini diverse
dell’eroe in cui armi e attributi rimandano in modo
vario alle dodici fatiche dell’eroe. L’autore sottolinea esplicitamente la presenza della pelta, evidente
20
23
Fig. 5. Delo, Museo Archeologico: statuetta di Ercole (Hellenic Ministry of Education and Religious Affairs, Culture and
Sports/21st Ephorate of Antiquities/Delos Museum).
Giannetti 2012.
Ligorio 2005, 6-7, f. 3a-f. 3av.
22
Sulla sovrapposizione degli epiteti Victor/Invictus in età imperiale: Coarelli 1988, 189.
Liverpool, Merseyside County Museum, inv. M8877 (Granino 2005, 608-609, n. 832). Ringrazio il Dott. Zaccaria Mari per
avermi segnalato il pezzo.
21
30
La statuetta di Ercole giovane seduto e l’iconografia dell’Ercole Vincitore
nell’esemplare di via Leonina, e della corazza comune alla nostra statuetta, alle emissioni monetali e al
tondo dell’Arco di Costantino.
Resta aperto il problema di cosa abbia visto Ligorio per attribuire in maniera tanto esclusiva tale
immagine all’Ercole tiburtino.
In passato è stata proposta per i tondi adrianei
una provenienza tiburtina, in particolare dalla Villa
Adriana24. Tale provenienza è stata messa in discussione dalle ultime ricerche sull’Arco di Costatino
che sembrano invece dimostrare una collocazione
originaria dei tondi sull’arco stesso che si daterebbe,
proprio per la presenza dei rilievi riconosciuti adrianei, all’età adrianea25. Questo non esclude però che
il racconto della caccia e del sacrificio ad Ercole raffigurato sui rilievi fosse ambientato proprio a Tivoli,
città cara all’imperatore Adriano.
Serafina Giannetti
[email protected]
Fig. 6. Liverpool, Merseyside County Museum: statuetta di Ercole
con dedica a Hercules Invictus (da Granino Cecere 2005).
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24
25
Abstract
So far, the statuette of the seated young Hercules, found in the
sanctuary of the hero at Tivoli, has been related to the Herakles
Epitrapezios by Lysippos, as they share obvious iconographical
elements. However the youthful lineaments and the presence of
arms could suggest a relation with the type identified as the Hercules Invictus of the Ara Maxima in Rome. Such type is attested
by evidences of Hadrianic period, among which one of the tondos
of the Arch of Constantine proves the existence of a cult statue of
the hero with these features. The statuette of Tivoli, dated to Ist
century B.C., allows to attribute the elaboration of this type to the
Tiburtine environment rather than to the Roman cult of Hercules
of the Ara Maxima. This conclusion is also confirmed by a reference made by Ligorio, who attributes the image of the young hero
seated, surrounded by arms and military symbols, exclusively to
the cult of Hercules the Victor at Tivoli.
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32
Ricerche sotto la chiesa di S. Pietro a Tivoli:
dalle strutture di epoca romana all’edificio di culto paleocristiano*
Vincenzo Fiocchi Nicolai – Alessandro Blanco – Enrica Davì – Alessandro Vella
la lettura della Belli Barsali, riconoscendo nella cella
tricora un edificio paleocristiano e nei muri situati a
quota più alta i resti di una chiesa altomedievale6.
Nella primavera 2012, nel corso di un sopralluogo effettuato dagli autori di questo contributo,
nell’ambito di una ricerca promossa dalla cattedra
dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”,
nell’ambiente sotterraneo che ospitava le strutture
(subito a ridosso della cripta della chiesa romanica), si è potuta individuare, con una certa sorpresa,
una grande abside pertinente ad un edificio di culto paleocristiano (fig. 6), di cui si scorgevano anche
parte dei muri perimetrali e il gradino di accesso al
presbiterio (fig. 5a, D, E, H)7; nella tricora si poteva
pure riconoscere, senza grandi difficoltà, una cripta
relativa alla trasformazione del presbiterio absidato,
1. Premessa
Nel 1979 Isa Belli Barsali, nel suo contributo fondamentale dedicato alla topografia di Tivoli nell’altomedioevo, portava all’attenzione degli studiosi alcune strutture murarie visibili al di sotto della chiesa
di S. Pietro alla Carità, situata a ridosso delle antiche
mura della città (fig. 1, n. 20)1. In esse la studiosa riconosceva una “cella tricora” e i resti (non ben precisati) di un secondo edificio di culto di età altomedievale situato a quota più alta. Le strutture erano venute alla luce nel corso dei lavori di restauro eseguiti
tra il 1946 ed 1950 dalla Direzione Generale per le
Antichità e Belle Arti del Ministero della Pubblica
Istruzione, dopo i gravi danneggiamenti che l’edificio
aveva subito nei bombardamenti aerei di Tivoli del
maggio 19442. In realtà, la presenza dei resti sotto la
chiesa era stata già fugacemente segnalata, nel 1951,
dal Direttore dei Lavori di restauro, l’architetto Marcello De Vita, e, nel 1963, da Antonio Parmegiani,
uno storico dell’arte, che in essi riconosceva “tracce
di oratorio paleocristiano su case romane di epoca
sillana e augustea”3. La presenza delle strutture non
era neanche sfuggita a Cairoli Fulvio Giuliani, il quale, per primo, nel suo fondamentale lavoro su Tibur
nell’antichità, in una brevissima nota, vi aveva riconosciuto un edificio triconco di età post-classica4.
Anche dopo la breve descrizione della Belli Barsali, alle murature visibili sotto S. Pietro non si è prestata la dovuta attenzione: tra gli accenni alla loro
esistenza reperibili nella letteratura archeologica (e
non solo), si segnalano quelli di Zaccaria Mari, che
proponeva una datazione della tricora in età altomedievale5, e di Francesco Ferruti che, in un lavoro del
2001 dedicato alla intera vicenda edilizia di S. Pietro, riprendeva, senza apportare sostanziali novità,
Fig. 1. Pianta della città di Tivoli in epoca romana: entro il cerchio,
è l’area circostante la chiesa di S. Pietro (da Giuliani 1970).
* Questo contributo è frutto di una ricerca svolta congiuntamente dagli autori; nella stesura, V. Fiocchi Nicolai e E. Davì
hanno curato il paragrafo 1; A. Blanco il n. 2; A. Vella il n. 3; V.
Fiocchi Nicolai i paragrafi nn. 4-8.
1
Belli Barsali 1979, 141-142.
2
De Vita 1952; Ferruti 2001, 144-145.
3
De Vita 1952, 154; Parmegiani 1963, 191.
4
Giuliani 1970, 71, nota 1.
5
Mari 1993, 123.
6
Ferruti 2001, 119-121. Sulla chiesa si vedano pure: Croc-
chiante 1726, 109-120; De Vita 1951; Mosti 1968, 93-96; Pacifici 1925-1926, 120, 130-131, 324-325; Pierattini 1979, 242;
Vendittelli 1984, 86; Rovigatti – Bernardini 1988; Parlato – Romano 1992, 297; Pistilli 2000, 204; Sciarretta 2001, 131; Sciarretta 2003a, 66; Sciarretta 2003b, 67-70; Rubini 1995; Cicogna
2010, 157.
7
Del rinvenimento si è brevemente riferito in Fiocchi Nicolai
2011, 4. All’abside sembra accennare la tesi di dottorato di Kraft
1978, 124 (alla Biblioteca Hertziana), che tuttavia la attribuisce
ad epoca medievale (X secolo).
33
Vincenzo Fiocchi Nicolai – Alessandro Blanco – Enrica Davì – Alessandro Vella
da strutture legate al colonnato della chiesa romanica
(C); il muro, largo m 0,60, si rivela costruito contro
terra a nord – dove è fiancheggiato da una canaletta di scolo delle acque piovane in blocchetti di peperino, con pendenza verso ovest (ca) – ed è rifinito
nella faccia sud con uno strato di intonaco bianco,
scandito da profonde incisioni verticali, apparentemente impresse sull’intonaco fresco. Del solo muro
meridionale (B) è possibile verificare con esattezza il
piano di spiccato, corrispondente al punto in cui il rivestimento idraulico risvoltava sul pavimento, attualmente tranciato e riconoscibile in sezione all’interno
del cavo aperto nel corso delle indagini moderne: tale
piano veniva a trovarsi circa 2 metri al di sotto del livello di frequentazione del successivo edificio paleocristiano, circa 3 metri sotto il pavimento della chiesa
attuale. Per quanto riguarda il muro sotto il presbiterio (C), non si scorge il piano di spiccato sul lato sud,
coperto dall’interro, mentre sul lato nord, costruito
contro terra, il piano di frequentazione doveva essere
in origine più alto, prima che il muro venisse rasato
e obliterato da interventi di età posteriore. Al di là di
una generica attribuzione dei resti ad un’età compresa tra la tarda Repubblica e il primo Impero e della
verosimile connessione del muro B con un organismo
di tipo idraulico, la cronologia delle tre strutture, così
come l’eventuale reciproca relazione e la loro funzione, restano sostanzialmente incerti.
cripta che aveva riutilizzato come muro perimetrale
le fondazioni dell’abside antica (fig. 5a, CR). La cronologia dei resti proposta dalla Belli Bersali andava
perciò invertita. Ma andiamo con ordine.
2. Le strutture
L’edificio paleocristiano di cui è stata individuata
l’abside sorse nei pressi di una presunta posterula
delle mura repubblicane di Tivoli (fig. 1, n. 19), in
un’area già occupata da edifici antichi (fig. 2)8. Il perimetrale nord della chiesa si impostò sopra un muro
in opera incerta (A), di cui si scorge la faccia rivolta verso sud; subito al di sopra del livello di interro
che copre la porzione inferiore del muro, si scorge
la presenza di un piccolo elemento in travertino, con
probabile funzione di architrave a protezione di una
sottostante apertura, attualmente non verificabile. Un
altro muro, con andamento est-ovest, divergente dal
primo, è visibile sotto il perimetrale sud della chiesa
e il settore meridionale dell’abside, che lo inglobarono nelle loro fondazioni senza riprenderne l’orientamento (B); esso si presenta rivestito, nell’unica faccia
visibile – quella nord – da intonaco idraulico. Un terzo muro, infine, leggermente convergente a est con il
precedente, attraversa la zona del futuro presbiterio,
tagliato alle estremità dalle fondazioni dell’abside e
Fig. 2. Planimetria
delle preesistenze di
età romana nell’area
della chiesa paleocristiana (rilievo A.
Blanco – A. Vella).
8
Per i resti attribuiti alla posterula: Giuliani 1970, 70-71, n. 19;
Mari 1994, 154. Le strutture antiche comprese entro il perimetro della chiesa risultano sostanzialmente inedite, fatta eccezione
per un generico accenno in De Vita 1952, 154 e per la menzione
di “case romane di epoca sillana e augustea” in Parmegiani 1963,
191.
34
Ricerche sotto la chiesa di S. Pietro a Tivoli
Fig. 3. Sezione prospettica e ortofotopiano delle strutture della c.d. posterula (rilievo A. Blanco – A. Vella).
Nuovi rilievi compiuti nell’area sottostante all’asilo Taddei, situato a ridosso della chiesa di S. Pietro,
hanno consentito di posizionare i resti della presunta posterula, già studiata da Cairoli Fulvio Giuliani9,
rispetto al gruppo di murature su cui insiste la vicina basilica (fig. 2). La c.d. posterula consiste in uno
stretto passaggio, con luce di m 1,75 ca., ricavato in
corrispondenza di una struttura in blocchi di testina
interpretata come saliente delle mura urbane (fig. 3).
Il tratto più settentrionale del muro (M), conservato
per un’altezza massima prossima ai 2,5 metri, corre
in direzione nord-sud per m 10,5 ca.: esso è costituito da blocchi disposti per filari alternati di testa e di
taglio, su uno spessore di almeno m 2. Il tratto a sud
del passaggio (N), disposto in direzione est-ovest, è
conservato per un’altezza massima di m 2,20 ca., si
segue per una lunghezza di poco superiore a m 6 ed
è costituito da blocchi messi in opera esclusivamente
di taglio, su uno spessore di appena m 0,60 (un solo
filare). Non è possibile determinare con certezza il
livello di spiccato di questo tratto di mura, coperto
dai piani di frequentazione dello scantinato moderno: il punto più basso in cui attualmente si riconosce la presenza della muratura in blocchi di testina
si quota m 5 ca. al di sotto del pavimento dell’edificio
paleocristiano che precedette la basilica romanica di
S. Pietro. Quanto alla cronologia, gli studi del Giuliani, come è noto, hanno consentito di proporre per
le mura in blocchi di testina una datazione al IV sec.
a.C., probabilmente corrispondente alla prima fase
di definizione monumentale della linea difensiva della città10.
Alcuni problemi sono posti dalla conformazione del tratto di muro a sud della c.d. posterula (fig.
2, N), il cui esiguo spessore e la cui tessitura, con
blocchi disposti esclusivamente di taglio, lo rendono
poco idoneo alla funzione di fortificazione. La spiegazione può forse risiedere nel forte dislivello che
caratterizza il terreno in questo settore periferico del
pianoro, con doppia pendenza verso ovest e verso
nord, confermata, come si è visto, dal livellamento
delle strutture antiche: tale dislivello porta a ritenere
che il muro (N) costituisse in origine una semplice
fodera in blocchi, posta a regolarizzare il taglio della
scarpata naturale del pianoro, concepito per assecondare l’inclinazione di una strada che usciva dalla
città, diretta verso valle; tale situazione trova precisi
riscontri in un’analoga struttura pertinente alle fortificazioni in blocchi di testina nella zona settentrionale dell’acropoli11.
Ulteriori osservazioni hanno consentito di individuare una successiva fase di sviluppo del sito,
verosimilmente riferibile ad età tardo-repubblicana
(figg. 2-3). Il tratto settentrionale del muro in blocchi (M), in particolare, presenta risarciture in cubilia di calcare legati da malta; alla sommità di esso
spicca una volta in calcestruzzo, conservata in alcuni
tratti sino circa alle reni: tale volta doveva impostare a valle su un muro parallelo (O), manomesso da
interventi successivi, di cui sembra riconoscersi un
piccolo tratto visibile in sezione presso il perimetrale nord dello scantinato. Una volta in calcestruzzo
a sesto sensibilmente rialzato, ortogonale alla precedente e strutturalmente solidale con essa, fu gettata a coprire la luce della c.d. posterula (fig. 4): tale
volta, discretamente conservata, presenta sull’intradosso ampie porzioni di uno spesso rivestimento
in intonaco bianco. L’insieme si configura come un
corridoio voltato, addossato all’esterno dell’antico
fronte in blocchi, composto da un tratto con orien-
9
11
Giuliani 1970, 70-71, n. 19.
Giuliani 1970, 48.
10
35
Giuliani 1970, 144, n. 77.
Vincenzo Fiocchi Nicolai – Alessandro Blanco – Enrica Davì – Alessandro Vella
tamento nord-sud, dell’ampiezza di m 2,50 ca. (figg.
2-3, va1), e da un tratto ortogonale coincidente con
il passaggio della c.d. posterula (figg. 2-3, va2); la linea di imposta della volta a botte, nel tratto nordsud, si mantiene orizzontale, ma asseconda il pendio,
spiccando a quote differenti nei diversi settori (fig.
3). Sembra probabile che, in questa fase, fosse ancora prevista una possibilità di comunicazione con la
zona a valle, in direzione ovest, benché le condizioni
di conservazione dei resti non offrano concrete possibilità di riscontro. Un ultimo intervento pertinente
al medesimo contesto cronologico è riconoscibile
subito a sud del passaggio voltato (figg. 2, 3, va3),
dove venne ricavata un’intercapedine che isolò il
muro in blocchi settentrionale (N), larga m 1,60 ca.,
delimitata a sud e a ovest da una struttura in opera
incerta (fig. 2, A-A1): tale struttura coincide con la
parete settentrionale dell’analogo muro, già osservato nell’area sottostante la chiesa di S. Pietro (A). In
questo settore non si conserva alcuna traccia relativa
ad un eventuale sistema di copertura.
Fig. 4. Muri in blocchi di testina (M-N), sormontati dall’antica
volta in conglomerato cementizio.
Allo stato attuale, appare prematura l’impresa di
fornire un’interpretazione globale del significato urbanistico dei resti evidenziati. L’identificazione come
posterula della costruzione in blocchi presso l’asilo
Taddei si basa principalmente sul confronto con analoghe strutture attribuibili alla più antica fase delle
fortificazioni urbane di Tivoli12. Tuttavia, il reale
tracciato della linea difensiva in questo settore urbano è tutt’altro che chiaro13: oltre al segmento definito
dalle strutture appena esaminate, infatti, va tenuto
conto di un possibile percorso a monte, riconosciuto dal Carducci (fig. 1, n. 18)14, e della presenza di
un muro in blocchi rinvenuto dal Mari più a valle
(fig. 1, bl1)15, entrambi poco compatibili, a quanto
sembra, con la ricostruzione del circuito murario
comunemente accettata. Nella definizione della questione relativa alla presenza di una posterula presso
l’asilo Taddei si è ritenuto di valorizzare alcune fonti
post-antiche16, in particolare la menzione medievale
di una chiesa di S. Pietro iuxta moenia17 e la notizia
riportata dal Nicodemi dell’esistenza di due “porticulae quorum una e S. Petri erat conspectu”18. Tuttavia,
la prima citazione, come già evidenziato dal Giuliani,
non trova apparentemente riscontro nella documen-
tazione medievale e, pertanto, va ritenuta frutto di
un equivoco da parte del Carducci. La notizia del
Nicodemi, a ben vedere, non dirime la questione
della posizione della posterula, che poteva trovarsi
davanti alla facciata (e … conspectu) della chiesa di
S. Pietro19 e non necessariamente in corrispondenza
delle strutture sotto l’asilo Taddei20.
Alle fonti citate va aggiunto un documento conservato tra le carte di S. Sisto, in cui si fa menzione
di una chiesa “Sancti Petri foris murum Tyburis”21.
Se questa menzione si riferisce all’attuale S. Pietro
alla Carità, come è stato sostenuto22, appare evidente
che la chiesa risultasse extramuranea. In alternativa,
si può ritenere che il riferimento vada attribuito alla
chiesa Beati Petri inter duos ludes, che una nota aggiunta al documento V del Regesto Tiburtino definisce “videlicet foras muros”23. Sulla base di tale nota
e sull’assunzione di una coincidenza tra il Castrovetere e la civitas vetus del documento 420 del Regesto
di Farfa (anno 1003)24, C.F. Giuliani ha proposto di
localizzare la chiesa inter duos ludes nel settore extraurbano immediatamente a ovest dell’antica acropoli25. Tuttavia, in base alla convincente revisione
del Vendittelli26, il toponimo Civitas Vetus andrebbe
piuttosto localizzato nella zona adiacente la nostra
chiesa, che, quindi, si troverebbe sostanzialmente a
coincidere con la chiesa extraurbana inter duos ludes. Se invece si accolgono le obiezioni del Persili,
sostenute sulla base di una solida documentazione,
occorrerà ammettere che S. Pietro inter duos ludes
fosse una semplice chiesa rurale della valle Longherina27: il tentativo dello studioso di giustificare l’incon-
12
20
13
21
3. La documentazione letteraria
Giuliani 1970, 109-113, n. 64; 144, n. 77.
Giuliani 1970, 48.
14
Carducci 1940, 42; Giuliani 1970, 80, n. 18.
15
Mari 1994, 153-156.
16
Giuliani 1970, 71, n. 19. Ringrazio il Dott. Claudio Vecchi per
i suoi consigli e per il prezioso aiuto.
17
Carducci 1940, 42.
18
Bussi – Pacifici 1926, 14-15.
19
Ossia in corrispondenza dei resti segnalati in Giuliani 1970,
80, n. 18.
Giuliani 1970, 70-71, n. 19.
Carbonetti Venditteli 1987, 35-36, n. 17.
Carbonetti Vendittelli – Carocci 1984, 101.
23
Bruzza 1880, 35, nota 3.
24
Giorgi – Balzani 1879-1914, III, 129-131, n. 420.
25
Giuliani 1970, 36-39. Una rassegna critica di diverse ipotesi si
trova in Persili 1970, 21-24.
26
Vendittelli 1979, 157-178.
27
Persili 1970, 15-60.
22
36
Ricerche sotto la chiesa di S. Pietro a Tivoli
que, che gli ambienti voltati presenti presso l’asilo
Taddei inglobino i resti di una posterula ancora attiva delle mura urbane, rimane la possibilità che si
trattasse di opere di ristrutturazione atte a garantirne la stabilità e il decoro, anche al fine di valorizzare
la zona circostante. Se si accetta, invece, come proposto in questa sede, che la struttura in blocchi consistesse in un semplice fronte sostruttivo attrezzato
per il passaggio di un percorso viario, ovvero che
si trattasse di un’antica posterula defunzionalizzata
dall’arretramento del circuito murario, tale addossamento potrebbe essere messo direttamente in relazione con gli impianti residenziali di lusso che, sin
da età tardo-repubblicana, si sviluppanrono presso
il settore meridionale della città, felicemente affacciato sulla valle Gaudente36; al medesimo contesto
andrebbero attribuite anche le strutture sottostanti
la chiesa di S. Pietro.
In ogni caso, è possibile che una funzione pubblica di passaggio del varco della c.d. posterula si
mantenesse ancora in età tardo-medievale, quando
le strutture antiche furono inglobate in un vasto ambiente coperto da volte a crociera su pilastri e dotato,
verso valle, di un ampio accesso architravato, protetto da un arco ribassato, per una luce di ben 2,80
metri (fig. 2, po): ciò si ricollegherebbe, infatti, alla
menzione cinquecentesca di una “strada pubblica”,
definitivamente obliterata solo all’epoca della realizzazione di Villa d’Este, possibilmente coincidente
con il percorso antico che correva presso la chiesa
di S. Pietro, attraverso il varco nella costruzione in
blocchi di testina37. Per quanto riguarda le murature sotto S. Pietro, in assenza di dati stratigrafici, è
probabile che i costruttori della prima chiesa vedessero ancora in piedi almeno il muro in opera incerta
(A), su cui fondarono il perimetrale nord; i due muri
obliqui (B, C) furono, invece, rasati ad un livello di
poco inferiore al piano della chiesa, sotto il quale restarono sepolti.
grua nota del Regesto tiburtino (“videlicet foras muros”)28 risulterebbe più convincente se, tenuto conto
del carattere posticcio della glossa, se ne attribuisse
l’imprecisione ad una svista del chiosatore che, ignorando l’esistenza dell’antica e, forse, ormai scomparsa
cappella rurale29, ne avesse proposto erroneamente
l’identificazione con l’omonima e distinta chiesa “foris
murum Tyburis”, ossia S. Pietro alla Carità.
In definitiva, sembra estremamente probabile
che l’attuale chiesa di S. Pietro alla Carità risultasse
esterna all’antica cinta difensiva, quantomeno nella sua configurazione storica definitiva, precedente
all’ampliamento tardo-medievale30. Sembra plausibile, dunque, ammesso che la struttura in blocchi di testina presso l’asilo Taddei appartenesse a una posterula delle prime fortificazioni urbane, che essa fosse
ormai dismessa, probabilmente sostituita, tra il III e
il II sec. a.C., come si è ipotizzato in altri settori, da
una sostruzione in blocchi di tufo “con secondaria
funzione difensiva”31, il cui percorso doveva correre
almeno in parte a monte di quello delle precedenti
mura (fig. 1, n. 18)32.
Ciò premesso, interventi con strutture in muratura di età tardo-repubblicana, addossate esternamente alle fortificazioni urbane, sono ampiamente
attestati in diversi settori della città, specie in relazione con opere sostruttive finalizzate ad ampliare
il piano di utilizzo dei livelli superiori del pianoro,
nell’ambito del fenomeno definito dal Giuliani “superamento urbanistico della linea delle mura”33. Di
per sé, le murature individuate presso l’asilo Taddei
sembrano ricollegarsi ad un intervento di natura
piuttosto limitata, confrontabile con le situazioni
attestate presso il lato orientale della cinta muraria
urbana34 e in corrispondenza dell’acropoli35, dove
strutture in opera incerta denunciano l’addossamento di costruzioni tardo-repubblicane al lato
esterno dell’antica linea difensiva. Nel caso, dun28
Persili 1970, 22-24, nota. 17.
“…iuris cuiuscumque esse dinoscitur” si dice della chiesa inter
duos ludes nell’ambito del già citato documento farfense dell’anno 1003 (Giorgi – Balzani 1879-1914, III, 129-131, n. 420).
30
Secondo l’ipotesi del Vendittelli, l’ampliamento medievale
della cinta muraria tiburtina sarebbe avvenuto alla metà del’XI
secolo (Vendittelli 1979), per cui, nel 1196, la chiesa di San Pietro si sarebbe trovata comunque all’interno del nuovo circuito.
Per giustificare l’espressione contenuta nel documento conservato tra le carte di San Sisto, pertanto, occorre ritenere che o
l’ampliamento delle mura sia in realtà posteriore a quanto sostenuto dal Vendittelli o che il toponimo utilizzato nel documento
risultasse tradizionalmente consolidato e non aggiornato alla
nuova situazione.
31
Si vedano le considerazioni in Giuliani 1970, 91-92, n. 56. La
sostruzione corrisponderebbe alla struttura in blocchi di tufo
identificata dal Carducci (Carducci 1940, 42) e descritta dal
Giuliani al n. 18 (Giuliani 1970, 80, n. 18).
32
Le difficoltà tecniche legate alla definizione di un percorso difensivo funzionale in questo settore urbano si riflettono ancora in
età pienamente medievale nella riproposizione di una linea di fortificazione notevolmente avanzata verso valle (Vendittelli 1979).
33
Giuliani 1970, 50-51, 76-77 (n. 35), 108 (n. 62), 118-119 (n.
73), 145-146 (n. 80-81). A questi si aggiungano il criptoportico
di Piazza Tani (Giuliani 1970, 95-107, n. 59; da ultimo: Vecchi
2012), presumibilmente addossato all’antica linea difensiva, oggi
scomparsa, e inglobato nel rifacimento delle mura di età tardoimperiale; il c.d. “mercato coperto” (Giuliani 1970, 218-222,
n. 114), interpretato come via tecta pomeriale in prosecuzione
di via Campitelli (Giuliani 1970, 51), con funzione sostruttiva
dei livelli superiori, in parte addossata e in parte sostituitasi al
muro in blocchi n. 56 (Giuliani 1970, 91-92); infine, i tratti di
fortificazione in blocchi n. 77 (Giuliani 1970, 144) e n. 79 (Giuliani 1970, 145), che, pur non conservando strutture addossate
in opera cementizia, corrono su una linea arretrata rispetto al
ciglio dell’acropoli, così come configurato dagli ampliamenti di
età tardo-repubblicana.
34
Giuliani 1970, 76-77, n. 35.
35
Giuliani 1970, 118-119, n. 73.
36
Giuliani 1970, 70, n. 20; 225-227, nn. 117-119. Platee e sostruzioni extramuranee in opera quadrata di tufo, travertino e
testina, inglobate da strutture in opera incerta o reticolata, pertinenti a complessi residenziali di età tardo-repubblicana e protoimperiale, sono documentati nel settore ovest e sud-ovest della
città (Giuliani 1970, 152-155, n. 96; 225, n. 116).
37
Giuliani 2009, 13, 22-25.
29
37
Vincenzo Fiocchi Nicolai – Alessandro Blanco – Enrica Davì – Alessandro Vella
restante tratto visibile, dalle fondazioni del muro
perimetrale della soprastante chiesa romanica. Dei
due muri sono visibili solo le facce rivolte verso l’interno della chiesa; essi si presentano di fattura del
tutto simile a quella dell’abside.
La zona presbiteriale era accessibile da un gradino (fig. 5a, G; 9), alto cm 17, completamente intonacato, addossato ai muri perimetrali e al piccolo
dente che questi formavano con l’abside. Sopra lo
scalino, in un momento successivo, venne costruita
una transenna in muratura (H1-H2), dotata di anta
sporgente verso la navata, a delimitare un passaggio
situato al centro del settore presbiteriale; i muretti
sono conservati in altezza solo per una quindicina di
centimetri; quello meridionale (H1) venne in seguito
tagliato per l’inserzione della scala che scendeva dal
presbiterio altomedievale alla cripta39. Il piano del
presbiterio è stato totalmente smantellato negli scavi
del dopoguerra per rimettere in luce le strutture più
antiche (figg. 6, 9): nessuna traccia si individua perciò dell’altare. Gradino e transenna poggiano direttamente sull’interro che copriva i muri romani (fig. 9);
nella navata, due tratti di conglomerato cementizio,
risparmiati dai tagli moderni, alti cm 26 (ms1-ms2),
con piano alla quota dello spiccato dei muri della
chiesa, sembrano proprio doversi interpretare come
parti residuali del massetto pavimentale. Questo non
è presente sotto il gradino e le ante sporgenti della
transenna (fig. 9, a); il che fa dedurre che tali strutture siano state realizzate prima della pavimentazione
e, dunque, già nella fase di impianto dell’edificio.
4. L’abside e il presbiterio
Dell’edificio paleocristiano si individua con grande
chiarezza la larga abside (figg. 5a, D-D1; 6, 8), dal
diametro di m 6,10, tagliata, nel settore sud, da un
passaggio (pa1) che, come si vedrà, fu realizzato per
inserire posteriormente una scala che dal presbiterio altomedievale conduceva alla cripta (figg. 5a,
7)38, e, a nord, dalla scala che porta oggi alla cripta della chiesa romanica soprastante (sc); l’abside è
dotata di fondazioni a sacco molto profonde, che
raggiungono ad ovest, dove il terreno declinava
fortemente (e dove divennero il muro perimetrale
est della successiva cripta), almeno m 2,50 di altezza; il paramento del muro è visibile solo nel lato
rivolto ad est per una sessantina di centimetri, dove
si mostra costituito da filari di blocchetti e tessere
di reticolato (sistemate di piatto o in diagonale), in
tufo, travertino e peperino, alternati a filari di mattoni (figg. 6-8); il materiale risulta evidentemente di
reimpiego, come mostrano anche le misure ridotte
e difformi dei laterizi; i letti di malta, alti cm 2-2,5,
sono allisciati obliquamente verso il basso. Le murature dell’abside si legano con un dente a quelle
dei muri E ed F, che costituirono i perimetrali della
chiesa; quello meridionale (E) si segue su una lunghezza di m 5 ca., fino al punto in cui è coperto
dall’interro sottostante il pavimento della chiesa
romanica; quello nord (F) solo per una ventina di
centimetri, in corrispondenza del gradino di accesso al presbiterio (G), essendo stato rimpiazzato, nel
Fig. 5. Pianta delle strutture dell’edificio di culto paleocristiano/alto-medievale
sottostanti la chiesa romanica di S. Pietro a Tivoli (a)
(rilievo A. Blanco – A. Vella); ricostruzione della chiesa nella fase alto-medievale
(b) (A. Vella).
38
39
V. infra, 39.
V. infra, 40.
38
Ricerche sotto la chiesa di S. Pietro a Tivoli
Fig. 6. Abside della chiesa paleocristiana.
Nell’abside si conservano pochi resti di una decorazione a finto marmo, pertinenti allo zoccolo, imitante il “giallo antico” (fig. 6, freccia); anche il muretto di delimitazione nord del settore presbiteriale
(H2), nella faccia rivolta verso la navata, era decorato con affreschi che imitavano rivestimenti marmorei
(fig. 9): vi si scorgono i resti di due pannelli, larghi
cm 90, riquadrati da linee nere e da larghi fascioni
rossi (separati da uno spazio bianco), riproducenti,
quello sud, a quanto pare, una specchiatura di “giallo antico”, l’altro, quello nord, serie di lastrine dello
stesso marmo, delimitate da linee di contorno nere,
a suggerire una finta cortina muraria (fig. 9). Una decorazione a finto marmo, probabilmente realizzata in
un momento successivo, rivestiva pure la parte bassa
del muro perimetrale meridionale (E): essa consisteva in pannelli imitanti il giallo antico ed altri marmi, riquadrati da cornici rosse, prive di linee interne
nere40.
La chiesa aveva dimensioni contenute. Era larga
7 metri e poteva raggiungere una lunghezza di circa
14-15 metri, compresa l’abside.
Fig. 7. Abside della chiesa paleocristiana (D-D1); cripta (CR) e
nicchia sud (L) del presbiterio alto-medievale.
Fig. 8. Parte dell’abside paleocristiana (D,1) e della nicchia sud
(L) del presbiterio trilobato alto-medievale con resti degli affreschi
medievali.
Per accedere alla cripta dal piano della chiesa,
un passaggio, come si diceva, fu aperto nel settore
meridionale dell’abside (pa1). Questo comportò il
taglio di parte delle fondazioni di questa struttura
e del tratto residuale del suo elevato (figg. 7i-8). Sul
lato sud del passaggio, il conglomerato informe delle
fondazioni dell’abside fu sostituito da una muratura
a blocchetti di travertino e tufo (fig. 8, m1) e, sopra
e sotto di questa, il nucleo cementizio dell’elevato
dell’abside (D1) e del muro romano (B) al quale questa si sovrapponeva, lasciati a vista nel taglio, vennero coperti con uno strato di intonaco bianco, al pari
della nuova muratura a blocchetti (fig. 8, int. 1); sul
lato nord, subito oltre il varco, il conglomerato delle
fondazioni dell’abside venne tagliato obliquamente
(evidentemente per agevolare il passaggio verso l’interno della cripta) (fig. 5a) e su di esso steso uno strato di malta, nel quale furono probabilmente allettate
lastre di marmo di rivestimento, come pare rivelare
l’allisciatura della malta visibile in più punti. In basso, il piano pavimentale del passaggio era costituito
5. La cripta
In una fase successiva, l’intero settore presbiteriale
dell’edificio venne modificato con l’inserzione di una
cripta, ricavata, come si diceva, alle spalle (ad ovest)
delle fondazioni dell’abside, ad un livello di m 2 ca.
più basso (figg. 5a, CR; 7, 10). L’abside venne tagliata
ad un’altezza di cm 60 ca. e, a quella quota, fu realizzato un nuovo piano pavimentale, costituito da lastre
di travertino poste in opera sulla rasatura dei muri,
lastre di cui si conservano ancora alcuni resti nel settore sud di questa, in corrispondenza del passaggio
che conduceva alla cripta (pa1) (figg. 6; 8, lt). Tratti
di una decorazione pittorica riproducente vela, chiaramente pertinenti ad una zoccolatura, conservati
subito al di sopra della quota segnata dai lastroni di
travertino, nel settore più alto della nicchia meridonale della cripta (L) (fig. 7, freccia; fig. 8), assicurano
che questo fu il livello del pavimento del nuovo presbiterio.
40
Scarsissimi resti della fascia rossa di base si scorgono sulla faccia est della transenna meridionale (H1).
39
Vincenzo Fiocchi Nicolai – Alessandro Blanco – Enrica Davì – Alessandro Vella
dalle fondazioni tagliate orizzontalmente dell’abside,
visibili al di sotto del pianerottolo moderno da cui
parte la scaletta che oggi conduce al piano più basso
della cripta.
Questa, delimitata ad est, come più volte si è ricordato, dal giro delle fondazioni dell’antica abside
(portate a vista evidentemente scavando il terreno e
poi rivestite), si apriva al centro con una larga esedra
(figg. 5a, I; 10), del diametro di m 4,50, cui era unita,
a sud, una seconda nicchia molto più stretta e più
profonda (L) (figg. 5a; 7); è molto probabile che a
questa nicchia ne corrispondesse, a nord, un’altra,
simmetrica, a dar vita ad un ambiente triconco, come
ipotizzato da tutti coloro che si sono occupati del
monumento (fig. 5b)41; tuttavia la presenza di questa seconda nicchia non è certa, avendo il passaggio
della scala medievale che conduce alla cripta della
chiesa romanica cancellato ogni traccia di strutture
antiche42.
Le murature della cripta, visibili solo nella faccia rivolta verso l’interno, sono costituite da blocchi
di tufo dai contorni per lo più irregolari, alternati a
blocchetti di travertino, messi in opera in filari, su letti di malta alti cm 4-5 (fig. 10). Nel mezzo dell’abside
centrale si apriva una finestra “a bocca di lupo”, fiancheggiata da due nicchie più piccole, analogamente
strombate e non passanti, probabilmente funzionali
all’alloggio di lampade (fig. 10)43. La copertura del
vano, oggi sostituita da volte a crociera di epoca moderna, doveva probabilmente essere costituita da un
soffitto piano, sorretto forse da mensole inserite nei
muri perimetrali (di cui pare potersi riconoscere,
nella parete ovest, uno dei relativi incassi). Il soffitto doveva, come di consueto, costituire anche il pavimento del presbiterio soprastante, situato ad una
quota di m 2,50 più alta.
Dal passaggio aperto nell’abside paleocristiana
(pa1), una scala, rimpiazzata da quella odierna di
tre gradini, doveva condurre, come oggi, al livello
della cripta (fig. 5b, r2); un’altra rampa, oggi completamente scomparsa, doveva portare, dal medesimo passaggio, al livello del presbiterio, più alto
di m 1,80 (fig. 5b, r1). Il descenso che conduceva
alla cripta dalla zona presbiteriale doveva, dunque, essere costituito da due rampe, interrotte da
un pianerottolo (pa1). La prima rampa, quella più
alta, correva con ogni probabilità lungo il tratto
sud dell’antica abside (D1), che qui venne probabilmente utilizzata come fianco sinistro della scala
per chi scendeva; la cortina dell’abside fu in effetti
in questo settore mantenuta in vista sotto il livello
del pavimento, come attesta il fatto che essa venne
Fig. 9. Gradino di accesso al presbiterio della chiesa paleocristiana
(G) e transenna in muratura soprastante (H2), con la decorazione
ad affresco a finto marmo (a, particolare).
rivestita con l’affresco imitante i vela (fig. 8, int2); il
passaggio della scala in questo punto è pure confermato dal taglio della antica transenna in muratura
soprastante il gradino che conduceva al presbiterio
paleocristiano (H1), all’estremità sud, a formare un
varco di cm 60 ca., evidentemente funzionale all’imbocco della scala. L’apertura del descenso sul piano
della chiesa poteva essere protetto a nord da una
transenna in marmo o in muratura, forse collegata
alla delimitazione della zona del presbiterio, di cui
poteva far parte un rocchio di colonna riutilizzato
come base (fig. 5b)44.
Il presbiterio soprastante la cripta doveva
ripetere l’assetto probabilmente trilobato di
questa (fig. 5b). Le murature dell’abside sud (L),
come si è accennato, continuano, infatti, in alto,
senza soluzione di continuità e con il medesimo
andamento semicircolare, per una quarantina di
centimetri sopra il livello pavimentale indicato dai
lastroni di travertino (figg. 7-8). Qui, come si diceva,
i muri della nicchia sono rivestiti con l’affresco con
i vela, chiaramente pertinente ad una zoccolatura
(figg. 7, freccia; 8, int3). Il presbiterio trilobato
doveva innestarsi al muro sud della vecchia chiesa,
41
Cfr. note 1-6.
La limitata profondità dell’abside centrale è probabile sia
dovuta al repentino declinare del terreno ad ovest, che rendeva evidentemente difficoltoso uno sviluppo della costruzione in
quella direzione.
43
La finestra centrale passante permette di misurare lo spessore
del muro della cripta in quel punto: cm 90.
44
La rampa r1, in ogni caso, risultava coperta a partire da circa m 1,10 dal pianerottolo in pa1, dove è evidente che la decorazione pittorica con i vela terminava contro una struttura
muraria a profilo rettangolare oggi scomparsa, sospesa sopra la
rampa (fig. 8).
42
40
Ricerche sotto la chiesa di S. Pietro a Tivoli
(senza escludere una cronologia anche più tarda)47;
la presenza della recinzione presbiteriale in muratura già nella fase di impianto sembra confermare
una datazione non anteriore al V secolo, epoca dalla quale cominciano a diffondersi tali recinzioni48.
La decorazione a finto marmo della zoccolatura
dell’abside e della transenna (figg. 6; 9) non fornisce indicazioni cronologiche particolarmente stringenti, a motivo della sua frammentarietà e del suo
impiego molto comune nella ornamentazione delle
chiese tardoantiche49.
La cronologia della ristrutturazione del presbiterio, con l’inserimento della cripta, trova, come è
ovvio, un sicuro terminus ante quem nella costruzione della soprastante chiesa romanica che ne decretò lo smantellamento, nei primi decenni del XII
secolo50. La tessitura muraria a filari costituiti da
blocchi di tufo, per lo più informi, e blocchetti più
regolari, con inclusione di rarissimi laterizi (fig. 10),
sembra orientare per una datazione molto ampia,
compresa tra la metà del IX secolo e l’XI secolo51.
La seconda decorazione dello zoccolo presbiteriale,
quella con i vela (fig. 8), potrebbe essere attribuita,
in base allo stile dell’ornato, all’XI secolo52. Il presbiterio probabilmente trilobato, ad abside centrale
e nicchie minori laterali (fig. 5b), già documentato
in edifici di culto paleocristiani a partire dal V secolo53, trova attestazioni, benché sporadiche, anche
nell’altomedioevo (come, per esempio, a Castelseprio, S. Vincenzo al Volturno, S. Nicola delle Donne a Padula, S. Pedro a Tarrasa in Catalogna, forse,
nella non lontana Sabina, nella chiesa di S. Maria in
Legarano)54; nel nostro caso, è difficile comunque
non vedere in tale conformazione una “citazione”
della nota tricora paleocristiana di S. Sinforosa, esistente sulla via Tiburtina a poche miglia da Tivoli55.
La forma trilobata della cripta non trova confronti
il quale continuava a svolgere la sua funzione di
muro perimetrale, come attesta il fatto che esso
si conserva in elevato ben oltre il piano del nuovo
presbiterio. La chiesa, nel complesso, non doveva
differire molto da quella paleocristiana, salvo che
nel settore presbiteriale, la cui realizzazione aveva
anche comportato un prolungamento dell’edificio
verso ovest di circa tre metri (figg. 5a-5b). Una
decorazione pittorica rivestì il nuovo presbiterio:
di questa si scorgono scarsissimi resti nella nicchia
sud, consistenti in fasce di colore rosso; sopra
questo strato pittorico fu steso successivamente
l’affresco con i vela, di cui si conservano ampi brani
nella medesima nicchia e nel vano scala (fig. 8). La
decorazione consiste in tendaggi stilizzati, formati
da pieghe verticali e ondulate, individuate da linee
scure, e decorati da motivi raggiati a terminazione
puntiforme e a “nodo di Salomone” di color ocra.
6. La cronologia
La datazione della chiesa, nella sue diverse fasi non
è di facile definizione. La basilica di S. Pietro sembra per la prima volta attestata con certezza dalle
fonti solo nel 132045; non può più infatti attribuirsi
all’edificio, come si è sostenuto anche di recente,
la notizia del Liber Pontificalis relativa ad una presunta donazione alla chiesa di Tivoli di una tovaglia
d’altare da parte di papa Leone III (795-816), notizia che, invece, riguarda, come da tempo acclarato,
il monastero di S. Stefano Maggiore a Roma, presso
S. Pietro in Vaticano46. La tipologia delle murature della chiesa della prima fase – un opus listatum
irregolare con forte reimpiego di cubilia (figg. 6-8)
– orienta per una datazione nell’ambito del V-VI
45
Mosti 1975, 92, 98, 101. È probabile che l’edificio sia da identificare con l’ecclesia S. Petri foris murum Tyburis, citata in un
documento dell’archivio di S. Sisto a Roma nel 1196: cfr. supra,
36-37.
46
Duchesne 1886-1892, II, 13; cfr. III, 376; Geertman 1975, 116,
237; Krautheimer 1976, 172. La notizia è attribuita alla chiesa tiburtina da non pochi di coloro che si sono occupati dell’edificio
(ma non, per esempio, dalla Belli Barsali 1979): supra, note 1-3,
5-6. Ferruti 2001, 120, nota 18 accenna in effetti alla possibilità
che il passo del Liber Pontificalis si riferisca al monastero romano; tuttavia poi propende per l’ipotesi tradizionale.
47
Cfr. Mastrorilli 2007, 352-353; Cecchelli 2001, 69, 220, 264268, 314. A Tivoli tessere di opera reticolata sono riutilizzate
nelle murature della ristrutturazione tardoantica di un ambiente del teatro del santuario di Ercole Vincitore (Giuliani 2010,
41, fig. 38) e in alcuni tratti delle mura urbiche, attribuite alla
metà del VI secolo (Giuliani 1970, 112); nel territorio tiburtino, riuso di cubilia registrano le strutture murarie della chiesa
di S. Vincenzo presso Montecelio (Mari 1999, 477, 480, note 48,
60; fine IV-inizi V secolo) e alcuni tratti delle murature del ponte
dell’Acquoria sull’Aniene, relativi ad un restauro della metà del
VI secolo (Mari 2001, 59, tav. 16). Muri in opera listata simili
alla nostra, con riuso di tessere di reticolato, sono pure quelli
con cui fu realizzata la chiesa paleocristiana di S. Maria in Vico
Novo presso Scandriglia (VI-metà del VII secolo): Fiocchi Nico-
lai 2009, 86, 91 e nota 534 (ivi ulteriori confronti).
48
Si veda Guidobaldi 2000; Guidobaldi 2001, 184-190.
49
Cfr., ad esempio, la decorazione del muro che delimitò, alla
metà del V secolo, un settore del presbiterio di S. Paolo f. l. m.
a Roma: Filippi 2006.
50
Vendittelli 1984, 86; Parlato – Romano 1992, 297; Pistilli
2000, 204; Ferruti 2001, 124-126.
51
Cfr. Esposito 1998, 24, 30; De Meo 2007, 146. Vedi pure le
murature altomedievali rinvenute nel santuario di Ercole Vincitore: Fiore 2006, 39-40, fig. 5.
52
Essa è simile, per esempio, ai vela di S. Balbina (Bordi 2006,
89-92, fig. 1; terzo quarto dell’XI secolo) e di S. Angelo in Pescheria a Roma (Meneghini – Santangeli Valenzani 2004, 81-83,
figg. 60-62) che Giulia Bordi (alla quale va il mio ringraziamento
per l’informazione e per i suggerimenti fornitimi circa l’inquadramento cronologico degli affreschi) ritiene dell’XI secolo.
53
Vedi, ad esempio, per limitarci all’Italia, gli edifici di Concordia, Cimitile, Capua, S. Martino di Copanello, S. Ciriaco sulla
via Ostiense presso Roma: Lehemann 1996, 335-354; Dey 2010,
305-306; Fiocchi Nicolai 2010, 73, nota 40, fig. 15.
54
Salmon 1961-1962; Magni 1978, 49-50; Miccio 1989, 107108; Lichterhandt 2010, 349-350; Guardia Pons 2000, 81 (ivi
bibl.).
55
Stapleford 1974, 54-56; Moscetti 1998, 47-48, 57-58; Fiocchi
Nicolai 2010, 67.
41
Vincenzo Fiocchi Nicolai – Alessandro Blanco – Enrica Davì – Alessandro Vella
diretti: essa richiama analoghi organismi dell’VIIIX secolo, come la cripta a tre vani, di cui due a terminazione absidata, di S. Vincenzo al Volturno, del
secondo quarto del IX secolo (che, pure, come si
diceva, era dotata di presbiterio triconco)56, quella di S. Miguel di Tarrasa (inizi X)57 e, in fondo,
anche alcune cripte dell’Italia settentrionale del
tipo “a corridoio” rettilineo, dotate di larga abside
centrale e di due nicchie minori laterali (S. Maria
delle Cacce a Pavia (VIII-X secolo), S. Severo a
Bardolino sul Garda (IX-X secolo) o fornite di più
absidi trilobate (S. Maria Assunta di Farneta presso
Cortona)58. Fu probabilmente proprio la volontà di
dotare di una cripta la nostra chiesa a portare alla
ristrutturazione generale del presbiterio; l’ambiente
sotterraneo doveva probabilmente contenere, come
di consueto, reliquie, evidentemente depositate in
un altare, forse posizionato nell’abside centrale, cui
poteva corrispondere, come di norma (e come a S.
Vincenzo al Volturno), in alto, nel presbiterio, l’altare maggiore della chiesa59.
Fig. 10. Abside centrale della cripta triconca
alto-medievale.
7. Conclusioni
L’edificio di culto cristiano individuato sotto S. Pietro
è il più antico di cui si siano ritrovati resti a Tivoli.
Nella città, il cristianesimo, come si sa, doveva essersi diffuso abbastanza precocemente, come attestano,
tra l’altro, gli antichi culti martiriali localizzati nei suoi
immediati dintorni (S. Sinforosa, S. Vincenzo)60. Già
nel 366 Tibur era dotata di un vescovo, quel tal Paolo,
“satis imperitus et agrestis episcopus”, che, durante la
tormentata elezione di papa Damaso, aveva consacrato vescovo di Roma, nella basilica Iulia trans Tiberim
(S. Maria in Trastevere), l’avversario di questi, il prete Ursino61. Nei primissimi anni del V secolo le fonti
ci ricordano un altro presule della città, Florentinus,
protagonista di un’“incursione” liturgica non autorizzata in una chiesa rurale della vicina diocesi di Nomentum (forse la chiesa di S. Alessandro al VII miglio
della via Nomentana)62. Alla metà del VI secolo, un
altro vescovo tiburtino di cui non conosciamo il nome
è quello trucidato dai Goti di Totila, insieme, a quanto
pare, all’intera popolazione di Tibur (forse, tuttavia,
solo quella che non aveva ancora abbandonato la città), come ci informa un famoso passo di Procopio63.
In effetti, durante le vicende della guerra tra Goti
e Bizantini, Tivoli aveva svolto un ruolo strategico
importante: le sue mura, stando ancora a Procopio,
erano state restaurate dai Goti64. Dopo la riconquista
bizantina, la città divenne sede del rettore del patrimonium Sabinense vel Carseolanum, di pertinenza
della Chiesa di Roma, come sappiamo da una lettera
di Gregorio Magno dell’anno 59365. L’importanza di
Tibur in quell’epoca è pure confermata da un passo
della Descriptio Orbis Romani di Giorgio Ciprio, che
ricorda la città tra i castra controllati dai Bizantini nella provincia Urbicaria66.
56
zo vedi la bibl. riportata supra alle note 47 e 55; nel territorio di
Tivoli si trovavano pure le importanti chiese rurali paleocristiane
di Valila e di S. Severino: Duchesne 1886-1894, I, 324; De Francesco 2004, 105-107; Fiocchi Nicolai 2007, 112-113. In generale,
sulla fase tardo-antica/alto-medioevale di Tivoli, oltre al lavoro
menzionato di I. Belli Barsali, vedi: Giuliani 1970, 20-21, 31-41;
Tomei 1988, 69-71; Boanelli 1992, 37-39; Mari 1993, 117.
61
Avell. 1, 5 (Corpus Scriptorum Ecclesiaticorum Latinorum,
35/1, 2); Rufin., Hist. Eccl., II, 10 (Patrologia Latina, 21, c.
521).
62
S. Innocenti papae Epistolae et Decreta, Epist., 25 (Patrologia
Latina, 20, cc. 556-557); cfr. Fiocchi Nicolai 2009, 222.
63
Bell. Goth., III, 10; sull’episodio, da ultimo, Foresi 2007.
64
Bell. Goth., III, 24 (e non dai Bizantini, come comunemente
si legge).
65
Greg. M., epist., III, 21 (Corpus Christianorum, Series Latina,
140, 166-167); cfr. Marazzi 1998, 117-126.
66
Gelzer 1890, 28, l. 545.
In sintesi: Magni 1978, 49-50; Mitchell 1993; Guidobaldi
1994, 477.
57
Guardia Pons 1993, 82-83 (ivi bibl.); Guidobaldi 1994, 476477.
58
Magni 1978, 44-45, 50-53; Guidobaldi 1994, 477. Una fase
alto-medievale della chiesa di S. Pietro sembra attestata dai non
pochi frammenti di decorazione scultorea in marmo, databili
tra la fine dell’VIII e la prima metà del IX secolo, conservati
nell’edificio: Belli Barsali 1979, 144-145.
59
V. supra, nota 56. La nostra chiesa di S. Pietro conservava reliquie ritenute di S. Zotico: Crocchiante 1726, 113-115; Volpi
1734, 55. Reliquie di S. Pietro erano nella città di Tivoli nel Medioevo: Persili 1970, 40-41; Belli Barsali 1979, 147.
60
Sulle origini del cristianesimo a Tivoli e le relative testimonianze monumentali: Duchesne 1892, 496; Grisar 1908; Pacifici 1925-1926, 84-155; Lanzoni 1927, 134-138; Mancini 1954;
Belli Barsali 1979; Mari 1993, 117-124; Sciarretta 2003; Cicogna
2010, 153-159. Sulle chiese martiriali di S. Sinforosa e S. Vincen-
42
Ricerche sotto la chiesa di S. Pietro a Tivoli
Alcuni sarcofagi e iscrizioni funerarie, conservati
o esistenti un tempo a Tivoli, la cui origine locale
non è però sempre accertata, sembrano confermare
la presenza di una comunità cristiana nei secoli IV e
V67. Alla fine del V secolo siamo pure a conoscenza
dell’esistenza di una chiesa di S. Eufemia, consacrata da papa Gelasio (492-496), di cui però si ignora
l’ubicazione68, mentre di un oratorio funerario intitolato al martire Alessandro del VII miglio della via
Nomentana (da ubicare probabilmente dove ancora
oggi esistono i resti della chiesa romanica intitolata al
santo, non lontano dal Duomo) siamo informati da
un’iscrizione dell’anno 61369.
L’antica cattedrale della città, la sede di Paolo e
Florentinus, non sappiamo dove si trovasse, né se
avesse una conformazione architettonica rilevante
(non si può escludere, infatti, si trattasse di un edificio ancora non connotato). Essa difficilmente andrà
comunque individuata nella chiesa di S. Lorenzo, la
cattedrale di Tivoli almeno dal X secolo70. Tale basilica, attestata per la prima volta alla fine dell’VIII secolo, occupa infatti, come è noto, un edificio pubblico
dell’area forense (probabilmente la basilica civile)
(fig. 1, n. 3), una circostanza che difficilmente si riscontra nelle città tardo-antiche prima del V secolo71.
S. Lorenzo è probabile pertanto sia divenuta chiesa
vescovile, come accade di sovente, solo in un secondo momento72. La chiesa ritrovata sotto S. Pietro
(anch’essa candidata dalla storiografia ad aver rivestito il ruolo di antica cattedrale, secondo quanto ipotizzava, per esempio, la stessa Belli Barsali)73, situata
ai limiti dell’area urbana, a ridosso delle mura (cioè
in una zona, come si sa, non di rado occupata dalle antiche chiese vescovili) (fig. 1, n. 20)74, per le sue
modeste dimensioni parrebbe da considerarsi edificio di culto secondario, né la sua cronologia permette
di ipotizzarne un qualche legame con le più antiche
origini del cristianesimo tiburtino. Nessun contributo
il rinvenimento dell’edificio sembra pertanto fornire
alla dibattuta questione della ubicazione della antica
cattedrale di Tivoli75 (a meno che l’edificio non debba
considerarsi “satellite” di uno più grande ed importante situato sotto la restante parte della chiesa, ma
qui siamo nel campo delle pure congetture). L’ipotesi
più probabile, dunque, a proposito dell’ubicazione
della prima cattedrale di Tibur, resta, ancora oggi,
quella prospettata dal Silla Rosa-De Angelis e ripresa
anche dalla Belli Bersali: che cioè essa vada identificata con la antica basilica di S. Salvatore, situata in area
periferica (fig. 1, n. 34) e dall’intitolazione improntata
a quella della cattedrale di Roma76. Ma ciò solo eventuali future ricerche potranno verificarlo.
67
72
Vincenzo Fiocchi Nicolai
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
[email protected]
Alessandro Blanco
Università di Roma “Sapienza”
[email protected]
Enrica Davì
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
[email protected]
Alessandro Vella
Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana
[email protected]
Garrucci 1879, 153, tav. 402, 5; Wilpert 1929-1932, I, tav. 63,
2; II, 336, fig. 213; Deichmann – Bovini – Brandenburg 1967, 63,
n. 67; Pacifici 1925-1926, 114-115; InscrIt, IV, 543-549; l’iscrizione CIL VI, 36294 è forse di provenienza romana.
68
Duchesne 1886-1892, I, 255; cfr. Belli Barsali 1979, 128, 137-138.
69
CIL XIV, 3898; InscrIt, IV, 545; sull’edificio si veda Belli Barsali 1979, 138; Vendittelli 1982, 62, n. 7; Vendittelli 1984, 107108; Cicogna 2010, 158-160.
70
Sulla chiesa vedi Belli Barsali 1979, 137-141; Vendittelli 1984;
Ferruti 2008; Cicogna 2010.
71
Caillet 1996, 191-202; Cantino Wataghin 1999, 691-697;
Chavarría Arnau 2009, 129; vedi pure Cicogna 2010, 205-206.
Sull’edificio romano: Cioffi 2008; Cicogna 2010, 174-179.
Ferruti 2008, 136-138; Cicogna 2010, 205-206. Esempi di
spostamento di chiese episcopali, già nella tarda antichità, in
Cantino Wataghin – Guyon 2007, 301-305; Chavarría Arnau
2009, 132-133.
73
Belli Barsali 1979, 138. La dedica a S. Pietro è in effetti ben
attestata per le cattedrali di origine paleocristiana: Testini – Cantino Wataghin – Pani Ermini 1989, passim.
74
Testini – Cantino Wataghin – Pani Ermini 1989; Cantino Wataghin – Gurt Esparraguera – Guyon 1996, 31; Cantino Wataghin – Guyon 2007, 296-300; Chavarría Arnau 2009, 129.
75
Belli Barsali 1979, 137-141; Ferruti 2008, 136-140; Cicogna
2010, 157, nota 21; 205-207.
76
Belli Barsali 1979, 137-139; Ferruti 2008, 137.
43
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Abstract
Recent inspections of the archaeological structures underneath
the romanesque church of S. Pietro alla Carità in Tivoli lead to
the discovery of a previously unknown early Christian religious
structure, just beside the ancient city walls. Archaeological surveys
of these structures within their topographical context along with
analyses of ancient texts have helped clarify certain aspects of the
architectural history of ancient buildings that preceded the existing
basilica. Many evidences have been considered, from the moment
that the city walls were established, through their reconstruction
during the late republican period, until the rising of the countryside level. Upon this higher ground the early Christians built the
first church, which they used and restructured for many centuries
before ultimately demolishing it in order to build a new church at
the beginning of the 12th century.
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45
Tivoli, acquedotto Anio Novus.
Conservazione del bene e garanzia della pubblica incolumità
Rosa Mezzina
Le complesse vicende che hanno interessato l’acquedotto romano Anio Novus, nel tratto che corre lungo
Strada dei Ruderi Romani agli Arci di Tivoli (fig. 1),
dal primo crollo del 2008 (fig. 2) al 2012, sono già
state narrate in conferenza in occasione del Salone
del Restauro di Ferrara nel marzo 2012 e pubblicate da chi scrive nel contributo “Tivoli, Acquedotto
“Anio Novus”, consolidamento e messa in sicurezza
delle strutture murarie”1, che si riporta integralmente
in nota, anche messo in rete in formato PDF dalla
Direzione Generale per la Valorizzazione del patrimonio culturale nell’Opuscolo del Ministero dei
beni e delle attività culturali e del turismo.
Fig. 1. Anio Novus, Valle degli Arci (neg. XXVI, 6, ICCD, serie
H, n. 2040, ante 1935).
1
Testo integrale del contributo citato: “Il tratto di acquedotto,
oggetto degli interventi di messa in sicurezza e consolidamento,
realizzati dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio, è quello individuato al catasto al Fg.77 part. 47 di proprietà del Demanio dello Stato. Per circa 200 m l’acquedotto corre
lungo la Strada dei Ruderi Romani agli Arci, con una sequenza
di 9 archi a un solo ordine. Originariamente lo speco scavalcava la valle – con un tratto in elevato di circa 100 m di cui oggi
rinveniamo solo sparsi resti – e si dirigeva verso il ponte degli
Arci su via Empolitana, sovrastato ancor oggi da una torretta
medioevale.
L’interruzione della teoria degli archi documentata fotograficamente da Th. Ashby nel suo The Aqueducts of ancient Rome, era
già esistente nel 1935. Così, nelle stesse inquadrature, apparivano già i tamponamenti degli archi 3° e 7° (convenzionalmente
numerati, durante i lavori, provenendo da Via Empolitana lungo
Strada dei Ruderi Romani). Tali chiusure trasformavano le aree
sottostanti gli archi in ricoveri e magazzini connessi con le attività agricole e pastorali.
Il Comando dei Vigili del Fuoco di Roma il 25.06.2008 comunicò alla Soprintendenza l’avvenuto crollo di una porzione di
muratura sul fronte nord dell’Acquedotto Romano in località
Arci a Tivoli e, segnalando il pericolo di eventuali ulteriori crolli,
resi imprevedibili dalla fitta vegetazione infestante, sollecitò una
verifica delle condizioni delle strutture dell’acquedotto e l’attivazione con somma urgenza di opere di diserbo e consolidamento
al fine della salvaguardia della pubblica incolumità e della conservazione del bene.
Si trattava del 7° arco su Strada dei Ruderi Romani (provenendo
da via Empolitana). Il cedimento di un muro di tamponamento
ad esso sottostante aveva determinato il venir meno di un appoggio per la ghiera dell’arco e della superiore parete dello speco. E
in più, gli apparati radicali di piante infestanti attecchite nel deposito terroso della condotta, ormai priva di copertura, si erano
incuneati profondamente tra la muratura perimetrale e lo spesso
sedimento calcareo formatosi nei secoli di attività dell’acquedotto. Grosse e capillari infiltrazioni hanno determinato il distacco
e il conseguente crollo di muratura che aveva lasciato a vista,
in sito, una snella parete calcarea, foderata all’esterno di quel
sottile strato impermeabilizzante di cocciopesto strappato, per
effetto di inglobamento, alla muratura verticale della condotta.
Tale lastra calcarea, di circa 16 x 1,50 metri di estensione, ha
costituito per un breve periodo l’unico precario contenimento
del deposito terroso che imbibito dalle ingenti acque piovane
continuava a generare pericolose pressioni laterali. Tant’è che,
in seguito, al fine di ridurre i rischi di un cedimento improvviso,
che avrebbe potuto mettere a repentaglio la sicurezza degli operai impegnati nelle operazioni di messa in sicurezza, si addivenne
alla decisione di provocare un crollo pilotato delle lastre calcaree
e del terreno da queste trattenuto.
Per la crescente pericolosità della situazione e per il sovrapporsi
di problematiche di diversa natura si andava, di fatto, gradualmente configurando una situazione che avrebbe potuto definirsi
uno “stato di eccezionale emergenza” tanto che fu anche valutata
l’ipotesi, poi esclusa, di interessare al caso la Protezione Civile.
Il consistente crollo era, infatti, avvenuto sulla carreggiata di
Strada dei Ruderi Romani impedendo così l’accesso ad un’area
abitata retrostante l’acquedotto.
Le macerie furono tempestivamente rimosse ad opera dell’Amministrazione Comunale, e i blocchi più consistenti di muratura
non disgregata, su indicazione della Soprintendenza, furono accantonati nei pressi per un eventuale futuro intervento di anastilosi e per motivi scientifici. Data la situazione di grave pericolo
di ulteriori crolli su strada, nonché l’impossibilità, a causa della
vegetazione infestante, di effettuare un’attendibile valutazione dell’entità del rischio, si ritenne necessario congiuntamente
all’Amministrazione Comunale, ai VV.FF. e alla Polizia Municipale, individuare, attraverso aree di proprietà privata, una
viabilità alternativa d’emergenza, al fine di garantire la pubblica
incolumità e scongiurare così l’ipotesi di una evacuazione degli
abitanti della zona.
Tale soluzione innescò sin dall’inizio pretestuosi contenziosi da
parte di alcuni abitanti della zona contro le Amministrazioni
Pubbliche e una serie di contrasti tra i singoli proprietari confinanti, volti prevalentemente all’obiettivo, non dichiarato, di un
ritorno di tipo pecuniario, cosa questa, che ebbe il sicuro effetto
di ostacolare le prioritarie attività volte alla messa in sicurezza
dell’immobile e della viabilità di zona.
Allertati gli abitanti della zona, ai fini della pubblica incolumità
e per l’approntamento del cantiere di pronto intervento furono
transennati l’area interessata dal crollo e gli archi lungo la strada
con l’apposizione di cartelli di pericolo di crolli, e immediata-
47
Rosa Mezzina
Così l’ingegnere strutturista rilevò l’indifferibilità di consistenti
opere di consolidamento e restauro delle murature dell’acquedotto.
La Soprintendenza progettò un intervento di puntellamento per
la messa in sicurezza del tratto di acquedotto che aveva subito il
crollo e per quei primi due archi a rischio di crollo, proponendo l’inserimento degli importi necessari alla realizzazione nella
programmazione ordinaria del MiBAC. L’esiguità degli importi
concessi e la tempistica delle procedure di affidamento resero
più complessa la situazione, tant’è che, al momento della consegna dei lavori la consistenza stessa dell’immobile risultò gravemente modificata a causa di un ulteriore imprevisto crollo che in
sostanza vanificò la progettazione dell’intervento che si andava
ad avviare e rendeva, inoltre, impossibile agli operai avvicinarsi
alle strutture pericolanti senza un grave rischio per la propria
incolumità.
A fronte di una situazione di pericolo in continua e rapida evoluzione, che avrebbe potuto a breve interessare anche il tratto
dell’acquedotto incombente sull’unico collegamento viario ancora aperto al transito di veicoli e pedoni, si ritenne opportuno
sospendere le attività relative al tratto già transennato, in quanto
reso inaccessibile ai non addetti ai lavori, per dare priorità alla
prevenzione di un’eventuale evoluzione sfavorevole dei dissesti
che avrebbe interdetto la viabilità minima necessaria agli abitanti della zona. Considerate le circostanze di somma urgenza che
non consentivano più “alcun indugio”, e constatata, congiuntamente al Settore LL.PP. del Comune di Tivoli, l’impossibilità di
attivare in tempi brevi una viabilità alternativa che consentisse
l’occupazione della carreggiata con mezzi d’opera o ponteggi
per le lavorazioni necessarie, si programmò un’organizzazione
e una tempistica delle lavorazioni tali da essere effettuate prevalentemente sul fronte sud, con l’ausilio di un Pantografo elevatore; prevedendo una consequenzialità delle lavorazioni appositamente studiata per assicurare la maggior celerità d’esecuzione
possibile, sempre nel rispetto della regola d’arte, e della normativa in materia di sicurezza.
Attivata la procedura di occupazione temporanea di ulteriori
11 particelle di proprietà privata ricadenti nella perimetrazione
dell’area di rispetto individuata dal DM 18.11.1958, lungo una
fascia di m 6 ai piedi del fronte sud dell’acquedotto e una servitù
di passo per accedere al cantiere da Via Empolitana, fu possibile limitare l’occupazione della carreggiata di Strada dei Ruderi
Romani alle prime ore del giorno anticipando così l’apertura del
cantiere e solo per le poche ore necessarie a lavorazioni effettuabili mediante un cestello elevatore. In questa fase la Polizia
Municipale, con encomiabile spirito di collaborazione, ha emanato volta per volta, su nostra richiesta, ordinanze di occupazione temporanea a cadenza quasi giornaliera adeguandosi alle
necessità della tempistica di cantiere che, per quanto possibile,
ha rispettato le esigenze di passaggio degli abitanti della zona.
In estrema sintesi le opere di messa in sicurezza che è stato possibile realizzare in somma urgenza con i fondi ordinari del MiBAC
degli A.F. 2009 e 2010 sono:
- opere preliminari di approntamento delle aree occupate per
motivi di sicurezza pubblica e ai fini delle attività di cantiere con
liberazione da vegetazione infestate, arbustiva e d’alto fusto, che
rendeva impossibile il passaggio dei mezzi d’opera;
- imbracatura con cinghie e reti metalliche del 1° e il 2° arco per
il contenimento della caduta di piccole porzioni di muratura e
per la sicurezza degli operai durante le operazioni in quota;
- imbracatura con cinghie del 6° arco per rendere sicuro il passaggio tra l’area di cantiere sul fronte nord e quella sul fronte sud;
- puntellamento a pali e giunti con sottofondazione del 1° e il
2° arco;
- incatenamento con barre e capichiave d’acciaio inox della
muratura dello speco sovrastante gli archi del tratto a rischio di
crolli su Strada dei Ruderi Romani;
- crollo pilotato dei detriti terrosi e concrezioni calcaree dello
speco in corrispondenza del crollo del 2008.
Con il finanziamento dell’A.F. 2011 è stato avviato un intervento
di messa in sicurezza, attualmente in corso d’opera, che prevede:
- il completamento dell’incatenamento con barre e capichiave
d’acciaio inox della muratura dello speco sovrastante gli archi
del tratto a rischio di crolli su Strada dei Ruderi Romani;
- la verifica e la manutenzione dei puntelli e delle reti metalliche
già in opera;
Fig. 2. Il crollo del 2008, in vista gli apparati
radicali che hanno determinato il distacco della
muratura.
mente avviate le procedure per l’occupazione temporanea sia del
tratto di strada comunale che dell’area privata limitrofa.
Al fine di consentire l’ispezione delle murature e dei suoi dissesti
statici, per poter stabilire quali fossero le opere provvisionali da
realizzare per la messa in sicurezza delle strutture si diede avvio
al decespugliamento meccanico e diserbo chimico. Per questi –
effettuati in sommità e su entrambi i fronti dell’acquedotto, dal
1° al 9° arco (provenendo da Via Empolitana), per circa 100 m
– fu necessario l’ausilio di cestello elevatore a braccio lungo che
permettesse di mantenere a distanza di sicurezza il manovratore
e gli operai. Per gli stessi motivi furono anche impiegati operai
con brevetto per lavori in quota, in quanto le condizioni logistiche su strada e i rischi connessi alla possibilità di imprevedibili
cedimenti della struttura rendevano improponibile l’allestimento di ponteggi in aderenza alle murature dell’acquedotto. Nel
contempo, a tutela si affidarono gli incarichi per la progettazione strutturale e per il coordinamento per la sicurezza. Il pronto
intervento si concluse con la posa in opera di reti a maglie di
diversa grandezza stese sulla sommità dell’acquedotto per scongiurare la caduta di piccole porzioni di materiale su quel tratto di
strada, esterno all’area di cantiere, accessibile al traffico locale.
Durante tali operazioni furono inaspettatamente rinvenuti resti
di amianto accatastati e occultati sotto un’arcata; si rese così necessario un ulteriore pronto intervento per la bonifica resasi indifferibile per garantire sia la salute degli operai che l’incolumità
degli abitanti della zona.
La liberazione dal manto vegetale ha permesso un’accurata ispezione delle strutture murarie, evidenziando uno stato di erosione
superficiale estremamente diversificato su i due fronti a causa
della diversa esposizione all’insolazione e ai venti.
I fenomeni di erosione del prospetto nord apparvero in uno stato di avanzamento tale da rendere difficoltosa l’individuazione
delle sue linee architettoniche e da aver cancellato quasi integralmente il paramento laterizio ancora presente sul fronte sud,
sebbene non integro.
È stato inoltre rilevato un diffuso quadro fessurativo con lesioni
passanti in chiave di volta di alcuni archi. In particolare:
- il 1° e il 2° arco a valle presentavano nell’intradosso importanti porzioni di muratura allentate e lo stato e la distribuzione
delle lesioni denunciavano, di fatto, il rischio di un improvviso
distacco con rischio di crollo nell’area sottostante utilizzata a
parcheggio;
- il 3° arco presentava una parete di tamponatura con porta e finestra su strada dei Ruderi Romani che, nella porzione di sommità
risultava scarsamente collegata a causa del degrado, dello spessore
limitato, e della scarsa ammorsata nella muratura dell’arco.
48
Tivoli, Acquedotto Anio Novus. Conservazione del bene e garanzia della pubblica incolumità
Fig. 3. Imbracature, puntellamenti e incatenamento dello speco del 1° arco.
Fig. 4. Strada dei Ruderi Romani, interventi
di messa in sicurezza.
Fig. 5. Lavorazioni in quota.
esecutiva di consolidamento e restauro definitivo del
tratto di acquedotto lungo Strada dei Ruderi Romani. Unica condizione, questa, che garantisca la pubblica incolumità e l’effettiva conservazione del bene
con il conseguente ripristino dell’originaria viabilità,
interrotta dai crolli sin dal 2008.
È stato così realizzato il rilevamento metrico del
manufatto architettonico per il tratto delle 9 arcate
in elevato; posto in opera ed attivato un sistema di
monitoraggio strumentale delle strutture murarie;
effettuata la campagna geognostica per lo studio
dell’apparato fondale e la redazione della relazione
geologica.
Fig. 6. Il cantiere - Aspetti tecnico-organizzativi.
1. Il rilievo metrico digitalizzato
Furono raccolti solo successivamente a quella
pubblicazione gli esiti degli approfondimenti diagnostici attivati con l’ultimo finanziamento.
Man mano che gli interventi provvisionali2 e di
messa in sicurezza3 delle porzioni di muratura a
maggior rischio di crollo si andavano realizzando
con Somma Urgenza (figg. 3-6), si è dato avvio alla
fase diagnostica propedeutica ad una progettazione
Il rilievo4 del manufatto architettonico (fig. 7), in
assenza di ponteggi e con l’ausilio sporadico di un
cestello elevatore, è stato necessariamente effettuato con metodo integrato con ripresa diretta dei dati
sul manufatto, ove le misure di sicurezza lo hanno
consentito, e, a distanza, con strumentazione fotogrammetrica.
L’irregolarità del piano di campagna, in declivio,
la presenza di vegetazione ad alto fusto, l’elevato
- il puntellamento interno con ancoraggio delle pareti di tamponamento del 3° arco.
Comprende inoltre l’affidamento di incarichi per:
- l’attivazione di un monitoraggio strutturale delle murature;
- le indagini geognostiche;
- la redazione di rilievi grafici e fotografici con strumentazione
digitale.
Finalizzati alla possibilità di previsione di ulteriori rischi, permettono l’effettuazione delle indagini preliminari necessarie alla
progettazione di un intervento di consolidamento e restauro che
affronti e risolva definitivamente le complesse problematiche
della sicurezza e della conservazione del bene. Unica condizione
questa che permetterebbe la riapertura completa di Strada di
Ruderi Romani e la restituzione ai legittimi proprietari di quelle
aree temporaneamente occupate a garanzia della pubblica incolumità.
Sino a quel momento graverà sull’Amministrazione la spesa relativa
all’indennità dovuta ai proprietari così come prevede la norma”.
2
Impresa esecutrice lavori: LANDE S.r.l. Ingegneria Ambientale, Archeologica, Restauro.
3
Progettazione strutturale: Ing. Giuseppe Carluccio.
4
Rilievi grafici e fotografici: Arch. Francesco Jacques Dias.
49
Rosa Mezzina
2. Il montaggio strumentale
L’esame autoptico del quadro fessurativo presente su
entrambi i prospetti dell’acquedotto, con presenza di
lesioni passanti e distacchi diffusi di porzioni di muratura di diversa consistenza, compresi i significativi
crolli del 2008 dal fronte nord e del 2010 dal fronte
sud, aveva sin dall’inizio fatto temere un andamento evolutivo piuttosto rapido dei dissesti statici in
atto con rischio di perdita del bene e, considerata la
prossimità di abitazioni e di una strada carrabile, con
gravi rischi per la pubblica incolumità. Il “rudere”,
ubicato per altro in zona a rischio sismico, ha perso
la continuità strutturale della teoria di archi a valle e
con essa il contenimento delle spinte orizzontali. Al
fine di scongiurare incidenti si è ritenuto necessario
attivare un sistema di monitoraggio dinamico sull’intero tratto di acquedotto che, mediante fessurimetri,
inclinometri e termometri, permetta di sorvegliare
con continuità, a cadenze regolari di 4 ore, i movimenti relativi delle strutture murarie, con sistemi di
allerta in caso di superamento della soglia di tolleranza stabilita, fornendo dati sull’eventuale evoluzione dei quadri fessurativi, dando così il necessario
supporto diagnostico alla progettazione strutturale
mirata a garantire gli interventi più appropriati per
la soluzione delle problematiche in essere.
Il sistema prevede la possibilità di accesso remoto
ai dati su piattaforma internet con la visualizzazione
dei grafici connessi ai singoli strumenti e con la segnalazione delle condizioni di allarme.
La continuità dell’assistenza fornita dalla società6
curatrice del progetto e dell’istallazione del sistema
di monitoraggio garantisce, tramite il Servizio integrato di gestione dati OLINDA (fig. 9) su internet
un sistema di allerta con invio di SMS ed E-mail di
allarme qualora vengano superate le soglie impostate
in fase di taratura. Tanto ci ha consentito di seguire
almeno due eventi critici registrati in questo primo
anno di adozione e taratura del sistema:
- in data 16 aprile 2012, dalle ore 16 alle ore 20
circa, in concomitanza con un evento sismico si sono
Fig. 7. Rilievo metrico dell’Anio Novus, testata est.
stato di erosione delle superfici murarie e i successivi crolli – che ne hanno modificato sostanzialmente
la geometria – i segni di interventi umani e di un
uso improprio della struttura hanno reso particolarmente complesse le operazioni di rilievo grafico e
fotografico. In effetti, la volumetria del manufatto,
che in questo tratto consisterebbe in una semplice
e regolare teoria di 9 archi, di cui due tamponati e
utilizzati per le attività agricole e pastorizie, si presenta, in realtà, densa di anomalie che non hanno
permesso di estrapolarne con immediatezza la consistenza.
Rilevati il fronte nord e quello sud, la c.d. testata
ovest, resta sospesa la rappresentazione grafica della
sommità dello speco e della sua sezione interna irraggiungibile per i rilevatori.
La rappresentazione grafica riporta inoltre la caratterizzazione materica delle superfici murarie sui
tre fronti per un’estensione totale di mq 2000 ca.
Il rilievo dell’acquedotto ha permesso di rappresentare l’inserimento degli interventi di messa in sicurezza effettivamente realizzati dalla Soprintendenza
per i Beni Archeologici del Lazio5, dal primo crollo
del 2008 al 2012, e il posizionamento degli strumenti
di monitoraggio applicati alle murature, costituendo
così un’esatta documentazione dell’operato e una
base certa per il prosieguo del monitoraggio strutturale e della progettazione esecutiva (fig. 8).
Fig. 8. Rilievo metrico dell’Anio Novus, fronte nord su strada dei
Ruderi Romani - 1° e 2° arco, inserimento degli interventi realizzati negli anni 2009-2012 dalla Soprintendenza.
5
Responsabili del procedimento per i singoli finanziamenti:
2009-Benedetta Adembri; 2010-Rosa Mezzina; 2011-12-Marina Sapelli Ragni. Responsabile scientifico: Dott.ssa Benedetta
Adembri; Progetto e Direzione Lavori: Arch. Rosa Mezzina;
Progettista esecutivo strutturale: Ing. Giuseppe Carluccio; Coordinatore per la sicurezza: Arch. Elsa Rizzi
6
Monitoraggio statico strutturale: TECNO. EL S.r.L. e Servizio
integrato gestione dati - internet - OLINDA
50
Tivoli, Acquedotto Anio Novus. Conservazione del bene e garanzia della pubblica incolumità
Fig. 9. Monitoraggio statico strumentale – comparazione delle letture del fessurimetro n. 8 – in testata con le variazioni termiche del
termometro n. T2 sul fronte nord.
di profondità in prossimità del primo e del secondo pilone hanno permesso di determinare
la successione stratigrafica del sottosuolo e la
caratterizzazione geomeccanica degli orizzonti litologici, nonché la profondità del piano di
posa delle fondazioni dell’acquedotto e la loro
consistenza.
La fondazione, che raggiunge i 9,10 metri di
profondità, è costituita inizialmente da blocchi
di tufo legati da malta cementizia, seguiti da
muratura a sacco, formata da clasti eterometrici
poligenici, prevalentemente di origine carbonatica, inclusi o frammisti a tratti di abbondante
matrice sabbiosa marrone medio grossolana. Il
sottosuolo invece è costituito da strati sabbiosi
sovrapposti a limo.
Alla luce di quanto esposto sembrerebbe,
salvo ulteriori necessarie verifiche e approfondimenti, potersi escludere che la causa dei dissesti
del manufatto architettonico possa ascriversi a
cedimenti fondali.
Il degrado superficiale e i distacchi di muratura sono prevalentemente generati dall’aggressione degli agenti atmosferici e della vegetazione
che da lungo tempo ha insediato le sue radici negli interstizi e nelle microfratture dei paramenti
verificati degli spostamenti apprezzabili delle lesioni
monitorate dai fessurimetri 5, 6, 8 – come apprezzabile sui grafici di quel periodo;
- dal 14 al 17 maggio 2012 in relazione alle operazioni di carotaggio effettuate dalla Soprintendenza
nei pressi del piede e in fondazione dell’arco 1 e arco
2 non si sono rilevati spostamenti del quadro fessurativo ascrivibili ai carotaggi effettuati.
A più di un anno dall’attivazione del monitoraggio
possiamo constatare che gli spostamenti dei fessurimetri prossimi alla c.d. testata dell’acquedotto sono
rientrati con l’avanzare della stagione più asciutta.
Tutto ciò avvalorerebbe l’ipotesi che la principale
causa di deperimento delle murature sia ascrivibile
alla presenza di umidità e al dilavamento di acqua
piovana che, infiltrandosi attraverso le lesioni, imbibisce le malte e i depositi terrosi, generando così
pressioni interne alla muratura e alimentando gli apparati radicali della vegetazione infestante.
3. Indagini diagnostiche
La campagna di indagini geognostiche7 e di laboratorio su campioni indisturbati effettuate
mediante 2 carotaggi continui sino a 10 metri
7
Indagini geognostiche: TECNO. IN S.p.A. Servizi di ingegneria
51
Rosa Mezzina
murari. Gravemente compromesso è il livello
dello speco, ormai quasi integralmente scoperto
e ricolmo di depositi terrosi imbibiti di acqua
piovana, habitat favorevole alle piante infestanti i cui apparati radicali spingono gradualmente
verso l’esterno le possenti murature sommitali.
Le accentuate escursioni termiche sul fronte
nord hanno favorito l’erosione superficiale che
ha completamente asportato il paramento in
cotto. L’erosione eolica, combinata agli effetti
delle gelate notturne, ha determinato profondi
distacchi anche sul fronte sud e al piede dei piloni (fig. 10).
Così, anche se attualmente gli interventi di
messa in sicurezza hanno temporaneamente
sventato ogni rischio imminente per la pubblica
incolumità, restano il rischio di perdita progressiva del bene e l’urgenza di interventi di consolidamento e restauro per l’intera tratta su Strada
dei Ruderi Romani.
Rosa Mezzina
Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio
[email protected]
Fig. 10. Erosione delle murature al piede dei piloni.
Abstract
ity: interdisciplinary problems, procedures for contracting work,
temporary occuping procedures of public or private property areas, unusual technical and organizational aspects, interactions
with the work activities and the daily needs of local residents.
The diagnostic: metric survey, static instrumental monitoring
with access data online and an early warning system, the geological surveys in the foundation. The interventions for the security:
fences of public and private property below the aqueduct, removal
of weeds, harness belts and bows with wire mesh, shoring, installation of steel rods.
The Roman Aqueduct Anio Novus near Tivoli has been affected by a series of collapses in the years 2008-2012. The stretch of
aqueduct, owned by the state, runs for 200 mt along a driveway
in an urbanized area. This situation and the evolution of static
instability, with the danger of collapse, led to the partial closure of the road, serious risks to public safety and the need for
interventions to “somma urgenza” for the safety and the consolidation of architectural work in conditions of high complex-
52
Rinvenimenti lungo la Via Tiburtina nel territorio di Tivoli
Benedetta Adembri – Carlotta Bassoli
(fig. 1)2. Si tratta di una massiccia struttura, in
gran parte interrata, di opus caementicium con
scaglioni di travertino, orientata in senso nordovest/sud-est, che si sviluppa per oltre 20 metri
di lunghezza3. Decisivo per richiedere l’ampliamento delle originarie trincee di verifica, previste nell’ambito dell’attività di tutela preventiva,
è stato il ritrovamento di alcune strutture murarie con orientamento analogo a quello della
‘cisterna’. La destinazione prevalentemente funzionale della porzione di insediamento messa
in luce è apparsa evidente per la presenza di alcune vasche a carattere produttivo, scavate nel
banco di testina e rivestite di uno spesso strato
di malta idraulica.
1. Premessa
Nel corso delle indagini propedeutiche ai lavori
di raddoppio della tratta Lunghezza-Guidonia,
sulla linea ferroviaria Roma-Pescara, è venuto in luce un articolato contesto archeologico
in corrispondenza della località Albuccione,
dove è prevista la realizzazione di un sottopasso per l’attraversamento della ferrovia1. Ubicata all’estremo limite del territorio comunale
di Tivoli, al confine con Guidonia-Montecelio,
la zona era da tempo indiziata da presenze archeologiche, in particolare per i resti di una
probabile cisterna, già individuata nella “Forma Italiae” Tibur, pars tertia, con il sito n. 311
Fig. 1. Tivoli, loc. Albuccione: posizionamento su foto aerea dell’area
di indagine.
1
Le indagini di scavo, iniziate nel 2011, non sono state ancora ultimate: la prosecuzione potrà avvenire, per motivi logistici,
solo in realizzazione del sottopasso. A seguito dei risultati emersi
nell’intervento di scavo, l’iter procedurale ha subito una battuta
d’arresto per la necessità di redigere una variante, al progetto di
ITALFERR, secondo le esigenze espresse dalla Soprintendenza
per i Beni Archeologici del Lazio. Si precisa che non è stato finora possibile prendere in esame, se non in maniera indicativa,
i materiali di scavo rinvenuti, che sono temporaneamente conservati in depositi non accessibili ai fini di uno studio analitico.
Il materiale ceramico è stato lavato e distinto sulla base dell’US
di provenienza; sono tuttora in corso una prima classificazione e
l’analisi quantitativa dei frammenti recuperati. In considerazione
di quanto sopra, ci si limita pertanto, in questa sede, a una presentazione preliminare dei risultati finora disponibili. L’area di scavo
ha interessato una superficie di mq 3500 ca.; i lavori sono stati eseguiti dalla ditta SAMOA S.r.l., di Pontecagnano, e coordinati da
chi scrive, rispettivamente da Carlotta Bassoli, come archeologa
sul campo, e Benedetta Adembri, in qualità di funzionario archeologo della Soprintendenza. Si ringraziano, in particolare, per lo
spirito di collaborazione dimostrato nel corso della lunga vicenda
che ha portato dai primi incontri alla realizzazione dell’intervento
di scavo, la Dott.ssa Francesca Frandi, il Dott. Angelo Amoroso e
l’Ing. Luisa Alfieri, di ITALFERR S.p.A.
2
Mari 1983, 230-231, n. 311.
3
Il fatto che i resti siano ubicati in proprietà privata, oltre la
53
Benedetta Adembri – Carlotta Bassoli
Fig. 2. Tivoli, loc. Albuccione: pianta generale dell’area di scavo con indicazione delle fasi individuate.
54
Rinvenimenti lungo la Via Tiburtina nel territorio di Tivoli
Complessivamente è stato possibile ricostruire una planimetria caratterizzata da una notevole
sequenza di fasi costruttive, relativa alla pars rustica di un edificio privato, di cui solo un estremo
lembo della parte residenziale è compreso nella
fascia oggetto di indagini; le strutture si sviluppano secondo una maglia ortogonale, che sembra perfettamente orientata con la pars urbana e
con la ‘cisterna’ già nota (fig. 2). L’analisi della
sequenza stratigrafica individuata ha permesso
di suddividere l’ampio arco temporale in cui si
articola la vita del sito in tre periodi (cfr. fig. 2): i
periodi I e II, relativi a un orizzonte cronologico
precedente alla costruzione della villa, si riferiscono rispettivamente alla necropoli ‘arcaica’ e
all’insediamento di epoca medio-repubblicana,
mentre il periodo III, articolato a sua volta in tre
fasi, corrisponde alla vita della villa di impianto
tardo-repubblicano.
La posizione strategica del sito, all’interno di
una zona pianeggiante gravitante sul fiume Aniene, che da sempre ha rappresentato un’importante direttrice viaria e commerciale, affiancata dalla
rotta terrestre costituita in epoca storica dalla via
Tiburtina, è del resto confermata dai materiali sporadici emersi durante le indagini. Alcuni frammenti di ceramica di impasto e una fuseruola, relativi
a un orizzonte cronologico che possiamo per ora
riferire genericamente alla tarda età del Bronzo,
testimonierebbero la presenza di un insediamento
nella zona già in epoca protostorica, ma il ritrovamento di strumenti di industria litica sembra indicare una frequentazione fin dalla preistoria4.
L’occupazione dell’area sembra registrare uno
sviluppo in età tardo-orientalizzante e arcaica,
come sembra potersi dedurre dal ritrovamento
di un consistente nucleo di materiali ceramici,
sia pure recuperati in giacitura secondaria, rife-
Fig. 3. Tivoli, loc. Albuccione: posizionamento delle sepolture nell’area occupata dalla villa.
fascia di esproprio per pubblica utilità relativa al sottopasso,
ha impedito, almeno in questa fase, di effettuare la pulizia della
‘cisterna’, che necessiterebbe di un approfondimento di indagini e di un rilievo accurato per comprenderne meglio la funzionalità in relazione alle strutture venute in luce recentemente.
In considerazione della posizione stessa della ‘cisterna’, di cui
sono visibili parzialmente solo due lati, e dell’allineamento con
le strutture murarie pertinenti a un insediamento residenziale
scoperto recentemente (cfr. infra), è anche possibile che si tratti
di una porzione della basis villae.
4
Non è stato ancora possibile, come già accennato (v. nota
1), catalogare ed esaminare il materiale finora rinvenuto. Comunque, tra i reperti di selce compare anche una punta di
freccia.
55
Benedetta Adembri – Carlotta Bassoli
ribili a forme tipiche del vasellame di impasto di
questo periodo5, e di un gruppo di 9 sepolture
scavate nel banco di travertino (fig. 3). Rinvenute nei livelli sottostanti della villa, le tombe sono
riferibili a una necropoli che in un periodo precedente occupava l’area e, come si può dedurre dalla localizzazione e dalla quota di imposta
delle fosse rispetto alle strutture murarie dell’insediamento residenziale, risultano intercettate
all’epoca della costruzione di quest’ultimo6; tuttavia, seppure in parte violate in antico, le sepolture furono semplicemente obliterate, lasciando
i resti dei defunti sul posto7, tranne in due casi,
in cui è oggi riconoscibile solo il taglio della fossa (cfr. fig. 3). La conferma che anche in questo
caso si tratti di tombe è offerta dai probabili resti del corredo funerario raccolti poco distante,
misti a numerosi frammenti di ossa umane: sono
stati identificati alcuni minutissimi elementi cilindrici in pasta vitrea di colore blu e un frammento relativo a un gancetto d’oro.
L’incinerazione caratterizza una sepoltura a
fossa di piccole dimensioni, denominata tomba
1, all’interno della quale è stato raccolto terreno
Fig. 5. Tivoli, loc. Albuccione: sepoltura a fossa (tomba 5) con inumato all’interno del loculo laterale.
limoso misto a cenere con alcuni frammenti di
ossa combuste; la deposizione è risultata priva di
corredo, ma è probabile che contenesse i resti di
un individuo di età adulta, come sembra da un
primo esame dei frammenti ossei.
Le sepolture ad inumazione sono orientate in
senso est-ovest, con il capo del defunto posizionato ad est8 e il corpo protetto da scaglie di calcare.
Si tratta per lo più di sepolture a fossa9 con loculo
laterale per la deposizione dell’inumato posizionato lungo il lato nord (tombe 3 e 5: figg. 4-5) o sud
(tomba 4); la chiusura del loculo è costituita da due
lastre di travertino affiancate, di forma rettangolare, disposte di taglio10. Si distingue per tipologia la
tomba 2, che presenta una fossa semplice: l’inumato è probabilmente un bambino in età preadolescenziale, deposto in posizione supina con il capo
verso est e alloggiato su un ‘giaciglio’ di terreno argilloso misto a scaglie di travertino; unico elemento
di corredo recuperato è un frammento di impasto
non classificabile, rinvenuto sotto il cranio.
Tombe con loculo laterale, di una tipologia
ben nota a partire dall’VIII sec. a.C. in ambito
sia latino che falisco11, sono state scoperte recentemente anche nel territorio di Colonna: si tratta
di sepolture forse da ascrivere al tardo VII-inizi
Fig. 4. Tivoli, loc. Albuccione: sepoltura a fossa con loculo laterale
(tomba 3).
5
In particolare sono stati rinvenuti diversi frammenti di olle di
impasto rosso e di internal slip ware, oltre a frammenti di impasto buccheroide.
6
È anche possibile che l’interferenza sia avvenuta già in occasione della costruzione dell’insediamento medio-repubblicano, come
potrebbe indicare l’andamento delle murature rasate riferibili a
questa fase, che sembra ripetuto nella villa tardo-repubblicana.
7
Un caso di stratigrafia in qualche modo analogo si ritrova in
ambito abruzzese, nel comprensorio della val di Sangro: cfr. in
particolare i recenti ritrovamenti nel territorio di Opi (L’Aquila),
in val Fondillo, su cui Morelli – Faustoferri 2001, e la scheda a
cura di A. Faustoferri e P. Riccitelli relativa alla prosecuzione
delle indagini (2011) nella sezione “Scavi” del sito web della Direzione Generale Antichità del Ministero per i Beni e le Attività
Culturali. In questo caso la sequenza, ugualmente articolata e
caratterizzata da cambio di destinazione d’uso (da funerario a
residenziale), mostra l’impianto di una villa romana, sorta pro-
babilmente nel III-II sec. a.C., su resti di precedenti fasi di frequentazione del sito, in particolare una necropoli, inquadrabile
fra l’epoca arcaica e la media età repubblicana, e un insediamento protostorico, parzialmente intercettati dalle fondazioni.
8
Si differenzia l’inumato della tomba 4, con il capo posizionato
a ovest, che peraltro presentava gli arti in posizione sconnessa e
non allineati al corpo.
9
Le fosse hanno una profondità di cm 60 ca.
10
Da segnalare il rinvenimento di alcune lastre di travertino,
simili a quelle ritrovate in situ a chiusura dei loculi delle altre
tombe, ricollocate in alcune murature delle fasi I e II della villa.
11
Come ad esempio rispettivamente a Crustumerium e Fidenae, e
a Narce, caratterizzati da fosse rettangolari con loculo laterale chiuso da lastroni, destinato ad accogliere la deposizione e il corredo,
su cui recentemente Di Gennaro 2006a, 223 (Crustumerium) e Di
Gennaro 2006b, 231 (Fidenae); in particolare, sulle attestazioni di
Crustumerium, da ultimo Belelli Marchesini 2008.
56
Rinvenimenti lungo la Via Tiburtina nel territorio di Tivoli
VI sec. a.C.12, a cui sembra possibile assegnare anche le tombe dell’Albuccione, sulla base dei fram-
menti di impasto rosso e buccheroide rinvenuti
nell’area13.
Fig. 6. Tivoli, loc. Albuccione: insediamento medio-repubblicano, area centrale.
12
Ringrazio la collega Micaela Angle, che ha effettuato il ritrovamento e ne ha in corso la pubblicazione, per avermi anticipato la notizia: in questo caso l’orizzonte cronologico sembra da
ascrivere al tardo VII-inizi VI sec. a.C., a cui forse è possibile
assegnare anche le tombe dell’Albuccione, sulla base dei frammenti di impasto buccheroide e di argilla depurata rinvenuti
nell’area.
13
Cfr. supra, nota 5.
57
Benedetta Adembri – Carlotta Bassoli
A partire dalla media età repubblicana si
assiste a un’occupazione del sito riscontrabile
nelle tracce di strutture rasate, rinvenute in più
punti dell’area scavata, sotto uno strato di livellamento con tracce evidenti di combustione, che
conteneva una notevole quantità di laterizi e di
vasellame fittile databile tra il IV e gli inizi del
III sec. a.C. (fig. 6)14. Anche se le numerose trasformazioni subite nel tempo dalle strutture non
consentono di ricostruirne la pianta originaria,
la tipologia del materiale suggerisce che l’insediamento fosse di tipo residenziale e produttivo.
Sembra verosimile che si trattasse di una delle
numerose fattorie che popolavano il territorio
tiburtino15. Il fenomeno sembra del resto trovare riscontro anche in recenti ricerche nell’agro
Romano16, che testimoniano l’importanza della
piccola e media proprietà a conduzione familiare17 nello sviluppo del popolamento delle campagne in epoca medio-repubblicana.
Su tale impianto si attesta, a partire dal II sec.
a.C., un nuovo insediamento, la villa cui si riferiscono i resti maggiormente conservati, che conosce numerosi rifacimenti e ampliamenti e una
continuità di vita ininterrotta fino ad età tarda.
A una prima fase è possibile riferire i tre ambienti (nn. 9-11) al limite orientale dell’area indagata (cfr. fig. 2), che verosimilmente costituiscono l’estremo lembo della parte residenziale della
villa: l’assenza di pavimentazioni in fase preclude
la possibilità di precisarne meglio la funzione.
I vani, collegati tra loro da aperture successivamente obliterate, hanno murature con fondazione a cortina, con conci di travertino squadrati e
legati da malta, ad eccezione del muro sul lato
occidentale, che presenta una fondazione a sacco
in opera cementizia e alzato in opera quasi reticolata con cubilia in calcare locale. Un collettore
fognario di notevoli dimensioni, che doveva riversare all’esterno gli scarichi della villa in una fossa
di raccolta ormai non più visibile, passa sotto il
muro, correndo con pendenza est-ovest.
A questa fase è da riferire lo sfruttamento agricolo dell’area meridionale, rimasta sempre priva
di strutture murarie, e quindi esterna all’edificio,
nella quale si vedono tracce di canalizzazioni di
drenaggio e fosse ricollegabili molto probabil-
Fig. 7. Tivoli, loc. ALbuccione: villa, area destinata ad uso agricolo
(fase Ia-Ib).
mente all’impianto di vitigni e coltivazioni arboree (fig. 7)18.
È possibile intravvedere in questo uso del
suolo una delle peculiarità delle ville che popolavano il territorio in epoca tardo-repubblicana,
ritenute espressione di quel panorama agricolo
delineato da Catone nel De agri cultura19: ville a limitata manodopera schiavistica, basate
su colture specializzate e selezionate, destinate
alla vendita dei prodotti sul grande mercato di
Roma, oltre che nei centri minori.
A poca distanza di tempo, l’edificio subisce
alcuni ampliamenti: viene creato un cortile, nel
quale viene realizzata una vasca-impluvio foderata da grandi lastroni di tufo (fig. 8), che si imposta
in parte sulla canalizzazione per la raccolta delle
acque della fase precedente; la vasca è dotata di
una canaletta di scarico, con pendenza in direzione della villa e coperta da lastre di calcare dotate
di una serie di sfiatatoi. È possibile che il cortile
avesse le funzioni di un vero e proprio atrio, anche se la pessima conservazione della stratigrafia
rende difficile ricostruirne le dimensioni esatte e
stabilire il numero degli ambienti che lo circondavano; con ogni probabilità, è possibile collegare a
questa fase una sala rettangolare, che si affaccia
sul lato nord del cortile20, caratterizzata da strutture murarie in opera vittata di calcare e da una
pavimentazione a grandi tessere fittili21.
18
L’interpretazione, basata sul confronto con gli impianti agricoli di epoca moderna, in assenza di elementi specifici di contesto, è confortata dalla testimonianza delle fonti storiche.
19
Pasquinucci 1979, 96, nota 38.
20
Lungo questo lato è stata, in effetti, rinvenuta una soglia di
calcare.
21
Si tratta di tessere di forma cubica irregolare, chiaramente di
riutilizzo, ricavate da laterizi.
14
Tra cui alcuni esemplari a vernice nera suddipinta.
Mari 2004, 4-7. L’aumento delle unità produttive in questo periodo sembra da riconnettere a una maggiore richiesta di prodotti alimentari specialmente da parte di Roma e di altri importanti
centri latini, come Tibur e Praeneste: Virlouvet 1985, 11-12.
16
Si veda, a titolo esemplificativo, la distribuzione delle ville intorno al massiccio dei monti Lucretili (Mari 1995, 559, fig. 1) e
lungo la via Laurentina (Volpe 2004, 455).
17
Liv., II, 23, 3-7; II, 26, 1-2 (accenno alle villae in territorio
romano presso l’Aniene); II, 62, 4.
15
58
Rinvenimenti lungo la Via Tiburtina nel territorio di Tivoli
2. Periodo III. La villa e gli ambienti produttivi: fase 2
3. Periodo III. La villa: fase 3
Alla seconda fase della villa si riferisce una trasformazione dell’assetto della pars rustica, che
vede la ristrutturazione degli ambienti, delimitati da murature in opera cementizia e pavimentati in cocciopesto e/o malta, e l’impianto di una
serie di vasche di lavorazione (fig. 9). Realizzate
contro terra in calcestruzzo22 e rivestite da uno
strato impermeabilizzante di cocciopesto23, le
vasche sembrano differenziarsi per tipologia e
funzione. La vasca 1, con un bacino di decantazione sul fondo e scalino di servizio, corrisponde strutturalmente a quelle abitualmente
impiegate per la lavorazione di olio o vino. La
vasca 2, con fondo piano, su cui è visibile un
foro di scarico sulla parete orientale collegato
a una canalizzazione tuttora esistente24, può
essere interpretata con ogni probabilità come
cisterna, anche in considerazione delle numerose e spesse concrezioni calcaree sulle pareti.
La vasca 3, di maggiori dimensioni, è costruita
a ridosso dell’impluvio, a cui è collegata attraverso una canaletta di coppi legati da malta,
per convogliarvi l’acqua proveniente dal foro
di sopravanzo aperto sulla parete orientale; la
vasca era anche collegata al grande condotto
fognario della fase iniziale, in parte ripristinato,
ed è affiancata, immediatamente a ridosso del
lato meridionale, da una sorta di pozzo. Rimane purtroppo sconosciuta la natura della lavorazione prevista da questo articolato sistema di
vasche e canali.
La terza fase vede un ulteriore ampliamento
della planimetria verso sud, con la creazione di
possenti strutture murarie25, aventi probabile
funzione sostruttiva o di terrazzamento, costituite perlopiù da materiale edilizio di reimpiego
inglobato nell’opera cementizia, che potrebbero
essere connesse a una significativa ristrutturazione del complesso. Sono associate a pavimentazioni di malta e terra battuta oppure di frammenti ceramici e ciottoli26, che fanno pensare a
una sistemazione relativamente tarda (fig. 10).
L’ampliamento prevede anche la costruzione di un lungo ambiente rettangolare, che
costituisce il limite perimetrale dell’impianto
nella zona settentrionale; suddiviso in più vani
da tramezzi, era sicuramente legato all’attività
produttiva o di immagazzinamento, come suggerisce la fossa circolare che reimpiega nel bordo di caementicium un orlo di dolio rovesciato,
anche se è difficile determinarne la specifica
funzione (cfr. fig. 10).
La scarsa conservazione delle strutture di
questa fase, ridotte spesso a livello di fondazione, non permette di ricostruire le aperture dei
singoli vani. Il ritrovamento, nell’ambiente 3, di
uno stipite in prossimità di un pilastro consente,
forse, di ipotizzare l’esistenza di un possibile ingresso a questa ala della villa.
Le pesanti trasformazioni del suolo in epoca
moderna, dovute alle lavorazioni agricole, hanno compromesso le stratigrafie associate all’ultima fase di vita della villa. L’oggettiva difficoltà
di inquadrare cronologicamente il momento di
abbandono del sito e di comprenderne le cause
non consente di formulare ipotesi precise; sarebbe auspicabile la possibilità di integrare i dati
finora acquisiti con i risultati di una campagna
di scavo sulla pars urbana della villa, finora mai
indagata27, che potrebbero rivelarsi particolarmente utili per la conoscenza di un sito caratterizzato da una sequenza così articolata.
Benedetta Adembri
Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio
[email protected]
Carlotta Bassoli
Archeologo professionista
[email protected]
Fig. 8. Tivoli, loc. Albuccione: villa, cortile con impluvio (fase
Ib).
25
Conservate solo in fondazione, con spessore variabile da m
1,10 a 1,20.
26
Rispettivamente nella porzione meridionale e in quella settentrionale della pars rustica indagata.
27
Vedi quanto già specificato supra, a nota 3, riguardo alla ‘cisterna’.
22
Con probabile utilizzo di elementi verticali di contenimento
per impedire eventuali frane, come sembrano suggerire alcune
impronte sulle pareti.
23
Lo spessore del cocciopesto è di cm 4 ca. in tutte le vasche
rinvenute.
24
Un’altra canalizzazione sembra partire dalla vasca in direzione nord.
59
Benedetta Adembri – Carlotta Bassoli
Fig. 9. Tivoli, loc.
Al­buc­cione:
villa,
svi­luppo della pars
ru­stica (fase II).
60
Rinvenimenti lungo la Via Tiburtina nel territorio di Tivoli
Fig. 10. Tivoli, loc. Albuccione: la villa nell’ultima
fase di vita (fase III).
61
Benedetta Adembri – Carlotta Bassoli
Tomei M.A. (ed.), Roma. Memorie dal sottosuolo. Ritrovamenti
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Abstract
During preliminary investigations for doubling the railway Lunghezza-Guidonia, an archaeological context has been found at Albuccione. The analysis of the multi-stratigraphic sequence allowed
us to divide the life of the site into three periods: the first and the
second period refer respectively to an ‘archaic’ necropolis and a
settlement dating back to mid-Republican period; the third one
corresponds to a late-Republican villa and his life can be divided
into three phases. This one is a private building in which it was
possible to investigate only a portion of the pars rustica and the
western section of the pars urbana, which develops nearby but is
not included in the excavation area. The strategic location of the
site, in a flat area near the Aniene river and the via Tiburtina,
probably justifies the continuity of life for a long time dating between mid-Republican age and late antiquity. The site has been in
any case inhabited since the prehistoric age.
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62
Impianto produttivo e sepolcreto nell’Ager Tiburtinus (Castel Madama, Roma)
Zaccaria Mari – Fabiana Marino
Nel 2011, a seguito di indagini propedeutiche alla
realizzazione di un impianto fotovoltaico, è stata
scavata (Comune di Castel Madama) sul versante
sud-ovest di colle Monitola, in loc. Sedia di Varignano, un’interessante area archeologica, in precedenza non segnalata in letteratura1. Estesa su una
superficie di m 90 x 30 ca., occupa un piccolo pianoro tufaceo che si protende dal versante calcareo
del colle verso il fiume Aniene. Dal punto di vista
topografico l’area si trova subito ad ovest del percorso ipogeo di tre acquedotti pubblici provenienti
dalla valle dell’Aniene e di una via di probabile origine antica corrispondente all’attuale strada vicinale La Fornace2.
Nella pianta delle strutture portate in luce si riconoscono distintamente due nuclei separati, con
Fig. 1. Castel Madama: localizzazione (da Giuliani 1966, Carta archeologica) e pianta delle strutture scavate.
1
Lo scavo, finanziato dalla Ceab S.r.l. e localizzato nel Foglio
catastale 18, particelle 35-37, contrada S. Maria-La Fornace,
è stato effettuato sotto la direzione scientifica del Funzionario
della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio Dott.
Zaccaria Mari e con la conduzione diretta della Dott.ssa Fabiana
Marino. Il rilievo archeologico delle strutture e lo studio dei resti
ossei (che sarà pubblicato in altra sede) si devono ai tecnici della
Soprintendenza architetti Sergio Sgalambro, Giulio Carconi e
all’antropologo Dott. Mauro Rubini. Dopo lo scavo tutti i resti sono stati protetti con geo-tessuto e reinterrati. Si ringrazia
Bruno Sorrentino dell’impresa costruttrice per la cortese disponibilità.
2
La via si diparte dal ben più importante percorso che, staccatosi dalla via Empolitana (l’asse che univa Tibur al piccolo municipio di Trebula Suffenas, presso l’attuale Ciciliano, v. infra),
sale sul colle Monitola. Sulla viabilità e gli acquedotti (Anio vetus, aqua Marcia, aqua Claudia): Giuliani 1966, 84, n. 95 e Carta
archeologica; Coste 1989, 155, 180. Per un quadro d’insieme e
altri recenti rinvenimenti nella zona si rinvia a Mari – Marino
2012.
63
Zaccaria Mari – Fabiana Marino
uguale orientamento, riconducibili ad altrettanti settori di diversa destinazione d’uso: A con ambienti di
tipo produttivo e B occupato prevalentemente da un
sepolcreto (fig. 1).
Il settore A comprende una costruzione quasi interamente distrutta dalle arature (A1), di cui si conservano le fondazioni in grosso pietrame calcareo di
almeno due o tre ambienti paralleli, ma altri dovevano estendersi verso sud-est (fig. 2). In un angolo
dell’ambiente più integro (m 10 x 6,50) è ricavata
una piccola fornace per calce a canale centrale e unico accesso: la fossa, di forma ovale, è scavata nel terreno e foderata con tegole fratte, apparecchiate su
filari orizzontali3. La parte alta della camera risulta
asportata, mentre la parte bassa è completamente rivestita di incrostazioni di calce bianca, compatte e
annerite sul fondo; negli strati di obliterazione era
contenuta abbondante calce spenta, presente sia nello strato di crollo sia costipata sul fondo. Il condotto
di combustione, con marcata pendenza verso l’interno, si interrompe bruscamente a nord-est, dove,
su entrambi i lati, si trovano concentrati frammenti
laterizi e tegole da ricondurre a un piano di lavoro
oppure a una tettoia eretta a protezione dell’imboccatura che si apriva su questo lato.
A sud della costruzione descritta si conserva un
tratto di drenaggio dall’andamento sinuoso (A2;
v. fig. 2), con sponde in muratura a scapoli calcarei, coperto di scaglie messe in opera senza legante, a formare una piccola volta, mentre il canale di
scorrimento corrisponde alla superficie del banco
tufaceo4. Il drenaggio, sicuramente funzionale alle
fasi di lavorazione della calce che avvenivano negli
ambienti intorno alla fornace, convogliava l’acqua
residuale verso il piano inclinato dell’imponente
struttura A3.
Fig. 3. Castel Madama: struttura A3.
Fig. 2. Castel Madama: ambienti con la fornace e drenaggio.
È questa di forma rettangolare, incassata nel terreno, costituita da due muri paralleli in opera poligonale di calcare, assimilabile alla c.d. III maniera,
che delimitano uno ‘scivolo’ (largo m 8,50 e lungo m
6 ca.) e una vasca scavata solo per una lunghezza di
m 13 (fig. 3)5. Lo ‘scivolo’, rivestito di pietre calcaree
di varie dimensioni, che si fanno più grandi verso il
fondo, dove la tessitura diventa anche più regolare,
ha una lieve inclinazione verso la vasca e mostra evidenti segni di usura dovuta alla frequentazione: le
pietre appaiono consunte e levigate dal lungo uso.
La vasca riceveva acqua da un condotto ipogeo che
penetra nelle viscere della collina, ove doveva captare una sorgente6. Lo strato sabbioso, che sopra il
banco di tufo costituisce il fondo della vasca, conteneva copiosi frammenti ceramici, reperti in ferro e
in bronzo. Tra i primi si segnalano tre frammenti di
piccole olle di ceramica a pareti sottili decorati con
inserti in pasta vitrea colorata su una trama vegetale
a rilievo (fig. 4), riconducibili a una nota produzione
tiburtina di vasellame da mensa databile tra la fine
del II sec. a.C. e gli inizi del I d.C., i cui prodotti si
rinvengono, oltre che a Tivoli, nel suburbio di Roma
e fino a Ostia7. Tra gli elementi bronzei una chiave
con piano forato, un piccolo frammento di zampa di
animale e una statuina di Ercole (v. infra).
Il settore B è delimitato a nord-est da un muro a
grandi blocchi di calcare, parallelo alla vasca in opera
poligonale (fig. 5, 1); in esso si distinguono un’area
ad esclusivo uso funerario (B1) e due strutture di
incerta funzione (B2-3). Il nucleo principale del sepolcreto è rappresentato da un recinto rettangolare
(m 5,50 x 4) che racchiude numerose tombe; altre
si dispongono in modo ordinato anche all’esterno e
rasente il muro perimetrale (fig. 5, 1-2), al contrario
3
6
La fossa è lunga m 5,80, larga 2, profonda 0,80; il muro è spesso m 0,80-1. Le tegole sono diverse e sensibilmente annerite.
4
Lungh. m 12,30 ca., largh. 0,45 ca., alt. 0,25.
5
Il muro sud-ovest, conservato per un massimo di quattro filari
di blocchi, raggiunge l’altezza di m 2,10; il muro nord-est ha
subito un pesante slittamento nella parte inferiore e si conserva
per un’altezza media di m 1,50 (due filari).
Il condotto, osservato nel punto in cui fuoriesce alla base del
versante, non è stato scavato e non è riportato nella planimetria a
fig. 1, ma con molta probabilità prosegue in direzione della vasca
parallelamente al muro che delimita il settore B.
7
Dei tre frammenti uno è pertinente a una coppa, un altro forse
a un boccalino. Sulla classe ceramica: Mari 2002; Mari 2008.
64
Impianto produttivo e sepolcreto nell’ager Tiburtinus (Castel Madama, Roma)
ticale e disco decorato con figura di Cupido recante
attributi di Ercole (fig. 7, 1): cammina o su rocce o
sulla pelle del leone, sostiene la clava con il braccio
sinistro sollevato e con la mano destra regge la faretra o le frecce. Il bollo sul fondo è di L. Fabricius
Masculus, attivo nelle vicinanze di Roma alla fine del
I sec. d.C.12. Un secondo frammento, appartenente a
una lucerna dello stesso tipo, rinvenuto nello strato
di obliterazione, ritrae sul disco il busto di Luna, con
drappo raccolto sulla spalla e i capelli fluenti verso
l’alto, che cadono in riccioli paralleli sulle spalle13.
Le tegole utilizzate nelle sepolture sono spesso contraddistinte da signa anepigrafi tracciati con
le dita sull’argilla fresca e, in un caso, da impronte
di animali. Sono state inoltre rinvenute due tegole
frammentarie con il bollo bilineare in cartiglio rettangolare C. Caecili / Batylli seguito da una palma14,
riconducibile a una figlina locale, attiva verosimilmente nel I secolo, il cui ambito di diffusione coincide con la valle Empolitana e le aree vicine (fig. 6, 2).
Fig. 4. Castel Madama: frammenti ceramici decorati con paste vitree.
di quanto avviene nell’area a sud-ovest, dove sembrano distribuirsi in modo non organizzato. Delle 25
tombe individuate solo 9 sono state scavate, dando la
precedenza a quelle pertinenti al recinto8. Si tratta di
fosse, generalmente con copertura alla cappuccina;
in alcune di esse sopra le tegole sono state accumulate pietre calcaree (solo in qualche caso cementate
con malta) aventi funzione di signaculum. Sono presenti frammenti di anfore che potrebbero far pensare a sepolture in amphora. I corpi furono adagiati
in posizione supina, secondo le modalità tipiche del
periodo; solo nella tomba 25 l’inumato è girato sul
fianco. Nella tomba 13 si è riscontrata una sepoltura
multipla, in cui, sopra i piedi dell’adulto, con le ossa
ancora in connessione, è stato trovato un infante; il
corredo è costituito da una grossa ciotola in ceramica comune databile alla prima metà del I sec. d.C.
(fig. 6, 1)9. Il profilo genetico risultante dallo studio
antropologico è riconducibile a una struttura di tipo
parentale, indice del fatto che gli individui frequentavano il sito in maniera stabile. In due tombe sono
state recuperate due monete in bronzo, di cui una
illeggibile (dalla tomba 22) e l’altra (dalla tomba 15)
di Antonino Pio10 (fig. 7, 2). Quest’ultima tomba ha
restituito anche due semplici grappe con l’estremità
ripiegata e quattro chiodi in ferro11.
Esternamente alla tomba 25 si trovava una lucerna
a vernice rossa con spalla liscia, presa ad anello ver-
Fig. 5. Castel Madama: 1. settore B, 2. particolare con le
tombe 12-13 esterne al recinto funerario.
8
Tutte le altre sono state evidenziate solo in superficie, quindi
ricoperte in attesa di un auspicabile intervento futuro. La pianta
a fig. 1 riporta, nell’area del recinto, solo quelle scavate.
9
Bousquet – Rizzo – Zampini 1997, 258-260 (tipo Ostia V).
10
Sul dritto busto laureato dell’imperatore e la scritta ANTONINVS AVG PIVS P P TR P COS III, sul rovescio Salus, vestita
e stante, che con la patera nella mano destra nutre il serpente
avvolto intorno all’altare e con la sinistra tiene uno scettro: Robertson 1971, 232, n. 303.
11
Si esclude che possano venire dalla copertura della tomba (che
è del tipo alla cappuccina) o da oggetti lignei in essa contenuti.
Sul significato simbolico dei chiodi, forse deposti a protezione
della tomba, v. Pellegrino 1998, 20; Ceci 2001; Catalli 2003.
12
La lucerna, ricomposta da frammenti e priva del becco che
era tondo, reca il foro di riempimento decentrato e un piccolo
sfiatatoio sul disco prossimo all’attacco del becco. Per il bollo si
vedano i tipi Q 1282 e 1283 di Bailey 1980, bollati da LFABRICMAS, datati fra il 90 e il 140 d.C., e il tipo Q 1312 con bollo
LFABRMASCL, databile alla prima metà del II sec. d.C.; per la
decorazione si veda il tipo Q 1293, ugualmente su lucerna Bailey
P, ma bollato da LCAMS, databile al 90-140.
13
Bailey 1980, tipo Q 1289.
14
I due frammenti consentono di ricostruire il testo per intero: C. CAE[CILI] / BATYLL[I] e [C. CA]ECILI / [BAT]YLLI,
quest’ultimo con la palma (dalla tomba 14). Corrispondono a
CIL XV, 2381a, ove si restituisce una H dopo la T. Nel Corpus si segnala un esemplare da Tivoli e uno, unilineare (variante
b), dagli Arci nella valle Empolitana (notizie sul rinvenimento
in Giuliani 1970a, 260-261; per altri scavi avvenuti nello stesso
luogo v. Zizzi 2010, 250); un esemplare bilineare, con le sole lettere finali, proveniente da Villa Adriana (ma dall’area della villa
repubblicana), è segnalato in Bloch 1947-48, n. 457. Sui bolli
dei Caecilii in area tiburtino-trebulana: Pierattini 1970, 58-64;
Pierattini 1971, 196-197; Filippi 2004, 290-291. Sull’ipotesi di
identificazione del luogo della figlina: Giuliani 1966, 116-117,
n. 149.
65
Zaccaria Mari – Fabiana Marino
tura A3 con vasca e piano inclinato, alimentata da un
apposito acquedotto, e di probabili altre vasche, possa essere interpretato come un opificio per la concia
delle pelli, le cui fasi di lavorazione richiedono piani inclinati per scarnatura, graminatura, lavaggio e
follatura. In un simile impianto il ruolo della calce
era determinante: sottoponendo, infatti, la calce viva
(CaO), che deriva dalla calcinazione di pietre calcaree (CaCO3), all’azione di spegnimento con l’aggiunta di acqua (CaO+H2O), si ottiene idrato di calcio
[Ca(HO) 2] da utilizzare nel calcinaio. Depilazione
e calcinaio rientrano nel ciclo lavorativo delle pelli
subito dopo scuoiatura, essiccazione (con salatura)
e rinverdimento (con leggera follatura): il calcinaio
dà luogo alla separazione del derma dall’epidermide,
permettendo di gonfiare il derma e saponificare parzialmente i grassi, sciogliendo sostanze inutili, e depilare. Dopo un simile trattamento le pelli passavano
in almeno tre bagni. Per questa fase di lavorazione le
vasche non erano sempre necessarie, poiché, secondo un altro procedimento, la rimozione dell’epidermide poteva avvenire su cavalletti, mediante raschiatura17; tuttavia le vasche necessitavano anche per il
calcinaio18.
Ciò premesso, è bene considerare le strutture
B2-3, la cui destinazione d’uso potrebbe essere stata
legata originariamente più alla concia (in qualità di
vasche) che all’area funeraria. La struttura B2, per
la quale comunque non si esclude del tutto la pertinenza a un sepolcro, è molto robusta e la platea
in caementicium costituisce una solida base con carattere isolante rispetto al terreno; il muro perime-
Fig. 6. Castel Madama: 1. ciotola, 2. frammenti di tegole con il
bollo C. Caecili Batylli.
Le tombe 22-24 sono dislocate nella parte nordovest dell’area, adiacenti alle due strutture in muratura B2-3 (fig. 8, 1-2). La struttura B2 ha pianta
rettangolare (m 8,20 x 7,70) e conserva soltanto la
platea, in opus caementicium a scapoli di calcare,
pesantemente intaccata dalle arature e parzialmente crollata sulla tomba 22; B3, molto più piccola (m
3,35 x 2,50), leggermente staccata e con orientamento divergente, conserva per un tratto il paramento
esterno in opera incerta di calcare e ospita al suo interno la tomba 23.
Le classi ceramiche rappresentate, che coprono
un periodo compreso fra il II sec. a.C. e la tarda età
imperiale, consistono in ceramica comune (da mensa e dispensa), vernice nera, sigillata italica e pareti sottili; numerose sono anche le anfore e i dolia;
scarsi i frammenti in marmo. Tra le numerose anfore, una (pertinente a un enchytrismos) è associabile
a un’Africana II, della famiglia delle grandi anfore
da olio, datata alla metà del II sec. d.C. L’elemento
cronologico forse più tardo è una lucerna con spalla
decorata a perline, riferibile al III-IV sec. d.C.15.
L’ipotesi interpretativa, derivante dai dati di scavo e dalla topografia del luogo, si fonda innanzitutto
sul carattere produttivo dell’area A, dove la piccola
fornace da calce doveva servire un impianto di artigianato locale. La cava in cui veniva estratta la pietra
calcarea, indispensabile alla fornace, potrebbe essere identificata con la moderna “Cava della breccia
rossa”, situata in un costone calcareo lungo la strada
vicinale La Fornace16.
Tutto sembra indicare che l’impiego della calce
avvenisse sul posto e che il complesso portato alla
luce, per la presenza della fornace, della grande strut-
Fig. 7. Castel Madama: 1. lucerna con Cupido, 2. moneta di Antonino Pio.
15
Sapelli 1979, 150, nn. 351-354.
Della cava, oggi dismessa, è ancora riconoscibile il fronte di
estrazione. È interessante rilevare la presenza in zona del toponimo “Fornace”, relativo a un’attività artigianale praticata anche
in epoca moderna.
17
Deferrari 1997.
18
Per la presenza di vasche in una probabile officina coriarorum
tardo-antica: Loreti – Ronchetti 2004, 69-71.
16
66
Impianto produttivo e sepolcreto nell’ager Tiburtinus (Castel Madama, Roma)
IIII∙VIR
L∙PINNI∙Q∙SAIVLEI
P∙F
F
M
V
PROONVS
ONI
SIMO
IIIIvir(atu)
L(ucii) PinniQ(uinti) Saiulei
P(ublii) f(ilii)
[-] f(ilii)
M(agistri) [H(erculis)] V(ictoris)
[---]pro[ni(us) ---]onus
[---]oni(us)
Simo
Fig. 8. Castel Madama: 1. struttura B2, 2. struttura B3.
trale è rivestito esternamente con intonaco di calce,
così come quello della struttura B3, in cui sopravvive
anche un lacerto di cocciopesto. Inoltre si può osservare nella planimetria che il maggior numero di
tombe e il recinto funerario si addensano nell’area
più a sud. Le tombe potrebbero essersi estese in un
secondo tempo verso nord, riutilizzando strutture
delle quali era venuta meno la funzione primaria.
Il periodo di frequentazione del sito è, come si
desume dai reperti recuperati negli strati di obliterazione, molto ampio (circa sei secoli), ma la mancanza
di stratigrafia associata non permette di far luce sul
reale periodo di convivenza delle tre distinte aree.
La struttura di tipo parentale nel profilo genetico, evidenziata dall’analisi antropologica, denota la
presenza di un centro nelle vicinanze, identificabile
con Tibur, da cui è possibile che alcuni abitanti si
recassero a lavorare nell’impianto. Ancora nel tardo Medioevo a Tivoli la produzione di cuoiami (ars
calçulariae), seppur attività minore rispetto all’agricoltura, aveva una certa rilevanza; le fonti, infatti,
attestano la presenza di calcinai, ovvero di vasche
per la conciatura delle pelli, tra i beni allibrati nel
territorio tiburtino19 (F.M.).
Il primo testo, distribuito – tranne che per la prima riga – su due colonne parallele, riporta i nomi in
genitivo di due quattuorviri seguiti dalla formula di filiazione e preceduti dalla carica in ablativo posta a indicare, in funzione eponimica, la data della dedica del
donario; non essendo altrimenti specificato, si tratta
evidentemente della coppia più importante, quella
iure dicundo. Il luogo di rinvenimento, a breve distanza da Tivoli (km 2,5), rientra di certo in quello che era
l’ager dell’antica Tibur, quindi i due magistrati sono
da ascrivere a questa città21. Essi non sono conosciuti
per altra via; il primo, però, L. Pinnius, è verosimil-
Nella terra di scavo fra il nucleo B e la struttura
A3 è stata rinvenuta una semplice basetta a forma di
parallelepipedo in marmo bianco (cm 32 x 27, alt.
9,5), rotta a metà (fig. 9), che doveva sorreggere una
statuetta dedicata ad Ercole. Reca nel lato superiore
quasi quadrato un’iscrizione e due vistosi incavi per
fissare con fusioni plumbee dei perni metallici; un
incasso circolare (diam. cm 4,5, prof. 4), per ancoraggio della base, è anche al centro del lato inferiore. Una seconda iscrizione è sul lato frontale lungo e
basso. In entrambe le iscrizioni, parzialmente mutile,
le lettere sono alte cm 2-2,320:
Fig. 9. Castel Madama: basetta inscritta.
19
Carocci 1988, 314-316.
Per l’esegesi dei testi sono largamente debitore al Prof. Gian
Luca Gregori, che ringrazio.
21
Più ad est, forse già a partire dallo stesso paese di Castel
Madama, iniziava l’ager di Trebula Suffenas, retta da duoviri e
ascritta alla tribus Aniensis (attestazioni a Castel Madama, ove è
assente invece la tribus Camilia di Tibur): Granino Cecere 1988,
123.
20
67
Zaccaria Mari – Fabiana Marino
mente identificabile con il patrono di un liberto noto
da un cippo funerario rinvenuto nella necropoli lungo la via Tiburtina a Bagni di Tivoli presso le antiche
Aquae Albulae22. Pinnius è gentilizio diffuso a Roma e
nel Lazio antico, mentre Saiuleius è nuovo.
Il secondo testo riporta i nomi, più lacunosi, di
due magistri Herculis Victoris, il cui gentilizio è forse
integrabile per entrambi in Sempronius23, seguito da
cognomina grecanici24, come spesso si riscontra per
i magistri, in prevalenza di condizione libertina, del
collegio preposto al culto dell’Ercole tiburtino25. La
formula m(agistri) H(erculis) V(ictoris) al posto di
magistri Herculanei e magistri Herculanei et Augustales, raramente attestata26, indica che ci troviamo
prima dell’età augustea e una datazione ancora entro la fine del I sec. a.C. è suggerita dalla P aperta,
dall’abbreviazione dei gentilizi in nominativo in –i e
dall’assenza del cognomen dei quattuorviri.
La base sorreggeva con tutta probabilità, all’interno
di un’edicola o di un sacello, una statuetta di Ercole in
bronzo, divinità alla cui protezione doveva essere affidato l’opificio ove si lavorava il cuoio. La pratica del
culto di Ercole sul posto è altresì rafforzata dal rinvenimento di una statuina bronzea (v. supra), alta solo cm
5,7 (fig. 10), che raffigura il dio in sembianze giovanili
assiso, ma non in riposo come nell’iconografia dell’Epitrapezios27, bensì colto in un gesto che sembra di saluto
con il braccio destro sollevato e la clava appoggiata alla
spalla sinistra. Alla venerazione per l’eroe divenuto dio
non è forse estranea anche la scelta della lucerna con
Cupido che reca gli attributi di Ercole.
Poiché gli autori della dedica sono i magistri
Herculis Victoris e non dei semplici privati, da ciò
si potrebbe ipotizzare che l’opificio era di proprietà del ricco santuario di Tibur o della stessa città. È
noto lo stretto legame di Ercole con l’allevamento, la
transumanza e, più in generale, con alcune rilevanti
attività economiche della zona, quali l’olivicoltura e
l’estrazione della pietra28. La concia è collegata all’allevamento e all’attività armentizia e la pietra era necessaria alla produzione della calce.
Il nuovo documento da Castel Madama si inserisce in una serie di testimonianze sul culto erculeo che
si susseguono lungo la valle dell’Aniene, concentrate
in particolare a margine della via Tiburtina-Valeria29.
Rimandando ad altra sede un approfondimento sul
Fig. 10. Castel Madama: statuina di Ercole.
tema, si richiamano le principali: l’iscrizione cristiana
datata al IV-V secolo da Vicovaro, presso il pagus Mandela, ove sembra farsi menzione di una villa intitolata
ad Ercole nell’ambito della massa fundorum Mandelana30; un plinto in marmo con dedica ad Hercules Invictus e sovrastante statuetta del dio seduto da Castel
Madama31. A Tivoli il celebre santuario extraurbano,
per il quale si è ipotizzata la nascita presso un antico
forum pecuarium32, sorgeva in posizione dominante
sul santuario arcaico dell’Acquoria, collegato al guado
dell’Aniene e al convergere in esso di importanti percorsi di transumanza33. Da una località (colle Vitriano) a nord dell’Acquoria proviene un frontone con la
raffigurazione di Hercules Victor pertinente probabilmente a un sacello di ambito privato34. Lungo il tratto
della Tiburtina più prossimo a Roma (miglia X-XI)
sono da ricordare la dedica ad Hercules Sospitalis e
Custos da una villa nella tenuta del Cavaliere35 e una
stipe votiva nella tenuta di Castell’Arcione36 (Z.M.).
Zaccaria Mari
Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio
[email protected]
Fabiana Marino
[email protected]
22
EphEp IX, 1910, 904 = InscrIt, Tibur, 215. Sulla necropoli:
Mari 1983, 329, n. 366.
23
Con un’attestazione a Tibur: CIL XIV, 3841 = InscrIt, Tibur, 446.
24
Il primo rientra nel gruppo di quelli terminanti in –onus (si
osserva, a tal proposito, che il lapicida ha predisposto l’asta destra della V, ma poi ha omesso di inciderla), il secondo è probabilmente proprio Simo: Solin 2003, 747.
25
InscrIt, Tibur, 241 (Indici); Giuliani 1970b, 28-29.
26
CIL XIV, 3550 = InscrIt, Tibur, 55 (T. Allius Medicus /
mag(ister) / H(erculis) V(ictoris)) e CIL XIV, 3547 = InscrIt, Tibur,
54 (P. Rusticelius / Saltator / Herc(ulis) Vict(oris) m(agister)).
27
Si veda il contributo di S. Giannetti (“La statuetta di Ercole
giovane seduto e l’iconografia dell’Ercole Vincitore”) in questi
Atti e Giannetti 2012, 10-14.
28
Giuliani 1970, 28; Bodei Giglioni 1977, 59-67; Pierattini
1981; Coarelli 1987, 99-101.
29
Santillo Frizell 2009.
30
CIL XIV, 3482; Mari 1994, 45-48; De Francesco 2004, 22-23.
Il passo relativo ad Ercole, inteso comunemente come praetorium Herculis, è tuttavia soggetto a varie interpretazioni.
31
EphEp IX, 1910, 904 = Granino Cecere 2005, 608, n. 832; Marroni 2011, 573. Sulla scultura v. anche Giannetti cit. a nota 27.
32
Coarelli 1987, 85-86.
33
Mari 1991, 27, 113-116, n. 62; Marroni 2011, 552-556; Adembri 2012.
34
Annunziata 2010, 63-65.
35
Granino Cecere 2001-2001, 165-176.
36
Mari 1983, 235-238, n. 263; CIL I, 2, 2887b.
68
Impianto produttivo e sepolcreto nell’ager Tiburtinus (Castel Madama, Roma)
Appendice
dedurre che la presenza di endogamia all’interno di
questo gruppo umano può essersi determinata verosimilmente o dalla necessità di mantenere in ambito
familiare il controllo di un’attività economico-commerciale oppure da una situazione coatta creatasi in
seguito a una forma di isolamento ambientale. Tale
evenienza, che sembrerebbe anomala, in realtà è stata, e in alcuni casi è ancora oggi, l’unica forma di aggregazione tra individui. Basti pensare alle comunità
dell’età del Ferro disseminate lungo la dorsale appenninica, per le quali è stato determinato e provato
scientificamente che le regole endogamiche sancivano spesso lo sviluppo di strutture parentali anche
strette che costituivano il nucleo degli insediamenti.
Ancora oggi in alcuni piccolissimi centri appenninici basta scorrere l’elenco telefonico per verificare la
presenza di soli due o tre cognomi, prova questa di
come gli abitanti si raccolgano in strutture dove il
legame di parentela, seppur forse non più prossimo
come in antico, non costituisce elemento di barriera
negli accoppiamenti.
Un possibile caso di struttura parentale endogamica
(a cura di Mauro Rubini, Paola Zaio)
La comunità umana che frequentò il sito di Monitola
fra la tarda età repubblicana e la tarda età imperiale
dovette subire una sorta di isolamento genetico che
è ancora in corso di studio. Nonostante siano rappresentati entrambi i sessi e quasi tutte le fasce di
età (sono presenti anche subadulti), condizione questa che costituisce un normale schema di comunità,
l’ipotesi che stiamo valutando attraverso analisi anche molecolari è che invece si tratti di un’unica struttura parentale. Al momento, attraverso un’analisi
macroscopica dei resti, il dato che ha suscitato notevole interesse riguarda alcune stigmate scheletriche
riferibili a disturbi di natura ereditaria. Tra di essi si
rileva la presenza di una rara malattia genetica che si
determina attraverso rapporti endogamici piuttosto
stretti. Da tale considerazione si può indirettamente
Ceci F. 2001: “L’interpretazione di monete e chiodi in contesti
funerari: esempi dal suburbio romano”, in Heinzelmann M. –
Ortalli J. – Fasold P. – Witteyer M. (eds.), Culto dei morti
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Abstract
This paper presents the results of an excavation carried out in
2011 at Castel Madama (Rome) on the Monitola hill near the
Aniene river. An area used for productive activities and a burial
ground, dating to between the 2nd c. BCE and the 4th c. CE, were
found. The former comprises a lime kiln and a large structure in
polygonal work with an inclined surface ending in a basin, with
an underground conduit. The burial ground consists of a funerary enclosure and numerous graves and amphora burials (a total
of 25 burials were identified). The analysis of the bone remains
indicates that the deceased were members of the same family. An
interpretation of the production area as a tannery is suggested.
It was placed under the protection of Hercules, as indicated by
a bronze statuette of the youthful seated god, and the small marble base of a votive offering (late 1st c. BCE), probably a bronze
statuette, with a dedication to Hercules Victor, the most important deity of nearby Tibur, worshipped at the famous sanctuary
outside the town.
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70
Villa di Traiano ad Arcinazzo Romano (Roma). Nuovi dati dalla campagna di scavo 20111
Maria Grazia Fiore – Agostina Appetecchia
A partire dal 1999 la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio ha condotto scavi sistematici
nella villa di Traiano ad Arcinazzo Romano, facendo
luce sulle dinamiche costruttive del complesso e sulla sua articolazione in due vaste platee che si sviluppano lungo le falde del monte Altuino2.
Nell’ultima campagna di indagine, avviata nel
mese di luglio del 2011, si è deciso di completare lo
scavo della platea inferiore, concentrando le attività
nel vano XXV, oggetto della presente comunicazione. Nonostante la limitata superficie esplorata, i risultati conseguiti durante i fortunati lavori sono di
grande interesse, essendo venuti alla luce notevoli ed
originali rivestimenti marmorei, sia pavimentali che
parietali.
Il rinvenimento di sectilia non è certo una novità
per il complesso traianeo: in diverse occasioni sono
state presentate le significative acquisizioni relative agli ambienti monumentali della platea inferiore
(fig. 1)3:
- nel triclinio II sono state individuate impronte e
modesti lacerti di una pavimentazione costituita da
lastre rettangolari parallele in africano, bordate da
listelli in giallo antico4;
- i vani III e XVII hanno restituito impronte della
decorazione marmorea parietale5;
- negli ambienti X e XVIII si sono messi in evidenza
consistenti lacerti di una pavimentazione dal disegno
complesso che, come già sottolineato, trova stringente confronto nel triclinio della Domus Flavia sul Palatino6;
- l’ambiente XIX ha restituito parte della decorazione parietale in sectilia, con zoccolo liscio in marmo
pario concluso da un cordolo aggettante, su cui si
impostano ampie lastre rettangolari, alternate ad elementi verticali più sottili, bordati entrambi da sottili
listelli in porfido verde7;
- nel corridoio IV, suddiviso nei segmenti A e B, sono
state messe in luce cospicue tracce di pavimentazione
a modulo quadrato (formella centrale con elementi
triangolari e punte di lancia ai vertici), corrispondente al tipo Q3p della classificazione Guidobaldi8.
- infine, si sono ottenuti risultati molto interessanti
nell’ambiente XVI, piccolo vano rettangolare ubicato lungo il limite meridionale della platea: il pavimento marmoreo, in quadrati e rettangoli di marmo
pario con sottili listelli in porfido verde, si è conservato qui pressoché integralmente, insieme allo zoccolo in africano9.
Il vano XXV, nello specifico, si apre lungo il lato
nord del corridoio XIV, poco oltre la sua metà. Di
forma pressoché quadrangolare (m 5,60 x 5,20), era
già stato indagato nella precedente campagna del
2009, durante la quale si era provveduto a metterlo
parzialmente in luce, rimuovendo un poderoso strato di interro dovuto sia ad azione antropica moderna che a dilavamento dalla platea sovrastante10. La
stanza risulta delimitata da tre pareti in opus mixtum
che sono state costruite contro terra, grazie al taglio
e alla regolarizzazione sia del banco roccioso calcareo che della collina argillosa a cui esse si addossano
(fig. 2)11.
1
4
Si coglie l’occasione per ringraziare gli architetti S. Sgalambro e
G. Carconi per la realizzazione della documentazione planimetrica
della villa e F. Guidobaldi che, con i suoi preziosi suggerimenti e
incoraggiando la pubblicazione dei primi dati relativi alla scoperta,
ha confermato la consueta generosità e perspicacia. La prima parte
del presente contributo, relativa alla presentazione del contesto e
del rivestimento marmoreo pavimentale, è stata redatta da M.G.
Fiore; la disamina della sequenza stratigrafica nell’ambiente XXV e
dei resti della sua decorazione parietale è a cura di A. Appetecchia.
2
Grazie a due campagne di indagine svolte nel 2009, sulle quali
si è già relazionato in occasione di un precedente incontro di Lazio e Sabina, si è portato alla luce un lungo corridoio segmentato
di raccordo tra le due platee e si sono contestualmente identificate consistenti tracce di frequentazione della villa riconducibili
al V-VI sec. d.C. Si rimanda a Fiore – Appetecchia 2011 e Fiore – Appetecchia c.s.
3
Mari – Fiore 2001; Fiore – Mari 2006.
Fiore – Mari 2005, 631-633.
Fiore – Mari 2005, 633-634.
6
Fiore – Mari 2005, 634-636.
7
Fiore – Mari 2005, 636-639.
8
Fiore – Mari 2005, 639-640; Guidobaldi 1985, 150-183, partic.
186-187 e 226-227.
9
Fiore – Mari 2005, 640-642. Per completezza si segnala l’unico
esempio di pavimento musivo, individuato nel corridoio XIV,
ambiente di raccordo lungo il margine settentrionale della platea
inferiore, dove si è riconosciuto un semplice tappeto uniforme in
filari regolari di piccole tessere bianche.
10
Fiore – Appetecchia 2011, partic. 53.
11
La muratura si conserva per un elevato massimo di m 4 ca. I
paramenti si presentano costituiti da ampie specchiature in cubilia di calcare (cm 6 x 6), caratterizzati da spigoli piuttosto vivi,
alternate a corsi di laterizi (4-5 filari) allettati con cura, legati da
malta non particolarmente tenace, di colore grigio chiaro.
5
71
Maria Grazia Fiore – Agostina Appetecchia
Fig. 1. Arcinazzo Romano,
Villa di Traiano. Planimetria generale del complesso e posizionamento
delle evidenze individuate
durante la campagna di
prospezioni geomagnetiche (area evidenziata con
cornice).
Fig. 2. Arcinazzo Romano, Villa di Traiano. Particolare della planimetria
della platea inferiore, settore occidentale, con posizionamento dei sectilia
rinvenuti nelle precedenti campagne di indagine
(rilievo S. Sgalambro, G.
Carconi, elaborazione A.
Appetecchia).
72
Villa di Traiano ad Arcinazzo Romano (RM). Nuovi dati dalla campagna di scavo 2011
Le recenti indagini, come accennato, hanno permesso il rinvenimento, nell’ambiente, di significativi reperti marmorei, sia pavimentali che parietali: in particolare ci si riferisce ad una porzione di
pavimentazione dai colori contrastanti e a migliaia
di crustae parietali. Si tratta di un caso eccezionale
di studio per diversi ordini di motivi: non solo per
la quantità dei reperti recuperati e la qualità/stato
di conservazione dei marmi impiegati, ma perché
– come sarà di seguito esposto – il deposito individuato nel vano XVV può essere considerato come
il risultato del collasso, sigillato, della stanza e relativa decorazione su se stessa: da ciò consegue la
più che probabile possibilità di restituire una ipotesi ricostruttiva completa dell’articolazione decorativa. Inoltre il rinvenimento potrebbe permettere
un’analisi che vada oltre il semplice inquadramento
formale e stilistico dei pezzi e litotipi impiegati, valutando un discorso di più ampio respiro relativo
all’impianto decorativo pavimentale e parietale,
alle maestranze impiegate, all’approvvigionamento
dei materiali e, più in generale, alla disamina delle
dinamiche socio-economiche e commerciali legate
all’utilizzo di tali marmi in questo contesto residenziale imperiale.
Si coglie l’occasione per segnalare anche il rinvenimento, sempre durante le recenti indagini12, di
numerosi lacerti di intonaco e stucco, attualmente in fase di ricomposizione e studio, che saranno
presentati e valorizzati in sede opportuna: per il
momento ci si limita a sottolineare che sono stati
recuperati 8.976 frammenti dai colori vivaci (con
netta predominanza di fondo rosso), spesso impreziositi da delicati dettagli decorativi di dimensioni
miniaturistiche quali candelabra dorati o pelte sovradipinte. Gli intonaci dovevano contribuire ad
ornare la stanza, insieme ai rivestimenti marmorei
parietali e pavimentali. La decorazione, così lussuosa, sembra trovare riscontro in altri vani della platea
inferiore13 e contribuisce ad arricchire il panorama
non particolarmente generoso delle testimonianze
pittoriche di età traianea attestate a Roma e nelle
città italiche (M.G.F.).
1. La campagna di scavo 2011: l’ambiente XXV
Durante l’ultima campagna di indagine, completata la rimozione dell’interro, è stata individuata una
sequenza di depositi riconducibili ai crolli della copertura e delle pareti dell’ambiente, collassato su se
stesso. Si è messo in luce uno spesso strato costituito
da macerie, in particolare materiale edilizio (tegoloni, coppi, laterizi), intonaci e stucchi (US 43)14.
Subito sotto è stato evidenziato uno poderoso accumulo (US 44) composto da marmi (lastre, cornici,
listelli, cordoli) mescolati a malta di calce, chiodi,
grappe, sporadiche fette di anforaceo e lastrine di ardesia dalla forma irregolare (fig. 3). Data l’eccezionalità del deposito, si è deciso di non procedere con lo
scavo estensivo dell’ambiente (rimandato, pertanto,
alla prossima campagna di indagine), optando, bensì, per un saggio di approfondimento di m 2 x 2 ca.
nell’angolo nord-ovest del vano, in modo da documentare nel modo più dettagliato possibile il contesto individuato e le dinamiche del crollo, registrando
con accuratezza la posizione precisa dei singoli elementi marmorei prima della loro rimozione15.
I materiali recuperati sono stati oggetto, finora, di
un’analisi di tipo macroscopico, volta alla quantificazione e al riconoscimento autoptico delle tipologie
marmoree individuate, alla suddivisione tipologica e,
infine, al primo riconoscimento delle tracce di lavorazione sulle superfici.
Fig. 3. Arcinazzo Romano, Villa di Traiano. Ambiente XXV. Particolare dell’angolo nord-ovest (foto Autore).
12
Il vano XXV è stato suddiviso in quadrati di m 2 x 2, in modo
da definire punti di raccolta precisi del materiale e favorire la
successiva attività di restituzione della decorazione pittorica.
13
Fiore 2011.
14
L’US è stata interpretata come rappresentativa del crollo delle
strutture di copertura del vano e della porzione superiore delle
pareti. Lo strato di macerie, di spessore notevole, compreso tra
m 1,70 e 2, si caratterizzava per la presenza di numerosissimi
frammenti di intonaco compattati fra di loro, insieme a cubilia,
pietrame (bozze di piccole dimensioni in calcare bianco) e grumi
di malta, residuo del disfacimento delle strutture murarie. Laterizi e tegole, conservati in grandi frammenti (alcune delle tegole
sono pressoché integre), erano in alcuni punti disposti in piano
e sovrapposti. Si è registrata, tuttavia, una leggera pendenza del
deposito verso il centro dell’ambiente.
15
In questo caso lo strato è stato interpretato come il crollo,
in situ, dei rivestimenti marmorei parietali del vano; le crustae
dovevano probabilmente ricoprire la parte mediana dei muri, tra
la zoccolatura e la sommità, caratterizzata invece dalla presenza
di pitture e stucchi. Si tratta di una prima ipotesi ricostruttiva,
che tiene presente le modalità di deposizione, le caratteristiche
dei depositi e del vano stesso, un piccolo ambiente aperto su
un corridoio di passaggio/raccordo con la platea superiore. Ci
auguriamo di poter avvalorare o meno tale supposizione in seguito al completamento dello scavo nel vano XXV. Sulla combinazione di rivestimenti marmorei e decorazione pittorica come
indicatore dell’importanza dell’ambiente si rimanda a Peters –
Meyboom 1993.
73
Maria Grazia Fiore – Agostina Appetecchia
niana”18: il modulo di base (fig. 4) è rappresentato da
una formella ottagonale irregolare in pavonazzetto
(cm 60 x 60), con lati obliqui più contenuti e disco
centrale in serpentino (diam. cm 22). I margini non
presentano profilo regolare continuo: nei lati obliqui
della formella sono ricavati quarti di cerchio in cui si
inserisce un elemento in porfido; su quelli maggiori,
orizzontali e verticali, si apre una semicirconferenza
in cui si inseriscono due foglie lanceolate con vertici
convergenti, che sfruttano la curvatura del cerchio,
rispettivamente in serpentino e porfido, e un triangolo isoscele con due lati concavi, rispettivamente in
giallo antico e pavonazzetto. La giustapposizione di
quattro formelle (cfr. fig. 5), di maggiore interesse
rispetto ad una singola, quando ci si trova di fronte
a un motivo composito, sviluppa un motivo originale e unico, per il quale, al momento, non sembrano
trovarsi confronti: un piccolo elemento quadrato, in
pavonazzetto, di cm 15 x 15, si inserisce nel punto di
giunzione angolare delle formelle, creando un tappeto pavimentale dalla cromia raffinata. Le sfumature
delle lastre sono state scelte con cura e attenzione,
generando un leggero contrasto: sul fondo chiaro e
maculato in pavonazzetto spiccano, lungo file regolari, dischi policromi pieni o con quadrati inscritti,
più omogenei (fig. 5).
Volendo brevemente ragionare sull’inquadramento cronologico e tipologico della pavimentazione
marmorea appena descritta, si ritiene necessario fare
due ordini di considerazioni: per ciò che concerne il
primo punto, si precisa che non ci sono, al momento,
indizi che possano orientarci verso una datazione del
pavimento diversa dall’epoca traianea, risultando
il manufatto, in base alle indicazioni stratigrafiche,
contemporaneo alla struttura che impreziosisce. Il
nostro pavimento va quindi ad arricchire il repertorio della villa, aggiungendosi agli altri numerosi
esempi rinvenuti19.
Più in generale, il manufatto si inserisce bene nella serie dei sectilia del cosiddetto “filone imperiale”,
esaminati da Federico Guidobaldi in un circostanziato contributo del 1997: una produzione elitaria, caratterizzata da originalità, unicità, eleganza e ottima
L’unicità del rinvenimento ha suggerito, tuttavia,
l’avvio di una serie di iniziative parallele a sostegno
dello studio del contesto nella sua complessità: in
primo luogo si è deciso di avvalersi, in fase di documentazione sul campo, dell’ausilio di nuove tecnologie che ormai trovano ampia applicazione in
ambito archeologico, quali il photoscanning, al fine
di supportare una restituzione tridimensionale e
dettagliata del deposito e la ricomposizione virtuale
dello schema decorativo16. Contestualmente, è stata
avviata la creazione di un database per consentire la
gestione dei dati, approntando, per gli elementi marmorei rinvenuti, una scheda standard, sulla falsariga
del modello proposto da F. Guidobaldi e C. Angelelli nel 2002, con l’aggiunta di alcune voci funzionali
alla ricerca specifica (A.A.)17.
2. Il rivestimento marmoreo pavimentale
L’approfondimento stratigrafico ha permesso di portare alla luce il pavimento presentato. Si tratta di un
manufatto di indubbia raffinatezza, che si distingue
per uno schema composito di ottagoni e quadrati,
redatto secondo i dettami della “quadricromia nero-
Fig. 4. Arcinazzo Romano, Villa di Traiano. Ambiente XXV, UUSS
43 e 44. Nell’angolo nord-ovest si riconosce il saggio di approfondimento (foto Autore).
16
Si tratta di un’innovativa tecnica di documentazione, di recente utilizzata anche in contesti archeologici e spesso affiancata al più conosciuto rilievo con 3D Laser Scanner. Attraverso
una semplice collezione di immagini digitali dell’oggetto da
documentare e grazie all’uso di software specifici che consentono di determinare, autonomamente, posizione e coordinate
del punto di scatto, è possibile ricostruire una nuvola di punti
(point cloud). Affinché la restituzione tridimensionale abbia
un esito positivo, devono essere soddisfatte alcune semplici
condizioni quali una sovrapposizione dei photo shoots del 6070%, in modo che ogni elemento che si desidera documentare
compaia in almeno tre immagini. Il software (nel nostro caso
Agisoft PhotoScan e MeshLab) riconosce i punti in comune
nelle diverse immagini (precedentemente misurati dall’operatore su campo con stazione totale) e ne permette la puntuale
georeferenziazione. Il ridotto costo delle attrezzature (macchina fotografica e stazione totale) e la facilità di trasporto della
strumentazione, insieme alla possibilità di documentare in dettaglio il deposito, hanno reso tale metodo di documentazione
particolarmente adatto alle nostre esigenze. La bibliografia a
cui fare riferimento è davvero cospicua, si rimanda pertanto
solo a qualche recente contributo: Bezzi – Bezzi – Ducke 2010;
Campana – Remondino 2008. Si veda, come esempio di esperienza applicativa di tali tecnologie su rivestimenti marmorei,
De Felice – Sibilano – Volpe 2008.
17
Angelelli – Guidobaldi 2002. Come esempio di un’interessante ed esaustiva esperienza di studio e classificazione di crustae
marmoree parietali si veda Angelelli 2007.
18
Si segue, in questo caso, la definizione di F. Guidobaldi secondo cui si indica come “quadricromia neroniana” l’accostamento
cromatico di giallo antico, pavonazzetto, porfido rosso e porfido
verde; un gusto decorativo che si attestò proprio in epoca neroniana ed ebbe in seguito ampia diffusione.
19
V. supra, 71.
74
Villa di Traiano ad Arcinazzo Romano (RM). Nuovi dati dalla campagna di scavo 2011
in origine, copriva quasi completamente la stanza,
come documentano le tracce in negativo visibili sulla superficie di tutti i muri, insieme ai numerosi frammenti di crustae rinvenuti ancora in situ.
Dell’originaria decorazione è possibile ricostruire le
principali caratteristiche, almeno del primo registro
(fig. 6).
La restituzione tridimensionale del sectile parietale è stata effettuata finora per i lati settentrionale e
occidentale, dove sembrano meglio conservate le impronte e i lacerti che permettono una lettura più dettagliata del rivestimento. Lo schema restituito (fig. 7)
è composto da uno zoccolo in lastre rettangolari in
portasanta (alt. cm 157 x 45) su cui si impostano tre
cornici: la prima, modanata e aggettante, in pavonazzetto (cm 6); una seconda, liscia, in serpentino
alta cm 7,5 e l’ultima, modanata, in giallo antico, alta
cm 724.
Non è possibile, purtroppo, formulare ipotesi
univoche riguardo la decorazione che doveva rivestire la porzione superiore delle pareti; tuttavia, si
ritiene piuttosto ragionevole immaginare la presenza
di altri registri, specchiature divise da cornici, listelli o cordoli, secondo modalità decorative piuttosto
usuali nell’età imperiale e, probabilmente, nella porzione superiore/terminale della parete, intonaci e
stucchi25.
Fig. 5. Arcinazzo Romano, Villa di Traiano. Restituzione grafica
(da modello 3D) del modulo pavimentale di base nel vano XXV
(rilievo ed elaborazione A. Appetecchia).
fattura20. E il nostro pavimento sembra soddisfare in
pieno queste caratteristiche, proponendo un disegno,
a quanto risulta finora, assolutamente unico, che sembra non essere recepito nel repertorio abitativo privato
e, al contempo, non attingere a modelli precedenti21.
L’unico elemento che in qualche modo sembra
discostarsi dai suindicati caratteri di raffinatezza riguarda la sua fattura; si notano infatti alcune imperfezioni nella messa in opera. Nel dettaglio si rileva una
certa difficoltà nella giustapposizione delle formelle,
non sempre così precisa, insieme al mancato rispetto
della simmetria cromatica22. A tal proposito, in attesa di completare l’indagine nel vano XXV, si ipotizza
che tali “sbavature”, se si consente il termine, non
siano da considerare come frutto di imperizia delle
maestranze, che ottengono risultati eccellenti negli
altri casi documentati nella villa traianea, quanto
piuttosto alla difficoltà originata dal profilo ottagonale della formella oppure a un restauro o intervento
“in corso d’opera”23. Sicuramente, come accennato,
la prosecuzione delle indagini riuscirà a chiarire questo e altri aspetti della questione (M.G.F.).
3. La decorazione marmorea parietale
Il vano XXV era impreziosito, inoltre, da una decorazione in crustae marmoree, ricostruibile almeno
per la parte inferiore delle pareti. Il rivestimento,
Fig. 6. Arcinazzo Romano, Villa di Traiano. Particolare del pavimento e restituzione ipotetica (da modello 3D) del tappeto pavimentale nel vano XXV (foto ed elaborazione A. Appetecchia).
20
Guidobaldi 1999.
Lo stesso discorso, si vedrà più avanti, si ritiene possa valere
anche per i rivestimenti marmorei parietali che, seppur non particolarmente originali, forse, nella messa in opera delle crustae, si
rivelano esclusivi e raffinatissimi nei particolari inseriti e nell’articolata commistione di marmo e pittura, v. infra, 76.
22
Si rileva la presenza di alcune formelle in cui si riconosce la
giustapposizione di due elementi marmorei al posto di uno solo.
In due casi lo schema geometrico/cromatico della pavimentazione non è rispettato, inserendo qualità marmoree diverse rispetto
a quelle previste.
23
Un caso simile di restauro di emergenza, ad esempio, si è
individuato in una delle pavimentazioni della villa imperiale di
Posillipo: Combo 2001, partic. 658. Anche in questo caso l’intervento, come nella villa di Traiano, è stato eseguito con cura,
risultando appena percettibile, se non fosse per il palese errore
cromatico.
24
Questo rivestimento, corrispondente al “Tipo A” della classificazione Guidobaldi – Angelelli, piuttosto diffuso nella media e
piena età imperiale, è caratterizzato da lastre concluse da cornice
in contrasto cromatico, che favorisce il “raccordo con arretramento del piano di decorazione”: Guidobaldi – Angelelli 2005,
partic. 36.
25
Bruto – Vannicola 1990; Guidobaldi – Angelelli 2005, 34-37.
21
75
Maria Grazia Fiore – Agostina Appetecchia
Fig. 7. Arcinazzo Romano, Villa di Traiano. Ambiente XXV, parete nord. Lacerti delle crustae marmoree pertinenti il primo registro della decorazione (foto Autore).
Fig. 8. Arcinazzo Romano, Villa di Traiano. Ambiente XXV. Restituzione tridimensionale del sectile parietale (rilievo ed elaborazione Autore).
Le tracce in negativo sulla malta e i numerosissimi
elementi marmorei rinvenuti ci orientano in tal senso: ne sono stati recuperati, finora, 2454 (1693 cornici e 761 lastre), rappresentati per la maggior parte da
marmi colorati: in primo luogo giallo antico, seguito
da africano, portasanta, porfido rosso e verde, pavonazzetto, cipollino. Come accennato poco sopra, è
stata avviata la sola analisi macroscopica dei materiali, che permette, comunque, di avanzare qualche
considerazione di carattere qualitativo e tecnico riguardo gli stessi. Ad esempio, si è notata, finora, una
netta prevalenza dell’africano per le lastre, mentre
pavonazzetto, porfido rosso e giallo antico sembrano
per lo più riferibili a cordoli, listelli e cornici, lisce o
modanate. Si potrebbe ipotizzare per le pareti una
certa tridimensionalità e ricerca di effetto volumetrico, considerando il forte aggetto delle cornici modanate e delle paraste rispetto alle lastre, elemento che
doveva sicuramente favorire il gioco dei chiaroscuri
verticali.
Per ciò che concerne la lavorazione, almeno per
le lastre, si sono individuati bordi arrotati o levigati e superficie piana (spess. medio cm 1,5), con una
faccia a vista liscia e l’inferiore leggermente ruvida26.
Alcuni frammenti di lastre presentano evidente finitura ondulata dei bordi, tipo di giunzione piuttosto
diffusa e ben documentata, almeno per i rivestimenti
marmorei pavimentali27.
La presenza di piccoli elementi sagomati e tarsie
pertinenti a fregi, poi, sembrerebbe confermare una
certa articolazione nella decorazione dei registri superiori (fig. 8). In particolare, si segnala la presen-
za di un cospicuo numero di reperti squisitamente
riferibili alla suddivisione geometrica delle superfici, dai più semplici tondini a fasce o listelli di varia
tipologia: se ne sono individuati con sviluppo rettilineo o curvilineo, lisci o con incisione, a gola. Alcuni presentano anche uno o entrambi i lati tagliati in
obliquo.
Per ciò che concerne il sectile figurato, i frammenti finora recuperati sono stati raggruppati in base a
diverse classi tipologiche28: vegetali (steli, palmette e
petali di varie forme); elementi architettonici (frecce,
ovuli, piccoli dischi, frammenti pertinenti a capitelli); tarsie di varie forme geometriche con superfici
prive di incisioni (elementi triangolari o romboidali,
curvi o sagomati).
Essendo l’analisi e lo studio di tali reperti in
fase di avviamento iniziale, in questa sede ci si limita a focalizzare l’attenzione sul rinvenimento di
alcuni frammenti che si ritengono particolarmente
interessanti. Ci si riferisce a 8 elementi in marmo
bianco pertinenti, con tutta probabilità, a piccoli
capitelli, caratterizzati dalla giustapposizione di un
kalathos reso con leggere incisioni ed elementi a
goccia, ugualmente incisi. Essi, trovando puntuale confronto con esemplari del tutto simili attestati
nell’ambiente XIX della platea inferiore della villa,
vanno ad arricchire il già documentato repertorio
di Arcinazzo29 e, pare piuttosto significativo, tale
tipologia decorativa, forse finora poco documentata, sembra trovare diffusione, in area romana ad
esempio, in contesti ugualmente piuttosto ricchi, di
committenza elevatissima30.
26
gagnolo – Lugari 2008.
28
Si è trovata molto utile, in tal senso, una suddivisione simile
presentata in Fogagnolo 2011, 458-459.
29
Fiore – Mari 2005, 638, fig. 10a.
30
Si rimanda, in particolar modo, a Fogagnolo 2011, 460-461. Si segnalano, inoltre, alcuni esemplari molto vicini a quelli documentati
ad Arcinazzo, individuati presso la Villa dei Quintili: Ponti 2001.
Per le tracce di lavorazione si è fatto riferimento ai sempre
validi e fondamentali contributi: Bessac 1986; Bruto – Vannicola
1990; Bruno 2002.
27
Per i profili ondulati nei rivestimenti parietali si veda, ad
esempio, Bianchi – Bruno – Coletta – De Nuccio 2001; Angelelli
2007, 409; da ultimo Fogagnolo 2011, partic. 458. Interessante,
per la sua applicazione nelle pavimentazioni, il contributo di Fo-
76
Villa di Traiano ad Arcinazzo Romano (RM). Nuovi dati dalla campagna di scavo 2011
caso piuttosto consueta (fig. 9)31. La muratura era foderata da tegulae mammatae, fissate con lunghi chiodi a stelo quadrangolare che, conficcati in piccoli fori
ricavati nella testa della tegula, arrivavano fino alla
parete32. I fittili sono posti a creare una sottile inter-
Seppure le ampie lacune decorative lascino tuttora dubbi sulla completa restituzione dei caratteri
tecnici e stilistici del progetto di arredo del vano, allo
stesso tempo esse hanno consentito di verificare la
modalità di ancoraggio delle lastre, anche in questo
Fig. 9. Arcinazzo Romano,
Villa di Traiano. Esempi di
elementi sagomati e tarsie
pertinenti ai registri superiori della decorazione parietale (foto Autore).
Per le tarsie parietali della stessa villa suburbana (in particolare su
fregi con figure umane) si veda Casagrande 2006, 11-16.
31
Sulla tecnica di esecuzione e posa in opera dei rivestimenti
parietali marmorei si rimanda, in generale, a Giuliani 1998, 143145, fig. 6.3; si veda anche Guidobaldi – Angelelli 2005, con am-
pia bibl. preced. Da considerare anche il recente contributo di
Giorgi – Festa – Lugari 2011 riguardo un esempio di sperimentazione sulla moderna restituzione di un rivestimento parietale a
grande modulo.
32
Giuliani 1998, 154, fig. 7.2.
77
Maria Grazia Fiore – Agostina Appetecchia
capedine con la struttura portante: si suppone che
il loro impiego abbia avuto, in questo caso, scopo
isolante, motivato dalla verosimile umidità scaturita
dalla costruzione delle pareti contro terra, considerata anche la presenza, sulla superficie esterna delle
tegulae, di una leggera scialbatura in latte di calce33.
Per ciò che concerne le tecnica di posa e fissaggio
delle lastre, qualche indicazione è fornita dai segni
riscontrati sul sottofondo: le tegulae risultano coperte da uno strato di preparazione in cui si riconoscono
almeno due colate di malta (rispettivamente di cm 4
e 5), in cui sono affogate fette di anforaceo, più rare
però rispetto alla preponderante presenza di lastrine
di ardesia dalla forma irregolare, rettangolare e allungata34. Nel momento della posa le lastre dovevano
essere supportate da piccoli cunei di legno, incastrati
nello strato di preparazione. Oltre piccoli segni in
negativo rinvenuti nella malta, si sono documentati,
eccezionalmente, anche residui lignei, ancora conficcati obliquamente nel sottofondo. Le lastre dovevano essere ancorate grazie a grappe a T. Purtroppo,
non si sono conservati lacerti marmorei in situ dei
registri superiori, oltre lo zoccolo, pertanto ci si affida, in tal senso, all’individuazione di numerosi fori
sul sottofondo e al rinvenimento di tali reperti in fase
di scavo.
Concludendo, sebbene la ricerca sia appena agli
inizi, ci auguriamo di poter ricomporre, quanto prima, la totalità della decorazione parietale marmorea del vano XXV. Il rinvenimento di Arcinazzo è,
infatti, un episodio eccezionale per diverse ragioni.
L’esempio va ad arricchire, come è stato già sottolineato, il gruppo di testimonianze decorative parietali
della villa traianea. Allo stesso tempo, distinguendosi
per l’altissima qualità dei marmi impiegati e l’abbondanza degli stessi, la scelta cromatica, la particolare
Fig. 10. Arcinazzo Romano, Villa di Traiano. Ambiente XXV,
angolo nord-ovest. Modalità di ancoraggio delle lastre. A sinistra
restituzione grafica, a destra situazione attuale (foto, rilievo ed elaborazione Autore).
cura nella posa delle crustae, la ricerca di effetti volumetrici e chiaroscurali, l’articolazione dei registri in
specchiature e fregi, può essere considerato, più in
generale, come una nuova e preziosa testimonianza
di rivestimento marmoreo parietale, classe non sempre particolarmente nota o documentabile in maniera così dettagliata (A.A.).
Maria Grazia Fiore
Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio
[email protected]
Agostina Appetecchia
Archeologa, collaboratore
Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio
[email protected]
33
Su questa tecnica: Giuliani 1998, 154, partic. fig. 7.2.
Per una sintesi sull’estrazione e sull’utilizzo dell’ardesia nei
rivestimenti parietali antichi: Bruno 2002, 277-278.
34
78
Villa di Traiano ad Arcinazzo Romano (RM). Nuovi dati dalla campagna di scavo 2011
De Felice G. – Sibilano M.G. – Volpe G. 2008: “Esperienze
di laser scanning su rivestimenti pavimentali e parietali: il caso
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Abstract
The last field-work campaign at the “Villa di Traiano” in Arcinazzo
Romano has allowed the discovery, in the lower terrace, of significant marble remains, concerning both the floor and the walls of
the small room XXV. It’s an exceptional case study not only for
the amount of recovered artifacts and the quality of preservation
of the marble used, but also because the deposit identified can be
interpreted as the result of the collapse, sealed, of the room decoration: it follows the most likely possibility of returning a hypothetical but complete reconstruction of the decoration. In addition,
the discovery could allow an analysis that goes beyond the formal
and stylistic view of the types of rock, considering a more ample
discourse on the decoration, the workers employed, procurement
of materials and more generally, to the examination of the socioeconomic and commercial implications of the use of these marbles
in an imperial context.
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79
Considerazioni sull’apparato architettonico della Villa di Traiano ad Arcinazzo Romano (Roma)
Sergio Sgalambro
La Villa di Traiano ad Arcinazzo Romano si articola
in alcune platee sorrette da terrazzamenti, delle quali finora è stata messa in luce quella inferiore, il cui
schema planimetrico è riportato a fig. 1. Si tratta di
un impianto rettangolare, costituito da un vasto giardino, molto accentuato nel verso longitudinale, sul
cui lato breve prospettano ambienti di rappresentanza anticamente coperti a volta.
In questa breve relazione si vogliono esporre alcune considerazioni pertinenti l’impiego dell’ordine
architettonico a partire dall’analisi di quegli elementi
significativi che possono aiutare a formulare un’ipotesi di ricomposizione dell’apparato decorativo della
villa e rimandando per la descrizione dell’architettura degli ambienti e per l’analisi morfologica degli elementi marmorei rinvenuti ai contributi pubblicati1.
I ritrovamenti più importanti possono essere suddivisi seguendo lo schema delle singole componenti,
quali la base, la colonna, il capitello e la trabeazione,
che definiscono l’insieme di un ordine architettonico.
Le basi recuperate nelle fasi di scavo, seppure di
differenti dimensioni, hanno lo stesso profilo, rappresentato dalla sequenza plinto-toro-scozia-due tondiniscozia-toro. Nella fig. 2 è riportato un raffronto fra la
tipologia della base della villa di Traiano e il rilievo
della base di colonna rinvenuta durante gli scavi de-
Fig. 1. Impianto planimetrico della platea inferiore della Villa di Traiano.
Le illustrazioni sono dell’Autore, tranne quelle della fig. 4 che
sono di Giorgio Rocco.
riportata in calce, mentre per quanto riguarda l’interpretazione dello schema planimetrico, con particolare riguardo alla
distribuzione degli ambienti e alla concezione spaziale, si fa
riferimento al contributo dello scrivente pubblicato in Lazio
e Sabina, 6, 75-79. Ringrazio i colleghi sopramenzionati per
avermi offerto l’opportunità di approfondire alcune tematiche
relative alla villa.
1
I numerosi studi che hanno descritto e analizzato la Villa
di Traiano ad Arcinazzo Romano sono dovuti a Maria Grazia
Fiore, responsabile dell’area archeologica, e a Zaccaria Mari.
Per una puntuale documentazione si rimanda alla bibliografia
81
Sergio Sgalambro
0
0.1
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54
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0.4
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1m
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0.2 0.3
0.4 0.5
1m
Fig. 2. A destra: confronto tra
la base di colonna della Villa
di Traiano e quella delle colonne degli emicicli orientali
del Foro di Traiano; a sinistra: particolare del fusto di
colonna scanalato della villa
di Arcinazzo.
gli emicicli orientali del Foro di Traiano effettuati nel
1928. I profili sono quasi del tutto omologhi, ma anche
la conformazione stilistica delle restanti parti dell’ordine architettonico dell’esempio citato è molto simile a quella dei reperti di Arcinazzo. Si è ritenuto utile
estendere, di conseguenza, il confronto a tutta la partitura strutturale, al fine di avere un parametro al quale
fare riferimento e ricavare, attraverso l’analogia, gli elementi mancanti, in modo da poter effettuare una ricostruzione ipotetica. Infatti nel corso delle campagne di
scavo non è stata recuperata nessuna colonna integra
e, quindi, solo attraverso i rapporti proporzionali e i
confronti con i moduli dei diametri di entrambe le tipologie è stato possibile desumere l’altezza ipotetica.
Sempre per quanto riguarda le colonne, sono state rinvenute due distinte tipologie: la prima con il fu-
sto liscio e la seconda caratterizzata da una fine scanalatura. I reperti relativi alle colonne offrono una
campionatura abbastanza variegata di marmi (cipollino, portasanta, giallo antico e marmo bianco), ma
è soprattutto la coesistenza di queste due differenti
conformazioni architettoniche che suggerisce l’ipotesi che nella villa siano stati impiegati due distinti
ordini architettonici (nella fig. 2 è riportata anche la
sezione trasversale con il disegno della scanalatura
del secondo tipo di colonna).
I ritrovamenti dei capitelli sono anch’essi ascrivibili a due tipi di categorie (fig. 3): la prima presenta uno schema di tipo dorico-tuscanico integrato da
motivi decorativi ionici2, mentre la seconda rientra
nei cosiddetti compositi, del tipo corinzio-ionico3.
Probabilmente, pertanto, i due tipi di colonna po-
2
Rocco, 29-30.
3
L’introduzione di questo quinto ordine, rispetto alla codificazione di Vitruvio, che distingue soltanto quattro ordini (tuscanico, dorico, ionico, corinzio), è dovuta ai trattatisti rinascimentali, che, analizzando le caratteristiche architettoniche
dei monumenti romani, individuarono nell’introduzione di un
nuovo tipo di capitello, costituito dalla commistione di elementi ionici e corinzi, la nascita di una nuova tipologia stilistica, quale appunto quella composita. In realtà le caratteristiche
che interessano le restanti parti del sistema compositivo, quali
il profilo della base, il fusto della colonna e la conformazione
della trabeazione, non appaiono sostanzialmente differenti da
quelle dell’ordine corinzio, per cui è più giusto ritenere che si
tratti di una variazione o di un arricchimento dello stesso ordine corinzio; cfr. Rocco, 3-4.
Le interrelazioni tra l’ordine dorico e l’ordine ionico hanno
origini molto lontane, sin dal VI sec. a.C., come è possibile constatare dagli esempi riportati nella fig. 4. Queste contaminazioni testimoniano della ricchezza di spunti e dell’estrema varietà
delle decorazioni; risulta quindi difficile inserirle nella consueta
catalogazione dei cosiddetti stili architettonici. Tuttavia in periodo ellenistico e romano alcune commistioni diedero luogo a una
vera e propria tipologia. È il caso ad esempio della decorazione
dell’echino del capitello dorico decorato con un motivo ionico
a ovuli e lancette, che può trovare un riferimento in quello del
Bouleuterion di Mileto e della Stoà dell’agorà di Magnesia sul
Meandro. Ma il riferimento più diretto alla tipologia adottata
nella villa di Arcinazzo Romano è senz’altro quello del capitello
della Colonna Traiana, in quanto in entrambi i casi l’echino è
riccamente decorato con il motivo ionico sopra descritto; cfr.
82
Considerazioni sull’apparato architettonico della Villa di Traiano ad Arcinazzo Romano
Fig. 3. Rilievo dei due tipi
di capitelli: a sinistra quello
dorico-tuscanico con decorazioni ioniche; a destra quello
composito.
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trebbero essere relativi alle due tipologie di capitello: quella con il fusto liscio relativa al capitello
dorico-ionico e quella scanalata al capitello ionicocorinzio.
La trabeazione, ricostruibile nella sua interezza
soltanto ipoteticamente, è definita attraverso diversi
reperti. Numerose lastre di marmo riguardano l’architrave e, pur presentando lo stesso schema decorativo costituito da tre fasce separate da astragalo e
concluse da una modanatura a gola rovescia, sono
strutturalmente differenti nella parte retrostante. Infatti alcune hanno la parete posteriore liscia, poiché
sono parte integrante del sistema di rivestimento della
trabeazione del portico principale4, altre invece sono
di spessore maggiore e hanno soprattutto la superficie scabra, in quanto funzionale all’inserimento nella
massa muraria delle pareti. Nella fig. 5 sono rappresentate le due tipologie di architrave sopra descritte,
di cui sono stati recuperati numerosi frammenti. È
quindi possibile constatare come la trabeazione del
portico, realizzata con lastre marmoree fino all’altezza del fregio, si raccordasse con le superfici murarie
degli ambienti interni adottando lo stesso sistema di
rivestimento.
Al fine di ricomporre la parte di trabeazione mancante, relativa al fregio e alla cornice, è utile considerare i due blocchi rinvenuti nell’ambiente XIX
(secondo la numerazione attribuita nei precedenti
studi), situato nella zona retrostante e caratterizzato
da una copertura con volta a crociera (fig. 6). Il primo dei due reperti marmorei relativi alla porzione
d’angolo interessa l’architrave e parte del fregio e il
secondo la cornice, riccamente articolata. Si tratta di
due blocchi complementari, che presuppongono la
presenza di un capitello e di una colonna. Infatti i
due blocchi sono dei parallelepipedi che soltanto per
la parte aggettante, corrispondente a un quarto del
volume complessivo, appaiono scolpiti, in quanto la
parte restante è grossolanamente sbozzata ed è predisposta per l’inserimento nella muratura.
Una testimonianza completa del tipo di trabeazione è quella che faceva parte della decorazione
architettonica del ninfeo posto nel lato di fondo del
triclinio (fig. 7): le tre nicchie ricavate nel muro semicircolare della fontana erano inquadrate da un sistema decorativo costituito da colonne con capitelli,
sorrette da mensole e concluse da una trabeazione.
Di questa trabeazione, la cui sezione trasversale è
4
a realizzare la trabeazione in laterizio, successivamente rivestita
con lastre marmoree, di cui è riportato un esempio a fig. 5; cfr.
Sgalambro 2003.
Il ritrovamento di numerosi blocchi calcarei di forma trapezoidale ha portato ad ipotizzare che questi elementi, posti in
corrispondenza delle colonne del portico della villa, servissero
83
Sergio Sgalambro
Fig. 4. Esempi di contaminazioni tra ordine dorico e
ionico: Amyklai - Trono di
Apollo (seconda metà del VI
sec. a.C.); Selinunte - capitello dorico-ionico (prima metà
del V sec. a.C.); Poseidonia Tempio di Poseidone (530
a.C.); Mileto - Bouleuterion
(175-164 a.C.); Magnesia
sul Meandro - Stoà Sud
dell’Agorà (II sec. d.C.).
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Fig. 5. Tipologie di architravi: a sinistra con superficie
retrostante liscia e a destra
con parete posteriore scabra.
Considerazioni sull’apparato architettonico della Villa di Traiano ad Arcinazzo Romano
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Fig. 6. Ricomposizione di blocchi relativi
alla trabeazione d’angolo dell’ambiente
XIX.
Fig. 7. Ricostruzione della decorazione architettonica della fontana del triclinio.
la modalità di impiego nell’ambito più generale del
contesto architettonico della villa. Effettuando cioè
una sorta di salto di scala, dal particolare del dettaglio architettonico, rappresentato appunto dai capitelli, alla struttura d’insieme della volumetria dell’intero complesso, le due differenti categorie stilistiche
potrebbero essere state impiegate per realizzare un
doppio ordine relativo a un doppio livello, inferiore
e superiore. Infatti uno sviluppo in senso verticale,
che comporti l’adozione dell’ordine dorico-ionico
al piano inferiore e di quello corinzio-ionico al piano superiore, costituirebbe una progressione armoniosa e una felice commistione tra i due ordini
compositi (dorico-ionico e ionico-corinzio). Tuttavia
questa ipotesi non appare confermata dalle indagini
di scavo, in quanto le stesse non hanno dimostrato
l’esistenza di collegamenti verticali adiacenti, se si
eccettua il corpo-scala posto nella zona dell’estremo
lato sud-occidentale. Allo stato dei fatti, quindi, non
è possibile stabilire con sufficiente certezza se i due
tipi di capitello siano da riferire a un doppio ordine,
in quanto nemmeno il contesto nel quale sono stati
ritrovati appare essere quello originario.
Sempre nell’ambito delle ipotesi, partendo dal
dato di fatto che i capitelli di tipo dorico-ionico sono
stati trovati nell’area del giardino, lungo il portico a
sviluppo longitudinale, si può ritenere che gli stessi appartengano al sistema strutturale del corridoio
coperto che circonda l’area a verde. Potrebbero, in
questo caso, far parte dell’ordine architettonico della
prevalentemente integra, sono stati recuperati diversi blocchi e il confronto con altri frammenti di
architrave o di cornice ha consentito di stabilire una
sorta di unità stilistica compositiva, fatti salvi alcuni
differenti rapporti dimensionali.
Un altro elemento di confronto è il frammento
di cornice riportato in fig. 8, pertinente a una trabeazione di semicolonna, forse relativa alla decorazione architettonica di un’edicola muraria. È possibile
constatare l’assoluta identità con il blocco di cornice
del ninfeo del triclinio, in base alla quale è stato possibile effettuare la ricostruzione ipotetica riportata
nella stessa fig. 8.
Tenendo presente questa rassegna delle tipologie
architettoniche (frammenti di trabeazione, di capitello, di fusto di colonna o di parti delle basi), ricavata dall’analisi dei reperti recuperati a partire dagli
anni Cinquanta del secolo scorso, si può ragionevolmente confermare l’ipotesi che gli elementi architettonici finora ritrovati appartengano a due distinti
ordini architettonici. Questi due linguaggi formali,
rappresentati emblematicamente dalla due tipologie
di capitello, sono entrambi caratterizzati dalla commistione di elementi appartenenti a differenti categorie stilistiche. Il primo tipo di capitello unisce gli
elementi dell’ordine dorico con quelli dello ionico,
mentre il secondo è ascrivibile al cosiddetto ordine
composito, derivato dalla commistione dell’ordine
corinzio con lo ionico (fig. 3). La coesistenza di queste due tipologie pone una singolare questione circa
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Sergio Sgalambro
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Fig. 8. Cornice di trabeazione di una semicolonna, probabilmente
pertinente a un’edicola.
livello superiore non sarebbe potuto essere doricoionico, poiché ciò avrebbe contraddetto i fondamentali canoni della grammatica architettonica. Da
queste considerazioni consegue che l’ordine architettonico del portico frontale della villa era molto
probabilmente quello composito corinzio-ionico e
ad un solo livello.
Di rilevante interesse è anche il ritrovamento di
vari elementi della base di balaustre, il cui profilo è
perfettamente complementare a quello delle basi delle colonne. Nella fig. 9 è stata quindi ricostruita una
facciata esterna ed essere stati collocati sulle colonne
con il fusto liscio situate sui contrafforti murari del
terrazzamento, visto che il portico longitudinale del
giardino presenta sul lato interno una serie di colonne
in muratura. Conseguentemente il sistema architettonico dell’ordine composito ionico-corinzio potrebbe
riguardare la facciata principale del fronte della villa.
La tipologia delle basi delle colonne, già descritta
precedentemente, presenta il tipico profilo dell’ordine corinzio-composito. Le numerose basi di questo
tipo, ritrovate prevalentemente nell’area degli ambienti di rappresentanza, trovano una collocazione
abbastanza certa in corrispondenza dei blocchi in
calcare che definiscono la disposizione delle colonne del portico frontale rivolto verso il giardino.
Un riscontro oggettivo all’ipotesi che le basi di tipo
corinzio-composito abbiano fatto parte del prospetto principale è dato dal ritrovamento ancora in situ
della base del pilastro terminale destro, la cui conformazione del profilo è perfettamente coincidente
con quella delle basi sopra descritte.
Poiché durante gli scavi è stata ritrovata solo questa tipologia di base di colonna, è difficile ipotizzare
che la stessa fosse stata utilizzata anche per l’unità
stilistico-architettonica relativa al capitello doricoionico. Quest’ultimo, infatti, ha come riferimento
tipologico il capitello della Colonna Traiana, la cui
base è costituita da un plinto e da un solo toro. Ciò
conferma, almeno per analogia, che anche nel caso in
questione la base relativa al capitello dorico-ionico
non poteva essere la stessa di quella rinvenuta, caratterizzata dal profilo a doppia scozia. È, quindi,
verosimile che l’ordine architettonico del portico del
fronte principale della villa fosse quello composito
corinzio-ionico.
Infine, se anche lo stesso portico fosse stato dotato di un doppio livello, l’ordine architettonico del
Fig. 9. Ricostruzione di una campata del portico dell’ordine composito.
86
Considerazioni sull’apparato architettonico della Villa di Traiano ad Arcinazzo Romano
campata di una struttura dell’ordine composito con
una base di balaustra interposta fra le due colonne.
Più difficile appare ipotizzare la collocazione di queste
basi di balaustre nel contesto planimetrico della villa.
Il ritrovamento avvenuto nell’area del giardino, lungo
il lato sud, può far pensare a un utilizzo nel piano superiore, ma non è da escludere che potessero far parte
del portico frontale, con lo scopo di privilegiare gli ingressi principali coincidenti con le fughe prospettiche
che caratterizzano l’impianto planimetrico della villa.
Abstract
Fiore M.G. – Mari Z. 2006: “Pavimenti e rivestimenti in opus
sectile della villa di Traiano ad Arcinazzo Romano”, in Morlier
H. (ed), La mosaïque gréco-romaine IX (Atti IXe Colloque International sur l’Étude de la Mosaïque antique et médiévale, Rome,
5-10 novembre 2001), Roma, 629-644.
Fiore M.G. – Mari Z. 2008: “La Villa di Traiano ad Arcinazzo Romano”, in Valenti M. (ed.), Residenze imperiali nel Lazio
(Atti della Giornata di studio, Monte Porzio Catone, 3 aprile
2004), Monte Porzio Catone, 81-90.
Mari Z. c.s.: “The marbles from the Villa of Trajan at Arcinazzo
Romano (Roma)”, in ASMOSIA X (Association for the Study of
Marbles and Other Stones in Antiquity, X International Conference, Rome, 21-26 May 2012).
Piro S. 2006: “Prospezioni Georadar. I casi della villa di Traiano
ad Arcinazzo e del santuario di Diana a Nemi”, in Lazio e Sabina,
3 177-182.
Rocco G. 2005: Introduzione allo studio degli ordini architettonici antichi, Università degli Studi di Roma Sapienza, Facoltà di
Architettura, Roma.
Sgalambro S. 2003: “L’impiego dei pulvini nelle piattabande e
negli archi in laterizio della villa di Traiano ad Arcinazzo Romano”, in Lazio e Sabina, 1, 47-52.
Sgalambro S. 2010: “La villa di Traiano ad Arcinazzo Romano:
analisi dello schema planimetrico della platea inferiore”, in Lazio
e Sabina, 6, 75-79.
Sergio Sgalambro
Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio
[email protected]
The following article is about the architectural decoration of
the Emperor Trajan’s Villa at Arcinazzo Romano. In particular,
it focuses on the marble decorative pieces that have been found
since the 1950s in archaeological surveys. The multicoloured fragments of decorative elements belonged to portions of columns or
entablatures. The description also concerns some complementary
elements, such as column bases or balustrades. The aim of this
study is the elaboration of an hypothetical reconstruction of the
architectural order, both for the interior elements and the portico
exposed to the garden. Critical is the description of the two capitals. The first one is doric-ionic and the second one is corinthianionic, commonly identified with the term composite.
Bibliografia
Amici C.M. 1982: Foro di Traiano: Basilica Ulpia e Biblioteche,
Roma.
Fiore M.G. – Mari Z. 2003a: Villa di Traiano ad Arcinazzo Romano. Il recupero di un grande monumento, Tivoli (a cura del
Comune di Arcinazzo Romano e della Soprintendenza per i Beni
Archeologici del Lazio).
Fiore M.G. – Mari Z. 2003b: “Villa di Traiano ad Arcinazzo
Romano: risultati dei nuovi scavi”, in Lazio e Sabina, 1, 39-46.
87
Risultati della seconda, terza e quarta campagna di scavo
nella villa romana in località Formello a Palombara Sabina (Roma)
Zaccaria Mari
Nel 2010 e 2011 sono proseguiti gli scavi nella villa
romana in loc. Formello, nel Comune di Palombara
Sabina (Roma), situata sulle pendici di monte Gennaro, entro il Parco Regionale Naturale Monti Lucretili; i risultati della prima campagna (2009) sono
pubblicati negli Atti del settimo Convegno “Lazio e
Sabina”1. In particolare l’esplorazione si è concentrata nelle aree del giardino, delle terme e del diverticolo di accesso.
La villa è nettamente definita da un poderoso
terrazzamento in opera poligonale di calcare dotato
di un avancorpo verso l’estremità nord e con i due
lati brevi formanti un angolo retto e uno ottuso, che
origina una platea di forma trapezoidale (max. m
80 x 60 ca.), delimitata a monte – lungo una linea
obliqua – dal deverticulum di accesso (fig. 1). Del
terrazzamento, uno dei più rappresentativi esempi
della c.d. IV maniera arricchita da bugnato rustico e
anathyrosis, databile alla metà del I sec. a.C.2, è stata
accuratamente ripulita, dopo lo scavo del 2009, la
fronte rivolta a valle e documentata la fase posteriore. Questa comportò l’addossamento, all’avancorpo,
di una vasca in opera cementizia e la costruzione, a
partire dalla rientranza, di un massiccio muro a contrafforti in opus quasi reticulatum che conteneva un
terrapieno utilizzato forse per coltivazioni. Davanti
allo sbocco sulla parete in poligonale di due drenaggi
che penetrano sotto la platea furono costruiti un cunicolo voltato (inglobato nel terrapieno) e un canale
scoperto (sul breve muro di chiusura a sud). La volta a scheggioni calcarei del cunicolo, semicrollata, è
stata parzialmente ricostruita per restituire solidità al
manufatto. Tutte queste strutture appartengono alla
precoce trasformazione (forse avvenuta già agli inizi
del I secolo) della villa, in origine esclusivamente di
otium, in organismo rustico-residenziale.
Sulla platea si individuano due settori nettamente
distinti: la domus vera e propria e il peristilio racchiudente il giardino. Questo corrisponde a un’area
rettangolare (m 23 x 11) cinta da portici che si apre
verso nord in un’esedra ad arco di cerchio interrotta
al centro da un edificio quadrangolare identificabile probabilmente con un sacello, che doveva essere
costituito da un podio e da un prospetto a colonne
(v. infra). È stato scavato e rimosso dal settore ovest
dell’esedra, a causa del precario stato di conservazione, il pavimento a mosaico ornato con lacunari
prospettici in bianco e nero3. Nel settore est invece il
pavimento è stato completamente distrutto nel corso di una radicale spoliazione avvenuta già in epoca tardo-antica o alto-medioevale; probabilmente si
trattava di un mosaico anch’esso a lacunari. Sotto un
accumulo di frammenti di intonaci dipinti, crollati
dal muro di fondo dell’esedra, è apparso lo strato di
preparazione con le prime file di tessere alla base della parete. È conservata invece la parte inferiore delle
colonne laterizie intonacate, scanalate e rudentate,
dell’esedra e del contiguo portico rettilineo (fig. 2),
che non hanno fondazione, ma risultano impostate
per metà su un gradino in blocchi di travertino e per
metà sul masso pavimentale. Prive di base, avevano
capitelli dorici o tuscanici modellati in stucco e architrave con modanature lisce e kyma ionico.
Lungo il portico rettilineo, accanto al cubiculum
mosaicato con il motivo del ‘tappeto’ e dello ‘scendiletto’, già edito negli Atti del settimo Convegno, si
sviluppano le terme, di cui sono stati parzialmente
scavati solo cinque ambienti. È poco per ricavare lo
schema distributivo e funzionale, tuttavia si riconoscono un ambiente riscaldato con abside e una sala
rotonda (diam. m 6) movimentata da tre nicchie semicircolari, identificabile con il laconicum ovvero la
stanza per il bagno di sudore provocato da calore
secco (fig. 3); pavimentata in cocciopesto e con semplice intonaco bianco, presenta al centro la base per
la fonte di riscaldamento, guarnita da un muretto e
contenente ancora tracce di cenere4. Le sue caratteristiche corrispondono esattamente a quelle descritte
da Vitruvio (arch., V, 10, 5) per questo tipo di ambienti, che erano coperti a cupola con un occhio centra-
1
altri reperti rinvenuti nella villa (Mari 2008b), è in attesa di restauro.
4
Il completamento dello scavo chiarirà forse se era utilizzata
per disporvi i carboni ardenti o per poggiare un braciere. Sui
laconica: Nielsen 1992, 18-19, 158-159.; Yegül 1992, 383-389.
Mari 2011; v. inoltre Mari 2011b.
Sulla diffusione di questa tecnica in area tiburtino-sabina:
Mari 2012, 331-332.
3
Trasferito nel “Museo territoriale della Sabina”, all’interno del
Castello Savelli di Palombara, ove sono esposte le due statue e
2
89
Zaccaria Mari
Fig. 1. Palombara Sabina, loc. Formello: pianta delle strutture scavate (2011).
le dotato di sistema di chiusura al fine di regolare la
temperatura. Per attenuare la dispersione del calore
la sala è inserita in un vano trapezoidale che, grazie
agli angusti spazi di risulta tutt’intorno, fungeva da
intercapedine5. L’ingresso principale alle terme si
apre sicuramente nel lato sud (ancora sepolto) verso
il settore residenziale, ma un accesso secondario è anche dall’ambiente rettangolare lungo il portico (v. fig.
2). Nella stratigrafia di reinterro delle terme, rimossa
solo in parte, è contenuto abbondante materiale archeologico, tra cui frammenti di labra in marmo; dal
laconico sono stati recuperati un capitello ionico (v.
infra) e un balsamario (alt. cm 11,5, diam. max. 9,5;
fig. 4, 1) con corpo piriforme a fondo piatto e collo
cilindrico in vetro a nastri fusi blu e bianco-marrone
formanti fasce di festoni, confrontabile con prodotti
del I sec. d.C.6; dall’ambiente rettangolare provengono numerosi frammenti di lastre di vetro per finestre7;
A
Fig. 2. Palombara Sabina, loc. Formello: portico est del giardino;
in alto a destra griglia di tombino.
5
Un confronto, circa della stessa epoca, è nella villa sabina di
Cottanello: De Simone 2000, 63-64; Pensabene – Gasparini
2912; si veda anche il contributo di Pensabene – Gasparini –
Restaino in questi Atti.
6
Cfr. un esemplare al Museo Nazionale Romano: Campus 1982,
tav. 37, n. 2. Per la forma: Scatozza Höricht 1986, 62-65; De
Tommaso 1990, 110.
7
Non stupiscono in un contesto termale, poiché nei balnea, ove
si diffusero precocemente, le vetrate servivano per mantenere la
temperatura interna: Dell’Acqua 2004; Verità–Vallotto 2001.
90
Risultati della seconda, terza e quarta campagna di scavo nella villa romana in località Formello
Fig. 3. Palombara Sabina, loc. Formello: laconicum delle terme.
Fig. 4. Palombara Sabina, loc. Formello: 1. balsamario vitreo, 2.
coppa con inserti di pasta vitrea.
al piano che sosteneva le pilae di un locale riscaldato
sono forse attribuibili frammenti di grandi laterizi di
impasto pozzolanico, probabilmente quadrati, spessi
cm 7-8 (lungh. max. cons. dei lati cm 35)8. Uno reca il
bollo rettangolare [L ∙ ]DOMITI, che si può datare intorno alla metà del I sec. a.C. (fig. 5, 2)9. È da rilevare
la notevole ampiezza delle terme che furono previste
già nell’impianto originario, laddove in altre ville coeve il settore termale risulta assai più modesto e talora
aggiunto o ingrandito in epoca posteriore.
Quanto al settore residenziale purtroppo semiinvaso da costruzioni moderne, gli scavi si sono finora
limitati a un tratto del portico affacciato sul giardino (che è risultato pavimentato con mosaico bianco
punteggiato di grandi tessere nere) e a una trincea nel
cuore della domus. Fondendo i risultati con quelli degli scavi parziali (1987-1989) seguiti al rinvenimento
delle statue10, si ricostruisce la successione – sull’asse centrale – degli ambienti tipici di una casa italica
tardo-repubblicana: dal tablinum, pavimentato con
elegante mosaico a nido d’api, affiancato da due triclini o cubicoli11, all’atrio con impluvio (sicuramente
in corrispondenza con uno dei drenaggi che sboccano
sul terrazzamento), a un grande triclinio per gli ospiti
o sala di rappresentanza (oecus) con mosaico geometrico ormai quasi sul lato opposto della platea.
Nella zona orientale si è accertata l’estensione del
sepolcreto individuato nella precedente campagna,
consistente in tombe impiantate sullo strato di preparazione dei pavimenti asportati. Trattasi di povere
sepolture realizzate con materiali di recupero (soprattutto tegole e parti di anfore) databili orientativamente all’Altomedioevo e succedute all’intervento
di spoliazione. Solo una tomba, addossata alla parete
del portico rettilineo est (v. fig. 2, A), fu realizzata
quando la villa, o almeno questo settore, era in abbandono, ma non ancora divenuto oggetto di razzie;
essa infatti, contrariamente alle altre, è costituita da
una piccola cassa muraria, poggiata sul mosaico, che
conserva l’impronta della tavola lignea di copertura, inserita in un incasso ricavato nell’intonaco. Al di
sopra si trovava un accumulo di materiali vari contenuti nel reinterro praticato dopo la spoliazione. Le
tombe rientrano nel ben noto fenomeno, datato al
IV-V secolo (ma già anticipato nel III) e documentato soprattutto nei dintorni di Roma, della tumula-
8
è possibile identificare il personaggio non con il console del 16
a.C. (cui il bollo è riferito dubitativamente in PIR2 D 128), bensì
con il console del 54 a.C. (RE V Domitius 27). La distribuzione
del bollo suggerisce di localizzare il centro di produzione nel
Latium vetus. Ringrazio l’amico Dott. Giorgio Filippi per gli utili
suggerimenti.
10
Alvino 1990.
11
Sui mosaici di questi ambienti v. anche Alvino 1995, 505.
Fig. 5. Palombara Sabina, loc. Formello: 1, 3. frammenti di lastre
Campana con bucrani allacciati da festoni e con sfingi alate e divinità egizia, 2. bollo laterizio.
Conservano inferiormente uno strato di cocciopesto e dovevano esseree utilizzati negli ambienti riscaldati.
9
Cartiglio alt. cm 2, lungh. cons. 10,5; lettere sottili, alte cm 1,8.
Identificabile quasi certamente con CIL XV, 1121c (cfr. anche
2244), rispetto ai cui esemplari conserva integra l’estremità destra; sui timbri della variante c v. Steinby 1987, 322. La datazione
scaturisce in primo luogo dagli elementi cronologici che offre
il contesto di rinvenimento e dalla paleografia, in base ai quali
91
Zaccaria Mari
Fig. 7. Palombara Sabina, loc. Formello: sostruzione del diverticolo.
motivi geometrici dalla vivace policromia, che inquadrava la figura del santo (si riconosce la sinopia nella
zona dei piedi) insieme a numerosi graffiti espressione della devozione popolare14.
Dallo scavo è emerso copioso materiale archeologico. Oltre a marmi colorati impiegati per pavimenti e rivestimenti parietali in opus sectile, spiccano
elementi architettonici, tra cui parte di un capitello
corinzio di lesena e soprattutto, un capitello ionico
e il frammento di un secondo identico, attribuibili al portico davanti alla domus che doveva avere,
contrariamente agli altri lati, colonne in marmo. Il
capitello (fig. 10), che si segnala per la raffinata lavorazione quasi metallica e la ricchezza decorativa del
rocchetto (lunghe foglie d’acqua strette da un balteo
a squame con astragali laterali), trova confronti con
esemplari di età augustea a Roma e Ostia15, tuttavia
per alcune particolarità rientranti pienamente nella
tradizione ellenistica, come le semplici lancette del
kyma ionico e il tipo di semipalmette, può essere
datato anche ai decenni precedenti. Dall’interro del
portico est proviene la griglia di un tombino qua-
Fig. 6. Palombara Sabina, loc. Formello: pavimento in opus sectile.
zione in alcuni ambienti delle ville caduti in disuso,
mentre altri continuavano ad essere utilizzati.
Nel lato opposto, sull’avancorpo del terrazzamento, si conserva a livello di fondazione il perimetro di un vano rettangolare con pavimento in opus
sectile a quadrati di ardesia listellati con marmo bianco (fig. 6), attribuibile, per la vicinanza al giardino e
la posizione panoramica, a un padiglione-belvedere
(diaeta) o a un triclinio, cui si affiancavano stanze più
piccole mosaicate.
Si è quindi rivolta l’attenzione al deverticulum, che
scendeva in direzione della villa da una via publica diretta da Tibur in Sabina, del quale era visibile in precedenza solo parte della sostruzione a monte in opera poligonale di III maniera (priva del bugnato che
abbellisce la basis villae)12. È stato scavato un breve
tratto del lastricato, largo solo m 2,75, sufficiente per
il traffico privato a senso unico, quindi si è liberata
dall’interro la sostruzione per una lunghezza di m 80
ca. fino al cubiculum (fig. 7). Il lastricato, abbassandosi
di livello, scompare alla vista, ma gira sicuramente intorno all’esedra. Si è infatti di nuovo rinvenuto lungo
il lato obliquo del terrazzamento, stretto fra questo e
un muro parallelo in opera incerta; è in buono stato
di conservazione, presenta crepidini laterali ed è profondamente inciso dalle ruote dei carri (fig. 8). Da qui
probabilmente prosegue lungo il pendio fino a incontrare una strada di fondovalle13.
Impiantati direttamente sul lastricato del diverticolo sono stati rinvenuti i resti di una cappellina
con altare addossato alla parete di fondo, alla quale
potrebbe riconnettersi il locale toponimo S. Martino
(fig. 9); conserva lacerti della decorazione pittorica, a
Fig. 8. Palombara Sabina, loc. Formello: il diverticolo presso il terrazzamento della villa.
12
Mari 2011, 90-91.
Per i ritrovamenti in questa zona: Mari 2011, 92.
I resti di intonaco dipinto sono stati oggetto nel 2010 di un
preliminare intervento di consolidamento effettuato dal Ser-
vizio Restauro della Soprintendenza, per il quale ringrazio le
Assistenti tecnico-scientifiche Patrizia Cocchieri e Barbara Caponera.
15
Pensabene 1973, 38, n. 107.
13
14
92
Risultati della seconda, terza e quarta campagna di scavo nella villa romana in località Formello
allestita nel 2013 a Roma a Castel Sant’Angelo (fig.
11)24. La testa, fissata in antico con un perno metallico
nell’incavo e con una grappa sul retro, ha riacquistato
la sua posizione naturale, girata e piegata verso sinistra
in un amorevole ‘colloquio’ con il piccolo Pluto che la
madre teneva in braccio25. Il restauro ha altresì evidenziato o che la testa venne adattata a un corpo preparato
per un’altra copia (i marmi sono diversi: pario per la
testa e pentelico per il corpo)26 o che la statua, come si
riscontra in altre parti fra cui le pieghe del panneggio,
fu oggetto di un ripristino già in età antica.
Il recente riesame delle sculture palombaresi, che
probabilmente erano collocate nel sacello al centro
dell’esedra (v. supra), ne ha fissato la cronologia alla
seconda metà del I sec. a.C., confermando così quanto già i dati di scavo, a fronte delle diverse datazioni
più alte e più basse avanzate in precedenza (v. note
20, 26), suggerivano, e cioè che le sculture fecero
parte del programma decorativo pensato sin dall’inizio per la villa.
Lo scavo ha portato alla scoperta di una sola altra scultura, un ritratto in marmo bianco del c.d.
Pseudo-Seneca pertinente a un’erma o a una statua,
riaffiorata nell’area del giardino27. Permane quindi
il dubbio se le due divinità figurassero in un ciclo
Fig. 9. Palombara Sabina, loc. Formello: resti della cappellina moderna.
drato (lato cm 22,5) in marmo pavonazzetto ornato
con fiore centrale in bassorilievo tra i quattro fori (v.
fig. 2).
Ai tetti dei portici appartengono antefisse con gorgoneia prodotte molto probabilmente da una fornace
situata all’interno del fondo della villa e sime del tipo
Campana con soggetti differenti, quali eroti sorreggenti ghirlande, bucrani allacciati da festoni (fig. 5,
1), sfingi alate in posizione araldica ai lati di una
divinità egizia (fig. 5, 3)16. Degni di menzione sono
frammenti di una coppa impreziosita con inserti di
pasta vitrea colorata su una trama di petali in leggero
rilievo (fig. 4, 2) e un simile frammento con racemi
vegetali, prodotti di una fabbrica tiburtina databile
tra la fine del II sec. a.C. e gli inizi del I d.C.17.
Nel 1986 furono rinvenute nella villa due statue
marmoree18, oggi esposte nel Museo del Castello Savelli: una copia dell’Eirene (370 a.C. ca.) di Kephisodotos19 e una di divinità maschile, già identificata
ipoteticamente con Zeus20, nella quale si è proposto
recentemente di riconoscere Efesto21. Nel 2009 e 2011
sono stati ritrovati rispettivamente il braccio destro22
e la mano destra23 dell’Eirene. Inoltre fra i materiali
rinvenuti negli scavi del 1987-1989 è stato riconosciuto
da chi scrive l’elemento di raccordo alla base del collo che si inserisce perfettamente nell’incavo del busto.
Tutte queste parti sono state ricongiunte alla scultura
(alt. m 2,14) in vista della sua esposizione alla mostra
Fig. 10. Palombara Sabina, loc. Formello: capitello
ionico.
16
24
Per gli ultimi due tipi v. von Rohden–Winnefeld 1911, 38-39,
fig. 16; 166-167, 234, figg. 320-323, per la lastra con le sfingi v.
anche Petrilli 2007, 148-150 e Livi 2006 (esemplare dalla via Tiburtina). Per il tipo con eroti e per le antefisse Mari 2011, 87.
17
Mari 2002; Mari 2008a. Cfr. in questi stessi Atti il contributo
di Mari–Marino, fig. 4.
18
Mari–Sperandio 1987.
19
Agnoli 1998. Sull’Eirene in generale v. ora Papini 2013a.
20
Di Mino 2009 (si propone la datazione fra II e I sec. a.C.).
21
Papini 2013b, 345.
22
Conservato da sotto la spalla fin quasi al polso, presenta fori
per perni metallici e incassi per grappe; la parte prima del polso
è in un frammento separato, ricongiunto: Mari 2011, 91.
23
Priva delle dita e del polso. Il pollice fu restaurato in antico
con un perno metallico di cui resta il foro.
Papini 2013b, 344. La statua è stata portata alla mostra, in
quanto la testa, rubata dai depositi della Soprintendenza, fu recuperata nel 1994 dalla Guardia di Finanza.
25
Il restauro, eseguito con la consueta perizia dal Consorzio
CONART (colgo l’occasione per ringraziare Emanuela Franco,
Gabriella Berlingò e Gino Mamone), che già restaurò nel 2008
la statua maschile, ha riposizionato correttamente la testa eliminando l’integrazione in gesso effettuata al Museum of Fine Arts
di Boston ove la statua (rientrata a Palombara nel gennaio 2011)
è stata esposta in prestito temporaneo per quattro anni (Reggiani
2007).
26
Ipotesi avanzata nel primo studio dedicato alla scultura
(Agnoli 1998), ove il corpo viene datato in età giulio-claudia e la
testa in età proto-augustea.
27
Mari 2010; Mari 2011, 91.
93
Zaccaria Mari
statuario più ampio, disposto intorno al peristilio, da
porre, eventualmente, in relazione con gli orientamenti ideologici, le scelte artistiche o le pratiche di culto
del proprietario. Il proseguimento degli scavi non ha
fatto luce neppure sull’identità di questo, poiché non
si sono rinvenute le auspicate testimonianze epigrafiche attraverso le quali si sperava di poter risalire al
nome. Certamente, però, fu personaggio altolocato
che frequentava la villa per diporto28. Questa infatti, per la qualità delle decorazioni e la mancanza di
una pars rustica, si conferma residenza di otium e per
tale carattere costituisce un’eccezione nella serie di
ville rustiche e rustico-residenziali sorte in età epoca
tardo-repubblicana alle falde del massiccio lucretile29.
La datazione del primo impianto si colloca intorno
al 50 a.C., in base alla tecnica muraria degli ambienti (l’opus quasi reticulatum con scarso uso di laterizi,
documentabile soprattutto nelle terme), a pavimenti
e decorazioni, alle classi ceramiche, al bollo laterizio
dalle terme. Sebbene la frequentazione sia proseguita
fino al IV-V secolo, anche le ultime campagne di scavo
non hanno rivelato cospicui rifacimenti e modifiche
strutturali. Interventi di limitata entità, paragonabili a
quelli riscontrati negli scavi degli anni Ottanta del secolo scorso nella zona del tablino, sono stati notati nel
balneum (chiusura o restringimento di alcune porte).
Sembrano risalire ad epoca medio e tardo-imperiale e
rientrano nella continua opera di manutenzione di cui
le strutture termali abbisognavano.
Zaccaria Mari
Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio
[email protected]
Fig. 11. Palombara Sabina, loc. Formello: statua
di Eirene.
nella fornace, forse per opus doliare, rinvenuta nel 1986 sul vicino pendio a sud (Mari–Sperandio 1987, 19-20), avremmo il
nome del fondatore della villa.
29
Mari 1995.
28
Nella relazione precedente si è riferito dell’ipotesi di attribuzione, difficilmente sostenibile, al poeta Catullo che possedette
una villa fra Tibur e la Sabina (Mari 2011, 92, nota 46). Per non
tralasciare alcuna pista di ricerca, si osserva che, qualora vi fosse
la certezza che i laterizi con il bollo L. Domiti furono prodotti
94
Risultati della seconda, terza e quarta campagna di scavo nella villa romana in località Formello
Mari Z. 2010: “Ritratto dello Pseudo Seneca”, in Ai confini di
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Abstract
This paper presents the results of the recent excavation campaigns
(2010-2011) in the Roman villa in the Formello area of Palombara
Sabina (Rome), already known for the discovery in 1986 of two
fine statues (a copy of the Eirene by Kephisodotos and a probable
Hephaestus, formerly believed to be Zeus) now on display in the
local “Museo territoriale della Sabina”. The excavations continued
in the baths (where the laconicum was easily identified), the paved access road and a pavilion-belvedere or triclinium near the
imposing terrace in polygonal work. Also found along the road
was a modern chapel with remains of paintings, perhaps dedicated
to St Martin. The right arm of the statue of Eirene, brought to light
during the recent excavations, has been reattached to the body and
the head correctly repositioned. Its materials and decorations confirmed that the villa, used for residential purposes and certainly
owned by a high-ranking figure, was built in around 50 BCE.
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95
Sabina e Cicolano: archeologia, storia e territorio
Giovanna Alvino
Anche quest’anno molteplici sono state le attività
scientifiche – condotte nella provincia di Rieti dalla
Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio
– che hanno visto, oltre al coinvolgimento dei numerosi collaboratori che da tempo sono attivi sul
territorio, anche la presenza di diversi esperti afferenti ad istituzioni accademiche italiane e ad istituti di ricerca stranieri. I loro contributi, relativi a
studi1, ricerche di superficie2 e scavi3, contenuti in
questo stesso volume, hanno portato anche in questa occasione ad una considerevole messe di dati
nuovi, che affrontano i temi più vari della ricerca
nell’ambito dell’archeologia del territorio sabino
laziale. Le indagini archeologiche condotte dalla
Soprintendenza hanno interessato: il territorio di
Amatrice, dove si è ripreso lo scavo della necropoli di Saletta; il territorio di Cittaducale e di Castel
Sant’Angelo dove, a seguito di due Accordi di Programma Quadro (APQ) sottoscritti dalla Regione
Lazio e dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, sono state effettuate ricerche archeologiche rispettivamente presso le c.d. “Terme di Vespasiano”
e presso le c.d. “Terme di Tito”. Nel Cicolano sono
stati indagati il territorio di Borgorose, dove è stato
ripreso lo scavo della necropoli di Pietra Ritta, e il
territorio di Pescorocchiano, dove si sono riavviate
le indagini presso il santuario di S. Angelo di Civitella, investigato parzialmente negli anni ’90 del
Novecento.
1. Cittaducale – Terme di Vespasiano
Nel Comune di Cittaducale in località Caporío zona
ad alta valenza archeologica – nell’ambito di un APQ
sottoscritto dalla Regione Lazio e dal MiBAC4 – sono
state intraprese indagini, condotte a più riprese dal
2007 al 2012, che hanno permesso di portare alla
luce un tratto glareato dell’antica via Salaria lungo
oltre 30 metri5, che costeggiava il monumentale ed
articolato complesso noto come le “Terme di Vespasiano”6 (fig. 1). Il progetto, finalizzato alla fruibilità
e alla valorizzazione del sito, prevedeva la messa in
opera della recinzione e la realizzazione di due strutture di accoglienza, supporto e servizio alla visita.
A seguito delle preventive indagini archeologiche
sono state individuate diverse strutture antiche, la
cui presenza ha determinato una necessaria variante
al progetto originario. Con l’approfondimento delle
ricerche si è rinvenuta la carreggiata dell’antico tracciato della via Salaria, realizzato in battuto di pietrisco e ghiaia largo m 4,40 ca., e le relative crepidini
larghe ciascuna m 0,50 (fig. 2). La via glareata si presenta larga complessivamente m 5,40-5,60 con la carreggiata delimitata da pietre disposte di taglio e una
struttura muraria, in blocchi di calcare travertinoso,
realizzata a protezione del lato a monte. Il percorso
della strada così come il muro ad essa parallelo si
interrompono bruscamente ad est, probabilmente a
causa del taglio operato, in epoca fascista, per la rea-
1
Un nucleo di monete proveniente da Villa Camponeschi (Borbona) inquadrabili in piena età repubblicana (III-II sec. a.C.)
sono state studiate da F. Catalli. Una serie di disegni inediti dei
monumentali terrazzamenti del Cicolano sono stati individuati
e studiati da C. Ciccozzi. F. Santini, nell’ambito del suo lavoro
per la tesi di laurea, ha analizzato il patrimonio faunistico del
deposito votivo del santuario italico di S. Angelo di Civitella di
Pescorocchiano.
2
C. Ranieri con il Gruppo Archeologico Vespertilio ha continuato l’esplorazione e la documentazione dei tanti cunicoli
idraulici del territorio (Casperia, Stimigliano, Collegiove, Cicolano). È proseguita la ricerca nella piana di Corvaro di Borgorose con le ricognizioni di superficie condotte, in convenzione
con la Soprintendenza e il Comune di Borgorose, da E. Farinetti
(Associazione Mykenai) realizzate con la partecipazione degli
studenti dell’Università Roma Tre. Fondamentale è stato il supporto del Comune di Borgorose, della Riserva Naturale Parziale delle Montagne della Duchessa e della Comunità Montana
Salto-Cicolano.
3
In regime di convenzione l’Università di Roma “Sapienza”,
con la cattedra del Prof. P. Pensabene, ha approfondito le ricerche sulla villa di Collesecco (Cottanello). Sempre in regime di
concessione di scavo si sono intraprese le seguenti attività: nel
Comune di Rieti lo scavo del sepolcreto di Campo Reatino, scavo
fortemente voluto dal Comune di Rieti e diretto dal Dott. A. Jaia
dell’Università di Roma “Sapienza”; nel Comune di Cittareale la
British School at Rome ha proseguito lo scavo del complesso di S.
Lorenzo, diretto dal Dott. S. Kay; a Torano di Borgorose l’Università di Rochester, ha proseguito le ricerche presso la chiesa di
S. Martino, dirette dalla Dott.ssa E. Colantoni.
4
I lavori realizzati dal Comune di Cittaducale hanno impegnato la Soprintendenza con la direzione scientifica degli scavi
che hanno avuto luogo tra giugno e luglio 2010 e tra febbraio e
marzo 2012. I lavori sul campo sono stati seguiti da Francesca
Marzilli e Alessandro De Luigi.
5
La notizia del primo rinvenimento, mentre lo scavo era ancora
in corso, è stata anticipata in Belardelli–Liberati–Pascucci 2011,
180-181.
6
Per un resoconto dei risultati dello scavo effettuato nel 2007:
Alvino 2009a, 68-74.
97
Giovanna Alvino
Fig. 1. Cittaducale (Rieti): le c.d. “Terme di Vespasiano” e, sulla sinistra, il nuovo tratto della
via Salaria rinvenuto.
Fig. 2. Cittaducale (Rieti): veduta aerea
del nuovo tratto della via Salaria.
matiche al momento irrisolte. Tutta l’area indagata
è interessata da molti altri resti di epoche diverse
relativi a sepolture senza corredo, strutture murarie
non meglio interpretabili, tracce di un percorso viario probabilmente post-classico ed altre testimonianze antiche attualmente di difficile interpretazione a
causa dell’esiguità dell’intervento effettuato. I materiali rinvenuti rimandano a un contesto cronologico
collocabile tra la media e tarda età repubblicana e la
prima età imperiale.
lizzazione del canale della vicina centrale idroelettrica. In direzione di Rieti, verso ovest, il tracciato è stato intercettato nei diversi sondaggi effettuati, dando
certezza che l’antica via si è conservata per un tratto
ancora più lungo. Già nel 2010 era stata parzialmente individuata una struttura in grandi blocchi calcarei con andamento nord-sud, perpendicolare alla
strada, allora interpretata come un condotto fognario, ipotesi che sembra essere confermata dall’ultima
campagna di scavi (fig. 3). Numerosi quesiti restano
aperti relativamente alla relazione tra la strada e la
fognatura e alla datazione del condotto stesso; infatti
i materiali rinvenuti negli strati di abbandono della
struttura non permettono di avanzare una datazione
puntuale. Sicuramente l’auspicabile proseguimento
delle indagini potrà far luce sulle diverse proble-
2. Castel Sant’Angelo – Terme di Tito
Fig. 3. Cittaducale (Rieti): via Salaria e in primo piano il condotto
fognario.
Oltre Rieti, proseguendo lungo la via Salaria in direzione est, ci si dirige verso Cotilia, dove, come narra
Svetonio7, Vespasiano aveva una villa, la stessa in cui
morirono lui e suo figlio Tito8. I resti imponenti che
si affacciano sul lago di Paterno, in località Pozzo
Secco, sono stati da sempre ritenuti delle terme e
tradizionalmente sono identificati con le “Terme di
Tito”. Le indagini archeologiche condotte in precedenza, finalizzate principalmente al restauro del
possente muro di terrazzamento, hanno permesso di
ipotizzare che possa invece trattarsi di un complesso
abitativo9. L’imponente struttura, che si conserva per
un’altezza di m 11,40 ca. e una lunghezza di m 60,
è costituita da 13 nicchie alternate a 14 speroni ed
ha un forte impatto scenografico che doveva essere
molto suggestivo se, come sembra, dalla serie di condotti realizzati nei contrafforti, possiamo ipotizzare
una cascata d’acqua che precipitava su almeno due
impalcature lignee incassate in appositi alloggiamen-
7
9
Suet., Vesp., XXIV.
Suet., Tit., XI.
Persichetti 1893, 168; Alvino – Leggio 2006; da ultimo Alvino
2003, 125, con bibl. preced.
8
98
Sabina e Cicolano: archeologia, storia e territorio
ti ricavati nel muraglione. Alle spalle del muro sono
stati indagati alcuni ambienti costruiti in opera reticolata di fattura irregolare. L’impegno costruttivo legato all’abbondante utilizzo dell’acqua nel complesso sembrerebbe anche confermato dal rivestimento
in cocciopesto di alcune delle murature visibili. Il
rinvenimento di diversi mattoni per opus spicatum e
di alcuni lacerti di pavimento ancora in opus spicatum, purtroppo non in situ, farebbe ipotizzare, almeno per questa parte del complesso monumentale,
un uso non di rappresentanza. L’esiguità dell’intervento di scavo, che ha consentito l’individuazione
di ulteriori tre ambienti, non agevola al momento la
ricostruzione della planimetria del complesso, in cui
tuttavia possiamo riconoscere diverse fasi di vita.
I lavori eseguiti nell’ambito di un APQ tra Regione Lazio e MiBAC prevede un articolato progetto di
valorizzazione10: il recupero del vicino casale agricolo da destinare alla documentazione e alla didattica
del patrimonio archeologico della zona, a laboratorio per studio dei materiali di scavo provenienti dal
complesso e a foresteria per i gruppi di lavoro che
si occuperanno dell’antico monumento. Il progetto prevede anche la creazione di un collegamento
sentieristico tra il sito archeologico e le non lontane
“Terme di Vespasiano”.
Gli scavi 201011 hanno interessato un’area delimitata a nord da una struttura muraria in opera incerta
e a sud dal muro di terrazzamento individuato dagli
scavi precedenti. È stato riportato alla luce il perimetro di tre ambienti di dimensioni differenti, aperti
tutti verso sud, e costruiti in opera reticolata con scapoli realizzati in calcare travertinoso (fig. 4).
L’ambiente I, il cui muro orientale conserva consistenti lacerti di intonaco bianco, mantiene ancora
intatto uno strato di abbandono ricco di materiali fittili, anforacei, di classi fini, ceramica di uso comune e
Fig. 5. Castel Sant’Angelo (Rieti): planimetria del complesso con
indicati i nuovi ambienti riportati in luce.
laterizi. In particolare si segnala la presenza, poiché
datanti, di frammenti di anfore Dressel 1, Dressel
2/4, Dressel 7/11, di frammenti di sigillata italica anche con bollo in planta pedis. L’ambiente II conserva
parzialmente il pavimento musivo originario, costituito da un tessellato bianco con cornice a semplice fascia nera. Purtroppo il pavimento è in pessimo stato
di conservazione e nella parte centrale della stanza si
conserva solamente il battuto di preparazione. L’ambiente III, situato nella parte più orientale dell’area
di scavo, è stato solo riportato alla luce nell’intero
perimetro (fig. 5).
In base alla tecnica edilizia in opus reticulatum e
ad una preliminare analisi dei materiali, inquadrabili
nell’ambito del I sec. d.C., si propone una datazione
tra il I sec. a.C. e I d.C.
3. Amatrice
La necropoli di Saletta si trova nel Comune di Amatrice ai piedi di una collina, su cui sorge il moderno
abitato che dà il nome al sito, la cui altura si affaccia
direttamente sull’alto corso del Tronto che qui sca-
Fig. 4. Castel Sant’Angelo (Rieti): strutture delle c.d. “Terme di
Tito” riportate in luce.
10
Il progetto è stato elaborato dagli architetti Mao Benedetti e
Sveva De Martino.
I lavori, realizzati dal Comune di Castel Sant’Angelo, hanno
impegnato la Soprintendenza con la direzione scientifica degli
scavi. I lavori sul campo sono stati seguiti da Marianna Rinaldi.
11
99
Giovanna Alvino
va una profonda e suggestiva valle. La necropoli si
trova sul pendio dell’altura che sovrasta il fosso Lagozzo, la cui presenza e le cui esondazioni ne hanno
condizionato sia lo sviluppo che le sorti. L’intervento
del luglio-agosto 2010 ha avuto come obiettivo prioritario l’approfondimento della conoscenza delle dinamiche di sviluppo e utilizzo dell’area funeraria. I
primi interventi effettuati furono necessari principalmente per il recupero dei materiali antichi scampati
alla furia dei clandestini e per tutelare il sito. Nella
prima campagna di scavo si identificarono 8 tombe
del tipo a ciottoloni, collocabili tra VI e V sec. a.C., e
una stratigrafia abbastanza complessa sia per le azioni di erosione e deposito del torrente Lagozzo, che
per l’uso protratto nel tempo della necropoli in uno
spazio piuttosto ridotto. Nel 2003, nel corso dell’approfondimento dello scavo intorno alle tombe già
manomesse, furono portati in luce due distinti circoli di pietre (A e B) conservati solo per circa metà della loro circonferenza, a causa dell’azione di erosione
del vicino fosso, il quale, nel tempo, ha asportato sia
parte delle pietre perimetrali sia la copertura di terra
e pietre. Si era inoltre messa in luce una piccola porzione delle pietre che delimitano il circolo C12.
La ripresa degli scavi dopo 7 anni di sospensione ha visto una indispensabile ripulitura dell’area13,
che ha evidenziato ulteriori danneggiamenti, in particolare l’asportazione di parte del tracciato viario a
monte delle sepolture. Il circolo C, interamente riportato alla luce, presenta un diametro di m 5 e al
suo interno è stata individuata una sepoltura, denominata tomba 9 (fig. 6). La sepoltura, inquadrabile
Fig. 7. Amatrice (Rieti): necropoli di Saletta, corredo della tomba
9: a) olla, b) coppa su piede, c) pugnale e fodero.
cronologicamente tra l’inizio e la prima metà del VI
sec. a.C., era realizzata con una serie di lastre e pietre
in arenaria e calcare, poste di taglio a foderare la fossa, e presentava una copertura composta da blocchi
disposti intorno ad un blocco centrale che ne costituiva, per così dire, la “chiave”14. Della deposizione,
relativa ad un individuo maschile di circa 60/65 anni
età, posta lungo il lato nord della fossa ed orientata
est-ovest, si conservava il cranio, parte delle ossa del
braccio sinistro, del bacino e delle gambe. All’interno del circolo e all’altezza del bacino lungo la gamba destra si è rinvenuto un pugnale in ferro con il
fodero (fig. 7, c). In prossimità degli arti inferiori,
sotto una grossa pietra, si è rinvenuta un’olla ovoide
di impasto rosso molto frammentata con orlo svasato
e ingrossato (fig. 7, a), che conteneva all’interno una
coppa carenata di impasto, in numerosi frammenti,
con vasca profonda a profilo emisferico e piede a
tromba15 (fig. 7, b).
La tomba 9 è da collocarsi cronologicamente nella fase più antica del sito se, come sembra, le tombe
entro circolo sono riferibili ad un periodo di occupazione precedente a quello delle tombe esterne o
impostatesi sopra gli strati alluvionali che coprono
i circoli stessi. Questa situazione stratigrafica è ben
evidente nel caso del circolo B in cui le tombe 5, 6
e, in particolare, la tomba 4 vengono costruite sopra
gli strati che obliterano le pietre e la copertura del
circolo. Il circolo C ha una grande importanza per
precisare gli usi e i costumi funerari del sito, perché
infatti, quando esso venne realizzato, il circolo A era
Fig. 6. Amatrice (Rieti): necropoli di Saletta, circolo C e tomba 9.
12
15
L’esemplare (alt. cm 12,8, diam. 17,8, diam. piede 10,4) richiama
per la particolare morfologia del labbro, anche se non in maniera
puntuale, esperienze della valle del Fiora della fine del VII-inizi VI
sec. a.C.; si veda Bartoloni 1972, 52, nn. 17-18; 62, fig. 26, 3. La
coppa, caratterizzata da una vasca emisferica profonda con carena
appena accennata, pareti a profilo leggermente convesso ed orlo
ingrossato, si inserisce nella produzione locale di impasto inquadrabile nella prima metà del VI sec. a.C. Alcuni paralleli si possono
istituire con i calici da Campovalano e con il tipo IIIA19A da Colfiorito di Foligno: Chiaramonte Treré – D’Ercole 2003, 98, tb. 179,
n. 8, tav. 114.2; Bonomi Ponzi 1997, 399, tb. 218, fig. 185.218.5.
Per una descrizione puntuale dei rinvenimenti nelle diverse
campagne di scavo e dei singoli monumenti funerari: Alvino
2004, 115-120; Alvino 2006, 71-73; Virili, 2007, 104-114.
13
Lo scavo, effettuato nel periodo luglio-agosto 2010, è stato
seguito da Francesca Marzilli. Un secondo settore ad est delle
tombe è stato investigato, ma è risultato sterile. I reperti ossei
relativi alle necropoli presentate in questa sede sono stati studiati
da Mauro Rubini.
14
La fossa, lunga m 3,50 ca. e larga 1,20, era posta al centro
del circolo ed era realizzata con una tecnica costruttiva molto
elaborata.
100
Sabina e Cicolano: archeologia, storia e territorio
danneggiando e in parte asportando il volume originario dei sepolcri che sono del tipo a tumulo con
diametro di misura variabile e privi della delimitazione in blocchi di pietra. La breve campagna del
201117 ha confermato il quadro culturale e cronologico già in precedenza delineato ed ha permesso
di individuare e scavare altri tre tumuli18 (fig. 8). La
sequenza stratigrafica in questo sito è semplice e di
facile interpretazione e lo scavo ha mostrato la stessa
situazione già precedentemente documentata. Tutti
i sepolcri fino ad ora scavati presentano un diametro compreso tra i 5 e i 12 metri e sono costruiti
sopra uno strato di terriccio fertile, verosimilmente
interpretabile come l’antico piano di campagna, di
spessore variabile, e immediatamente a contatto con
il banco naturale. Al di sopra di esso è direttamente
lo strato vegetativo moderno che copre anche i sepolcri. I tumuli sono realizzati con terra, dalla consistenza molto friabile mista a poche pietre, ricoperta
da uno strato di pietre calcaree – che ne protegge il
volume – legate con poca terra compatta, secondo
uno schema molto semplice e ampiamente attestato.
Il sepolcreto appare utilizzato tra l’età orientalizzante e l’età arcaica senza la presenza, ad oggi, di sepolture di epoca posteriore.
Il tumulo XIII, contenente tre sepolture, presenta una circonferenza di m 6,80, compromessa nella
porzione nord-orientale. La tomba 1 è pertinente
ad un maschio di 25/35 anni. Lungo il lato destro
dell’inumato si sono rinvenuti molti frammenti di
ferro forse relativi ad un fodero di pugnale, lungo il
lato sinistro altri frammenti di ferro potrebbero far
già parzialmente scomparso, ma era iniziato l’uso di
seppellire in tombe a ciottoloni, come dimostra la
tomba 3. Quest’ultima e il circolo C con la sua tomba
9 sono legati stratigraficamente dal sedimento in cui
entrambe sono realizzate, mostrando quindi un momento di coesistenza dei due diversi rituali funerari.
Si può affermare che, grazie a questo intervento, per
la prima volta presso il sito della necropoli di Saletta
è stata indagata una sepoltura relativa con certezza
assoluta ad uno dei circoli in pietra. Ciò è avvenuto all’interno di un contesto stratigrafico pressoché
indisturbato, laddove il rapporto tra il circolo e la
tomba ad esso relativa è di tutta evidenza e la copertura in ciottoli e lastre in pietra della stessa risultava
integra.
4. Cicolano
Nel comune di Borgorose, nella frazione di Torano in località Pietra Ritta, si trova un’area a destinazione funeraria piuttosto estesa, individuata precedentemente dai clandestini e in parte dagli stessi
depredata, già oggetto di una campagna di scavo
della Soprintendenza nel 2005, finalizzata al recupero delle sepolture allora danneggiate16. La necropoli
si trova in una vasta zona pianeggiante caratterizzata
da una serie di lievi rialzi del terreno e utilizzata in
parte come cava per l’estrazione di materiali inerti e
in parte a scopo agricolo fin dai tempi più antichi.
I lavori agricoli moderni hanno raggiunto e intaccato, dove più dove meno, il substrato geologico,
Fig. 8. Borgorose (Rieti): Torano, necropoli di Pietra Ritta: posizionamento dei sepolcri.
16
Alvino 2007, 70-73.
Lo scavo è stato eseguito sotto la direzione scientifica della
Soprintendenza tra settembre e ottobre del 2011 ed è stato condotto sul campo da Francesca Lezzi.
18
Sul terreno, soprattutto nella particella 114 del Foglio catastale 113, si vedono in realtà diversi sepolcri, alcuni con la calotta
di copertura di terra e pietre ancora in situ ed altri oramai quasi
spianati. Nella particella 163 era stata individuata un’altura (denominata tumulo XIV) del tutto simile alle altre visibili, che a
seguito dello scavo effettuato si è rivelata solo un accumulo di
terreno risparmiato dalle lavorazioni agricole per la presenza di
un cespuglio di mandorlo, i cui resti del tronco in stato di decomposizione sono stati rinvenuti nello scavo.
17
101
Giovanna Alvino
ipotizzare la presenza di un ulteriore pugnale e nelle
vicinanze si è recuperato un anello digitale in bronzo
con decorazione a piccole incisioni19. La tomba 2 è
pertinente ad un individuo adulto di 50/55 anni, i
cui resti sono piuttosto scarsi e mal conservati. Al
suo interno sono stati recuperati sul lato destro all’altezza della spalla una punta di lancia foliata in ferro
e, in prossimità dei piedi, il relativo sauroter; lungo il
lato sinistro resti del pugnale in ferro col suo fodero
e all’altezza della spalla una fibula in ferro ad arco
semplice; a sinistra in prossimità dei piedi un calice
carenato di impasto su piede, frammentario, inquadrabile nella seconda metà del VI sec. a.C.20 (fig. 9).
La tomba 3, fortemente danneggiata, conteneva i resti di un individuo di sesso maschile di 40/45 anni e
frammenti in ferro pertinenti verosimilmente ad una
fibula, di cui non si può indicare la posizione rispetto
ai resti scheletrici.
Il tumulo VIII presentava la calotta di pietre ben
conservata in tutta la circonferenza di m 6,80, tranne in un punto dove vecchi scavi clandestini hanno
Fig. 10. Borgorose (Rieti): Torano, necropoli di Pietra Ritta: tumulo VII ripulito dallo strato vegetativo.
apportato diversi danneggiamenti (fig. 10). Al suo
interno è stata individuata una sola deposizione, riferibile ad un maschio adulto di 45/50 anni. La fossa,
semplice, di forma approssimativamente ovale con
orientamento est-ovest, contiene resti scheletrici
molto scarsi, dei quali si intuisce comunque la corretta sequenza anatomica. Nella parte intaccata dai
clandestini si ritrovano 2 ganci a Ω in bronzo di cui
non si può stabilire l’originaria collocazione, mentre
lungo il lato sinistro dell’inumato si sono recuperati
una punta di giavellotto in ferro, altri 3 ganci a Ω in
bronzo, 2 anellini in bronzo e diversi frammenti di
bronzo e ferro non identificabili.
Il tumulo IX si colloca poco più a nord-ovest del
precedente. Dopo la ripulitura la calotta di pietre
appariva ben conservata in tutta la circonferenza di
m 5,10 ca. di diametro, solo leggermente compromessa nel settore nord-ovest. All’interno, la sepoltura, non violata dai clandestini, relativa ad un individuo di 30/35 anni, è posta al margine nord-ovest del
tumulo e in parte è stata asportata dalle lavorazioni
agricole. La tomba, a fossa semplice di forma approssimativamente ovale, con orientamento sud-est/
nord-ovest, presentava resti scheletrici molto scarsi.
Nella porzione della tomba conservata si sono potuti recuperare alcuni elementi del corredo in bronzo:
una piccola spirale in lamina e un gancio ad Ω, posti rispettivamente nell’area del cranio e del bacino,
un ornamento composto da un anello a fusione, un
anellino, due piccole spirali in bronzo, un elemento
allungato in ferro non identificabile e alcuni frammenti in ferro non identificabili.
Fig. 9. Borgorose (Rieti): Torano, necropoli di Pietra Ritta: tumulo
XIII, corredo della tomba 2.
19
Oltre ad alcuni ganci ad Ω erano presenti diversi frustuli in
ferro e bronzo non identificabili.
20
Il calice (alt. cm 10, diam. 16, diam. piede 8,5) con carena
liscia presenta la vasca troncoconica con pareti verticali a profilo
leggermente convesso e orlo arrotondato leggermente rientrante. L’esemplare richiama il tipo Rasmussen 3a, diffuso in Italia
centrale e in gran parte del bacino del Mediterraneo dalla fine
del VII sec. a.C. e per tutta la prima metà del VI a.C. Il tipo è
diffuso nei corredi funerari della necropoli di Fossa, in bucchero
etrusco importato e in impasto buccheroide: D’Ercole–Benelli
2004, 127-130, tb. 314, tav. 97.10; 180-181, tb. 434, tav. 139.5.
Prodotti simili sono anche diffusi a Campovalano e a Colfiorito
di Foligno: Chiaramonte Treré–D’Ercole 2003, 63, tb. 96, tav.
71.5; Bonomi Ponzi 1997, 103, tipo IIIA21, variante C.
102
Sabina e Cicolano: archeologia, storia e territorio
Fig. 11. Pescorocchiano (Rieti): Sant’Angelo di Civitella: veduta del muro in opera poligonale della terrazza del santuario italico.
rente soprattutto nella parte più profonda della stratigrafia. Infatti, non intercettandosi qui il banco di
roccia, non si rinviene più nemmeno lo strato di terra
nera ricco di reperti (US 7), quello cioè del deposito votivo, presente a diretto contatto con il piano di
campagna preesistente la realizzazione della terrazza.
Il tasto, effettuato in un punto in cui il muro in poligonale è ben conservato e privo di superfetazioni di
altre epoche, permette di leggere molto bene come
lo strato di pietrame si leghi al muro in poligonale,
costituendo di fatto un’unica struttura, con un livello
di calpestio realizzato in terra che costituisce il livello
antico della terrazza. Oltre alla sostanziale conferma
della successione stratigrafica si è potuta documentare la reale estensione del deposito votivo in direzione
est, il quale occupa probabilmente la sola porzione
più occidentale del terrazzamento, entro i primi 30
metri dall’angolo sud-orientale dello stesso.
Si è poi proceduto al recupero di un’altra porzione del deposito votivo, con un ampliamento dell’area
di scavo esistente. Sostanzialmente, rispetto a quanto già si conosceva del deposito, è da sottolineare il
ritrovamento di materiale inscritto: in particolare si
segnala il recupero di un fondo di ceramica a vernice
nera con una A incisa (fig. 12) e di un frammento
di parete di una ciotola a vernice nera che conserva
parte della stessa lettera sull’esterno del vaso. Questi rinvenimenti sono particolarmente interessanti
soprattutto per quanto concerne l’attribuzione della
divinità venerata nel santuario (Angitia?)24. Riguardo
i votivi anatomici, una novità appare il recupero di
votivi di dimensioni inferiori al vero e di quelli di
fattura meno accurata. Sono stati infatti recuperati
5. Pescorocchiano
Nel Comune di Pescorocchiano, in località S. Angelo
di Civitella, è noto fin dal secolo scorso un santuario
italico costruito su una monumentale terrazza artificiale in opera poligonale. Già scavato negli anni ’90
del Novecento21, è costituito da una ampia terrazza
sostruita da un recinto in opera poligonale (III e IV
maniera) di 90 metri di lunghezza e conservato per
un’altezza di m 5 ca. nel lato meridionale (fig. 11). Il
deposito votivo, scavato a più riprese a partire dal
1992, si può datare tra la fine del IV sec. a.C. e la
metà del II a.C. I materiali recuperati sono inquadrabili nelle tipologie ricorrenti nei depositi votivi
etrusco-laziali, campani e in quelli delle zone più
interne dell’Appennino occupate da Equi, Marsi e
Frentani. Abbondanti sono i reperti in ceramica a
vernice nera, la coroplastica di piccole dimensioni, i
votivi anatomici, sia legati alla sfera della sanatio che
della fecondità22, le teste isolate, le statue a grandezza
quasi naturale, i bronzetti votivi. Il breve intervento
di scavo è stato eseguito nel luglio 2011 ed ha interessato l’area occidentale della terrazza sostruita23.
Obiettivo principale dell’indagine, molto limitata
a causa dell’entità dei fondi a disposizione, è stato
quello non solo di recuperare i materiali archeologici – l’area è sempre soggetta all’azione di disturbo
da parte di ignoti – ma anche di conoscere la reale
estensione del deposito votivo.
Le indagini, pur evidenziando la sostanziale omogeneità con la successione stratigrafica in precedenza
documentata, in un tasto effettuato in direzione est,
hanno evidenziato una situazione leggermente diffe-
21
Diversi interventi di scavo volti al recupero del materiale del
deposito votivo sono stati effettuati dalla Soprintendenza nel
1992, 1998 e 1999. Per un approfondimento: Alvino 1995; da
ultimo Alvino 2009a, 101-102.
22
Sono stati rinvenuti, in gran numero e più o meno integri,
mani, piedi, piedi calzati, dita, occhi, mammelle, uteri, organi
genitali maschili, tavole poliviscerali, maschere rettangolari di
tipo diffuso ad es. nella Marsica e nella valle del Liri.
23
I lavori, realizzati con fondi MiBAC, sono stati seguiti sul
campo da Francesca Lezzi che ha anche coordinato una équipe
di giovani laureate (L. Giovannercole, F. Gnoli, S. Pandozzi),
che hanno partecipato al cantiere provvedendo al lavaggio e a
una prima sistemazione dei reperti, fornendo un prezioso aiuto
per una prima elaborazione dei nuovi dati emersi.
24
Questa ipotesi, valida a quanto pare dai dati di scavo almeno
per la fase più antica del santuario, sembrerebbe trovare conferma nei dati archeozoologici che sono emersi dallo studio del
patrimonio dei resti faunistici. A tal proposito si veda in questi
stessi Atti l’intervento di Francesca Santini.
103
Giovanna Alvino
si differenzia perché mostra le dita solo approssimativamente indicate. Inoltre è stato rinvenuto un altro
gocciolatoio raffigurante un leone, del tipo attestato
anche nel santuario di Ercole a Campochiaro25, pertinente alla decorazione del tempio (fig. 13).
Anche se la campagna di scavo è stata molto limitata, si è raggiunto l’obiettivo prefissato: quello di
stabilire l’estensione del deposito votivo per valutare
e quantificare la stratigrafia archeologica che rimane
da rimuovere per completarne il recupero e quindi
analizzare l’intero complesso dei reperti. La principale novità è il rinvenimento di frammenti inscritti,
fattore che getta nuova luce sull’identità della divinità venerata. Sebbene manchino segnali certi circa la
sua identità, sembra possibile individuare in Angitia
una forte indiziata. A questa divinità, infatti, molto
popolare tra gli Equi e fortemente sentita in questo
territorio, venivano sicuramente riconosciuti poteri
nella sfera della sanatio. Molto forti, inoltre, sono i
suoi legami con Ercole, divinità anch’essa presente
nel santuario come testimoniano il bronzetto che
lo raffigura, rinvenuto nelle precedenti campagne
di scavo, e le molte statuette di animali riportate in
luce. La presenza di Ercole insieme ad altre divinità
nell’ambito di uno stesso santuario, del resto, non
costituisce un’anomalia, quanto piuttosto un fattore
oltremodo diffuso.
un piede e una mano, che possono distinguersi per
le dimensioni dalla grande maggioranza di piedi e
mani sino ad oggi recuperati, e un piede votivo che
Fig. 12. Pescorocchiano (Rieti): Sant’Angelo di Civitella: fondo di coppa in ceramica a
vernice nera con lettera A incisa.
Fig. 13. Pescorocchiano (Rieti): Sant’Angelo di Civitella: gocciolatoio a testa di leone.
Giovanna Alvino
Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio
[email protected]
orientale”, in Lazio e Sabina, 2, 115-124.
Alvino G. 2006: “Sabina e Cicolano….e “la storia” continua”,
in Lazio e Sabina, 3, 71-78.
Alvino G. 2007: “Sabina e Cicolano: ultime notizie”, in Lazio e
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Alvino G. 2009a: “Sabina e Cicolano: cronache dal territorio”,
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Bonomi Ponzi L. 1997: La necropoli di Colfiorito di Foligno, Perugia.
Capini S. 1991: “Il santuario di Ercole a Campochiaro”, Samnium, (Catalogo della Mostra di Milano, 1991) Roma, 115-120.
Chiaramonte Treré C.–D’Ercole V. 2003: La necropoli di Campovalano. Tombe orientalizzanti e arcaiche, I, Oxford.
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Abstract
This paper shows the various reseach projects carried out in the
Province of Rieti both in the Sabina and Cicolano territories. Historic-archaoelogical and archaeozoological studies, surveys and underground inspections were carried out both by single researchers
and work groups. Archeaological excavations were carried out in
the Aurelii Cottae villa in Cottanello (Rome University “Sapienza”), in the Campo Reatino necropolis in Rieti (Rome University
“Sapienza”) and in the San Lorenzo settlement in Cittareale (British School at Rome and Perugia University). The Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio further excavated the Saletta
(Amatrice) and Pietra Ritta (Borgorose, loc. Torano) necropolis
and the S. Angelo di Civitella (Pescorocchiano) sanctuary. The
site of the so-called “Vespasian Baths” (Cittaducale) was also excavated by the Soprintendenza as part of the Framework Programme
Agreements undersigned by the Latium Region and the Ministero
per i Beni e le Attività Culturali. Here a portion of the ancient
Salaria road and some structures were found. Archaeological excavation were also carried out by the Soprintendenza in the so-called
“Tito Baths” (Castel Sant’Angelo) where important structures belonging to the imposing building situated above the Paterno lake
were found.
Bibliografia
Alvino G. 1995: “Santuari, culti e paesaggio in un’area italica: il
Cicolano”, in Archeologia Laziale, 12, 2, 475-483.
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Alvino G. 2004: “Nuove attestazioni funerarie nel Lazio nord25
Capini 1991, 161, d 35, tav. 7d.
104
Cicolano Survey 2011. Il paesaggio d’altura attorno alla piana di Corvaro (Rieti)
Emeri Farinetti
lizzazione di questa quarta campagna, che ha visto
coinvolti studenti dell’università di Roma Tre, guidati da chi scrive nelle attività di ricerca sul campo e
di laboratorio.
Il progetto di ricerca ha come scopo la ricostruzione dell’occupazione diacronica dell’area, con particolare interesse ai processi di interazione uomo-ambiente nel lungo termine, alle eco-dinamiche umane
e alla mobilità nell’area, legata anche al passaggio di
importanti vie di transumanza.
La piana di Corvaro è una conca intermontana ai
piedi del monte Velino, costituita da calcari, coperti
in parte da antico deposito alluvionale fluviale, e delimitata da conoidi e morene glaciali.
Nelle campagne precedenti la ricerca si è basata
principalmente su ricognizioni intensivo-sistema-
Nel giugno-luglio 2011 si è svolta la quarta campagna
di ricognizioni archeologiche nell’area del Cicolano
(Lazio - Provincia di Rieti). I lavori di ricerca, promossi dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici
del Lazio, da molti anni impegnata in ricerche nella zona, si sono svolti grazie alla realizzazione di un
campo scuola archeologico per studenti universitari,
organizzato dalla Soprintendenza, nella persona della Dott.ssa Giovanna Alvino, Archeologo Direttore
Coordinatore responsabile per il territorio di Rieti
e provincia, e dalla Associazione Culturale “Mykenai”, con il supporto del Comune di Borgorose,
della Riserva Naturale parziale “Montagne della Duchessa” e della Comunità Montana Salto-Cicolano.
La positiva esperienza dei lavori condotti nell’estate
2005 e nel settembre 2008 e 2009 ha portato alla rea-
Fig. 1. Aree indagate attraverso ricognizioni intensivo-sistematiche nella piana di Corvaro.
105
Emeri Farinetti
stretta gola percorsa dal torrente Apa, compresa fra
il monte Cava, il monte Fratta e le falde del colle Prata e percorsa da un asse di transumanza diretto verso
Campo Felice.
Come conosciuto, gli Equi vi impiantarono un
oppidum con un recinto in opera poligonale e terrazzamenti, descritto già da Grossi nel 1984, da collegare al grande tumulo di Corsaro2. In età medievale
il Monte fu occupato dalle strutture di un castello,
in stretta relazione, come vedremo, con le strutture
di età precedente. Il Maceroni nel 1981 sul monte
Frontino posiziona il castello di Malito3.
Nell’estate 2011 la ricognizione sistematica sul
monte è stata effettuata per aree di dettaglio. Sono
state registrate le presenze ceramiche e quelle strutturali, con l’ausilio di strumentazione GPS portatile.
Nell’immagine (fig. 4), su base cartografica CTR, con
le lettere sono contrassegnate le unità di ricognizione
e raccolta materiale; in tratto fine grigio i sentieri e in
tratto grosso le diverse strutture presenti. Nell’immagine si vede anche la mappatura della densità del materiale ceramico in superficie (in scala di grigi, dal più
chiaro al più scuro), la cui dispersione è sicuramente
tiche nella piana: attorno al grande tumulo di Corvaro e al di là dell’autostrada A24 nel 2005, nella
zona di San Francesco Vecchio nel 2008, nell’area di
Sant’Erasmo e lungo la Nuova Strada Salto-Cicolana
nel 2009 (fig. 1). Esse hanno prodotto carte di visibilità e densità di materiale ceramico in superficie
ed hanno gettato luce in particolare sull’occupazione
rurale e sulla posizione degli agglomerati rurali nucleati (fig. 2)1.
La campagna del 2011 è stata invece dedicata allo
studio delle aree d’altura circostanti la piana di Corvaro, attraverso ricognizioni estensive e di dettaglio
sui siti rintracciati. In particolare, come vedremo, sul
sito di monte Frontino, già conosciuto come oppidum di età arcaica. È stato così possibile aggiornare
la carta archeologica anche delle aree d’altura, in aggiunta alle emergenze mappate nella piana (fig. 3).
Il monte Frontino, formato da depositi calcarei
di piattaforma carbonatica del Cretaceo Inferiore,
è, nella diacronia, uno degli avamposti difensivi del
paesaggio di quest’area. Esso, che sovrasta a nordovest il paese di S. Stefano di Corvaro, domina e
controlla visivamente sia la piana di Corvaro, sia la
Fig. 2. Siti individuati dalle ricognizioni intensivo-sistematiche nella piana di Corvaro.
1
3
Farinetti 2007; Farinetti 2010.
Grossi 1984.
Maceroni 1981
2
106
Cicolano Survey 2011. Il paesaggio d’altura attorno alla piana di Corvaro (Rieti)
Fig. 3. Carta archeologica aggiornata semplificata del territorio di Borgorose.
interessata da fenomeni naturali di scivolamento del
suolo e da interventi antropici per la costruzione di
terrazzamenti, come vedremo in seguito.
Esaminando il monte versante per versante notiamo che:
- a ovest/nord-ovest, sotto il monte, si trova la
stretta gola attraversata dal torrente Apa. I versanti
ovest e nord-ovest risultano rocciosi, scoscesi e naturalmente fortificati. Al di sotto del sentiero che raggiunge la sommità del monte dalla strada carrozzabile che lo costeggia a est il pendio ripido non avrebbe
potuto supportare la presenza di abitazioni;
- il versante est morfologicamente è meno scosceso ed è caratterizzato dalla presenza di numerosi
terrazzamenti che, a un esame attento, aiutano a ripercorrere la storia stessa del monte Frontino, caratterizzata da una complessità che insieme si nasconde
e si svela nei suoi dettagli. In tempi recenti, infatti,
il sito è stato interessato da un’ingente operazione
di riforestazione, che ha notevolmente disturbato
il record archeologico di superficie. Infatti, per la
piantagione dei nuovi pini sono stati costruiti dei
Fig. 4. Altura di monte Frontino. Con le lettere sono contrassegnate le unità di ricognizione e raccolta materiale; in tratto fine
grigio i sentieri e in tratto grosso le diverse strutture presenti,
relative a una fortificazione di età arcaica e a un castello di età
medievale.
107
Emeri Farinetti
Fig. 5. Monte Frontino: resti
del circuito in opera poligonale.
terrazzamenti che hanno visto l’impiego di materiale
più o meno antico presente sul posto, legato a precedenti terrazzamenti e strutture, e lo spostamento/
raccolta di terreno per i nuovi alberi, che ha alterato
la morfologia del pendio (già resa artificiale, come si
vedrà, in più fasi della storia) e la distribuzione del
materiale ceramico. Nonostante ciò, il versante est
ci restituisce diverse informazioni archeologiche per
ricostruire la storia del monte. Esso è infatti caratterizzato dalla presenza visibile dei resti del circuito in opera poligonale costruito in grandi blocchi
di calcare, risalente all’età arcaica (forse VII-VI sec.
a.C.), che correva a una quota di m 1120 s.l.m. (in
bianco in fig. 5). Della cinta muraria si conservano
in alcuni punti fino a due filari di blocchi in elevato
(nella foto in fig. 5 le ultime pietre riconoscibili del
tratto conservato in direzione nord-sud, in bianco
pieno nell’immagine). Oltre il tratto conservato (di
m 30 ca.) il muro si può seguire grazie al dislivello
morfologico che crea la sua presenza, anche se sepolto, e grazie agli accumuli di pietre di piccola-media
pezzatura causate dal suo disfacimento a causa di un
intervento antropico successivo: la costruzione di un
castello sulla sommità del monte nel XII secolo, i cui
costruttori utilizzarono come cava proprio la cinta
poligonale antica, per ottenere pietre di piccola-media pezzatura, tipicamente usate nelle fortificazioni
del periodo. In questo modo riusciamo a seguire il
circuito fino a nord (per una lunghezza di m 300 ca.),
dove un sentiero probabilmente si appoggia sui resti
della fortificazione, mentre successivamente la linea
è interrotta dal pendio ripido e naturalmente fortificato, ma ancora un sentiero (in tratto grigio) prosegue la linea lungo il dirupo. Il circuito delimitava
un’area di circa 3,5 ettari sulla sommità del monte.
Sul pendio nord-est la linea del muro si interrompe
per riprendere asimmetricamente poco oltre: questo
potrebbe essere il segno di un’apertura nel circuito4. Sempre sul versante est, nei pendii più bassi e
più dolci (contrassegnati con le lettere D-E-N-M),
sono visibili alcuni terrazzi e aree piane adagiate sulla roccia, sopra le quali erano probabilmente collocate capanne e abitazioni stabili. Si nota una notevole presenza di pietrame da costruzione e qualche
frammento di ceramica di impasto. In teoria qui il
materiale potrebbe considerarsi in situ, in quanto
il circuito poligonale a monte dovrebbe aver trattenuto il suolo. La storia più recente del monte, però,
con il grosso lavoro operato dai costruttori medievali
sulle pietre del muro poligonale e le operazioni di
rimboschimento del secolo scorso, può far supporre
anche un ingente spostamento di suolo e materiali.
Nell’area abbiamo anche accumuli di pietre associate a materiale databile all’età romana (età repubblicana), altra presenza attestata sul monte;
- sul versante sud il muro in opera poligonale visto prima (nel tratto dove è meglio conservato) forma un’ampia area in leggera pendenza (lettera O),
in cui sono stati rintracciati materiale medievale in
abbondanza e materiale di impasto all’estremità sud.
Da qui proviene anche una macina. Immediatamente al di sotto, dopo un dislivello naturale, l’area (P)
si presenta morfologicamente come un dolce pendio
caratterizzato dalla presenza di piccoli terrazzetti.
L’area P vede la presenza della maggior quantità di
materiale ceramico, in particolare di impasto, probabilmente in situ. Sul versante sud, il record archeologico è ancora ulteriormente complicato dalla presenza di strutture di età moderna legate alla pastorizia e
al ricovero di pastori e animali.
In fig. 6, a sud del vertice dell’area L, è evidenziato in nero il percorso dei resti di un imponente muro
che corre trasversale al pendio verso sud. Il muro,
a doppio filare di blocchi come è visibile in alcuni
4
Come già notato in Grossi 1984.
108
Cicolano Survey 2011. Il paesaggio d’altura attorno alla piana di Corvaro (Rieti)
tratti, corre in direzione della sommità dell’altura
a sud, dove si registrano pochi resti probabilmente
medievali. Il muro in sé si differenzia dal circuito in
poligonale, presentando un’opera meno regolare,
ma utilizza blocchi di dimensioni troppo grandi per
essere stato costruito in epoca medievale.
Sicuramente di epoca medievale, e precisamente
databili a partire dall’XI-XII secolo, sono i resti, sulla sommità, di un castello medievale che riutilizza,
come abbiamo visto, il materiale da costruzione della
cinta più antica, diminuendo le dimensioni dei blocchi, per costruire una rocca con torre sulla sommità
del monte. Della rocca è rimasto ora un ammasso di
pietre che occupa l’intera cima del monte (fig. 7); doveva essere circondata da due fossati (visibili come
profondi solchi sul terreno) e aveva una torre sulla
sommità, di cui si vedono ancora le fondazioni. Mura
perimetrali, coperte dal rimboschimento a pineta,
sono, invece, sparse su gran parte del versante rivolto verso la valle dell’Apa, come si nota percorrendo
il sentiero diretto alla sommità del monte. Sono riconoscibili anche i resti di una torre più avanzata,
appartenente alla cinta fortificata, sul pianoro che
declina verso sud. Per l’esame preliminare del castello è stato prezioso l’aiuto dell’archeologo Carmine
Malandra e del Prof. Giuseppe Grossi, mentre il lavoro di tesi di laurea di Laura Giovannercole (presso
l’Università di Roma Tre) ha permesso l’inquadramento storico della rocca all’interno del paesaggio
d’età medievale nell’intero Cicolano.
La rocca sul monte Frontino, conosciuta come
Castrum Malitum, castello di Malito, esisteva probabilmente già dal XII secolo, in quanto citata nel Catalogo dei Baroni e dei relativi feudi nei paesi conquistati (Catalogus Baronum n. 1123, p. 221) e fu distrutta
dai Camponeschi durante la lotta che li contrappose
ai Pretatti. Nel 1425 apparteneva a Bonomo di Poppleto che lo trasmise a suo figlio Pietro; nel 1443
passò nelle mani di Ugolino dei Mareri, la famiglia
più importante del Cicolano medievale5. Il controllo
esercitato dal castello sull’angusta valle del torrente
Apa è ricordato dal nome stesso con cui esso è conosciuto: Malito, secondo un’interpretazione locale,
deriverebbe, infatti, dal latino male itus, malcapitato. Chi scendeva dalle Pratelle di Nesce, seguendo
l’Apa fino al ponte dell’Ospedale, nel Medioevo era
facile bersaglio della soprastante fortificazione. Lo
stesso toponimo Frontino (piccolo fronte?) è stato
ricondotto alla sua posizione, come un avamposto
dell’intero sistema difensivo del territorio. In realtà,
il nome compare già in un documento della cancelleria sveva ed angioina, che menziona un Castrum
Frontini6. Nella piccola rocca alla fine del XIV secolo dimoravano 25 famiglie, come attesta il Registro
Fig. 6. Monte Frontino: resti
di un imponente muro che
corre trasversale al versante
meridionale in direzione sud.
Fig. 7. Monte Frontino: resti
della rocca di età medievale (a
partire dall’XI-XII secolo).
5
6
Cortonesi 1995.
109
Sthamer 1920.
Emeri Farinetti
della Diocesi di Rieti che indica la cappella rurale S.
Maria di Malito come chiesa castrale. Dal castello,
abbandonato nella prima metà del XIV secolo, ebbe
origine il borgo di Santo Stefano di Corvaro, sulle
pendici a sud-est del monte Frontino, verso la piana,
la cui collocazione è apprezzabile in fig. 6.
Il monte Frontino dunque nasconde una storia
complessa, che si svela pian piano. Cerchiamo di
metterla in relazione con altre emergenze rinvenute
nella piana, soprattutto per quel che riguarda i periodi più antichi.
L’orizzonte dell’età del Ferro, di cui sono stati
raccolti alcuni materiali sul monte Frontino, compare anche nel grande tumulo di Corvaro e nei siti
(prevalentemente databili al Bronzo antico e medio)
individuati nella piana nella campagna di ricognizioni del 2009, lungo la Nuova Strada Salto-Cicolana
(figg. 2-3).
Il centro fortificato di età del Ferro-età arcaica, sul
monte Frontino, viveva forse insieme ad altri centri
fortificati di più ridotte dimensioni individuati sulle
alture circostanti la piana (monte Paco o Pago, sovrastante il moderno insediamento di Sant’Anatolia,
e Colle Civita, sopra l’abitato di Spedino) e viveva
forse anche insieme a un insediamento rurale sparso
nella piana, di cui alcuni foci sono stati individuati
con lo studio sistematico del materiale raccolto durante le ricognizioni nelle scorse campagne di ricerca.
In due aree limitate all’interno di insediamenti agglomerati rurali di età successiva si attesta una chiara
presenza di materiali di impasto arcaici, rappresentanti probabilmente un nucleo abitativo precedente.
La raccolta e lo studio sistematici del materiale di
superficie hanno lasciato intravedere queste finestre
sull’età del Ferro-età arcaica, conosciuta prima nel
suo segmento funerario monumentale, costituito dal
grande tumulo di Corvaro, dalle tombe circolari al
margine sud-est della piana e dal centro fortificato
sul monte Frontino, appunto. Tali nuclei abitativi
rintracciati nella piana sono stati collocati in un tempo cronologicamente anteriore alla costruzione del
grande tumulo centrale, in quanto materiali simili
sono stati ritrovati nella terra di costruzione del tumulo stesso. L’ipotesi di un insediamento di età precedente, i cui strati di abbandono erano stati utilizzati per la costruzione del tumulo era già stata avanzata
dalla Dott.ssa Giovanna Alvino ed è ora avvalorata
dall’esame dei materiali effettuato da Alessandro De
Luigi.
Per quanto riguarda l’età romana, resti di frequentazione sono stati rintracciati sul monte Frontino, per ora poco associabili a una specifica occupazione, ma sicuramente da collegarsi all’intenso
sfruttamento della piana in epoca repubblicana e
Fig. 8. Percorsi attraverso la piana di Corvaro verso i pascoli d’altura di Cartore.
imperiale, di cui la nostra ricognizione ha potuto
ricostruire una mappa precisa, che attesta un insediamento sparso, composto da due agglomerati rurali di grandi dimensioni (vici), un insediamento di
dimensioni medie, piccole fattorie, un’area cultuale
di una certa importanza, da considerare quale punto di aggregazione per la comunità rurale circostante, organizzata in insediamento rurale a carattere
sparso (figg. 2-3)7.
Già in epoca romana il monte Frontino potrebbe
essere messo in relazione con le attività di transumanza, fenomeno economico importante per l’area
fino ai tempi più recenti, in cui sul monte vengono
impiantate capanne e ricoveri per pastori e armenti, simili a quelli rintracciati dalle nostre ricognizioni sulle alture che delimitano a est la piana, lungo il
percorso verso i pascoli d’altura di Cartore (fig. 8).
Sul tema della pastorizia e transumanza, collegata
alla viabilità nell’area, è stata svolta una tesi di laurea presso l’Università di Roma Tre in cui vengono
esaminati dati archeologici e fonti scritte per la ricostruzione dei percorsi. Il lavoro, di Sara Pandozzi, prende in considerazione anche quanto detto
da Camerieri e Mattioli8, che ipotizzano un diretto
collegamento tra i muri in opera poligonale presenti
nell’area e il passaggio delle vie di transumanza. A
questo riguardo è in corso il rilievo diretto, in vista di
un’attenta analisi tipologica, delle strutture in opera
poligonale rintracciate nell’area (fig. 3)9. Un esempio
è riportato in fig. 9.
Per concludere, ringrazio la Dott.ssa Giovanna
Alvino quale preziosa guida scientifica, gli archeologi responsabili (Francesca Lezzi, Kostas Sbonias,
Angela Paolini), gli archeologi che hanno preso
7
9
Farinetti 2010.
Camerieri-Mattioli 2010.
Si veda anche Alvino 2012.
8
110
Cicolano Survey 2011. Il paesaggio d’altura attorno alla piana di Corvaro (Rieti)
Fig. 9. Muro in opera poligonale inglobato nella chiesa di
San Martino di Torano (rilievo
ed elaborazione grafica di Michela Rossi).
parte o contribuito allo studio dei materiali (Alessia
Festuccia, Francesca Santini, Alessandro De Luigi,
Carlo Virili) e i laureati e gli studenti dell’Università
di Roma Tre che hanno preso parte ai lavori e che
con il loro entusiasmo rendono possibili queste ricerche.
Abstract
gonali, Roma, 343-354.
Camerieri P. – Mattioli T. 2010: “Le mura poligonali del Cicolano alla luce di recenti ricerche su transumanza e agro centuriato in Alta Sabina”, in Pagano R. – Silvi C. (eds.), Quaderno
valledelsalto.it, 3, 18-37.
Cortonesi A. 1995: “Ai confini del regno. La signoria dei Mareri
sul Cicolano fra il XIV e il XV secolo”, in Cortonesi A., Ruralia:
economie e paesaggi del medioevo italiano, Roma, 209-313.
Farinetti E. 2007: “Cicolano Survey 2005. Alla ricerca del pa­
esaggio degli Equi nel Cicolano. Ricognizioni di superficie nel
territorio di Borgorose”, in Lazio e Sabina, 4, 123-128.
Farinetti E. 2010: “Cicolano Survey 2008. Sul paesaggio di
epoca romana nella piana di Corvaro”, in Lazio e Sabina, 6, 111117.
Grossi G. 1984: Insediamenti italici nel Cicolano: territorio della
“Res Publica Aequicolarum”, L’Aquila.
Jamison E. 1972: Catalogus Baronum (Istituto storico italiano
per il medioevo, Fonti per la storia d’Italia, 101), Roma.
Maceroni G. 1981: “Notizie civili e religiose su Borgorose
dall’altomedioevo al secolo XIV”, in L’Antipapa Niccolò V nel
650° anniversario d’incoronazione (Atti del Convegno di Studi
Storici, Borgorose 1979), Rieti, 85-107.
Sthamer E. 1920: “Studien über die sizilischen Register Friedrichs II”, in Sitzungsberichte der preussischen Akademie der
Wissenschaften, Berlin.
Emeri Farinetti
[email protected]
In the summer 2011 the fourth season of archaeological survey in
the Cicolano area (Corvaro-Borgorose) was carried out, following
the previous campaigns (2005, 2008, 2009). The Cicolano Survey
research project aims to the reconstruction of the human settling
in the area in the long term, with special interest to the diachronic
man-environment interaction, to the human eco-dynamics, and to
the movement in the area, linked to transhumance routes. In the
previous field seasons, artefact surface surveys were carried out in
the plain, while in 2011 fieldwork focussed on the mountain areas
around the Corvaro plain, and in particular on Frontino hill, a
fortified defensive high spot. Pottery and structures were recorded
carefully, on the top and the slopes. The hill, yet known as fortified Archaic oppidum, revealed the presence of a Medieval fort and
traces of activities in the Roman period, as long as recent structures
linked to pastoralism.
Bibliografia
Alvino G. 2012: “Contributo per la conoscenza delle strutture
in opera poligonale del Cicolano – Dalla ricognizione territoriale ai problemi interpretativi”, in Attenni L. – Baldassarre D.
(eds.), Quarto seminario internazionale di studi sulle mura poli-
111
Louis Hippolyte Lebas e i suoi disegni sul Cicolano
Carla Ciccozzi
secondo viaggio con Debret4. I due visitarono Torino, Bologna e Firenze e nel 1807 giunsero a Roma,
nel 1808 rientrarono a Parigi5. Nel 1811 Lebas ritornò in Italia e visitò alcune città italiane. Durante
questi soggiorni egli effettuò più di trecento disegni,
tra cui un album intitolato “Aquarelles représentant
des relevés de murs cyclopéens” che contiene alcuni
disegni dedicati ai monumenti antichi del Cicolano.
L’interesse di Lebas per quest’area è da ricollegare
al rapporto con Sèroux d’Agicourt che fu incaricato dall’Instituto di studiare la Sabina, lavoro che
ben presto lasciò a favore del Simelli. Forse Lebas
lo accompagnò nelle sue perlustrazioni. Nelle ricognizioni gli architetti si basavano sulla lettura del
testo di Dionigi di Alicarnasso, desunto dalle An-
All’inizio dell’800 un archeologo francese, il PetitRadel, si occupò delle mura poligonali e le attribuì al
mitico popolo dei Pelasgi1. Per sostenere questa sua
tesi egli chiese agli studiosi di studiare i siti “ciclopei” in modo da dissipare dubbi sulla loro origine.
A questo appello risposero numerosi architetti. Nel
1810 Petit-Radel incaricò l’architetto Simelli di visitare la Sabina.
Tra gli architetti che visitarono il Cicolano va ricordato anche il Lebas2. Costui studiò architettura
dapprima con lo zio Vaudoyer e poi con Percier e
Fontaine. Fu Percier a spingerlo a visitare l’Italia.
Egli venne nella penisola in tre occasioni. Il primo
viaggio lo fece tra il 1803 e il 1804. In questa occasione visitò Firenze e Roma3. Nel 1806 compì il suo
Fig. 1. L.H. Lebas, Fanum
a Fiamignano a cinq milles
de Suna (tav. I).
1
Petit-Radel 1800.
L.H. Lebas (1782-1867) fu uno dei principali architetti del XIX
secolo francese. Progettò a Parigi la costruzione della chiesa di
Nôtre Dame del Lorette e della prigione di rue de La Roquette. Dal
1840 al 1863 fu professore di Storia dell’architettura presso l’Ecole
des Beaux Arts di Parigi e dal 1825 membro dell’Accademia delle
Belle Arti. Morì il 12 giugno del 1867 a Parigi: D’Amia 2007.
3
Brunel – Julia 1984.
4
Jaques 2001.
5
Janne 2001.
2
113
Carla Ciccozzi
Fig. 2. L.H. Lebas, Fanum
a Fiamignano a cinq milles
de Suna (tav. II).
tichità di Varrone6, in cui viene descritto territorio
di Reate.
Il Cicolano aveva numerosi santuari sia con funzione religiosa sia aggregativa a livello politico-sociale, che costituivano importanti nodi di scambio. Molte volte questi si trovavano su terrazzamenti in opera
poligonale. La prima tavola del Lebas sul Cicolano
s’intitola “Fanum à Fiamignano à cinq milles de Suna”
(fig. 1). A Fiamignano, presso il monte Aquilente7, ci
sono i resti di un santuario identificabile con quelli
qui illustrati. Questo santuario8 era comune a tutto
il pagus9. Purtroppo non si sa a quale divinità10 esso
fosse consacrato11. In epoca medievale il santuario fu
trasformato nella chiesa di Sant’Angelo in Cacumine
Montis. In questa tavola sono disegnati: il pianoro su
cui sorge il santuario e la planimetria dei due edifici
e il muro della terrazza. L’edificio a sinistra è l’antico
tempio formato da un solo ambiente, mentre, quello
a destra è l’eremitaggio benedettino formato da due
ambienti.
Anche la seconda tavola riguarda lo stesso santuario ed è divisa in tre riquadri12 (fig. 2). Quello in
alto illustra i muri di sostruzione del terrazzamento
meridionale e orientale in opera poligonale disposti
su sette filari. Il secondo disegno, quello in basso a
sinistra, ritrae il lato occidentale del muro ai cui piedi sono delle pietre crollate. Le pietre del muro sono
di diversa grandezza e disposte su sette filari. Il terzo
disegno, quello a destra, mostra un tratto di muro
in opera quadrata, forse il podio del tempio. Lebas
riporta la puntuale caratterizzazione della muratura
che si spinge fin nei minimi dettagli delle zeppe di
risarcitura.
La terza tavola (fig. 3) si intitola Oracle et temple à
Nesce pers de l’antique Mefusa. Il sito qui rappresentato è forse quello che si ha in località San Silvestro di
Nesce13, dove c’è un terrazzamento in opera poligonale. Il muro in opera poligonale, a sinistra dell’intero complesso, è posto a un livello superiore rispetto
agli altri e poggia su un piano di posa artificiale creato tagliando la roccia14. Il muro sostiene e protegge
una strada, in parte ricavata nella roccia, che conduce al pianoro. A ridosso della via c’è un alto muro in
opera quadrata a cui si appoggia un altro in opera
incerta; a questo si affianca a sua volta un prospetto architettonico formato da una muratura in opera
quadrata provvisto di due contrafforti, al quale si
addossano un paramento murario in opera incerta e
uno in opera reticolata caratterizzato da quattro setti
sporgenti. Le strutture murarie poggiano su un piano artificiale creato tagliando la roccia. Sul pianoro
Lebas ipotizza che ci fosse un tempio con al centro
una statua di divinità femminile. L’ipotesi del tempio
sulla sommità della terrazza è avvalorata dal ritrova-
6
11
7
12
Varr., rust., III, 2, 14-15.
Armani Martire 1985.
8
De Luigi 2011.
9
Letta 1992.
10
Alvino 1995.
Staffa 1987.
Simelli, Mss. Lanciani 66, tavv. IX- XI.
13
De Luigi 2011.
14
Simonelli, Ms. Lanciani 66, tavv. IX-XI.
114
Louis Hippolyte Lebas e i suoi disegni sul Cicolano
Fig. 3. Oracle et temple
à Nesce pers de l’antique
Mefusa.
mento di due epigrafi: una ricorda il restauro voluto
da Adriano di un luogo di culto di Iside e Serapide15
e l’altra16 parla della collocazione in Scholam da parte
di Arkarius Apronianus, seviro augustale, di statue e
di un’edicola in onore di Iside e Serapide17.
Il quarto disegno (fig. 3) è intitolato: fanum et
temple de Mars à Fiamignano à 5 milles de Suna e
rappresenta un tratto di muro in opera poligonale di
questo luogo di culto con al centro una porta ad arco
a tutto sesto. La tecnica di esecuzione è minuziosa e
precisa, ricorda quella del suo maestro Percier.
Il quinto disegno (fig. 4) si intitola Orale et temple
a Nesce pres de l’antique Mefusa de Varron. Lebas,
in maniera molto precisa, riporta la planimetria del
santuario. Con il colore nero sono realizzati il muro
del terrazzamento e le due ante della porta al centro
della strada, con il colore grigio i due contrafforti e
i quattro setti murari sporgenti su cui è il tempio, in
rosa scuro è disegnato il muro del sacello, in un rosa
più chiaro il muro del recinto sacro.
Il sesto disegno s’intitola Oracle a Suna aujourd’hui Alzano (fig. 5). Nel Comune di Pescorocchiano in località Alzano ci sono i resti di un complesso
formato da quattro terrazzamenti in opera poligonale
identificabili con quelli della sede dell’antico tempio
di Marte, situato da Dionigi di Alicarnasso a Suna.
Questa ipotesi è sostenuta da alcuni ritrovamenti ef-
fettuati durante gli scavi nei pressi della Grotta del
Cavaliere. Tra i ritrovamenti è stata riportata alla luce
una basetta in marmo con dedica ad una divinità non
ancora identificata, datata al I sec. a.C.18, e un piccolo foro superiore per il sigillum19. Il santuario è databile al III sec. a.C.20. Lebas riporta in pianta i quattro muri in opera poligonale del santuario. Il primo
muro in basso al centro presenta un’interruzione21;
poi è riportato, più in alto il secondo22. Tra questi
due muri, presso l’estremità occidentale di quello inferiore, c’è la “Grotta del Cavaliere”, una struttura
sotterranea a pianta circolare. Poi è disegnato il terzo
muro23 di cui vengono evidenziati solo tre tratti murari. Lebas usa il colore rosa per evidenziare i muri
che alla sua epoca erano ancora visibili. Fra il terzo
e il quarto muro, al centro del pianoro, sono riportati due dei quattro lati dell’edificio di culto. Infine
si intravede un tratto del quarto muro intagliato nel
fianco roccioso del colle.
Il settimo disegno (fig. 6) è diviso in due riquadri e
riproduce i tre tratti di mura che servirono a formare
il pianoro. Il primo tratto che viene rappresentato è
il primo che s’incontra risalendo le pendici del monte Fratta. I blocchi con i letti di posa e i giunti laterali
sono lavorati a martello e presentano una notevole
accuratezza di lavoro nel paramento esterno. Là dove
il muro è crollato emerge la roccia su cui furono ap-
15
20
16
21
CIL IX, 4116.
CIL IX, 4112.
17
Verva 2011.
18
Alvino 1995.
19
Armani Martire 1985.
Alvino 1995.
Armani Martire 1985.
22
Armani Martire 1985.
23
Armani Martire 1985.
115
Carla Ciccozzi
Fig. 4. Orale et temple a
Nesce pres de l’antique
Mefusa de Varron.
Fig. 5. Oracle a Suna
aujourd’hui Alzano.
loro con minore precisione. I muri furono costruiti
sulla roccia stessa, sfruttando anzi quei punti su cui
essa, affiorando, si inseriva nella linea muraria. Del
terzo muro sono visibili soltanto tre blocchi relativi
al primo filare sopra il banco roccioso.
Il penultimo disegno s’intitola Vesbola (fig. 7).
Questo sito è stato identificato presso Marmosedio24.
poggiati i blocchi. Il muro risulta composto da nove
filari di grosse pietre. Nel secondo acquerello sono
disegnati il secondo e il terzo muro del terrazzamento che s’incontrano risalendo le pendici del monte. Il
secondo muro è formato da sei filari di blocchi realizzati con lo stesso tipo di tecnica del primo, anche
se lavorati in maniera grossolana e accostati tra di
24
Petit-Radel 1832b.
116
Louis Hippolyte Lebas e i suoi disegni sul Cicolano
Fig. 6. L.H. Lebas, tratti
di mura che formavano il
pianoro.
Fig. 7. L.H. Lebas, Vesbola
sto c’è un altro tratto di muro sempre in opera poligonale formato da quattro filari. Sulla sinistra c’è un
sentiero che conduce verso la sommità del pianoro.
Nel riquadro di destra c’è un breve tratto di mura
in opera poligonale situato presso la piccola chiesa
di San Lorenzo in Vallibus25. L’elemento paesaggistico è molto scarno, mentre viene messa in evidenza
All’interno del foglio Lebas realizza due piccoli disegni. Il primo, quello a sinistra, illustra due tratti
di muri di un terrazzamento sul quale, in epoca cristiana, sorgerà la pieve benedettina di San Lorenzo
in Vallibus. In primo piano c’è un tratto di muro in
opera poligonale composto da quattro filari, la parte
superiore è ricoperta da vegetazione, dietro di que25
Simelli, Mss. Lanciani XI 66, tav. VII
117
Carla Ciccozzi
Fig. 8. L.H. Lebas,
Oracle de Tiora.
l’opera poligonale. I diversi materiali archeologici ed
epigrafici riutilizzati per la costruzione nel 1568 del
convento dei Cappuccini testimoniano che qui doveva sorgere il centro di Vesbula26. In entrambi i disegni è di grande effetto la puntuale caratterizzazione
della muratura, che si spinge fin nei minimi dettagli
delle zeppe di risarcitura o della vegetazione cresciuta negli interstizi fra le pietre.
L’ultimo disegno (fig. 8) si intitola Oracle de Tiora.
Qui, secondo Dionigi di Alicarnasso27, c’era la sede
di un antico oracolo dedicato al dio Marte. Nei pressi
di S. Anatolia, nel Comune di Borgorose, in località
Ara della Turchetta c’è un imponente muro in opera poligonale28. Nel primo riquadro, quello in alto,
è disegnata un’altura formata da due filari di speroni rocciosi, la parte superiore della roccia forma un
dorso alto circa 3 metri. Il secondo filare, quello in
basso, è tagliato in modo che il suo dorso risulti liscio, realizzato nella roccia viva, e forma una terrazza
lunga circa 40 metri e larga 10, sotto la quale ce n’è
un’altra in opera poligonale formata da tre lati, di cui
quello più lungo (m 12) è il meridionale; l’orientale
è più corto e ortogonale, mentre l’occidentale ha un
andamento obliquo. Il secondo disegno, in basso a
sinistra, riporta la planimetria. Si possono vedere un
tratto di roccia, il banco roccioso tagliato e i tre lati del
muro di terrazzamento. Nell’altro riquadro è rappresentata una collina sulla cui sommità c’è un corridoio
formato da due filari di muri. Quello esterno presenta
una particolarità: la parte interna è realizzata in opera
poligonale, mentre in quella esterna il poligonale è foderato esternamente da una ripresa in opera incerta.
È possibile che questa sorta di corridoio, di difficile
interpretazione, rappresenti una porta, la cui planimetria è riportata nell’ultimo disegno.
26
28
Carla Ciccozzi
[email protected]
Colucci 1866.
Dion. Hal., I, 14, 5.
Petit-Radel 1810.
27
118
Louis Hippolyte Lebas e i suoi disegni sul Cicolano
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Abstract
This survey analyses some drawings of the Cicolano (Rieti) Roman religious sites, made by Louis Hippolyte Lebas one of the
most important French architect of the XIX century (1806-1811)
during his stay in Italy. The purpose of the study is to demonstrate how some of these not well connected centres are actually
part of the XIX century historical debate on polygonal walls. The
drawings , studied for the first time, belong to an album kept at
the l’Institut National de l’Hisotoir de l’Art (INHA) named
Aquarelles représentant des relevés de murs cyclopéens. This collection consists of 69 drawings reproducing polygonal walls of
Italian and Greek sites. The 8 illustrations of the area originally
inhabited by Equicoli depict Fiamignano, Nesce, Suna, Vesbula
and Tiora, named Fanum a Fiamignano a cinq milles de Suna,
Oracle et Temple a Nesce pres de l’antique Mefusa, Oracle de Suna
aujord’hui Alzano, Vesbula and Oracle de Tiora.
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119
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120
Recenti indagini su sistemi idraulici e antichi acquedotti in Sabina
Cristiano Ranieri
Prosegue da molti anni, in collaborazione con la
Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio,
l’attività di ricerca e analisi dei numerosi manufatti idraulici di epoca antica nel territorio sabino1. Lo
studio dei documenti presenti nell’archivio storico
del Comune di Casperia si è rivelato fondamentale
per l’individuazione del cunicolo della Fonte del
Pozzo in località S. Maria in Legarano2. Nella zona
sono per altro ben noti i resti di una villa di epoca
romana3. Nei documenti di archivio, e in particolare
nei Libri del Consiglio del XV secolo, si parla più
volte del restauro e della ripulitura dei condotti di
“Fonte Puzzo”. La loro esistenza era nota da tempo,
anche se al loro interno non erano mai state effettuate indagini archeologiche.
Per accedere all’acquedotto è necessario discendere per un pozzo di m 7. Il pozzo, di epoca
moderna, venne edificato negli anni Cinquanta del
secolo scorso assieme a un tubo in ghisa utilizzato per portare l’acqua al vicino fontanile rurale di
S. Maria in Legarano. Dalla base del pozzo si diparte
un cunicolo rettilineo a sezione ogivale che è stato
completamente rivestito in mattoni durante i lavori
di ristrutturazione avvenuti nel secolo scorso (fig. 1).
Dopo una progressiva di circa 15 metri è possibile
osservare la sezione originale del condotto scavato
nel banco tufaceo, alto m 2 ca. e largo 1,50, in parte allagato. Sono ancora ben visibili i segni di scavo
sulle pareti della galleria. A circa 40 metri dall’ingresso il condotto principale si interrompe a causa
di una frana in prossimità di un pozzo di aerazione.
Da questo tratto si dipartano due cunicoli secondari
di adduzione idraulica, sempre a sezione ogivale, rispettivamente a est e a ovest dell’asse principale della
galleria (fig. 2).
Sulle pareti del cunicolo di sinistra è possibile osservare l’alternanza di strati permeabili (tufi)
e strati più bassi impermeabili (argille)4. Come per
Fig. 1. Acquedotto della Fonte del Pozzo: condotto principale restaurato.
altri esempi di cunicoli di epoca arcaica presenti in
Sabina, gli strati di argilla alla base del condotto erano utilizzati come “impermeabilizzante” naturale
per far sì che l’acqua scorresse lungo le pareti del
condotto senza disperdersi. Nel tempo però le pareti
del cunicolo si sono sfaldate e l’argilla si è in parte
staccata, mentre una porzione delle pareti verticali
e la volta, scavati nel tufo, hanno mantenuto la loro
sezione originaria (fig. 3). I numerosi crolli presenti
lungo la base del condotto rendono difficoltosa la
progressione all’interno dello stesso. Percorrendo
il cunicolo di sinistra, dopo una progressiva di una
1
Desidero ringraziare Giovanna Alvino della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio per aver reso possibile la
presente ricerca; la mia gratitudine va inoltre agli speleologi del
Gruppo Speleo Archeologico Vespertilio per la consueta competenza dimostrata e la professionalità profusa. I rilievi e le foto
sono opera dell’autore.
2
Lo studio dei documenti d’archivio riguardanti l’acquedotto
della Fonte del Pozzo è stato eseguito dall’autore e dalla Dott.ssa
Catia Granati del Gruppo Speleo Archeologico Vespertilio. Per
le ricerche effettuate nella zona di Casperia si veda Marzilli
2010
3
Per la villa in località S. Maria in Legarano: Guattani 18271830; Guardabassi 1872; Marocco 1833-1834.
4
Le formazioni geologiche presenti in questa zona sono caratterizzate da tufi e sabbie argillose (Carta Geologica d’Italia,
F° 138, Terni).
121
Cristiano Ranieri
sorgente
di fossores che procedevano in direzioni opposte,
rispettivamente dai due pozzi oggi ostruiti, applicarono la tecnica di Eupalino, cosiddetta dal costruttore dell’acquedotto di Samo. Questa tecnica era
finalizzata a garantire l’incontro delle due squadre
che, provenendo in senso opposto durante lo scavo dei tunnel sotterranei, dovevano curvare verso la
stessa direzione geografica (rispettivamente per una
squadra a destra e per l’altra a sinistra). Con questo
espediente, mentre una squadra avrebbe deviato invano, l’altra avrebbe sicuramente incontrato il punto
di congiungimento6. Impossibile per ora stabilire la
datazione del manufatto idraulico sotterraneo; solo
ulteriori studi e indagini archeologiche potranno
chiarire l’utilizzo dell’acquedotto.
Anche lungo la valle del Salto sono riprese le ricerche che nei mesi passati avevano portato all’individuazione e all’esplorazione dell’emissario di monte
Frontino. Nel territorio del Comune di Collegiove,
in località Riancoli, è stato individuato l’ingresso di
un altro acquedotto sotterraneo. Il cunicolo, anch’esso a sezione ogivale, è scavato in una formazione di
arenarie grigiastre mioceniche e risulta in parte allagato7. In alcuni tratti dello speco lo spesso deposito
fangoso e il forte concrezionamento delle pareti rendono oltremodo difficoltosa la progressione all’interno dello stesso (fig. 6). La galleria sotterranea, il
cui sviluppo totale è di circa 60 metri, si interrompe
in prossimità di un pozzo franato. Presenta altezza
variabile tra m 0,80 e 1,80 e larghezza pressoché costante di m 0,60 ca. Lo scavo del con­dotto sotterra-
- DD
AA
BB
CC
DD EE
FF
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C
-C
pozzo
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- BB
N
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Acquedotto Fonte del Pozzo – Casperia
Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio
Rilievo : C. Ranieri – G. S. A. V.
ingresso
Fig. 2. Rilievo dell’acquedotto della Fonte del Pozzo.
trentina di metri, si arriva alla camera di captazione a
forma di croce (fig. 4) dalle cui pareti e in particolare
da alcuni fori (fig. 5) fuoriesce parte dell’acqua che
alimenta l’intero acquedotto5.
Il cunicolo di destra invece si interrompe presso
un crollo sotto un pozzo rivestito in muratura. La
particolarità di questa seconda galleria di adduzione
è nella tecnica di scavo che rimanda ad altri esempi noti su tutto il territorio laziale. Le due squadre
Fig. 3. Condotto di adduzione idraulica secondario: alternanza di strati tufacei e argillosi.
Fig. 4. Camera di captazione.
5
Sulle numerose opere idrauliche rinvenute in zona: Ranieri 2004;
Ranieri 2006; Festuccia – Ranieri 2010; Muzzioli 1980. Cunicoli di
questo tipo sono presenti inoltre su tutto il territorio laziale. Per
uno studio dettagliato su tali manufatti idraulici: Judson – Kahane
Fig. 5. Particolare con i fori da cui fuoriesce l’acqua che alimenta l’acquedotto.
1963; Quilici Gigli 1983; Ravelli – Howarth 1984.
6
Sulle tecniche di scavo: Casciotti – Castellani 2002; Castellani – Dragoni 1991.
7
Carta Geologica d’Italia, F° 145, Avezzano.
122
Recenti indagini su sistemi idraulici e antichi acquedotti in Sabina
proveniente da nord, per ricollegarsi alla squadra
opposta, adottò poi la tecnica di Eupalino (fig. 8),
cui si è già accennato per l’acquedotto della Fonte
del Pozzo. La tecnica costruttiva rimanda a numerosi esempi presenti nel Lazio e, in particolare, allo
scavo dell’acquedotto delle Cannucceta a Palestrina e a quello del condotto di monte Frontino9. Impossibile anche per questo acquedotto stabilire con
precisione l’epoca di costruzione e la datazione. Si
tratta comunque di un’opera importante, la cui realizzazione deve essere stata impegnativa, il che fa
supporre la presenza di un potere centrale e di una
struttura urbana saldamente organizzata. L’impresa
doveva essere sicuramente onerosa, ma il riscontro
economico altrettanto vantaggioso.
Nel Comune di Stimigliano è stato esplorato e rilevato un altro sistema idraulico sotterraneo molto
interessante. Si tratta di un acquedotto lungo oltre
300 metri, interamente scavato in una formazione di
calcareniti, sabbioni e puddinghe pleistocenici, che
attualmente alimenta il fontanile noto con il nome
di Fonte Cantaro10. Il cunicolo a sezione ogivale è
alto m 1,60 e largo 0,60; in alcuni tratti l’altezza della galleria sotterranea è di oltre tre metri (fig. 9). Si
accede all’ipogeo da una piccola botola, che immette in un pozzetto profondo circa 3 metri.
Ben visibili i segni di scavo sulle pareti del cunicolo (fig. 10). Sono presenti rifacimenti di epoca
romana nelle pareti e nella volta del condotto della
lunghezza di m 2,50 ca., a distanze regolari di m 30
ca. Le pareti e la volta di questi tratti del condotto
interessati da interventi di restauro sono completamente rivestiti di muratura caratterizzata da blocchetti di calcare irregolari, messi in opera con malta
Fig. 6. Acquedotto di Riancoli: condotto principale e depositi di
calcite.
neo fu realizzato mediante la tecnica della cultellatio
attraverso il traguardo e la livella­zione di pali allineati all’esterno8. L’er­rore di direzione venne ridotto,
adottando la tecnica dello “scavo ondivago” (fig. 7);
in tal modo la luce prove­niente dall’ingresso risultava diaframmata con molta precisione. In questo
caso l’errore poteva scendere al di sotto del metro. A
circa 20 metri dall’attuale ingresso dell’acquedotto
la direttrice del cunicolo cambia direzione quasi ad
ag­girare un ostacolo formando una sorta di “bypass”
per ricollegarsi al condotto proveniente dalla parte
opposta. Durante lo scavo della galleria è probabile
che la squadra di fossores pro­veniente da sud abbia
avuto problemi nello sterro del condotto (forse uno
strato particolarmente duro da scavare o una frana) e
decise quindi di aggirare l’impedimento. La squadra
- AA
- BB
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D
BB CC DD EE
C
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AA
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pozzo
ingresso
N
Fig. 8. Rilievo dell’acquedotto di Riancoli.
Acquedotto di Riancoli – Colle Giove
Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio
Rilievo : C. Ranieri – G. S. A. V.
Fig. 7. Particolare del cunicolo dove è stata adottata la tecnica dello scavo ondivago.
8
10
Sulla tecnica di scavo tramite la cultellatio: Castellani – Dragoni 1991; Ranieri 2012.
9
Casciotti – Castellani 2002; Castellani – Dragoni 1991; Ranieri
2012.
Sternini 2004, 193. In una lastra inglobata nei vecchi lavatoi
c’è un’epigrafe (CIL IX, 4806) databile alla fine del I sec. a.C.inizio I d.C.
123
Cristiano Ranieri
Fig. 9. Acquedotto di
Fonte Cantaro: cunicolo principale.
Fig.10. Acquedotto di
Fonte Cantaro: segni
di scavo lungo le pareti
del condotto.
assai abbondante. Sulla volta sono ancora visibili i
segni della centina lignea utilizzata per realizzare la
copertura ogivale del condotto stesso. È ipotizzabile che si tratti di ristrutturazioni presso pozzi di
aerazione, poiché lungo il percorso dell’acquedotto
non vi è traccia alcuna di putei, condizione necessaria questa per la messa in opera della galleria sotterranea. Anche le distanze delle ristrutturazioni murarie (a circa 30 metri le une dalle altre) suggeriscono la presenza di pozzi verticali, come da precetto
vitruviano. Anche per questo manufatto idraulico
sotterraneo è difficile stabilire la datazione, ma è
probabile, date le ristrutturazioni di epoca romana
e la tecnica costruttiva impiegata, simile a tanti altri
acquedotti del territorio sabino, che possa trattarsi
di un’opera idraulica molto antica, presente già prima della romanizzazione dell’intera area11.
Abstract
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Cristiano Ranieri
[email protected]
Continues to the Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio
the research and analysis of the many hydraulic structures of ancient times in Sabina. An aqueduct was investigated in the territory of Casperia in S. Maria in Legarano while another hydraulic
system underground was discovered and explored in Riancoli location in the territory of Collegiove. It is ancient tunnels whose
construction technique used to see many other examples in Lazio
and in particular the excavation of the aqueduct of Cannucceta
Palestrina and the duct monte Frontino at Corvaro di Borgorose.
A tunnel to capture and drainage has been documented in Fonte
Cantaro in Stimigliano. This is a tunnels dug the formation of a
sand and breach Pleistocene has many remakes of the Roman era.
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11
Festuccia – Ranieri 2010.
124
Cave locali e architettura residenziale:
ricerche 2011 della Sapienza – Università di Roma a Cottanello (Rieti)
Patrizio Pensabene – Eleonora Gasparini – Giuseppe Restaino
alcuni aspetti principali che definiscono le modalità di vita di questa residenza: il primo è costituito
da strutture architettoniche, quali le terme, le corti
porticate, e da arredi, quali mosaici e pitture, che
segnalano lo status sociale e la cultura abitativa dei
proprietari; il secondo è fornito invece dagli indizi
sulle attività produttive legate al fundus di cui la villa
era il centro amministrativo. In questo senso abbiamo appunto privilegiato lo studio dei dolia rinvenuti
nel criptoportico, data la circostanza dei bolli che ci
informano sulle dinamiche produttive, e ancora lo
studio dei materiali degli elevati architettonici, ponendo l’attenzione sia sulla composizione delle murature, soprattutto quando costruite con materiali
seriali, sia sui materiali e le proporzioni dei colon-
1. Introduzione
Il prosieguo delle indagini della Sapienza – Università di Roma a Cottanello1 ha permesso, nell’estate
2011, di affrontare diverse tematiche legate non solo
alla villa in località Collesecco, oggetto principale
della nostra ricerca, ma anche alla cave del calcare
noto come marmo di Cottanello, che crediamo siano
strettamente connesse con il fundus a cui apparteneva la villa2. Infatti si ritiene importante studiare la
villa non come un’unità architettonica singola attraverso i tradizionali metodi della comparazione delle
piante o dei materiali di scavo, bensì come parte del
territorio, alla cui organizzazione partecipa, ma ne
è anche condizionata. Abbiamo individuato dunque
Fig. 1. Pianta generale della villa con
indicazione delle aree di indagine
2010-2011 (De Simone 2000, con elaborazione di G. Restaino).
1
A quarant’anni dalla scoperta della villa romana di Cottanello,
l’Università sta portando avanti un progetto di indagine intrapreso nel 2010, quando, con una campagna preliminare i cui risultati
sono stati presentati all’8° Convegno Lazio e Sabina 2011 e pubblicati in Pensabene – Gasparini 2012, 147-158, era stato possibile individuare alcuni filoni di ricerca su cui abbiamo impostato i
nuovi interventi. Il presente resoconto si basa sulle attività svolte
sia sul campo che in seminari universitari dagli studenti della Sapienza, cui vanno i nostri più sentiti ringraziamenti. In particolare,
i rilievi e le elaborazioni grafiche relative alla villa e alla cava si
devono a G. Restaino, D. Vitelli, T. Bonanni, S. Palalidis, V. Bruni;
il disegno e la schedatura della ceramica sono stati effettuati da C.
Gianni, F. Campoli, V. Bruni; la schedatura degli intonaci è opera
di U. Stiernskog-Migliore e U. Koy-Seemann.
2
Prima di entrare in tali argomenti ci è gradito ringraziare la
Dott.ssa G. Alvino della Soprintendenza per i Beni Archeologici
del Lazio e il Comune di Cottanello, senza la cui collaborazione e sostegno la nostra iniziativa non avrebbe potuto partire.
Un ruolo molto stimolante per la nostra ricerca è stato inoltre
quello dell’Associazione “Castel Leone” di Castiglione, che ci
ha guidato nelle prime perlustrazioni sul territorio alla ricerca
dei distretti estrattivi.
125
Patrizio Pensabene – Eleonora Gasparini – Giuseppe Restaino
so Roma, che dovevano avvalersi della via fluviale.
Anche qui si è aperta una nuova strada di ricerca che
riguarderà l’individuazione dei luoghi dove avvenivano i depositi dei blocchi lungo il Tevere e i punti
d’imbarco (P.P.).
2. Il criptoportico
Il braccio nord-sud del criptoportico, un corridoio lungo 36 metri, è quasi interamente riempito da
uno strato omogeneo di terreno limo-fangoso, che
non restituisce manufatti fino agli ultimi depositi a
contatto con il pavimento in cocciopesto. Tale tipologia di stratificazione lascia pensare ad un abbandono del vano non seguito da alcuna successiva rioccupazione, probabilmente anche in conseguenza di
un suo progressivo interramento. Il peso del terreno
franato, forse in parte penetrato in modo violento e
repentino nell’ambiente, deve essere stato causa della rottura di una serie di grandi contenitori da derrate. Lo scavo ha infatti permesso di rinvenire circa
200 frammenti di grandi dimensioni appartenenti a
dolia4, tra i quali uno è ricostruibile nel suo intero
profilo5.
Lo studio di tali contenitori ha aperto interrogativi circa la loro funzione, produzione e commercio:
se da una parte sia fattori di tipo pratico, come le
difficoltà legate al trasporto, sia motivi economici lasciano supporre che si tratti di una produzione loca-
Fig. 2. Ricostruzione tridimensionale delle strutture esistenti (dis.
G. Restaino).
nati dorici. Vedremo infatti come l’aver rinvenuto
due tipi di colonne, uno in laterizio stuccato e l’altro nella qualità venata e più pregiata della pietra di
Cottanello, ci consenta – crediamo noi – importanti
considerazioni sulla proprietà del fundus e sulle cave
e ancora sulla durata dell’estrazione di questa pietra
e sulle motivazioni della sua maggiore o minore fortuna nel corso del tempo.
Della villa di Collesecco sono stati restituiti finora soltanto alcuni settori già posti in luce negli anni
1969-1972, sui quali siamo intervenuti con metodologie di scavo più avanzate, che ci hanno consentito
di indagare stratigrafie ancora intatte (fig. 1). Sono
costituiti dunque dal braccio nord-sud del criptoportico, dall’ambiente 263, che corrisponde al vano a
pianta circolare, interpretato nella storia degli studi
come il frigidario o come il laconico del quartiere
termale, e infine dall’ambiente 25, a pianta quadrangolare, posto a sud di questo. Abbiamo altresì affiancato a tali lavori rilievi analitici delle murature e
degli elementi architettonici dei colonnati della villa
(fig. 2).
Delle cave abbiamo negli ultimi due anni affrontato il rilievo del settore più noto, sito sul monte
Sterpeto, a km 1,5 ca. dal paese, di cui a tutt’oggi
non esisteva una documentazione scientifica in senso archeologico-topografico (fig. 3). Diciamo subito tuttavia che tale settore del distretto ha segni di
sfruttamento soprattutto del periodo barocco, anche
se siamo riusciti ad individuare alcune tracce riconducibili al periodo romano. L’utilizzo del Cottanello,
che com’è noto è avvenuto con grande abbondanza
per S. Pietro e per altre chiese del ’600 e del ’700 a
Roma, ha in generale cancellato tracce di estrazione
antica; tuttavia ha indicato i percorsi della pietra ver-
Fig. 3. Pianta generale della cava di calcare sul monte Sterpeto
(dis. T. Bonanni – V. Bruni – S. Palalidis).
3
5
I numeri dei vani nel testo sono quelli riportati nella pianta di
M. De Simone in Sternini 2000, 54-55.
4
I frammenti sono così suddivisi: campagna 2010: 6 orli, 109
pareti, totale 115; campagna 2011: 1 orlo, 2 fondi, 60 pareti, totale 63; tot. orli 7, totale fondi 2, totale pareti 169, totale frammenti 178.
Si tratta di manufatti dall’ampio orlo a tesa piana, spalla e
corpo dall’andamento poco espanso e fondo piano. Il diametro
degli orli è di cm 85 in un caso e di cm 92 nell’altro, l’altezza è
di m 1,40, mentre lo spessore delle pareti di cm 4 ca. L’impasto
color mattone è ricco di inclusi micacei, di quarzo, di calcare e
chamotte.
126
Cave locali e architettura residenziale: ricerche 2011 della Sapienza – Università di Roma a Cottanello
le collegata alla villa o alle sue immediate vicinanze,
benché ad oggi manchino le prove di tale produzione
quali fornaci o scarti di lavorazione6, dall’altra si può
ipotizzare l’arrivo di essi dai grandi impianti produttivi dell’area tiberina7, tenuto conto anche della complessità del ciclo di fabbricazione dei dolia8.
L’assenza di tali dati appare compensata dall’indicazione fornitaci da un bollo rinvenuto sulla tesa
dell’orlo frammentario di uno dei due contenitori:
all’interno di un cartiglio rettangolare lungo cm
10,5 e alto 2,5 si conservano in ottimo stato le lettere, alte cm 1,4, MCOTTAE (fig. 4). Tale bollo era
già noto nella storia degli studi sulla villa grazie al
ritrovamento di un altro frammento di orlo di dolio, attualmente al Museo di Rieti9, durante gli scavi
degli anni 1969-1972, che tuttavia rimaneva decontestualizzato e che, solo grazie ai nostri interventi,
possiamo attribuire al criptoportico con un certo
margine di sicurezza.
Nel nostro caso sembra che il bollo si riferisca
al nome del dominus, proprietario del fundus e non
all’officinator o conductor10, se è vero quanto normalmente si crede, e cioè che la villa era appartenente agli
Aurelii Cottae, da cui deriverebbe il nome del centro
abitato moderno di Cottanello11: si aprono quindi
due ipotesi, che la produzione avvenisse all’interno
dello stesso fundus o che invece i dolii fossero stati
acquistati da un centro produttore non appartenente
ai Cottae, il cui ruolo sarebbe stato soltanto quello di
acquirenti. Pur dovendo per ora lasciare aperte varie
possibilità, quali anche un eventuale ruolo del dominus nel mercato di tali manufatti, osserviamo che nel
secondo caso ipotizzato il bollo sarebbe servito per
distinguere i lotti di materiale o a livello produttivo o
in fase di commercializzazione e trasporto, contrassegnando cioè le partite di contenitori, nel nostro
caso commissionate dagli Aurelii Cottae, rispetto a
quelle provenienti dalle stesse fornaci, ma destinate
ad altri committenti.
Fig. 4. Profilo ricostruito del dolio con bollo MCOTTAE (dis. F.
Campoli – C. Gianni).
Resta ancora da definire anche la funzione di questi contenitori: se da una parte è nota la prevalente vocazione del territorio – in epoca antica così come oggi
– verso l’olivicoltura12, non possiamo escludere che il
criptoportico fungesse da cella vinaria o anche da magazzino per derrate solide o semisolide. In ogni caso, i
vari generi di prodotti che potevano essere contenuti
dai dolia avrebbero necessitato di una protezione costituita da coperchi13, la cui esistenza, se in ceramica
e non in materiale deperibile, potrebbe essere confermata con il prosieguo delle indagini (E.G.).
3. Il quartiere termale
Se lo scavo del criptoportico restituisce testimonianze che riguardano la principale fase di vita della
6
A favore di questa ipotesi, G. Filippi, che ringraziamo per le
informazioni, afferma che il territorio sarebbe provvisto di banchi argillosi utilizzabili in questo processo produttivo.
7
Sull’argomento: Filippi – Stanco 2005; Filippi – Gasperoni –
Stanco 2008.
8
Le fasi del ciclo produttivo della ceramica pesante (materiali
da costruzione, dolia, mortaria, terrecotte architettoniche e sarcofagi), dall’approvvigionamento alla preparazione della materia prima alla cottura e forse, almeno in parte, allo stoccaggio e
alla distribuzione, non dovevano del resto differenziarsi molto.
Appare dunque evidente come, anche da un punto di vista economico, dovesse risultare conveniente affiancare le produzioni
di minore entità, come quelle dei dolia, ai contesti produttivi attrezzati per la produzione di materiali da costruzione, in maniera da diversificare la produzione delle figlinae, quindi definibili
polivalenti, moltiplicandone l’offerta senza dover duplicare del
tutto la struttura produttiva (Lazzeretti – Pallecchi 2005).
9
De Santis 2009, 149-150: lungh. bollo cm 10,3, alt. cm 2,4, alt.
lettere cm 1,5.
10
Sul tema ampiamente studiato si veda innanzitutto Bruun
2005 e in particolare la sintesi dello stesso Bruun nella presentazione dell’opera (pp. 3-24). Per altri contributi fondamentali
v. Manacorda 1993; Steinby 1993. Va rilevato che nella villa di
S. Lorenzo a Falacrinae, sempre in Sabina, è stato rinvenuto
l’orlo di un dolio con impasto dell’argilla apparentemente simile, con molte inclusioni micacee, dove compare il bollo L.
Octav(ius) // Calvi(nus), datato alla metà circa del I sec. d.C.,
che si è ipotizzato fosse pertinente ai produttori dei dolia e non
al proprietario della villa (De Santis 2009, 142). Importanti
dati circa la produzione in situ di dolia provengono dal sito di
Scoppieto dove sono stati rinvenuti svariati esemplari di prima
età imperiale, alcuni dei quali con difetti di cottura. Anche in
questo caso si attestano dei bolli (Nicoletta 2007; Bergamini
2008, 305-313).
11
Sternini 2000, 27-28.
12
Sternini 2000, 18.
13
Sui coperchi dei dolia si vedano gli esempi da Scoppieto (Bergamini 2008, 313; Nicoletta 2007, 163-164), da Settefinestre (Carandini 1985, 59-61; 106, 110, fig. 180), dalla villa della Pisanella
(Stefani – Sodo – Fergola 2002) e da Villa Regina a Boscoreale
(De Caro 1994). Sul tema inoltre si veda Taglietti c.s., sia per una
sintesi sui dati già noti che per nuove testimonianze sulle celle
vinarie di Nova et Arruntiana rinvenute lungo il Tevere alla fine
del XIX secolo dal Lanciani.
127
Patrizio Pensabene – Eleonora Gasparini – Giuseppe Restaino
villa, datata tra I sec. a.C. e II sec. d.C., ma circoscrivibile in modo più preciso all’età giulio-claudia,
all’interno del vano a pianta circolare, l’ambiente 26,
è stata in prevalenza indagata la fase di occupazione
precedente, databile fra III e I sec. a.C. Lo scavo ha
riguardato la parte meridionale del vano dove erano
già in luce due pavimenti tardo-repubblicani posti
ad una quota inferiore rispetto a quello in cocciopesto dell’ambiente termale. Delle due pavimentazioni,
la prima consiste in un opus spicatum chiuso a nord
da una canaletta intagliata nel banco vergine e la seconda in un piano di frammenti di dolio, di cui è
visibile un’area di circa un metro quadro.
Le più antiche stratigrafie scavate in questa campagna si datano, grazie al ritrovamento di ceramica
a vernice nera, al III sec. a.C. e si riferiscono ad un
ulteriore piano compattato da lastroni, certamente
precedente rispetto al pavimento in opus spicatum.
Gli strati che riempivano la canaletta, invece, hanno restituito, oltre a svariati frammenti di intonaco
dipinto di colore bianco e rosso, esemplari in ceramica che circoscrivono un ambito cronologico di II-I
a.C.14.
Per ciò che riguarda l’indagine all’interno dell’ambiente 25, si è potuto osservare come sia stato praticato un innalzamento del piano di calpestio con abbondante pietrame durante l’edificazione delle terme della
villa, mentre, nel settore centrale, lo scavo ha messo in
luce uno strato di estremo interesse: sono stati infatti
rinvenuti una notevole quantità di frammenti laterizi,
forse esito del crollo o dell’accumulo di materiali che
in origine costituivano un ipocausto15.
Una nota importante è costituita dal ritrovamento, quasi in corrispondenza dell’angolo sud-ovest del
vano, di un cunicolo16 voltato a botte che procede
verso sud-ovest: potrebbe trattarsi di un canale di
scolo a cui forse, in questo punto, era collegato un
pozzetto nel quale venivano convogliate le acque
dell’edificio e in particolare dell’impianto termale17.
Lo scavo di alcuni vani delle terme è rientrato in
una più generale indagine volta a ricostruire l’architettura e l’organizzazione funzionale del balneum
della villa. Già dalla storia degli studi è noto come
l’inserimento di questo impianto termale abbia modificato il progetto originario dell’edificio, determinando la perdita dell’assialità tra l’atrio e il gruppo
di vani subito a nord di questo, tra cui in particolare
l’ambiente 10 identificato come tablino18. Il blocco
edilizio in cui si identifica il quartiere termale potrebbe comprendere sette vani più un corridoio di
passaggio, ma, alla luce delle vecchie così come delle
nuove indagini, resta di complessa soluzione il problema di identificazione della destinazione d’uso di
tali ambienti, specie in mancanza dei dati di scavo
relativi alla loro scoperta. La nostra attenzione si è
focalizzata sul vano 26, quello maggiormente caratterizzato come ambiente di un balneum per la pianta circolare inscritta in un quadrato con nicchie semicircolari angolari, forma largamente attestata nel
mondo romano per frigidaria o laconica. Nell’ambiente manca una vasca centrale che potrebbe,
tuttavia, esser stata sostituita da un labrum o da un
bacino mobile. Non si hanno tracce anche del sistema di riscaldamento, per il quale è da escludere un
ipocausto, data la presenza di un interro compatto
di argilla che rialzava il piano di calpestio rispetto
ai pavimenti di I fase. Attorno all’interpretazione di
questo vano ruota il riconoscimento della tipologia
degli altri ambienti termali19, dei percorsi funzionali
(fig. 5) e di servizio, nonché del sistema di afflusso e
deflusso delle acque (G.R.).
14
Sono stati rinvenuti manufatti a vernice nera, in ceramica
comune, a pareti sottili, lucerne e anche un frammento di parete di coppa a rilievo, la c.d. italo-megarese, in questo caso
circoscrivibile agli anni 175-150 a.C. La raffinata decorazione
a matrice, che lascia pensare alla produzione di Tivoli (Puppo 1995, 66-80; Leotta 2005, 51-58, tav. 4, 5), si articola su 3
registri: il primo presenta una piccola porzione di onda che
sormonta un fregio a doppio meandro intrecciato; nel secondo
si osservano foglie di acanto alternate a palmette su un kyma
ionico; il terzo infine conserva la metà di una rosetta e la parte
terminale di un altro elemento vegetale, probabilmente una foglia d’acanto. Lo stesso strato restituisce svariati esemplari in
ceramica Campana B, con cronologie tra II e I sec. a.C. Tra di
essi citiamo un fondo di piatto di probabile fabbrica etruscosettentrionale, come si evince dall’impasto calcareo chiaro e
dalla vernice nero-bluastra liscia e lucente. Esso presenta una
decorazione a stampigli del tipo con due “C” contrapposte e
punti, tra scanalature concentriche. È visibile anche il tondo
d’impilaggio, che ha lasciato una chiazza circolare scolorita e
sfumata (Morel 1981, tipo serie P.100, tav. 226-231). Citiamo
anche due lucerne frammentarie del tipo cilindrico “dell’Esquilino”, che si collocano tra le seconda metà del II e la prima
metà del I sec. a.C. (Pavolini 1981).
15
4. La cava
Oltre ai lavori citati, a partire dall’estate 2011, a
Cottanello è stato aperto un nuovo fronte di studi
incentrato non solo sulla villa, ma sulla produzione
Al momento sia le quote rilevate, in comparazione con quelle
dei pavimenti di I e II fase negli ambienti adiacenti, sia i dati
cronologici preliminari sulla ceramica e sui lacerti di cementizi rinvenuti ci portano a ritenere più probabile l’ipotesi che si
tratti dei resti di una fase precedente distrutta e parzialmente
riutilizzata per creare un innalzamento dei piani di calpestio. I
reperti sicuramente attribuibili al I sec. d.C., come un frammento
di lastra di sima certamente datato all’età giulio-claudia, testimonierebbero soltanto la cronologia del cantiere.
16
Alto (almeno al livello attuale di scavo) cm 70 ca. e largo 50
ca.
17
Potrebbe trattarsi dell’inizio di una canalizzazione già individuata attraverso le indagini geomagnetiche e segnalata dalle
anomalie riscontrate, le quali, partendo dall’angolo sud-ovest
della villa, si dirigono verso quello che sembra essere un grande
ambiente a valle, forse una cisterna. Per le analisi geofisiche di L.
Cerri e L. Passalacqua v. Sternini 2000, 191-198.
18
De Simone 2000, 61.
19
Un maggiore approfondimento è stato effettuato sull’ambiente 25 che, dall’analisi planimetrica, ipotizziamo sia il tepidarium,
sebbene non sia ancora chiaro come potesse essere riscaldato. Altre proposte interpretative includono l’identificazione
dell’apodyterium nell’ambiente 23 e della latrina nel vano 29.
128
Cave locali e architettura residenziale: ricerche 2011 della Sapienza – Università di Roma a Cottanello
non solo di questa, ma anche di tutte le altre pietre
attestate nel periodo repubblicano nell’Italia centromeridionale.
Il marmo di Cottanello è stato individuato in località varie e monumenti di epoca diversa21: si citano, soprattutto per lastre pavimentali, Pompei, Ercolano, Ostia, Lucus Feroniae e alcune località fuori
dall’Italia, come Vaison la Romaine.
In Cottanello è altresì nota una sola scultura, un
grande labrum, e in questo caso la scelta della pietra
in questione rientrerebbe nel gusto dell’uso di litotipi rari, che spesso caratterizza proprio gli arredi scultorei dei palazzi imperiali o delle residenze dell’élite
senatoria22.
In ogni caso è proprio la villa, con i suoi manufatti in Cottanello, che ci testimonia la qualità estratta
nell’epoca contemporanea ad essa e che potrà fornire i campioni da comparare con quelli prelevati in altri siti archeologici. Qui risulta sicuramente attestato
l’utilizzo del Cottanello in vari elementi relativi alla
fase principale, di età giulio-claudia: nelle sue diverse qualità più o meno venate, il Cottanello è impiegato per i cubilia, così come per alcune delle soglie
che danno accesso ai vani, per le tessere di colore
rosso dei mosaici e, nella sua varietà migliore ovvero
più scura e più venata, negli elementi architettonici
in pietra presenti nel peristilio, dove si collocano un
fusto, due capitelli tuscanici e un capitello dorico in
calcare.
Abbiamo dunque deciso di affrontare come prima tappa del nostro studio il rilievo delle tracce di
cavatura manuali, cioè precedenti all’introduzione
dell’uso del fioretto (trapano) nei processi estrattivi, che inizia agli inizi del ’900, nella cava sul monte Sterpeto, a km 1,5 ca. dal paese, come tentativo
di creare una mappatura dei segni di lavorazione e
ricercare gli strumenti per una loro distinzione cro-
Fig. 5. Piante ricostruttive e ipotesi dei percorsi dell’impianto termale (dis. G. Restaino).
in quest’area del tipico calcare rosato che prende il
nome di Cottanello, data la sua estrazione presso
questo centro e anche nelle zone limitrofe20.
Il Cottanello rappresenta una pietra di non trascurabile valore estetico, ma anche strutturalmente
solida, senza che la composizione abbia influenzato
la sua funzione di sostegno quando usato per colonne: basti pensare all’uso impressionante che ebbe a
cavallo tra il XVII e il XVIII secolo con il Bernini e
il Borromini. Le attività di cava dal ’600 giungono
dunque sino agli anni Settanta del ’900, quando la
fine dell’estrazione ha pressoché congelato il cantiere, rendendolo un affascinante sito di archeologia
industriale (fig. 6).
Alla luce di un così ampio utilizzo in età moderna non crediamo quindi che i motivi della contenuta
diffusione del Cottanello in età romana siano da ricercare nella qualità, bensì in varie circostanze storiche che vanno richiamate nell’analisi dell’impiego
Fig. 6. Veduta del settore della cava con un troncone di colonna non
ancora completamente staccato dal banco (foto E. Gallocchio).
20
Il tema è stato approfondito in Pensabene – Gallocchio – Gasparini – Brilli c.s.; Pensabene – Gasparini – Gallocchio c.s.
Gnoli 1988, 186.
22
Bacino di tipo VIII e piedistallo di tipo I (a) in Ambrogi 2005,
258-259. Molto stringente è il confronto tra il nostro labrum e
un esemplare in pavonazzetto ora in Vaticano nel Museo Pio
Clementino, per il quale la datazione proposta è la prima o al
massimo la media età imperiale.
21
129
Patrizio Pensabene – Eleonora Gasparini – Giuseppe Restaino
nologica. Nella cava è stato quindi possibile riconoscere due periodi di frequentazione: la più recente
sarebbe testimoniata, sulla terrazza inferiore, dal largo uso del trapano circolare o fioretto, che avrebbe
in parte cancellato le tracce delle attività precedenti.
La frequentazione più antica, in cui venivano usati
utensili manuali, sarebbe invece individuabile sulla
terrazza superiore, nella zona di estrazione a grotta.
Tale momento è probabilmente da collocare in età
barocca, dato il riferimento alla data 1688 incisa sulla volta assieme alle iniziali “BC”, che si può ipotizzare siano di chi aveva in concessione lo sfruttamento della cava. Tuttavia la presenza nelle pareti della
stessa grotta di numerali romani come “VVV”, “V”,
“XXX” e all’interno di cartigli in cui si può riconoscere anche il simbolo “∞” (fig. 7), che proprio nelle
cave romane indica il numerale 1000, fa pensare ad
una fase originaria di sfruttamento di età romana.
dizioni di proprietà delle sue cave, da ritenere private,
e probabilmente collegate con la famiglia degli Aurelii Cottae. Infatti i costi del trasporto dovevano essere
piuttosto alti, soprattutto per raggiungere dalle cave il
tratto navigabile del Tevere, e poi per distribuirlo nei
vari siti in cui poteva essere richiesto. In un periodo in
cui l’amministrazione imperiale aveva a disposizione
marmi colorati di alto pregio, come la portasanta che
richiama il nostro Cottanello, la disponibilità dei mezzi di trasporto che essa possedeva rendeva impossibile
che i marmi da cave private potessero essere concorrenziali con quelli statali (P.P.).
5. I colonnati
In passato è stato già eseguito uno studio archeometrico su campioni di cava che ha permesso la
caratterizzazione geologica della pietra23, di recente
confrontata tramite analisi isotopica con i manufatti
architettonici della villa24, avendo in tal modo la conferma che si tratta dello stesso litotipo25.
Alla domanda che ci siamo posti inizialmente sui
motivi della diffusione nel complesso limitata di questa pietra, che senz’altro può essere definita di pregio
e dotata di alto valore estetico, siamo ora in grado di
abbozzare una risposta, che si basa proprio sulle con-
Lo studio dell’utilizzo del marmo di Cottanello nella
villa ci ha portato ad un’analisi architettonica degli
elementi presenti nell’edificio che in origine componevano colonnati non solo in pietra, ma anche in
laterizio stuccato26.
Pur nell’incompletezza della nostra conoscenza
circa l’estensione dell’edificio, possiamo inquadrare
tre settori della villa che ospitavano colonne, ossia
l’atrio, il peristilio e l’attuale fronte est, dove si conserva una canaletta in calcare che lascia presupporre
l’affaccio su di una zona aperta27.
Per tali spazi possiamo in totale ipotizzare la presenza di circa 32 colonne28: attraverso i dati sul loro
numero e sulla loro posizione vogliamo sottolineare l’adesione del proprietario ad un linguaggio architettonico basato sull’adozione di modelli atti ad
esprimere il prestigio delle élites che abitavano questo tipo di residenze: si tratta di schemi architettonici
che sono già noti in altre ville della Sabina, ma che
forse devono essere maggiormente sottolineati sullo
sfondo del contesto territoriale.
Si è proceduto dunque ad una schedatura sistematica di tutti gli elementi degli elevati architettonici conservati sia in situ sia fuori contesto e si sono
così individuati due gruppi di fusti e di capitelli (fig.
8). Al primo gruppo appartengono tronconi di fusti
in laterizio stuccato, che sono divisibili in due sottogruppi: il primo, di diametro maggiore (cm 40 ca.),
con stucco di colore verde modellato in modo da
rendere una sfaccettatura29, il secondo, leggermente minore (cm 38 ca.), con lo stucco dipinto in bianco e lasciato liscio. Date le proporzioni e le analogie
23
28
Fig. 7. Cava di calcare, settore in grotta. Graffito simboleggiante
nelle cave romane il numerale 1000 (foto P. Pensabene).
Maiorani – Funiciello – Mattei – Turi 1992.
Pensabene – Gallocchio – Gasparini – Brilli 2012, 188.
25
Benché l’osservazione degli isotopi stabili dell’ossigeno e del
carbonio nei campioni prelevati presso la cava, presso un secondo punto estrattivo moderno in località Castiglione, a km 2,5 da
Cottanello, e dagli elementi architettonici della villa non consenta di distinguere il preciso punto estrattivo di questi ultimi.
26
Sul colonnato del peristilio si veda anche De Simone 2000, 67.
27
Per la sistemazione del fronte est l’ipotesi di un prospetto colonnato, insieme con quella di un muro continuo, viene proposta
in De Simone 2000, 58-59.
Esse sarebbero 16 nel peristilio, 4 nell’atrio e circa 12 lungo il
lato est, calcolando in quest’ultimo caso un intercolumnio uguale a quello che si riscontra nel perisitilio.
29
All’interno di questo primo sottogruppo, oltre ai tronconi più
grandi, vi sono anche numerosi frammenti più piccoli sempre di
colore verde. Non affrontiamo qui il problema di alcuni frammenti di stucco rosso che forse restituiscono angoli di sfaccettature di colonne, con una sfaccettatura più stretta dell’altra che
presenta lungo il margine un attacco ad angolo retto: si tratta
forse di frammenti di semicolonne, ma non sono per ora escluse
altre possibilità.
24
130
Cave locali e architettura residenziale: ricerche 2011 della Sapienza – Università di Roma a Cottanello
con colonne note delle città vesuviane30, in cui vi è
spesso un contrasto di colore tra la parte inferiore
e quella superiore, proporremmo di ricostruire una
colonna pseudorudentata, con la parte inferiore
verde a contorno poligonale e la superiore liscia e
bianca. Tale ricostruzione sembrerebbe contraddittoria, in quanto le colonne rudentate normalmente
derivano da quelle scanalate e dunque presentano
scanalature nella parte superiore, mentre nel settore basso le scanalature risultano poi o “riempite”
o trasformate in sfaccettature che danno appunto
un contorno poligonale. In realtà la contraddizione che si delineerebbe nel nostro caso sarebbe solo
apparente, in quanto potremmo essere di fronte o a
un incompiuto, dovuto anche ad un risparmio della
lavorazione, o meglio ad una scelta stilistica che rientra in una delle tendenze dell’architettura dorica
tardo-repubblicana che fa uso di fusti stuccati e co-
lorati, dove si preferisce il contrasto cromatico che
fa passare in secondo piano la necessità di scanalare
il terzo superiore31.
Il fatto che in una vecchia foto di scavo dell’atrio è
visibile in stato di crollo uno dei tronconi sfaccettati,
quindi presumibilmente ritrovato durante lo scavo di
questo ambiente, ci induce a ipotizzare che il tipo sia
collocabile non solo nel peristilio, dove attualmente
gli elementi si trovano, bensì anche nell’atrio della
villa, che si configurerebbe come tetrastilo32.
A questo primo gruppo è pertinente un capitello
dorico (diam. cm 38,5, alt. cm 26) in calcare di Cottanello con un unico listello, che tuttavia corrisponde
alla moda tardo-ellenistica dell’echino troncoconico
non espanso e databile all’età tardo-repubblicana
o primo-augustea quando l’ordine dorico presenta
una semplificazione come appunto la riduzione degli
anelli33. Va notato che il capitello probabilmente non
era stuccato, in quanto presenta un diametro uguale
a quello dei fusti compreso lo spessore dello stucco34. Mancano inoltre i segni della picchiettatura che
avrebbe facilitato l’adesione del rivestimento e pare
più probabile che la superficie fosse stata lasciata libera per valorizzare il colore della pietra. Nel peristilio si aggiungono le sottobasi intagliate negli stessi
blocchi in calcare dello stilobate, anch’esse forse non
rivestite, che hanno diametro di cm 42 ca.35.
Il secondo gruppo di elementi architettonici presenti nella villa, che riteniamo di una fase più tarda, è composto da capitelli tuscanici e fusti, entrambi del tutto in
pietra e non ricoperti di stucco, in quanto l’elemento
di prestigio derivava proprio dal mettere in evidenza
il colore naturale della pietra. Essi hanno dimensioni
leggermente maggiori del primo gruppo36, in quanto il
diametro del capitello è cm 42,5 e l’altezza cm 30 ca.,
mentre il fusto è di cm 44. Elemento datante è il capitello tuscanico con echino a gola dritta, che comincia a
diffondersi a Roma e in Italia dal tardo I sec. a.C.37.
30
33
Fig. 8. Elementi architettonici in calcare e in laterizio conservati
nel peristilio (foto E. Gasparini, dis. F. Troiani).
Dall’analisi degli ordini architettonici attestati in ventisette
contesti residenziali e tre complessi termali si sono individuate le
seguenti tipologie di superfici stuccate dei fusti: liscio, scanalato,
rudentato, terzo inferiore liscio e superiore scanalato, terzo inferiore rudentato e superiore scanalato, terzo inferiore sfaccettato
e superiore scanalato. Sebbene non si sia riscontrato il tipo terzo
inferiore sfaccettato e superiore liscio, che noi ricostruiamo per
Cottanello, un possibile confronto si incontrerebbe nella Casa di
Sallustio a Pompei, dove le colonne, sfaccettate nel terzo inferiore, non si conservano nella parte superiore.
31
Dobbiamo considerare che siamo nel campo delle colonne
stuccate, dove cioè la decorazione è resa totalmente modellando
il rivestimento in stucco. Infatti normalmente i fusti in laterizio
non sono mai scanalati a vivo nell’argilla, ma, se programmati
come fusti dorici, vengono scanalati solo nella parte stuccata.
32
Sull’atrio v. anche l’analisi di De Simone 2000, 59-60, in particolare fig. 6. Va rilevato che nella storia degli studi si è creduto di
riconoscere nell’atrio il tipo tuscanico (Santangelo 1975-76, 802,
n. 11757; Alvino 1995, 502): questa ipotesi potrebbe trovare un
fondamento nel fatto che attualmente, a seguito dei restauri sui
mosaici, non sembrano potersi rintracciare segni relativi a un
colonnato. Tuttavia riteniamo che alcune modifiche potrebbero
essere intervenute appunto con i restauri, così da determinare la
scomparsa di tale sistemazione.
Per il tipo dorico tardo-ellenistico: Martin – Lézine 1959;
Pensabene 1993, 79-83, fig. 67.
Il diametro è in entrambi i casi compreso tra cm 38 e 39.
35
La misura si adatta al diametro dei tronconi sfaccettati che,
incluso lo stucco, si aggirano intorno a cm 40. I blocchi dello stilobate del peristilio che comprendono le sottobasi sono di lunghezza variabile tra m 1,50 e 2 e larghezza di cm 50 ca. I blocchi
che compongono la canaletta, intagliati solo parzialmente, sono
di lunghezza tra cm 50 e m 1,50 e di larghezza di cm 50 ca.
36
Nella nostra ipotesi ricostruttiva abbiamo ricavato l’altezza del
fusto dal rapporto con essa di 1:7 del diametro inferiore (Vitr.,
arch., IV, 3, 4; sui rapporti proporzionali delle colonne si vedano
gli esempi di Pompei e in particolare citiamo Ling 1997, fig. 51).
Nel caso della colonna con fusto in laterizio cm 42: x = 1:7 = m 2,94
+ cm 26 (capitello) = m 3,20; nel caso della colonna con fusto in
calcare cm 44: x = 1:7 = m 3,10 + cm 30 (capitello) = m 3,40.
37
Sul tema si veda Rosada 1971. Numerosi confronti si rinvengono a Roma: si vedano ad esempio i capitelli di lesena del portichetto del Foro Olitorio in Pensabene 2013, con relativa bibl.
Il tipo si attesta inoltre negli horrea di Ostia di età giulio-claudia
(Pensabene 1973, 33-34), a Porto, presso il portico di Claudio
(c.d. Colonnacce) (Pensabene 1973, 34, 66-67), nonché tra i capitelli tuscanici della Proconsolare (v. Lezine 1955, 11-29, pl. II,
1; pl. III, 1; Rosada 1971).
34
131
Patrizio Pensabene – Eleonora Gasparini – Giuseppe Restaino
Fig. 9. Prospetto ricostruttivo della villa, lato nord-sud (dis. D. Vitelli).
Fig. 10. Prospetto ricostruttivo della villa, lato est-ovest (dis. D. Vitelli).
Siamo stati portati a ipotizzare questa differente
cronologia, in quanto anche dagli scavi sono state
individuate due fasi, una tardo-repubblicana e una
di prima età giulio-claudia, data che corrisponderebbe con quella delle lastre in terracotta studiate dalla
Sternini38.
Riteniamo che il fianco est della villa possa costituire uno spazio idoneo ad accogliere il colonnato
in calcare39, anche alla luce della ricostruzione di un
percorso ufficiale di accesso all’edificio che passava
proprio da tale fronte, per culminare nel vano 7, il
quale potrebbe aver svolto la funzione di atrio di
rappresentanza40. Tale sistemazione andrebbe ascritta al momento in cui, con l’inserzione del complesso
termale, l’ambiente 15, forse in origine progettato
come unico atrio, finì con l’assumere il ruolo di cortile connesso con il balneum, cosicché le modifiche
avrebbero comportato anche la necessità di investire
sul fronte est, che sarebbe stato provvisto del colonnato in calcare. I dati cronologici emersi dallo scavo,
nonché dall’analisi strutturale41 e, non da ultimo, dai
capitelli tuscanici che attribuiamo a tale colonnato,
inquadrano la ristrutturazione nell’età giulio-claudia
(figg. 9-10).
Proiettando nella problematica storico-economica
della produzione del calcare di Cottanello la differenza stilistica e soprattutto l’uso della pietra nei capitelli
di entrambi i tipi e nei fusti del secondo gruppo, ci
si è chiesti il motivo per il quale nel gruppo che riteniamo più antico il calcare sia utilizzato soltanto per
38
si sono riscontrate tracce, dal momento che la presenza di scale
nel vano 5 testimonia l’esistenza di un secondo piano in questo
settore della villa.
40
L’ipotesi viene avanzata anche in De Simone 2000, 66.
41
Sternini 2000, 70-72.
Sternini 2000, 134-135.
Poiché risultano di dimensioni molto simili, è da ipotizzare
che il colonnato in laterizio e quello in calcare appartenessero a
due ambienti diversi. Resta tuttavia aperta l’ipotesi che sul peristilio si sviluppasse anche un secondo ordine, di cui ad oggi non
39
132
Cave locali e architettura residenziale: ricerche 2011 della Sapienza – Università di Roma a Cottanello
Patrizio Pensabene
Sapienza – Università di Roma
[email protected]
i capitelli e i blocchi dello stilobate e non per i fusti:
alcune spiegazioni possono intravedersi nel fatto che
avrebbe forse conferito più prestigio l’uso del laterizio stuccato piuttosto che il calcare locale, oppure nel
fatto che l’alto costo della qualità buona del Cottanello, forse determinato dalla fragilità della pietra tagliata a blocchi per grandi elementi, avrebbe consigliato
l’immissione nel mercato soprattutto di lastre e dei
pochi fusti ricavabili e non il loro utilizzo nella villa.
Altre ragioni di natura economica connesse con le dinamiche del mercato del marmo subentrate a partire
dalle politiche augustee42 avrebbero infine forse determinato un uso limitato della pietra (E.G.).
Eleonora Gasparini
Sapienza – Università di Roma
[email protected]
Giuseppe Restaino
Sapienza – Università di Roma
[email protected]
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Pensabene P. – Gasparini E. – Gallocchio E. c.s.: “Il Cotta-
Abstract
The 2011 campaign at the villa of Cottanello saw the partial excavation of some rooms already uncovered with the old investigations on the site carried out during the Seventies. Between them
there is the cryptoporticus. This investigation uncovered at least
two dolia used for the conservation of agricultural products. The
rim of one bore the stamp MCOTTAE, thus confirming a link between the toponym Cottanello and the building. At the same time
investigations and analyses have been carried on in the bath complex of the villa. We worked on the identification of the functional
route through the baths, the system of water supply and drainage,
the position of the hot and cold pools and the evidence for the
heating system. In 2011 we have also started a new research on
the Cottanello quarries, that are located in the vicinity of the villa
and that yielded a pinkish stone rather appreciated not only in the
neighbouring villa but also in Rome and Italy. Of great interest is
the study of the relationship of this quarry with the owners of the
villa nearby. Finally, we has drawn attention on architectural elements, both in stone and in bricks, that lie in the villa.
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42
V. supra.
133
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134
L’area funeraria in località Campo Reatino (Rieti).
Risultati della prima campagna di scavo 2011
Alessandro Maria Jaia – Maria Rosa Lucidi – Carlo Virili
“[…] la mia scoperta archeologica
è destinata a portare luce più piena
sulla vita dell’uomo primitivo (…)
nelle pendici dei monti
che circondano la pianura reatina”.
Giacomo Caprioli, Latina Gens VII, 1929
1. Premessa. Storia delle ricerche
L’area funeraria sita in loc. Campo Reatino (Rieti)1
fu casualmente individuata nel 1929 da Giacomo
Caprioli, nel corso di ricerche archeologiche volte a
dimostrare che la conca reatina era stata abitata anteriormente alla formazione del Lacus Velinus di età
storica2. Il Caprioli recuperò e documentò materiali
di corredo (fig. 2) e resti di strutture funerarie pertinenti ad almeno tre tombe ad incinerazione (tombe 1,
4-5)3 della prima età del Ferro rinvenute casualmente ad opera di contadini locali mentre erano intenti a
scavare il tenero banco travertinoso, detto localmente
“pietra sponga”, per farne materiale da costruzione4.
Fig. 1. Stralcio dal Catasto Gregoriano (Provincia Sabina, Delegazione di Rieti, Sezione VI Rieti, Pratolungo) con indicazione
toponomastica, prossima all’area di scavo, denominata “Campo
Beatino”.
1
Per la precisione l’area comunemente nota nella letteratura archeologica come Campo Reatino, menzionata per la prima volta
dal Caprioli (Caprioli 1929, 112), spesso viene confusa con la
loc. Basso Cottano (Palmegiani 1932, 258; Radmilli 1953, 19)
immediatamente adiacente e geomorfologicamente complementare, in quanto il “ Basso di Cottano” costituisce la depressione
di origine lacustre sormontata dal ciglio del terrazzo travertinoso
di Campo Reatino. In verità la loc. Campo Reatino è posta sulle
attuali carte I.G.M. (Serie 25 db, 2004, Foglio 347, Sezione II) e
C.T.R (Foglio 347150) ad est dell’area funeraria, presso l’aereoporto o ancora più ad oriente. Nella cartografia storica (si veda
il Catasto Gregoriano, Provincia Sabina, Delegazione di Rieti,
Sezione VI Rieti, Pratolungo) la loc. Campo Reatino fa parte di
un altro Foglio posto ad est di Pratolungo che invece ingloba
l’area funeraria; tuttavia sembrerebbe estendersi anche fino al
“Cottano”. Preferiremmo, per evitare imprecisioni toponomastiche, non ricorrere ad un singolo toponimo per designare lo
spazio occupato dal sepolcreto, ma più genericamente, e forse
più precisamente, indicare la necropoli come un’area posta tra
l’attuale loc. di Quattro Strade e la loc. Basso Cottano. Appare
curioso, ma forse non troppo, notare come nel Catasto Gregoriano vi sia una località, immediatamente alle spalle dell’area funeraria, designata come Campo Beatino: una bella suggestione
o semplicemente un errore di trascrizione del cartografo papale
della R corsiva in B?! (fig. 1).
2
Sulla figura di G. Caprioli, pioniere della ricerca protostorica
velina, si veda da ultimo Virili 2012 con ampia bilbl. Il Caprioli
era convinto della presenza di insediamenti rivieraschi preistorici in quelle aree che, secondo l’interpretazione storico-geografica
dell’epoca, erano di pertinenza lacustre e per questo impossibilitate ad essere abitate. Secondo il Caprioli era possibile prendere in
considerazione l’esistenza di una fase storica in cui nel paesaggio
della Conca Velina non vi era l’esclusiva e imponente presenza
di un lago unitario; ciò avrebbe permesso lo sviluppo di forme
insediative stabili su terreni umidi frutto dell’intorbamento delle
acque lacustri. A riguardo degne di nota sono le sue riflessioni,
annotate sui supporti più disparati come il rotolo di una macchina calcolatrice sulle isoipse dei laghi reatini in cui egli scrive: “Se
Lago vi fu?!”. Quest’ipotesi era in parte in contraddizione con
la vulgata accademica del tempo, la quale escludeva senza mezzi
termini l’esistenza di un periodo storico in cui il lago non vi fosse.
Il più autorevole sostenitore di questa teoria, messa seriamente in
dubbio dai rinvenimenti del Caprioli, era l’Ing. Eugenio DuprèTheseider che nel 1939 aveva pubblicato, grazie al consorzio di
Bonifica della Piana di Rieti, un saggio storico-geografico sul Lago
Velino. Il Duprè-Theseider, spalleggiato accademicamente e politicamente dal regime fascista, era convinto che il lago si fosse al
massimo abbassato di livello (da 378-380 a 375 metri s.l.m.), ma
giammai naturalmente ridottosi al di sotto della quota da lui indicata come minimo livello di riva e quindi ne deduceva l’impossibilità di rinvenire tracce di vita all’interno della piana di Rieti fino
agli interventi di bonifica di età romana. Duprè-Theseider 1939.
3
La numerazione delle tombe segue quella definita da G. Filippi: Filippi 1983, 138-185.
4
La parte superficiale del banco calcare di cui è costituito il terrazzo travertinoso di Campo Reatino è particolarmente disfatto e per
questo adatto ad essere utilizzato per farne calce spenta, la parte più
compatta veniva cavata per realizzare blocchi da costruzione.
135
Alessandro Maria Jaia – Maria Rosa Lucidi – Carlo Virili
tici tesi a precisare l’esatta estensione del sepolcreto.
Nel 1981 vi fu un altro rinvenimento occasionale da
parte di alcuni contadini: una tomba ad incinerazione, integra, della prima età del Ferro con custodia
litica e cinerario costituito da un’olla con scodella
di copertura, poi scavata da G. Filippi (tomba 6).
Quest’unico contesto rinvenuto in giacitura primaria
funge da modello per le associazioni dei materiali di
corredo riferibili agli altri contesti funerari decontestualizzati6 (fig. 3). Dopo oltre trent’anni da questa
fortuita scoperta, una fitta coltre d’indifferenza da
parte delle istituzioni preposte alla ricerca e alla tutela è calata sull’area archeologica.
Oggi, grazie a un rinnovato interesse promosso
dal Museo Civico di Rieti e grazie ai finanziamenti
messi a disposizione dal Comune di Rieti (Assessorato alla Cultura) e dal Museo stesso, la Sapienza Università di Roma, Dipartimento di Scienze dell’Antichità, in collaborazione con la Soprintendenza per i
Beni Archeologici del Lazio, ha iniziato a sviluppare
un progetto di ricerca volto allo scavo sistematico
dell’intera area funeraria e, più a lungo termine, finalizzato ad una migliore conoscenza della protostoria
reatina7.
Fig. 2. Tomba 1. Disegno di G. Caprioli (Archivio di Stato di Rieti).
Prima del Caprioli già il parroco della zona, padre
Giulio Angelini, era venuto in possesso di vari materiali protostorici e porzioni di custodie funerarie
attribuibili ad altre due tombe ad incinerazione del
medesimo periodo (tombe 2-3)5. Anche in questo
caso le scoperte furono fortuite e legate all’impianto
di un vigneto da parte dei contadini, mezzadri della
Chiesa e a scassi del banco finalizzati all’estrazione
della pietra calcarea. Dopo i rinvenimenti occasionali
del Caprioli, finalmente nel 1937, ad opera della Soprintendenza alle Antichità delle provincie di Roma,
Aquila e Perugia, vennero eseguiti scavi più sistema-
Fig. 3. Combinazioni dei materiali di corredo articolate per
contesti funerari.
5
Caprioli 1929, 114; Palmegiani 1932, figg. alle pp. 252, 258;
Filippi 1983, 154-160.
6
Filippi 1983. Dopo l’edizione critica del Filippi, i materiali
sono oggi visibili al Museo Civico di Rieti, Sezione Archeologica,
secondo l’associazione materiali-contesti da lui proposta.
7
Il direttore scientifico del progetto di ricerca è il Dott. A.M.
Jaia, (Sapienza Università di Roma, Dipartimento di Scienze
dell’Antichità), il field director è il Dott. Carlo Virili (Museo Civico di Rieti). La campagna di scavo si è svolta tra il 18.07.2011 e il
16.09.2011; allo scavo hanno preso parte 24 persone tra laureati,
laureandi e studenti così articolati: nove della Sapienza Università di Roma (Simone Amici, Daniela Apollonio, Luca Coppa,
Giuseppe Giusto, Enrico Lucci, Mariele Proietti, Nevio Russo,
Eleonora Toti, Umberto Veronesi); sei dell’Università di Roma
Tre (Martina Aiello, Ada Cama, Eugenia Cesare, Davide De
Giovanni, Stefano De Luca, Andrea Simeoni); due dell’Università “La Tuscia” di Viterbo (Patrizia Costa, Arianna Giliberto);
due dell’Università di Torino (Chiara Ribolla, Marco Zaccone);
136
L’area funeraria in loc. Campo Reatino (Rieti)
2. Inquadramento topografico e geomorfologico del
sito
La necropoli in loc. Campo Reatino si trova km 4 ca.
a nord-ovest della città di Rieti, presso il km. 45,200
della Strada Statale 79 Via Ternana che la divide in
due8 (fig. 4). Il sito si pone sul ciglio di un terrazzo
travertinoso di natura organogena e di origine fluviolacustre, formatosi in età quaternaria, che si eleva di
15-20 metri sulla piana di Rieti (m 382 s.l.m.) e costeggia con un dislivello di m 10 ca. la sottostante
località, di origine lacustre, costituita da sedimenti
alluvionali, propriamente detta Basso Cottano. Più
precisamente il sito si pone sul raccordo tra il terrazzo e la bassura del “Cottano”, segnando approssimativamente il confine della massima estensione del
Lacus Velinus quaternario verso la città di Rieti9. La
lieve altura si protendeva come un piccolo terrazzo
semi-isolato verso un ambiente articolato in zone
Fig. 5. Posizionamento dell’area di scavo 2011 all’interno del foglio catastale 53 (Rieti) 1:2000.
asciutte ed umide in età protostorica e decisamente lacustri-palustri di età storica10. Il banco presenta
superiormente uno strato friabile detto localmente
“sponga”11, talvolta affiorante; essendo possibile
ca­varne grandi massi facilmente lavorabili, venne
spesso utilizzato per realizzare la struttura principale
delle tombe protostoriche consistente in una cassetta monolitica con coperchio atta a custodire l’urna
cineraria.
3. Nuova campagna di scavo 2011
Fig. 4. Stralcio della C.T.R. 1.10000 (sezione n. 347100, Rieti) con
la zona di interesse archeologico (quadrati).
Lo scavo, condotto in maniera estensiva (senza saggi
discontinui), ha interessato una superficie di mq 4000
ca. all’interno della particella catastale 364 (foglio 53
uno dell’Università della Virginia, U.S.A (Dott. Jared Benton
U.S.A.); quattro archeologi della città di Rieti (Dott.ssa Daniela
Camardella, Dott.ssa Grazia Dionisi, Dott. Lucio Valerio Mandarini, Dott.ssa Letizia Silvestri). A loro va il nostro più sincero
ringraziamento per il lavoro svolto. Tutte le evidenze archeologiche sono state posizionate tramite un GPS topografico e rilevate
indirettamente tramite una stazione totale e poi mediante ortofotopiani, il tutto eseguito da Federico Nomi, come anche le foto
aeree, a bassa quota (dal pallone), con la collaborazione dell’Aereoporto di Rieti (responsabile NAAV, Dott. Maurizio Billi), ad
alta quota, con la collaborazione del reparto Aereomobile del
Corpo Forestale dello Stato di Rieti (Dott. Roberto Fantacci). La
documentazione e lo studio di tutti i materiali recuperati è stato
effettuato dalla Dott.ssa Maria Rosa Lucidi.
La proprietà del terreno sottoposto ad indagine di scavo è
dell’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero di Rieti
che desideriamo ringraziare per la disponibilità dimostrata. La
cantieristica è stata eseguita dall’impresa edile Cricchi Carlo di
Rieti e il movimento terra dalla SO.GE.A S.p.a di Rieti. Finan-
ziamenti alle attività sul campo sono stati offerti dal Comune di
Rieti (Settore VII, dirigente Dott. Carlo Ciccaglioni) sotto forma
di vitto e alloggio.
Un ringraziamento particolare va alla Dott.ssa Monica De Simone (direttore del Museo Civico di Rieti) per il continuo sostentamento logistico e scientifico dimostrato verso il progetto
di ricerca e infine ovvi e doverosi ringraziamenti vanno alla Dott.
ssa Giovanna Alvino della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio per l’immancabile interessamento e operato verso
il progetto e il procedere dei lavori, sebbene in queste difficili
temperie politiche che sistematicamente sottraggono ogni risorsa economica al Ministero dei beni e delle attività culturali e del
turismo.
8
Latitudine 42°26’3.94’’N – Longitudine 12°50’52’’E
9
Brunamonte et al. c.s.
10
Camerieri – Mattioli c.s.
11
Il nome “sponga” deriva dal termine spugna, in quanto il calcare organogeno si presenta fortemente fessurato, poiché origi-
137
Alessandro Maria Jaia – Maria Rosa Lucidi – Carlo Virili
del catasto di Rieti; fig. 5). Si è deciso di intraprendere in questa zona lo scavo estensivo, poiché proprio
quella era stata interessata in passato dai maggiori
rinvenimenti funerari (fig. 6).
La prima campagna di scavo si è proposta come
obiettivi, visto il carattere casuale delle scoperte e
l’assenza di precisi e documentati studi pregressi sul
contesto12, in primis di capire l’entità del sepolcreto:
sia dal punto di vista della sua articolazione spaziale
che, più specificatamente, di comprendere le tipologie tombali e le forme del rituale funerario adottate,
nonché di precisare il contesto cronologico13. Al di
sotto dello strato di arativo (dello spessore variabile
da cm 30 a 50 ca.), con materiale archeologico fortemente rimescolato e inquinato da manufatti mo-
Fig. 6. Posizionamento su carta 1:2000 dei rinvenimenti funerari
in loc. Campo Reatino (rielaborazione da Filippi 1983).
derni, affiora il banco di calcare organogeno. Tutta
la superficie del banco posta in luce è interessata da
recenti attività “in negativo”, sia di carattere agricolo, sia relative ad operazioni di cava (estrazione del
morbido banco calcareo). Le principali evidenze in
“negativo” interpretate come attività agricole sono:
1. solchi superficiali, poco profondi (da cm 5 a 10
ca.), stretti, paralleli tra loro e molto ravvicinati,
relativi ad arature molto recenti con orientamento nord-est/sud-ovest che tagliano i solchi n. 2
(fig. 7.1);
2. solchi profondi (da cm 40 a 60 ca. al di sotto del
banco), larghi (m 1 ca.), paralleli e distanti tra
loro dai 6 agli 8 metri e orientati in senso nordsud, relativi ai filari di un vigneto14 tagliati dalle
arature n. 1 (fig. 7.2);
3. fosse di medie dimensioni (m 1,30 x 0,50 ca.) e
profondità (da cm 50 a 70), di forma irregolare,
più frequentemente sub-circolari e ovali, che intaccano o sono comprese tra un solco e l’altro del
vigneto, interpretate come fosse per la piantumazione di alberi15 (fig. 7.3).
Le principali evidenze in “negativo”, interpretate
come attività di estrazione del banco geologico poco
profondo e poco consistente, consistono essenzialmente in:
4. fosse di grandi dimensioni (oltre m 2 x 1,50 ca.)
e profondità (in alcuni casi oltre m 1,75), di forma irregolare, da sub-circolari a bilobate a subrettangolari con, in alcuni casi, evidenti tracce di
piccone lungo le pareti (fig. 7.4).
A volte le fosse tagliano i solchi di piantumazione
del vigneto, spesso sono comprese tra un solco e l’altro. Tali cavità sono state interpretate come fosse realizzate per estrarre pietra “sponga” o sabbia grossolana (disfacimento della parte superiore del banco).
Queste moderne attività di sfruttamento del suolo, uniformemente distribuite su tutta la superficie indagata e variegate nei modi e nelle forme ma costanti
nel tempo, hanno considerevolmente compromesso
l’integrità del deposito archeologico (fig. 8.1)16.
La scarsa integrità dell’originaria stratigrafia
archeologica è apparsa subito evidente in quanto, svuotando il riempimento del primo solco di
piantumazione della vigna (US 3), vennero in luce
alcuni frammenti di impasto bruno, steccato e li-
natosi dalla cementificazione degli elementi vegetali prodotta dal
rilascio di carbonato di calcio insolubile.
Si esclude, ma solo dal punto di vista della seria rassegna critica degli studi, Filippi 1983.
13
La necropoli, in base ai pochi materiali di corredo rinvenuti
e a un solo contesto originario di rinvenimento, viene comunemente datata, in base ai materiali in bronzo, a partire dagli inizi
della prima età del Ferro.
14
Le arature più recenti, anche in virtù del diverso orientamento, tagliano le tracce dello scassato più antico eseguito per
l’impianto del vigneto al cui interno, tra un filare e l’altro, vista
l’ampia distanza tra i solchi continui, probabilmente si coltivavano cereali. Questo è un modo di ottimizzare lo sfruttamento
agricolo del suolo particolarmente diffuso nella piana di Rieti e
in tutte le conche intramontane appenniniche, in parte povere di
grandi spazi da dedicare agli areali seminativi.
15
In Sabina è sistematica la coltura promiscua della vite, detta maritata ad un sostegno arboreo. L’associazione tra vite e un sostegno
arboreo, olmo o altro, è una tecnica di cui troviamo ampia testimonianza fin dall’epoca romana. Fin dal II sec. a.C. Catone, così
come poi Plinio, Colummella e il reatino Varrone ricordano la vitis
arbustiva e sottolineano l’importanza economica della coltura promiscua che consente la coltivazione di altri prodotti negli interfilari
di 5-6 metri di larghezza: Tozzi – Lorenzetti (eds.) 2007, 67-72.
16
Le stesse condizioni di frammentarietà e giacitura secondaria
dei materiali si riscontrano per le necropoli del Bronzo finale di
monte Tosto Alto e monte Abatone e monte Abatoncino di Cerveteri: Bartoloni et al. 1987, 67-73, nn. 94-117; Trucco et al. 1999.
12
138
L’area funeraria in loc. Campo Reatino (Rieti)
Fig. 7. Planimetria generale dell’area di scavo con
indicati i principali contesti e rinvenimenti.
Fig. 8. Area di scavo: tracce in “negativo” di lavori
agricoli e di tombe a buca
(Bronzo finale 3-primo
Ferro 1).
139
Alessandro Maria Jaia – Maria Rosa Lucidi – Carlo Virili
sciato di tipo protostorico pertinenti al fondo e alla
parete, prossima all’ingresso, di un’urna a capanna
(fig. 9.1‑2), del tutto simile a quella della tomba 2,
rinvenuta occasionalmente nel 1928 dal colono di
padre Giulio Angelini, Severino Simeoni, mentre
cavava pietra “sponga”17. I frammenti, in giacitura
secondaria, furono rinvenuti sul fondo dello scassato mescolati ai resti organici della pianta di vite e a
ceramica invetriata moderna. È plausibile pensare
che gli scassi per la realizzazione del vigneto abbiano
sconvolto una sepoltura ad incinerazione con urna a
capanna della prima età del Ferro (fig. 8.2)18.
Lo stato dei frammenti protostorici, quasi tutti
rinvenuti in giacitura secondaria (in quanto il loro
contesto primario appare sconvolto soprattutto dai
lavori agricoli), risulta un modello stratigrafico e interpretativo ricorrente: altri frammenti, questa volta
decorati con singole fasce di linee incise a pettine che
in alcuni casi descrivono un motivo decorativo probabilmente a meandro interrotto (fig. 9.4-5), sono
stati rinvenuti sul fondo di una fossa relativa alla
piantumazione di un albero.
Altri ancora sono pertinenti a porzioni di tetto
e di pareti di almeno altre due urne a capanna19 e
presentano un’unitarietà decorativa sia nella tecnica
che nello stile (file di cuppelle impresse, linee incise
continue, solcature a linee spezzate e a tratti obliqui,
costolature applicate), manifestando probabilmente
la volontà dell’artigiano di decorare i cinerari in maniera uniforme ed evidente20 (fig. 9.7-11).
La decorazione di alcuni dei frammenti in esame
si avvicina alla decorazione con motivi a “spina di
pesce” o a motivi vegetali presenti sull’urna-pisside della tomba di San Lorenzo Vecchio (Rocca di
Papa, Roma) datata al Bronzo finale 321. Più strette
analogie si trovano nei motivi decorativi presenti
su un’olla-cinerario e sulla sua custodia fittile, con
coperchio conformato a tetto di capanna (dolio-capanna), relativi alla tomba 3 di loc. Trigoria (Roma),
la quale viene datata al Bronzo finale 322. Il dato
Fig. 9. Materiali protostorici (Bronzo finale 3-primo Ferro 1) rinvenuti durante la campagna di scavo 2011. Frammenti di urne a
capanna: 1-2 (U.S. 3); 8-11 (U.S. 25); 12-15 (tomba 7).
cronologico, se confermato nelle prossime ricerche
da rinvenimenti meno decontestualizzati e da stratigrafie antiche meno disturbate, potrebbe essere
molto interessante, in quanto attesterebbe l’inizio
della frequentazione funeraria dell’area a partire
dalla fase ultima dell’età del Bronzo23, in contemporaneità con l’inizio della facies funeraria tirrenica
di Roma-Colli Albani I con la quale vi sono notevoli
affinità nell’ambito del rituale funerario, a cominciare dall’uso precoce da parte della comunità dei
vivi di selezionare come urna un modello miniaturistico di capanna. Questa specializzazione simbolica dell’ideologia sociale si riscontra in tutta l’area
17
Fillippi 1983, 140, 142, 154-158; Bartoloni et al., 74, n. 118.
Rientra nella variante VII del tipo 1A della tipologia proposta in
Bartoloni et al. 1987, 123, con pareti lisce non decorate. Sull’urna
a capanna della tomba 2, da ultimo, si veda: Virili 2009, 146, n. 2.
18
Poco distanti, ad ovest, presso una fossa realizzata per la cavatura del banco, sono stati rinvenuti altri frammenti di fondo
pertinenti forse ad un’altra urna a capanna (fig. 9.3).
19
Alcuni dei frammenti di urne a capanna rinvenuti potrebbero
riferirsi alle tombe 4 e 5 del 1929 di cui fa menzione il Caprioli (Caprioli 1929, 113) riguardo alle quali egli ci dice che due
tombe contenevano “[…] urne a capanna, con ceneri, andate distrutte per ignoranza” (Filippi 1983, 142, 161). I frammenti sono
stati rinvenuti all’interno del riempimento di una fossa realizzata
per la cavatura del banco (US 25).
20
In dettaglio il frammento di fig. 9.7, forse pertinente alla porzione di un coperchio di un vaso conformato a tetto di capanna,
presenta un motivo decorativo in cui le solcature a tratti obliqui si uniscono tra loro a formare linee spezzate tipo “chevron”;
il frammento in fig. 9.10, presenta una fascia costituita da due
linee incise campita internamente da tratti obliqui solcati che,
associandosi tra loro, richiamano un motivo a spina di pesce; i
frammenti in fig. 9.8-9, pertinenti a porzioni di tetto di urna a
capanna, presentano file di cuppelle allineate lungo una costolatura e tratti obliqui solcati tipo “grani di riso”.
21
Da ultimo: Mangani 2011.
22
De Santis 2009, 356, fig. 2.
23
La necropoli, in base ai materiali precedentemente rinvenuti,
viene datata all’inizio della prima età del Ferro (Bianco Peroni
1979, 45, 65; Filippi 1983, 145-146; Bartoloni et al. 1987, 74;
Virili 2009, 146). Il dato appare rilevante in quanto permette
di supporre una prima frequentazione dell’area funeraria non a
partire dalla II fase laziale, ma contemporaneamente alla I fase o
appena poco dopo il suo inizio, dimostrando come anche il territorio sabino (oltre che l’area della Sabina tiberina e “romana”
es: i materiali funerari da Magliano Sabina, loc. Collicello, e le
necropoli di Palombara Sabina, loc. i Colli, e Guidonia, loc. le
Caprine) più interno è partecipe, ma con una sua autonoma caratterizzazione, a quella facies funeraria medio-tirrenica che nei
territori del Latium Vetus assume quei connotati, nella cultura
materiale e rituale, ascrivibili ai primi Latini della tradizione letteraria e nei territori dell’Etruria meridionale vede il sorgere dei
grandi centri proto-urbani, future sedi delle città etrusche.
140
L’area funeraria in loc. Campo Reatino (Rieti)
medio-tirrenica24 tra il Bronzo finale 3 e il primo
Ferro, ma le caratteristiche dimensionali, decorative,
architettoniche e la modalità di chiusura delle urne a
capanna di Campo Reatino sono elementi più caratteristici della facies di Roma-Colli Albani I e IIA25.
Il corpus dei frammenti d’impasto protostorico
relativi a tombe sconvolte con urne a capanna si è
ancor più arricchito quando, svuotando un altro
solco di piantumazione per vigna, in prossimità del
fondo, si rinvennero, fortemente concentrati, nu-
merosi frammenti pertinenti al tetto, alle pareti e al
fondo di un’urna a capanna (fig. 9.12, 14-15) compreso un bel frammento, in buono stato di conservazione, di portello di chiusura (fig. 9.13). Insieme
all’urna si recuperarono numerose ossa combuste,
un frammento di verga di bronzo ritorta (forse un
ago di fibula) e svariati frammenti d’impasto relativi
a una piccola olla utilizzata come vaso di corredo
(fig. 9.16).
Dell’originario contesto protostorico ciò che rimaneva era una tomba ad incinerazione rasata (fig.
8.3) dai lavori agricoli, ma ancora in parte conservata
in situ, apparentemente priva di custodia litica26con
urna a capanna e corredo di accompagno sia fittile
che bronzeo27.
In sintesi le indagini di scavo hanno permesso di
recuperare numerosi frammenti d’impasto protostorico relativi ad almeno quattro urne a capanna;
sommate a quella già conosciuta della tomba 2, ne
risulta che la necropoli di Campo Reatino ha fino ad
ora restituito almeno cinque esemplari di cinerari
configurati a capanna. Un numero assai elevato, anche in considerazione dello scarso numero di tombe
rinvenute.
Di particolare importanza risulta il posizionamento di parte dei precedenti contesti funerari rinvenuti,
in quanto negli studi passati non è stata mai edita
una planimetria dell’area archeologica con il posizionamento delle tombe. L’analisi filologica delle modalità di rinvenimento edite ed inedite (corredate da
schizzi planimetrici e foto d’epoca), sovrapposte alle
notizie orali raccolte sul posto, hanno permesso di
interpretare alcune anomalie in “negativo” sul banco (di forma sub-circolare) non riconducibili a fosse
per la piantumazione di alberi o buche di cavatori di
“sponga”, come i tagli antichi effettuati per realizzare
le strutture funerarie. Pensiamo di aver rintracciato
con ottima approssimazione il taglio per realizzare la
buca della tomba 6 del 198128 (fig. 8.4; fig. 7) e forse
Fig. 10. Nucleo funerario di periodo tardo-antico (V-VI sec. d.C.).
Tombe a cappuccina: 1-3 (tomba 9 maschile); 4 (tomba 10 femminile); 5 (tomba 11 infantile): 6 (boccale in ceramica comune,
corredo tomba 6).
24
Ad esempio la citata necropoli di monte Tosto di Cerveteri,
v. nota 15.
Colonna 1988, 516. Da una prima analisi appare evidente
come vi siano forti analogie con la facies funeraria di Roma-Colli
Albani, come ad esempio: 1. l’accesso selettivo alla sepoltura:
non tutta la comunità viene sepolta, ma solo alcuni individui
(figure socialmente eminenti? pater familias?), vista la scarsa
presenza di sepolture le quali, a quanto sembra, sono poche e
rade (cfr. i contesti laziali compresi tra Roma e i Colli Albani: De
Santis (ed.) 2011); 2. l’ideologia funeraria e le forme del rituale
funerario: pratica della miniaturizzazione del cinerario (urna a
capanna, coperchio a tetto di capanna) e degli elementi di corredo (rasoio, tomba 6 del 1981); uso di motivi decorativi antropomorfi (scodella tomba 1 del 1929, Lucidi – Virili c.s.). Tuttavia è
proprio su questo secondo punto che si riscontrano le maggiori
divaricazioni e allo stesso tempo le maggiori specificità del gruppo culturale di Campo Reatino, come ad esempio la scelta rituale
di associare all’urna un solo vaso di accompagno (tomba 2 1928,
tomba 6 1981, tomba 7 del 2011) rispetto alla complessità quantitativa e qualitativa dei corredi delle tombe laziali (De Santis
(ed.) 2011, 13-51; Pratica di Mare (Pomezia), dove il corredo
è spesso miniaturistico: Cipollari 2010; Panella 2010a; Panella
2010b; così come nel Casertano: De Santis (ed.) 2011, 14, fig. 6).
Altro punto di divergenza è l’architettura funeraria: le tombe di
Campo Reatino non presentano mai l’urna deposta all’interno di
una custodia in ceramica (come è prerogativa nel Latium Vetus:
Colonna 1974, tavv. 120, 122, 126-129; Peroni 1996, 344-346.),
ma in alcuni casi una custodia litica come in Etruria meridionale,
in rari casi di forma quadrangolare (Iaia 1999, 30-32).
26
Si tratta quindi di una tomba a buca sub-circolare (diametro
di circa 1 metro, conservata per solo 20 centimetri di altezza)
con cinerario deposto a terra senza protezione. Nella necropoli sarebbe attestata una doppia modalità riguardo la protezione
strutturale del cinerario: in alcuni casi contenitori litici di forma
quadrangolare, in altri no.
27
I frammenti di urna a capanna, di quella che chiameremo
da ora in poi tomba 7, sono simili ma non combacianti a quelli rinvenuti in un altro scassato poco distante (fig. 9.1-2) che a
loro volta erano avvicinabili a quelli della tomba 2 rinvenuta nel
1928. Pur tenendo conto della parziale giacitura primaria del
contesto, avremo un corredo costituito da un’urna a capanna +
un oggetto d’ornamento in bronzo + un vaso: un’associazione ricorrente (tomba 2 e tomba 6) nel quadro di un rituale funerario
locale che predilige, per così dire, un minimalismo quantitativo
del corredo funebre (fig. 3).
28
Si veda la nota 6; Filippi 1983, 161-165, tavv. XXV, XXVII.
25
141
Alessandro Maria Jaia – Maria Rosa Lucidi – Carlo Virili
quello per realizzare la tomba 2 del 192929 (fig. 7).
Allo stato attuale, si può tentare di ipotizzare un’articolazione planimetrica del sepolcreto: almeno tre
tombe si allineano in direzione nord-est/sud-ovest e
hanno una distanza ricorrente variabile dai 6 agli 8
metri.
L’area di scavo, successivamente, è stata allargata in direzione sud-ovest, presso la statale 79 “Ternana”. Al di sotto dell’arativo poco potente è stato
posto in evidenza un grande strato con matrice a tessitura limo-sabbiosa di formazione naturale (US 63),
posto al di sopra del banco di “sponga”.
Lo strato, sterile di materiale archeologico, è molto esteso, tuttavia è confinato esclusivamente nella
parte sud-occidentale dell’area di scavo e ben delimitato a nord e a sud, come se fosse vincolato artificialmente verso queste due direzioni; l’idea è che si
tratti di un paleo-alveo di un antico fosso colmato
naturalmente da sedimento limoso di natura alluvionale (US 63, fig. 7).
In questo sedimento sono state ricavate quattro
tombe con copertura alla “cappuccina” (fig. 10.1-5).
Si tratta di un piccolo nucleo funerario di difficile
inquadramento cronologico, in quanto solo una di
esse (tomba. 11, infantile, fig. 10.5) ha restituito materiali di corredo compresi tra il V e il VI sec. d.C.
(un piccolo boccale in ceramica comune, fig. 10.6).
Le tombe, vicine tra loro, ben conservate, miracolosamente risparmiate dai lavori agricoli e/o dalle
operazioni di estrazione della pietra “sponga”, sono
costituite da fosse sub-rettangolari (lungh. 2 m. ca.,
largh. m 1 ca., per un profondità di m 1 ca.), presentano una risega interna per meglio alloggiare le
coppie di tegole, di norma tre (differenti tra loro per
colore e impasto e quindi di possibile riuso), poste a
spiovente e rincalzate lateralmente da coppi e scheggioni di “sponga” (tomba. 9, maschile; fig. 10.1-3).
All’interno delle fosse gli scheletri, in buono stato di
conservazione, ci informano che il defunto era stato
deposto supino e rivolto verso nord-est. Lo spazio
di risulta tra una tomba e l’altra è stato sistemato riportando al di sopra dello strato limoso, forse per
migliorarne le condizioni di drenaggio e quindi di
calpestio, uno strato di ciottoli misto a frammenti di
laterizio. Il tutto sembra finalizzato alla creazione di
un piano di frequentazione in relazione al piccolo
nucleo funerario, il quale attesta un riuso dell’area
funeraria, dopo gli inizi della prima età del Ferro,
solo a partire dal V sec. d.C.
La campagna di scavo ha ulteriormente permesso di puntualizzare un altro aspetto: il paleoambiente in età preistorica. Nella parte orientale
dell’area di scavo, al di sotto dell’arativo moderno (cm 30-40 ca.), comparvero quelle che a prima
vista sembravano due grandi “macchie” di forma
circolare di argilla marrone e sterile di materiale
antropico che delimitavano a nord e a sud il banco
di pietra “sponga”. Queste due enormi “chiazze”,
profonde oltre quattro metri, tagliano il banco di
“sponga” e sono riempite da sedimento finissimo
Fig. 11. Area di scavo:
grandi cavità sub-circolari
riempite di sedimento argilloso con una lama in
selce rossa epigravettiana
rinvenuta al loro interno.
29
Si veda la nota 5.
142
L’area funeraria in loc. Campo Reatino (Rieti)
a tessitura argillo-limosa (fig. 11.1-3). Secondo la
nostra interpretazione le due fosse sono di natura
geologica e possono essere due doline o sinkholes,
con un riempimento iniziale di tipo acquitrinoso,
presso il fondo, poi riempitesi naturalmente da
depositi alluvionali e apporti erosivi. In assenza di
studi di tipo sedimentologici – che meglio ci indirizzino sui processi di formazione del deposito – e
paleobotanici – che meglio chiariscano il momento
di formazione – in base ai rapporti stratigrafici che
le fosse hanno con il banco, si può solo dire che
esse sono posteriori, anche di poco, alla formazione
del terrazzo travertinoso di Campo Reatino, dove
migliaia di anni dopo una comunità locale decise,
forse a partire dagli ultimissimi anni dell’età del
Bronzo o dagli inizi dell’età del Ferro, di scegliere
questo rialzo come area funeraria30.
Abstract
logico Lavinium, 21 dicembre 2010 - 20 febbraio 2011), Roma,
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Alessandro Maria Jaia
Sapienza - Università degli Studi di Roma
Dipartimento di Scienze dell’Antichità
[email protected]
Maria Rosa Lucidi
Sapienza - Università degli Studi di Roma
1 Scuola di Specializzazione in Archeologia
Carlo Virili
Collaboratore della Soprintendenza
per i Beni Archeologici del Lazio
The necropolis at Campo Reatino is situated at about 4 km northwest of the town of Rieti, at Km. 45,200 of the S.S. 79 “Via Ternana” which divides it in two. The site lies on a travertine platform
rising 15-20 metres above the Rieti basin (380 m a.s.l). In 1929
Giacomo Caprioli first discovered the cemetery, of fundamental
importance for understanding the early Iron Age in the Rieti area.
G. Filippi made subsequent sporadic finds in 1981. The first excavation campaign, in July-September 2011, recovered elements from
four early Iron Age cremation burials in hut urns. The decoration
on the urns finds close parallels with those of the Roma-Colli Albani group. The percentage of hut urns (five from a total of ten depositions known from Campo Reatino) is high with respect to the
known average, for example in Lazio (Osteria dell’Osa, 10:1). No
intact burial contexts were found due to the heavy damage caused
by intense agricultural activity (vines and arable crops). A nucleus
of four tardo-antiche“a cappuccino” burials were uncovered in the
north-eastern corner of the excavation.
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A.M. (ed.), Prima di Lavinium. La necropoli del bronzo finale
dell’area centrale (Catalogo della Mostra, Museo Civico Archeo-
30
A nostro avviso queste due cavità, forse, in parte sopravvissute anche in età protostorica, potrebbero aver condizionato
parzialmente l’andamento del sepolcreto, in quanto l’andamento delle tombe protostoriche sembra seguire, come una sorta di
limite a nord a e sud, le due “macchie” di argilla. A sostegno
di questa ipotesi vi è la totale assenza, entro e oltre le fosse, di
materiale archeologico, eccezion fatta per una lama in selce rossa
(fig. 11.4), ben conservata, di aspetto epigravettiano, rinvenuta
sul fondo di un solco di piantumazione di vigna (fig. 7) che senza
soluzione di continuità ha intaccato oltre al banco di “sponga”
anche il riempimento argilloso delle cavità.
143
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144
Reate/Rieti. Archeologia urbana
Giovanna Alvino – Francesca Lezzi
Nel corso di lavori di ristrutturazione e miglioramento sismico dell’ex Caserma dei Carabinieri a Rieti in
via Cintia, voluti dalla Provincia di Rieti, sono state
rinvenute numerose testimonianze relative a differenti epoche storiche. Durante l’esecuzione dei cavi
per la realizzazione dei travi di coronamento e degli
scavi per la realizzazione degli ambienti interrati previsti in progetto, come i vani ascensori e l’archivio,
sono emerse le tracce, anche consistenti, della vita
pluristratificata del sito. Si è reso pertanto necessario
procedere con le indagini archeologiche.
La città di Rieti è situata a m 405 ca. s.l.m. nell’angolo sud-est di una vasta piana alluvionale, dominata
a nord-est dal gruppo del Terminillo. Il nucleo primitivo della città, la romana Reate, sorge sull’altura
di travertino alla destra del Velino. Fu città tra le più
importanti dei Sabini. Incorporata all’agro Romano
nel 290 a.C. a seguito della conquista del console Curio Dentato, fu prefettura fino all’età augustea, poi
divenne municipio1. Inserita in una regione scarsamente popolata ma piuttosto ricca, godette sotto i
Flavi, originari della Sabina, di un periodo di benessere, proseguito in età successiva fino alla tarda età
imperiale. Dalla fine del V secolo fu sede di diocesi
e nell’Altomedioevo, in seguito allo stanziamento
dei Longobardi, pienamente compiuto nell’ultimo
quarto del VI secolo, la città divenne sede di un potente gastaldato, dipendente dal ducato di Spoleto.
Durante la lotta per le investiture si schierò a favore
dei papi e nel 1198, quando già godeva di autonomie
comunali, stipulò con Innocenzo III i patti di sottomissione. Nel XIII secolo fu probabilmente teatro
di importanti eventi, tra cui l’incontro di Onorio III
con S. Francesco e nel 1234 la canonizzazione di S.
Domenico2.
La città romana, la cui pianta e perimetro sono
facilmente riconoscibili nell’abitato moderno, occupava solo parte della città moderna e si sviluppava
lungo l’arteria principale via Cintia-via Garibaldi,
antico decumano, e verso sud dalla piazza Vittorio
Emanuele, che era il foro3, lungo via Roma, antico
cardo della città. L’asse di via Roma, transitando su
un viadotto ad arcate4, collegava porta Romana al
ponte romano5 e, scavalcando il Velino, proseguiva
riallacciandosi alla via Salaria che veniva da Roma.
Le mura romane sono in opera quadrata di calcare
con torri quadrate aggettanti6 e tre porte a sud, porta
Romana, ad ovest, porta Spoletina, e ad est, porta Interocrina, attraverso le quali la città era collegata alle
grandi arterie di comunicazione, la via Salaria e la via
Curia7. Fin dal VIII secolo Rieti iniziò a espandersi al
di là della cinta muraria romana, con un’acquisizione
progressiva di aree, a sud fino al Velino, ad est fuori
porta Interocrina e a nord probabilmente edificando
precocemente l’area pianeggiante immediatamente
a ridosso delle mura. In epoca altomedievale e medievale della città antica furono conservati il ponte,
le mura con le sue torri e la rete viaria le cui tracce
si leggono ancora oggi nel tessuto urbano. Le mura
però iniziarono a perdere la loro funzione difensiva,
tanto che alcune torri dell’antica cinta furono trasformate in abitazioni private di potenti laici8. Dal 1252
fu attuata una vera e propria espansione pianificata
della città, con una complessa acquisizione, da parte
del Comune, di aree a nord dell’abitato. Questa importante espansione culminò con la costruzione del-
1
con blocchi di calcare. Restò in uso fino all’estate del 1932, quando
fu in parte smontato: Leggio – Lorenzetti – Menotti 1988.
6
Il primo studioso a tracciare il circuito delle mura è Colasanti
nel 1910. Per un censimento dei tratti delle mura conservati e
tutt’oggi visibili si veda, da ultimo, Lezzi 2010, 159-160.
7
Le principali vie di comunicazione con il territorio e a lunga
percorrenza sono la via Salaria, che da Roma giungeva a Rieti da
sud e ne usciva da est per raggiungere l’Adriatico, e la via Curia, che dalla porta occidentale, come tradizionalmente indicato,
usciva da Rieti per dirigersi verso Narni e Spoleto. Per la via
Salaria: Alvino 2003 e, da ultimo, Tripaldi 2009. Per la via Curia,
il cui tracciato è questione molto dibattuta, si vedano da ultimi
Camerieri – De Santis 2009, con bibl. preced.
8
Leggio 1989.
Sulla topografia della Rieti in età romana si citano, tra tutti,
Colasanti 1910, Spadoni Cerroni–Reggiani Massarini 1992; in
tempi recenti Lezzi 2009, Lezzi 2010, da ultimo Dionisi 2011.
2
Bolgia 2012.
3
La piazza del foro, corrispondente all’attuale piazza Vittorio
Emanuele, era pavimentata, circondata dagli edifici pubblici
come il capitolium, i cui resti sono visibili lungo il lato occidentale, e adorna di statue e monumenti. Molte sono infatti le statue e
le iscrizioni commemorative rinvenute.
4
Resti del viadotto sono visibili nei sotterranei di palazzo Napoleoni, palazzo Rosati-Colarieti, casa Parasassi, casa Sciarra.
5
Scendendo dal centro storico su via Roma, si arriva sulle rive del
fiume Velino, dove ancora oggi sono visibili i resti del ponte romano. Si tratta di una struttura a tre arcate costruita in opera quadrata
145
Giovanna Alvino – Francesca Lezzi
Fig. 1. Rieti: veduta aerea
della città.
la cinta muraria medievale, con torri quadrangolari
e cilindriche, a protezione dell’addizione urbana: se
ne conservano diversi tratti lungo il lato nord della
città, nonostante i restauri e gli sventramenti di età
moderna9.
In zona centrale, ad appena 150 metri dalla piazza del foro, lungo il principale asse viario est-ovest,
l’odierna via Cintia, di fronte al palazzo Vescovile,
prima di passare sotto l’arco del Vescovo, si trova
il palazzo dell’ex Caserma dei Carabinieri di Rieti,
oggi di proprietà della Provincia di Rieti. Conosciuto come palazzo Aluffi e di proprietà della potente famiglia reatina già nel 1700, fu la stessa famiglia
Aluffi che vendette nel 1908 il palazzo di 4 piani e
35 vani alla Provincia di Perugia10. Il forte sisma del
1898 provocò grandi danni alla struttura, tanto che
fu distrutta la parte nord-occidentale dell’edificio;
dal 1916 fu poi sede dell’Arma dei Carabinieri e da
allora subì importanti e significative modifiche.
Nell’area, com’è noto, sorgeva in età romana
un’ampia abitazione, i cui resti furono rinvenuti già
nel XVIII secolo. Per primo Loreto Mattei fornisce
alcune indicazioni riguardanti antiche costruzioni
esistenti sotto palazzo Aluffi11. Anche nel 1827, secondo quanto riporta Latini, furono ritrovati muri
e mosaici nei sotterranei della casa dal Sig. Conte
Aluffi12. Più recentemente, nel 1909, è il Colasanti
stesso che riporta la notizia del ritrovamento di una
colonna con base e fusto in uno sterro effettuato sotto il palazzo13.
Nei ritrovamenti effettuati durante gli interventi di
scavo oggetto di questa comunicazione diversi sono
i tratti di murature e i lacerti di pavimento di epoca
romana rinvenuti, testimonianza certa dell’esistenza
di un edificio ad uso abitativo. Questo occupava lo
spazio compreso tra l’antico decumano – odierna via
Cintia – e le mura in opera quadrata di calcare locale
della città romana (fig. 1).
Gli scavi, avviati a partire dal novembre 2011 nel
complesso monumentale sotto la direzione scientifica dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici del
Lazio, sono il primo cantiere di archeologia urbana
a Rieti, dove tutte le fasi di vita di questo settore cittadino si stanno investigando ed interpretando. Lo
9
to per la morte dell’autore nel 1705. Nel manoscritto il Mattei
descrive queste antiche fabbriche in opera reticolata identificate
con delle terme: Colasanti 1910, 271. Il testo del Mattei, rimasto
inedito fino al 1995, è pubblicato a cura di G. Formichetti, in
Il Territorio. Rivista quadrimestrale di cultura e studi sabini, 10
[1994], numero unico.
12
È di nuovo il Colasanti che riporta il testo del manoscritto di
Carlo Latini, Memorie per servire alla compilazione della storia di
Rieti: Colasanti 1910, 272.
13
Colasanti 1910, 272-273.
Rosatelli 1991.
I documenti di vendita e alcune planimetrie sono conservati
all’Archivio di Stato di Perugia (già Archivio della Provincia),
rispettivamente nella serie “Contratti” Contratto n. 1880 del 27
marzo 1908 e negli “Inventari del Patrimonio Immobiliare” Scatola n. 1432, fasc. 15. Si ringraziano il Dott. Francesco Imbimbo
della Provincia di Perugia per l’utile collaborazione nella ricerca
dei documenti e la Dott.ssa Paola Monacchia dell’Archivio di
Stato di Perugia per il prezioso aiuto nella ricerca.
11
Il Colasanti riporta il testo del manoscritto di Loreto Mattei,
Erario reatino, manoscritto della fine del ’600 rimasto incompiu10
146
Reate/Rieti. Archeologia Urbana
scavo ha infatti documentato come nel sito la vita
si sia protratta dall’VIII sec. a.C. passando per l’età
romana e medievale fino ai nostri giorni senza soluzione di continuità. Lo scavo è tutt’ora in corso,
pertanto i dati presentati si devono intendere come
preliminari e suscettibili di revisione a seguito del
proseguire delle indagini14.
In questi primi mesi di scavo si è investigato principalmente il lato orientale del palazzo, gli ambienti
più settentrionali prospicienti vicolo Severi15, l’ambiente più sud-orientale prospiciente via Cintia16,
il cortile in cui il progetto prevede l’edificazione
dell’ala nord-ovest del palazzo e l’area destinata ad
atrio (fig. 2).
È nella zona del cortile (fig. 3), dove più consistenti sono i riporti di terreno, che si sono potute
documentare le fasi di vita più recenti del complesso
monumentale17. Murature di epoca moderna e contemporanea sono comprese tra -0,30/0,60 centimetri
e -1,10/1,50 metri dal piano di cantiere. In particolare è possibile riconoscere le strutture contemporanee per l’utilizzo del cemento come legante. Queste
strutture possono distinguersi in due gruppi: da una
parte murature realizzate con blocchetti di calcare
(cm 70 x 50 ca.) e laterizi disposti su filari grossomodo regolari, legati con cemento grigio di tipo preindustriale, che possono essere interpretate come
parti strutturali dell’edificio; dall’altra murature di
minor impegno architettonico, realizzate su terra in
mattoni e pianelle legati direttamente con cemento,
che possono essere interpretate invece come vani accessori al fabbricato (vaschette o conserve d’acqua).
Si ricorda in questa sede il ritrovamento in opera di
una mattonella marchiata con un titolo appartenente
Fig. 3. Rieti, Palazzo Aluffi: veduta dall’alto delle strutture rinvenute nell’area del cortile.
Fig. 2. Rieti, Palazzo Aluffi: planimetria di progetto con indicazione delle aree indagate.
Fig. 4. Rieti, Palazzo Aluffi:
mattonella del XIX secolo della fornace D’Orazi di Rieti.
alla fornace di Rieti D’Orazi dei primi del Novecento
(fig. 4). Nella stratigrafia associata anche i materiali
recuperati rimandano all’epoca contemporanea18.
Le strutture di epoca moderna sono conservate
per la maggior parte in fondazione e poggiano direttamente su terra, cosa che ne compromette fortemente la stabilità. Si riconoscono per la loro realizzazione in pietre calcaree legate con malta sabbiosa di
colore biancastro poco tenace. L’unica porzione conservata in alzato presenta una muratura in scapoli di
travertino di varia pezzatura sbozzati solo in faccia
vista e disposti su filari irregolari. Nella stratigrafia
associata, in particolare in quella su cui si fondano i
muri stessi, i materiali rinvenuti rimandano all’epoca
sei-settecentesca19 (fig. 5).
Una forte cesura tra l’epoca moderna e il Medioevo è testimoniata dai potenti strati di interro, che
14
I dati presentati in questo contributo fanno riferimento a
quanto emerso fino al febbraio 2012.
Sono state effettuate indagini parziali negli ambienti denominati, nelle planimetrie di progetto dello stato attuale, Ambiente
Interno 7 e Ambiente Interno 10.
16
Denominato nelle planimetrie di progetto dello stato attuale
Ambiente Interno 1.
17
Negli ambienti interni, soprattutto nell’Ambiente Interno 1,
infatti il continuato utilizzo delle strutture ha sostanzialmente reso
inesistente la stratigrafia positiva. Gli accumuli di terreno si sono
conservati fino alla fine del XIII secolo, quando il palazzo, assumendo le dimensioni attuali, ha visto il continuo riuso degli spazi
con l’asportazione della stratigrafia in accumulo e quindi, di fatto,
riducendo o meglio asportando tutte le fasi di vita susseguitesi.
Appena cm 10 sotto il pavimento esistente prima dell’intervento di manutenzione attuale, smantellato in corso di scavo, sono
apparse la cresta del muro in opera reticolata e la stratigrafia di
epoca successiva compresa entro la fine del XIII secolo.
18
Abbondanti sono i frammenti porcellane e terraglie, utensili
in plastica e vetro, scatoline in metallo per pastiglie o medicinali,
monete recenti.
19
In particolare si segnala il recupero di pochi materiali ascrivibili al XVIII secolo, frammenti di vasellame in maiolica bianca
dipinta in blu.
15
147
Giovanna Alvino – Francesca Lezzi
ti musivi. Gli intonaci conservano ampie partizioni
monocrome gialle, rosse o nere con sovradipinture
di colore a contrasto, i pavimenti mostrano decorazioni differenti da ambiente ad ambiente. Tutti quelli
più antichi, databili in epoca repubblicana (II-I sec.
a.C.), sono in cementizio a base fittile: uno con fitto
punteggiato irregolare a tessere bianche e nere diversamente addensate secondo lo sviluppo dell’ambiente (fig. 7); un altro con inserzione di tessere musive
bianche e nere e tasselli di pietre colorate disposte a
realizzare una decorazione geometrica con emblema
geometrico centrale (fig. 8); un altro a fondo chiaro
con inserzione di pietre colorate.
L’ambiente pavimentato in cementizio a base fittile con rubricatura (fig. 7) occupa la porzione più
settentrionale dell’area di scavo. Il pavimento, di
colore rosso brillante, presenta una decorazione con
tessere bianche e nere che si dirada in un lato per
sottolineare una diversa partizione architettonica degli spazi21.
L’ambiente con il pavimento in cementizio a base
fittile con decorazione geometrica (Fig. 8) occupa la
porzione centrale dell’area di scavo del cortile ed è
attualmente solo in parte visibile. Il pavimento, che
conserva tracce di rubricatura soprattutto nelle fasce perimetrali della stanza, mostra un ornato con
un rosone centrale decorato a losanghe delineato da
una fila di tessere bianche e sottolineato da una fila
di tessere bianche e nere alternate, delimitato da un
quadrato decorato con una fascia con motivi a meandro e svastica. Lungo la parete occidentale la decorazione pavimentale presenta un motivo a crocette
Fig. 5. Rieti, Palazzo Aluffi: frammenti di maiolica
decorata in blu, c.d. cineserie (XVIII secolo).
obliterano la memoria delle costruzioni medievali e
che sono poi quelli su cui si fondano direttamente i
muri più recenti20.
Relativamente all’epoca medievale si conservano
strutture realizzate in blocchi di calcare e travertino
di riutilizzo, più o meno spezzati, messi in opera a
volte con una malta di colore giallastro dura e tenace
a volte con una malta mista a terra, che delineano le
planimetrie di edifici il cui alzato era realizzato probabilmente in materiale deperibile, forse separati da
viottoli. Numerose sono inoltre le testimonianze che
stanno emergendo ascrivibili al delicato momento
di passaggio tra l’età romana e quella altomedievale,
quando Rieti, con lo stanziamento longobardo e l’inserimento nel Ducato di Spoleto, ne divenne uno dei
centri più avanzati lungo il confine meridionale.
Una certa continuità si registra tra le murature altomedievali e quelle tardoantiche e i sottostanti muri
romani. Le strutture tardoantiche e/o altomedievali
sembrano impiegare di preferenza blocchi di grandi
dimensioni in travertino riutilizzati dalle strutture
romane che dobbiamo immaginare ormai in disuso,
come le mura. Queste ultime dovevano certamente
costituire un facile approvvigionamento di materiale
da costruzione. I grandi blocchi di calcare appoggiano infatti direttamente su murature romane e ne
conservano l’orientamento (fig. 6).
Le strutture romane individuate si caratterizzano
per la malta biancastra e molto tenace e per il paramento in opera reticolata che si legge su quasi tutti
i tratti murari intercettati. Delle costruzioni romane,
di cui si leggono almeno due fasi di vita, si conservano gran parte degli alzati, con intonaci policromi, e i
pavimenti. Numerosi sono i muri in opera reticolata
che conservano tutt’ora il loro rivestimento di intonaco policromo e diversi si sono rivelati i pavimenti in
cementizio a base fittile variamente decorati con inserzioni di tessere, numerose le porzioni di pavimen-
Fig. 6. Rieti, Palazzo Aluffi: particolare delle
murature tardoantiche in blocchi di riutilizzo
direttamente impostate su muri romani.
20
21
In questi strati, pochi e occasionali sono i rinvenimenti di
frammenti di maiolica rinascimentale.
Un pavimento analogo è quello del peristilio della domus Augustana sul Palatino.
148
Reate/Rieti. Archeologia Urbana
Fig. 8. Rieti, Palazzo Aluffi: cementizio a base fittile con decorazione geometrica.
Fig. 7. Rieti, Palazzo Aluffi: cementizio a base fittile con
punteggiato irregolare.
che sottolinea il passaggio all’ambiente adiacente. La
rubricatura, in origine probabilmente estesa su tutta
la superficie dell’ambiente, doveva conferire una notevole valenza estetica all’insieme22.
L’ambiente più sud-occidentale del cortile conserva, in parte, un pavimento in cementizio con scaglie di calcare dalla colorazione biancastra e l’utilizzo
di molte crustae di forma irregolare.
Per quanto riguarda la datazione, l’uso dell’opera
reticolata nelle murature, l’associazione con alcuni
elementi architettonici (colonne in calcare) e i motivi
decorativi impiegati nei pavimenti in cementizio fanno pensare ad un intervento edilizio da collocarsi nel
periodo medio e tardo-repubblicano (II-I sec. a.C.).
I pavimenti della fase più tarda romana sono invece costituiti da mosaici. Fino ad ora si sono rinvenuti solo lacerti della pavimentazione musiva che ai
nostri occhi si mostra monocroma, quale un tessellato bianco delimitato da una doppia fascia in tessere
nere (fig. 9). I mosaici fino ad oggi individuati sicuramente coprivano i precedenti pavimenti in cementizio a base fittile obliterandoli completamente, come
dimostrano gli ampi lacerti di preparazione del mosaico, pur privi di tessere, che coprono direttamente
i pavimenti più antichi.
Si va quindi sempre più delineando la realtà archeologica di una domus privata che si apre su una
delle vie principali della città, probabilmente con
una facciata continua, interrotta da un’unica porta. L’organizzazione planimetrica interna risulta,
per adesso, poco leggibile, tuttavia possiamo immaginare che le aree in cui sono stati rinvenuti i
pavimenti in cementizio a base fittile decorati siano
Fig. 9. Rieti, Palazzo Aluffi: pavimento in mosaico.
quelle riservate al triclinio e all’ala di rappresentanza della casa. Verosimilmente l’atrio aveva un pavimento in terra battuta o scaglie di calcare. Il buon
livello decorativo della domus è confermato oltre
che dai pavimenti, anche dai numerosi frammenti
di decorazione parietale rinvenuti con particolare
concentrazione nelle stratigrafie a copertura dei
piani pavimentali.
Non è possibile allo stato attuale delle ricerche
avanzare alcuna ipotesi sulla proprietà della domus.
Certo è che il suo proprietario, con la scelta decorativa delle pavimentazioni, si propone come pienamente partecipe delle preferenze e della cultura architettonica del tempo.
I più antichi ritrovamenti riportano alle più remote fasi di occupazione della collina di Rieti che oggi
conosciamo. Con grande sorpresa, sotto le murature
romane, si sono ritrovati i resti di strutture verosimil-
22
Il motivo decorativo risulta molto diffuso nel territorio nazionale, seppur con varianti ornamentali. Per una sintesi si veda
Grandi 2001.
149
Giovanna Alvino – Francesca Lezzi
mente ad uso abitativo23 e numerosissimi manufatti
ceramici in frammenti, che rimandano a loro volta a
contesti di abitato, come i fornelli (fig. 10), databili
attorno all’VIII sec. a.C.24
Giovanna Alvino
Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio
[email protected]
Francesca Lezzi
Collaboratore della Soprintendenza
per i Beni Archeologici del Lazio
[email protected]
Fig. 10. Rieti, Palazzo Aluffi: frammento di fornello di
impasto.
Alvino G. 2003: Via Salaria, Roma.
Bolgia C. 2012: Enciclopedia dell’Arte Medievale, s.v. Rieti.
Camerieri P. – De Santis A. 2009: “La via Curia”, in De Santis A.
(ed.), Reate e l’Ager Reatinus. Vespasiano e la Sabina: dalle origini
all’impero (Catalogo della Mostra, Rieti, 2009), Roma, 55-57.
Colasanti G.1910: Reate. Ricerche di topografia medievale e antica,
Perugia.
Dionisi G. 2011: “Carta Archeologica di Rieti”, I Beni Culturali, 19,
6, Viterbo, 5-14.
Grandi M. 2001: “Riflessioni sulla cronologia dei pavimenti cementizi con decorazione in tessere, in Atti dell’ottavo Colloquio dell’AISCOM, 8, 71-86.
Leggio T. 1989: “Le fortificazioni di Rieti dall’alto medioevo al rinascimento (secc. VI-XVI)”, Quaderni di storia urbana e territoriale,
4, Rieti.
Lezzi F. 2009: “Reate”, in De Santis A. (ed.), Reate e l’Ager Reatinus. Vespasiano e la Sabina: dalle origini all’impero (Catalogo della
Mostra, Rieti, 2009), Roma, 73-76.
Lezzi F. 2010: “Contributo alla conoscenza di Reate”, in Lazio e
Sabina, 7, 159-165.
Rosatelli R. 1991: “Rieti. Le mura e le porte medievali: restauri e
demolizioni tra Ottocento e Novecento”, in Le mura: fare e disfare.
Storia della città, 15, 53, Rieti, 55-86.
Spadoni Cerroni M.C. – Reggaini Massarini A.M. 1992: Reate,
Pisa.
Tripaldi L. 2009: “La via Salaria nel territorio reatino”, in De Santis
A. (ed.), Reate e l’Ager Reatinus. Vespasiano e la Sabina: dalle origini
all’impero (Catalogo della Mostra, Rieti, 2009), Roma, 49-53.
23
24
Abstract
This paper deals with the recent works carried out by the Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio in the building site in
Rieti, inside palazzo Aluffi. This is the first excavation of urban
archaeology in Rieti, and our paper intends to present preliminary various archaeological findings, as it’s yet in progress. In fact
the investigations documented that the life of this site lasted out
uninterruptedly from the VIII century B.C., through roman and
medieval ages, until today. The stratigraphy is specially complicated and involved and testifies to a continuous occupation in urban area. The oldest finds reported the most remote phases of the
occupation of Rieti’s hill we know today. For the roman period
there are many remains of walls in opus reticulatum with coats of
polychrome plaster, “cementizio a base fittile” floors made of clay
and mosaic coverings.
Bibliografia
I resti attribuibili ad epoca protostorica sono emersi appena
pochi giorni prima della presentazione dell’intervento al convegno. I dati che si presentano sono quindi parziali e preliminari.
Si rimanda la pubblicazione puntuale ad altra sede, quando lo
scavo sarà completato.
Non è possibile allo stato attuale proporre una datazione più
precisa, in quanto la situazione protostorica si presenta stratificata e complessa. Si rimanda inoltre alle considerazioni espresse
alla nota 23.
150
Un recupero di monete dal territorio di Posta (Rieti)
Fiorenzo Catalli
conseguenza, non possiamo presupporre che il commercio romano nel corso del III sec. a.C. fosse gestito
interamente in termini monetari.
Il cambiamento sembra evidente dopo la prima
guerra punica e nel corso della seconda metà del III
sec. a.C., quando Roma avvia la romanizzazione della penisola, processo cui non dovette essere affatto
estranea la moneta, ma di cui, anzi, fu uno dei principali strumenti. Tutte le zecche locali furono chiuse e
il denario d’argento (con i suoi sottomultipli, quinario e sesterzio) assieme al bronzo coniato della serie
della prora di nave, con i nominali dall’asse all’oncia,
nelle riduzioni sia sestantaria che onciale, hanno contribuito alla romanizzazione della penisola. Proprio
su queste serie compaiono dapprima lettere, sigle e
simboli e, poi, iniziali di nomi da riferire, senza ombra di dubbio, ai magistrati responsabili delle singole
emissioni.
Il recupero delle 37 monete dal territorio di Posta
documenta questa fase più antica e la successiva, comunque entro il terzo quarto del II sec. a.C.
Le monete sono state consegnate da un privato
che le ha rinvenute, nel 2008, “in modo fortuito a
Villa Camponeschi… in superficie durante lavori
di sbancamento con mezzi meccanici su un terreno
privato da adibire a posteggio per autoveicoli, alla
profondità di circa trenta o quaranta centimetri. La
maggior parte del numerario (25 monete) era ancora
tra i frammenti in terracotta del contenitore, mentre
la restante era sparsa nelle vicinanze”1.
Da un esame più accurato sembra che il nucleo di
monete esaminato non appartenga ad un unico contesto (ripostiglio), ma sicuramente appartiene alla
stessa area geografica e cronologica. Il nucleo sembra dunque essere la testimonianza di una frequentazione dell’area almeno dalla seconda metà del III
sec. a.C. e per il secolo successivo, anche oltre la sua
metà. Si potrebbe ipotizzare, in considerazione della posizione d’altura e dell’esistenza di tracciati viari
nelle vicinanze del luogo di rinvenimento, l’esistenza
di un santuario o luogo di culto anche di modesta
estensione, di cui le poche monete rappresentano almeno uno dei periodi di attività.
Nella migliore delle ipotesi formulate dagli studiosi
del settore, Roma non diede inizio ad una produzione di proprie monete prima degli ultimi anni del
IV o addirittura nei primi del III sec. a.C. Al momento di iniziare la produzione si attivarono due
diversi indirizzi, uno più vicino alla tradizione del
commercio del bronzo-rame delle popolazioni etrusche ed italiche e l’altro suggerito dalla produzione
monetale delle colonie greche di Magna Grecia e
Sicilia.
Il primo si concretizzò nella realizzazione di monete fuse in bronzo emesse sulla base della libbra
localmente accettata (se ne conoscono diverse e
non tutte con evidenti rapporti di derivazioni le une
dalle altre) con multipli e sottomultipli dell’asse secondo una divisione duodecimale dell’asse-libbra
(decimale per alcune realtà geografiche della costa
adriatica).
Il secondo, derivato da sicuri contatti tra la stessa Roma e le due principali città, al momento, della Magna Grecia, Neapolis e Taras-Tarentum, ma in
particolare con la prima, produsse monete in argento e in bronzo, in entrambi i casi coniate, sulla base
di sistemi ponderali derivati dalle città greche; rapporto evidenziato ancora di più da scelte tipologiche
di evidente derivazione greca e, se ancora non fosse
sufficiente, dalla presenza di una legenda che nelle
serie più antiche è Romanom, per un evidente genitivo alla greca di appartenenza (= [io sono la moneta]
dei Romani), passato, nelle serie successive, al solo
etnico Roma.
Le carte di distribuzione dei rinvenimenti di tali
serie evidenziano, infatti, come le serie fuse preferiscano di gran lunga i territori a nord del Lazio antico,
etruschi e italici, dove alcuni centri (Volaterrae-Volterra, Tarquinia, Ariminum, Iguvium, Tuder-Todi etc.)
produrranno, spesso in modo assai effimero, un’analoga produzione di moneta fusa di bronzo come quella romana. Le serie coniate denunciano, per contro,
una circolazione ancora più ampia che include le aree
greche della Magna Grecia. Ma è evidente che almeno
nella prima fase della produzione monetale romana
non dobbiamo presupporre notevoli quantitativi e, di
1
Dalla nota di accompagno delle monete al momento della consegna da parte del rinvenitore.
151
Fiorenzo Catalli
Bibl.: RRC 38/6 (217-215 a.C.); BMCRR Roma 88
(268-240 a.C.)
3, AE, g 9,9, mm 26, pc 90°
Catalogo
La scheda essenziale comprende, nell’ordine, il nominale, la descrizione del diritto e del rovescio, la
bibliografia di confronto con le relative proposte di
cronologia assoluta, il numero d’ordine con il metallo, il peso, il diametro e la posizione dei coni. Le
lettere sottolineate si intendono in legatura.
Vittoriato
D/ Testa laureata di Giove a d.
R/ Vittoria che incorona un trofeo; sotto, ROMA
Bibl.: RRC 44/1 (211 a.C.); BMCRR Roma, 295-299
(229-217 a.C.)
4, AR, g 2,20, mm 15, pc 190°
Doppia litra (RRC) o litra (BMCRR)
D/ Testa femminile a d.
R/ Leone avanzante a d.; sotto ROMANO
Bibl.: RRC 16/1a (275-270 a.C.); BMCRR Rom.
Camp 27 (335-312 a.C.)
1, AE, g 9,70, mm 21-22, pc 180°
Denario
D/ Testa elmata di Roma; dietro, X
R/ Dioscuri a cavallo avanzano verso d., con lancia
nella d.; sopra le teste, due stelle, sotto, entro riquadro, ROMA
Bibl.: RRC 44/7 (211 a.C.); BMCRR Roma 1-8 (268264 a.C.)
5, AR, g 3,20, mm 20, pc 180°
Triente
D/ Testa di Minerva a s. con elmo corinzio; sotto
quattro globetti
R/ Prora di nave a d.; sotto quattro globetti
Bibl.: RRC 35/3a (225-217 a.C.); BMCRR 32 (338269 a.C.)
2, AE, g 92,7, mm 45-47
Quinario
D/ Testa elmata di Roma; dietro, V
R/ Dioscuri a cavallo avanzano verso d., con lancia
nella d.; sopra le teste, due stelle, sotto, entro riquadro, ROMA
Bibl.: RRC 44/7 (211 a.C.); BMCRR Roma, 9-12
(268-264 a.C.)
6, AR, g 2,00, mm 15, pc 10°
Oncia
D/ Testa elmata di Roma a s.; dietro, un globetto
R/ Prora di nave a d; sopra ROMA, dietro, un globetto
152
Un recupero di monete dal territorio di Posta
18, AE, g 19,10, mm 27, pc 80°
19, AE, g 24,40, mm 31, pc 220°; al R/ sopra, simbolo illeggibile; davanti, I
20, AE, g 25,50, mm 31-32, pc 90°; al R/ sopra tracce
di lettere (SEMP?); davanti, I
21, AE, g 28,8, mm 30, pc 270°; R/ sopra [S]EMP
(?); davanti, I
Semisse (riduzione onciale)
D/ Testa laureata di Giove a d.; dietro, S
R/ Prora di nave a d.; sopra, tracce di lettere, davanti, S, sotto, ROMA
Bibl.: RRC 56/3 e ss.(dopo il 211 a.C.); BMCRR
Roma, 229 e ss. (post 240 a.C.)
22, AE, g 14,00, mm 27, pc 180°
Triente (riduzione sestantaria)
D/ Testa elmata di Minerva a d.; sopra, quattro globetti
R/ Prora di nave a d.; sopra ROMA, sotto, quattro
globetti
Bibl.: RRC 56/4 (dopo il 211 a.C.); BMCRR Roma
245 (240-229 a.C.)
23, AE, g 10,1, mm 23, pc 80°
Quadrante (riduzione sestantaria e onciale)
D/ Testa di Ercole a d. con leonté; dietro, tre globetti
R/ Prora di nave a d.; sopra, ROMA, sotto, tre globetti
Bibl.: RRC 56/5 (dopo il 211 a.C.); BMCRR Roma
400e ss. (post 217 a.C.)
24, AE, g 10,5, mm 23, pc 30
25, AE, g 5,40, mm 20, pc 190°
26, AE, g 2,20, mm 19, pc 330°
Sestante (riduzione sestantaria)
D/ Testa di Mercurio a d. con petaso; sopra, due globetti
R/ Prora di nave a d.; sopra [ROMA]; sotto, due globetti
Bibl.: RRC 56/7 (dopo il 211 a.C.); BMCRR Roma
420 e ss. (post 217 a.C.)
27, AE, g 7,30, mm 20, 340°
Asse (riduzione sestantaria e onciale, anonimi e con
simboli o lettere)
D/ Testa laureata di Giano; sopra, I
R/ Prora di nave a d.; sopra, I, sotto ROMA
Bibl.: 56/2 e ss. (post 211 a.C.); BMCRR 217 e ss.
(post 240 a.C.)
7, AE, g 43,6, mm 35, pc 200°
8, AE, g 36,4, mm 33, pc 90°
9, AE, g 32,00, mm 32, pc 350°
10, AE, g 38,80, mm 33, pc 170°
11, AE, g 32,80, mm 33, pc 160°
12, AE, g 44,70, mm 34, pc 90°
13, AE, g 28,1, mm 30-32, pc 160°; al R/ sopra, simbolo illeggibile; davanti, I
14, AE, g 34,50, mm 32, pc 0°
15, AE, g 35,90, mm 32, pc 30°
16, AE, g 36,70, m 32, pc 180°
17, AE, g 23,8, mm 31, pc 250°
Denario
D/ Testa elmata di Roma; dietro, X
R/ Dioscuri a cavallo avanzano verso d., con lancia
nella d.; sopra le teste, due stelle, sotto, punta di lancia; in esergo, ROMA
Bibl.: RRC 88/2b (209 a.C.); BMCRR Roma, 318
(209 a.C.)
28, AR, g 3,90, mm 18-19, pc 180°
Vittoriato
D/ Testa laureata di Giove a d.
R/ Vittoria che incorona un trofeo; al centro, coltello; sotto, ROMA
153
Fiorenzo Catalli
Bibl.: RRC 120/1 (206-195 a.C.); BMCRR Roma 475
(217-197 a.C.)
29, AR, g 2,80, mm 16-17, pc 340°
Asse
D/ Testa laureata di Giano; sopra, I
R/ Prora di nave a d.; sopra, stella, davanti I, sotto
ROMA
Bibl.: RRC 196/1 (169-158 a.C.); BMCRR Roma
461-466 (217-197 a.C.)
35, AE, g 20,30, mm 30, pc 90°
Quadrante
D/ Testa di Ercole a d. con leonté; dietro, tre globetti
R/ Prora di nave a d.; sopra, Ulisse e, ai lati RO-MA;
davanti, tre globetti; in esergo [LMAMILI]
Bibl.: RRC 149/4a (189-180 a.C.); BMCRR Roma
726 (172-151 a.C.)
30, AE, g 7,90, mm 19-22, pc 340°
Quadrante
D/ Testa di Ercole a d. con leonté; dietro, tre globetti
R/ Prora di nave a d.; sopra, BAL, in esergo, ROMA;
davanti, tre globetti
Bibl.: RRC 179/4 (169-158 a.C.); BMCRR Roma
608-617 (196-173 a.C.)
31, AE, g 8,20, mm 22-24, 20°
Triente
D/ Testa elmata di Minerva a d.; sopra, quattro globetti
R/ Prora di nave a d.; sopra [ANT]ESTI; sotto,
ROMA, davanti quattro globetti
Bibl.: RRC 219/4 (146 a.C.); BMCRR Roma 862
(172-151 a.C.)
36, AE, g 7,80, mm 20-21, pc 340°
Semisse
D/ Testa laureata di Giove a d.; dietro, S
R/ Prora di nave a d.; sopra, due berretti sormontati
da stelle; davanti, S; sotto, ROMA
Bibl.: RRC 181/2 (169-158 a.C.); BMCRR Roma 502
(217-197 a.C.)
32, AE, g 13,30, mm 25-26, pc 160°
Asse
D/ Testa laureata di Giano; sopra, I
R/ Prora di nave a d.; sopra, VAL, davanti I, sotto
ROMA
Bibl.: RRC 191/1 (169-158 a.C.); BMCRR Roma
545-548 (196-173 a.C.)
33, AE, g 28,3, mm 32, pc 0°
Denario
D/ Testa elmata di Roma; dietro, X
R/ Dioscuri a cavallo avanzano verso d., con lancia
nella d.; sotto, P.PAETVS; in esergo, ROMA
Bibl.: RRC 233/1 (138 a.C.); BMCRR Roma 877-878
(150-125 a.C.)
37, AR, g 3,70, mm 19-21, pc 180°
Asse
D/ Testa laureata di Giano; sopra, I
R/ Prora di nave a d.; sopra, TA, davanti I, sotto
ROMA
Bibl.: RRC 192/1 (169-158 a.C.); BMCRR Roma 793
(172-151 a.C.)
34, AE, g 37,50, mm 29-32, pc 270°
Fiorenzo Catalli
Soprintendenza Speciale
per i Beni Archeologici di Roma
[email protected]
154
Il santuario di S. Angelo di Civitella (Pescorocchiano, Rieti): pratiche cultuali
Francesca Santini
Il presente lavoro, sintesi della tesi di laurea1, riguarda il campione osteologico faunistico proveniente
dal santuario italico di S. Angelo di Civitella (Pescorocchiano, Rieti), che sorge su un’altura a m 700
ca. sul livello del mare, nei pressi dell’antica città di
Nersae2.
Il complesso cultuale di notevole importanza è
costituito da due ordini di terrazze, quella inferiore
(in cui si sono realizzati gli scavi) sostruita da un imponente muro in opera poligonale e una superiore
ove doveva sorgere l’edificio o gli edifici templari,
che attualmente ospita il cimitero e la chiesa omonima (fig. 1). Gli scavi realizzati in più riprese negli
anni ’903 hanno consentito di individuare tre fasi di
vita del santuario: la I è la più antica (fine IV-inizio
III sec. a.C.) e relativa al primo complesso santuariale, la II (metà del II sec. a.C.) rappresenta il periodo
della ricostruzione in termini monumentali del san-
Fig. 2. Grafico comparativo della percentuale del numero dei resti
nelle tre fasi.
Fig. 1. Terrazzamento inferiore del santuario dove sono stati realizzati gli scavi.
tuario e la realizzazione contestuale del grande muro
di terrazzamento in opera poligonale, la III è quella
della vita del secondo santuario.
Il campione studiato4 appartiene a diversi contesti stratigrafici5, provenienti dagli strati riferibili a
queste tre fasi6, e consta di 3420 resti. In tutte le fasi i
resti sono stai distinti i tre categorie principali7: Non
Identificati, Identificati e Categorie generali (fig. 2).
I resti identificati a livello tassonomico mostrano
un quadro ristretto dei taxa presenti e consumati
quindi nell’area santuariale, rappresentati soltanto
da specie domestiche: soprattutto piccoli ungulati,
con ovicaprini che prevalgono sui maiali, più rari i
grandi ungulati (bue e cavallo); sono presenti anche
resti del volatile da cortile Gallus gallus. Tra questi
1
5
Tesi di laurea in Scienze Naturali, Prof. Giorgio Manzi-cattedra di Ecologia preistorica presso l’Università di Roma “Sapienza”. Il materiale faunistico è stato concesso in studio dalla Dott.
ssa Giovanna Alvino, funzionario della provincia della Soprintendenza dei Beni Archeologici del Lazio. Colgo l’occasione per
esprimerle riconoscenza e gratitudine per la fiducia che mi ha
rinnovato in questi anni di collaborazione.
2
Nersae è l’attuale Nesce.
3
Il materiale comprende le campagne di scavo degli anni 1992,
1998, 1999 (Alvino 2004 e bibl. preced.). I resti faunistici provenienti dagli scavi del 1992 sono stati studiati dal Prof. De Grossi
Mazzorin.
4
Il materiale studiato comprende 4382 reperti totali.
Si è deciso di studiare tutti i contesti stratigrafici, anche quelli
di affidabilità più incerta e ancora oggetto di studio da parte
degli archeologi. Le conclusioni del mio elaborato riguardano il
materiale di contesti stratigrafici riferibili alle tre fasi di vita del
santuario.
6
I resti relativi a queste tre fasi sono 3240: 2170 della I fase
che è costituita dalla US7; 739 della II fase, in cui afferiscono le
UUSS9, 12, 3; 331 della II fase rappresentata dall’US14.
7
In tutte le fasi i resti Non Identificati compaiono con le percentuali più basse, mentre sono maggiormente rappresentate le categorie dei resti Identificati a livello tassonomico, e quelli identificati
anatomicamente, confluiti in Categorie generali distinte, in base
alla comparazione dimensionale, tra piccoli e grandi erbivori.
155
Francesca Santini
taxa in tutte le fasi cronologiche gli ovicaprini dominano, seguiti dai maiali, come accade in diversi santuari pre-romani e romani8 (fig. 3).
Il pattern di mortalità delle due specie principali
ha mostrato grosse differenze nella scelta degli esemplari da abbattere. Mentre negli ovicaprini9, in tutte le fasi, la preferenza è riversata prevalentemente
su individui adulti, nei maiali10 si osserva invece un
abbattimento che riguarda soprattutto esemplari immaturi nelle prime due fasi, equamente indirizzata
verso adulti e immaturi nella III fase.
Significativa è la presenza nella fase I per entrambe le specie di feti e componente femminile, presumibilmente gravida (fig. 4).
L’analisi delle porzioni anatomiche mostra chiaramente che gli animali erano introdotti interi e probabilmente venivano abbattuti nell’area santuariale.
In tutte le fasi, gli ovicaprini vedono maggiormente
rappresentato l’arto anteriore, il maiale solo nelle
prime due fasi e nella III quello posteriore. Lo studio comparato delle frequenze degli elementi attesta
un’avvenuta spartizione tra gli astanti e il consumo di
alcune porzioni in situ, mentre altre potevano essere
consumate altrove o addirittura vendute al pubblico
da questori preposti, e altre riservate al mageiros. Il
ritrovamento di numerose mandibole e di denti isolati potrebbe testimoniare che le teste, considerate
gli elementi anatomici più rappresentativi, erano offerte alle divinità11.
Fig. 4. Grafico comparativo del numero minimo degli individui
percentuale tra ovicaprini e maiali per classi di età nelle tre fasi.
Fig. 3. Grafico comparativo della percentuale del numero dei resti
per specie nelle tre fasi.
L’analisi tafonomica sulle tracce di macellazione
ha permesso di riconoscere la modalità di uccisione per sgozzamento12; di ricostruire in maniera abbastanza fedele il trattamento delle carcasse: dalla sospensione per i garretti13, alla separazione del
cranio dal resto del corpo14, allo scuoiamento15, alla
suddivisione in mezzene16, alla disarticolazione17 con
8
12
Si ricordano i confronti con il santuario di Torre di Satriano,
santuario d’Este, santuario di Pantelleria.
9
Tra le classi degli adulti si è osservato la prevalenza di adulti di
seconda (3-8 anni) nelle fasi I e II, di adulti di prima (2-3 anni)
nella fase III, da mettere in relazione ad un aumento progressivo
di esemplari senili (oltre 8 anni). Inoltre tra gli immaturi dominano i giovani-adulti (1-2 anni) nelle prime due fasi, invece nella
fase III i giovani (6-12 mesi); i giovanissimi (0-6 mesi) sono più
presenti nella fase I e nella III. (Barone 1995a)
10
Tra gli esemplari immaturi nelle prime due fasi prevalgono i giovanissimi (<4mesi), nella fase III soprattutto i giovani (4-12 mesi).
Per quanto riguarda gli esemplari adulti nella fase I si ha un’eguale
presenza di adulti di prima (17-24 mesi) e di seconda (2-3,5 anni),
nella fase II gli adulti di prima e nella III quelli di seconda.
11
È attestato l’uso di offrire alle divinità le teste, insieme a zampe, code, grasso e pelle, queste ultime considerate come parti di
scarto, in quanto meno ricche in carne, di solito bruciandole.
Attestata da alcuni segni di taglio lasciati sulla porzione ventrale delle prime vertebre cervicali: atlante per gli ovicaprini ed
epistrofeo per i maiali.
13
Testimoniata dai segni lasciati su alcuni calcagni, tra il tubercolo e il sustentaculum talii, come accade ancora oggi nei macelli
dove la carcassa dell’animale è appesa per essere macellata.
14
Come attestano i segni di fendenti sulla base del cranio e
sull’epistrofeo, inferti con lo scopo di separare il neurocranio
dal resto dello scheletro post-craniale.
15
Come testimoniano i segni sul lato vestibolare e anteriore dei
corpi mandibolari, sulla porzione distale di metatarsi e falangi.
16
Attestata dai fendenti passanti osservati su alcune vertebre.
17
Le tracce si registrano come tagli su coxali, scapole, epifisi
dei distretti anatomici appendicolari; in alcuni casi come colpi orientati obliquamente rispetto all’asse di ossa lunghe e su
astragali. Interessanti sono i segni individuati sulla parte mediale
della mandibola, in corrispondenza della serie premolare, che
156
Il santuario di S. Angelo di Civitella (Pescorocchiano – Rieti): pratiche cultuali
lo scopo di suddividere in porzioni più piccole, fino
alla scarnificazione18, ovvero il distacco delle masse
muscolari dall’osso (fig. 5).
Dall’analisi tafonomica è stato possibile distinguere anche i diversi instrumenta usati che rispecchiano
il tipo di attività svolta e quindi le diverse fasi di macellazione suddette (fig. 6). I segni di taglio19 sono
lasciati da oggetti metallici più leggeri, come coltelli
e coltellacci, usati durante le fasi di disarticolazione
e di scarnificazione. I segni di fendenti20 sono lasciati
da oggetti metallici pesanti, tipo mannaia, usati per
azioni più cruente, come il depezzamento in mezzene e porzioni più piccole o la separazione del cranio
dal resto della carcassa (fig. 7). Si sono notate inoltre
incisioni abbastanza profonde che lasciano pensare
all’intenzionalità di accelerare alcune operazioni, per
cui durante la disarticolazione e la scarnificazione invece di usare oggetti più idonei a tali fasi vengono
usati quelli pesanti che fanno procedere in modo più
rapido.
Prendendo in considerazione gli aspetti più significativi, il presente lavoro è un tentativo di lettura e
di interpretazione del comportamento umano a ca-
Fig. 6. Grafico comparativo della frequenza del tipo di tracce di
macellazione tra ovicaprini e maiali nelle tre fasi.
rattere cultuale. Anche se è difficile formulare schemi a valore assoluto sui comportamenti e sulle pratiche che costituiscono il sistema religioso e cultuale,
ossia credenze fondate su gesti e prescrizioni rituali,
si può tuttavia cercare di ricostruire le vestigia rituali
di questo complesso santuariale.
È emerso che il nostro campione mostra peculiarità tipiche di complessi cultuali, sia nella presenza
delle specie, sia nelle percentuali, sia nella composizione per classi di età. Infatti il materiale osteologico
mostra una composizione della biocenosi originaria
esclusivamente di animali domestici, la classica triade ovicaprini-suini-bovini, riconducibile ai Suovetaurilia, anche se non sono rispettate le proporzioni
tra le specie sacrificate. Pertanto si ritiene che vi sia
stata una scelta precisa, indirizzata verso specie domestiche piuttosto che selvatiche, sia per la più facile
reperibilità, poiché erano allevate da queste genti ed
erano le più usate in sacrifici e riti, sia perché le specie selvatiche erano soggette, per la caccia e per la
cattura, a danni rendendole non idonee al sacrificio.
Queste osservazioni spiegano il ruolo che l’animale
vivo riveste nelle offerte cruente, la cui sanità diventa
conditio sine qua non per essere sacrificato.
Il nostro campione testimonia la sanità delle
vittime scelte; non si sono osservati segni di malformazioni, patologie dovute a traumi accidentali
o modificazioni dovute allo sfruttamento da parte
dell’uomo. Si sono registrate soltanto patologie a
carico dell’apparato masticatorio: coral-like roots21 e
introflessione dello smalto22 negli ovicaprini (fig. 8),
esposizione delle radici dei denti23 nei maiali (fig. 9),
che non hanno reso l’animale inadatto al sacrificio,
Fig. 5. Localizzazione anatomica delle fasi di macellazione nei
maia­li e negli ovicaprini.
21
sembrano attestare la rimozione della lingua.
Questa operazione ha lasciato chiari segni su diafisi delle ossa
dei distretti appendicolari, coxali, scapole e calcagni.
19
I segni sono più o meno corti, in serie parallele tra di loro
e poco profondi che richiedono lame più sottili e oggetti più
maneggevoli.
20
Le tracce sono più profonde, lasciando incisioni sulla superficie ossea e fendenti troncanti che sezionano nettamente gli ossi,
dovuti a colpi inferti con forza.
L’ipotesi più accreditata tra gli studiosi è che tale patologia
sia un’infezione cronica periapicale dovuta alla penetrazione di
materiale estraneo nell’alveolo affiancata all’azione di agente patogeno batterico e alla formazione di tartaro.
22
La patologia è visibile sulla superficie occlusale del dente
come piccoli anelli di smalto non connessi con gli infundibuli.
Sembra avere origine genetica, anche se in alcuni casi si connette
alla presenza di masse tumorali nella dentina.
23
La patologia è connessa in parte alle spinte differenziali che
18
157
Francesca Santini
divinità femminile. È suggestivo pensare che fosse
Angitia27, la cui presenza nel santuario è ipotizzabile
grazie al ritrovamento di una ciotola a vernice nera
con incisa una “A”. Inoltre la presenza è attestata da
diversi santuari ad essa dedicati nel territorio confinante della Marsica28 e la sua identificazione spesso
si sovrappone a quella della divinità Cerere, che si
associa frequentemente al culto di Ercole, in quanto
le due divinità venivano festeggiate nello stesso giorno29.
La rarità dei resti di bue è spiegabile con il fatto che questo animale aveva un valore economico
elevato, poiché veniva usato soprattutto come forza
lavoro, per traino e nei lavori agricoli. Nonostante
rappresenti una delle tre specie che caratterizzavano
Fig. 7. Tracce di macellazione.
probabilmente perché ininfluenti nella vita e nello
stato di salute dell’esemplare.
La presenza delle due specie principali, ovicaprini e maiale, pur costituendo un’offerta generica,
rivela in un certo senso il collegamento tra il tipo di
economia e sfruttamento di risorse e del territorio
e una divinità venerata nel santuario, a cui questi
animali venivano sacrificati. Soprattutto gli ovicaprini consentono l’associazione ad Ercole, sia perché
era una divinità molto venerata tra le genti italiche
dell’Appennino centrale24, sia per il ritrovamento di
tre statuette in bronzo che lo raffigurano, sia perché
il territorio era interessato dal fenomeno della transumanza. Ed Ercole è il dio protettore dei pastori,
del bestiame, dei raccolti e della transumanza. Il maiale25 pure veniva allevato allo stato brado, inoltre
era un animale molto comune in molti sacrifici e riti
propiziatori.
Il sacrificio nella fase I di feti e di femmine, tra i
maiali e gli ovicaprini, e di individui molto giovani
dimostra l’esistenza di un culto ben preciso e sottolinea il valore che veniva dato al sacrificio, in quanto
animali molto giovani costituivano primizie. Tutto
porterebbe a supporre che il sacrificio sia legato a un
culto del ciclo vitale, della fertilità e della riproduzione della terra, degli animali e quindi degli uomini,
soprattutto se si considera il ritrovamento di votivi
fittili raffiguranti organi riproduttivi femminili e maschili26, che indica un forte legame alla sfera della
fertilità e della riproduzione e di conseguenza a una
Fig. 8. Patologie dentarie negli ovicaprini: introflessione dello
smalto, coral-like roots.
Fig. 9. Patologia dentaria nei maiali: esposizione delle radici.
si creano a seguito del sovraffollamento dei denti giugali, come
conseguenza dell’addomesticamento, e in parte a fenomeni infiammatori.
24
Ercole è la divinità più attestata nel mondo italico, tra Marsi,
Equicoli, Piceni, Pentri e Sanniti, come attesta il confronto con
altri santuari come quelli di Torre di Satriano, di Roccagloriosa
e di S. Omobono.
25
Il suo uso è molto comune, oltre a essere considerato un animale-oggetto di culto totemico già al tempo dei Latini. Ricordiamo il sacrificio di Enea a Giunone della bianca scrofa, il sacrificio nei fetiales, riti celebrati per suggellare patti e/o alleanze, e il
sacrificio prima di un disboscamento. Attestato nel santuario di
S. Omobono e nella stipe di Schiavi d’Abruzzo.
26
I votivi fittili raffigurano uteri, falli, mammelle e statuette di
bambino in fasce.
27
Per quanto riguarda il culto di Angitia alcuni studiosi ipotizzano che si sia diffuso dalla Marsica al territorio equicolo.
28
In particolare si fa riferimento al lago del Fucino, dove si trova un santuario a lei dedicato.
29
Angitia è spesso identificata come Cerere, a sua volta legata
al culto di Ercole, come attestano le Tavole di Agnone e i Divalia.
158
Il santuario di S. Angelo di Civitella (Pescorocchiano – Rieti): pratiche cultuali
Fig. 10. Votivi fittili di bovini e di cavalli offerti simbolicamente in sostituzione dell’offerta cruenta.
i sacrifici, fino a giungere alla sua definitiva consacrazione nei Suovetaurilia ad opera dei romani, vi erano
prescrizioni sul suo consumo per scopo alimentare30.
Anche la presenza di cavallo è un’eccezione, in quanto non era risorsa alimentare, ma veniva utilizzato
per la cavalcatura e per il trasporto e considerato un
bene di prestigio e uno status symbol.
La valenza rituale e la forte valenza simbolicoreligiosa che li contraddistingue sono dimostrate
soprattutto dalla scarsezza in termini osteologici e
dalla massiccia presenza di votivi fittili raffiguranti
le due specie31, prevalentemente i bovini. Ciò porta a formulare l’ipotesi di un’offerta simbolica di
questi oggetti in sostituzione di quella materiale e
cruenta degli animali che rafforza l’alto valore economico e l’alta considerazione rivolta a queste specie (fig. 10).
30
no, la gente se ne guardava bene ed arrivavano all’altare “bestie
che a stento si reggevano in piedi”.
31
Il calcolo del NMI (Numero Minimo degli Individui) ha restituito 57 esemplari di bue e 3 cavalli.
Francesca Santini
[email protected]
Varrone (rust., II, 11) e Tertulliano (apol., XIV, 1) riportano
di prescrizioni molto severe che proibivano l’uccisione a scopo
alimentare. Inoltre solo a partire dalla fine del II a.C. si poté scegliere bestiame giovane e sano, anche se, come attesta Tertullia-
159
Francesca Santini
sco-italici di periodo medio e tardo-repubblicano”, in Comella A. – Mele S. (eds.), Depositi votivi e culti dell’Italia antica
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Abstract
This paper deals with the study of faunal material from the italic
sanctuary’s votive warehouse of S. Angelo di Civitella (Pescorocchiano – Rieti), dated from the end of the IV century B.C. until
after the mid century B.C. It aims to provide a reading, on the basis
of osteological animal remains, of human behavior and the vestiges of cult practices and gestures religious-rituals, including animal sacrifice that was the principal moment. The animal remains’
analysis reveales which species were sacrificed, their age of death,
the treatment suffered by the carcasses. Finally, it was possible to
hypothesize and to shape, even if in outline, a preferential model
of sacrifice and a potential association of animal-god. Basing on
comparisons with other sanctuaries and material culture’s findings
from this sanctuary, tightening strong link between Archaeozoology and Archeology.
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Risultati della campagna di scavo 2011 nella villa romana di San Lorenzo a Falacrinae
(Cittareale, Rieti)
Stephen Kay
La campagna di scavi 2011 si inserisce nell’ambito del
progetto Falacrinae, che ha avuto inizio nel 2005 con
l’obiettivo di indagare le diverse fasi di occupazione
dalla romanizzazione fino all’Altomedievo della valle
di Cittareale (Rieti), caratterizzata dal corso del fiume
Velino e dal percorso della via Salaria. Tali ricerche,
condotte dalla British School at Rome e dall’Università
di Perugia con la collaborazione della Soprintendenza
per i Beni Archeologici del Lazio1, sono state finalizzate all’individuazione del modesto villaggio di Falacrinae, nell’alta Sabina, dove, secondo quanto riporta
Svetonio, nacque Tito Flavio Vespasiano (Suet., Vesp.,
2). Oltre all’indagine di una delle più importanti ville
del territorio, in località San Lorenzo, si sono indagate una necropoli e una domus publica presso Pallottini e un’area di occupazione di IX-X secolo presso la
chiesa di San Silvestro2. In questa sede si presentano
i risultati della quinta campagna di scavo a San Lorenzo, che ha fornito importanti risultati per definire
l’articolazione del complesso della villa.
Lo scopo della campagna di scavo 2011 era la
continuazione delle indagini nel settore meridionale della villa (fig. 1), che presenta un’articolazione
complessa e resa in parte di difficile lettura a causa della presenza sulle strutture della chiesa di San
Lorenzo, le cui origini risalgono già al X sec. d.C.,
e della costruzione di un cimitero alla fine del XIX
secolo. Si è cercato, pertanto, di raccordare il settore
settentrionale, dove è localizzata la pars urbana, il cui
impianto monumentale è datato a partire dall’epoca
augustea3, con il settore meridionale, avente funzioni
di servizio, che ha sfruttato un edificio precedente di
età tardo-repubblicana4. La lunga occupazione del
complesso, con fasi di rioccupazione e distruzione
che terminano nel VI sec. d.C., ha reso la definizione
dell’articolazione degli ambienti piuttosto difficoltosa, ma la campagna di scavo 2011 ne ha permesso
una lettura molto più accurata.
Fig. 1. Pianta generale degli scavi nell’area di San Lorenzo 20072011.
A seguito dei risultati, sia delle prospezioni geofisiche5 che delle campagne di scavo 2008-2010, era
risultata evidente l’esistenza di una serie di ambienti
che fino all’ultima campagna erano stati ritenuti facenti parte di un edificio separato dal nucleo principale della villa. Sono stati individuati otto ambienti
(fig. 1), il cui corpo centrale è composto da sei vani
1
Il progetto Falacrinae, diretto dal Prof. Filippo Coarelli (Università di Perugia) e dalla Dott.ssa Helen Patterson (The British
School at Rome), si svolge in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio (Dott.ssa Giovanna Alvino),
grazie ai finanziamenti messi a disposizione in massima parte dal
Comune di Cittareale (il Sindaco Ing. Giuseppe Fedele). Le ricerche archeologiche proseguono grazie al lavoro di un cospicuo
team di specialisti: per la British School at Rome Stephen Kay (re-
sponsabile di scavo), Roberta Cascino, Letizia Ceccarelli, Cinzia
Filippone; per l’Università di Perugia Valentino Gasparini, Andrea De Santis, Luca Tripaldi, Vincenzo Scalfari.
2
Kay 2009; Kay 2011; Kay 2012; sul progetto si vedano anche
Coarelli (ed.) 2009 e Coarelli et al. 2008.
3
Kay 2009; Kay 2012.
4
Kay 2012.
5
Coarelli et al. 2008; Kay – Hay 2010.
161
Stephen Kay
(XV, XVIII-XXII) rettangolari allineati, orientati
nord-sud, mentre un altro nucleo, disposto a partire dall’angolo nord-ovest del corpo principale, è
costituito dagli ambienti XXIII-XXV e proprio su
questi ultimi si è concentrata l’indagine. L’orografia
del terreno ha condizionato la costruzione di una serie di moderati terrazzamenti che hanno avuto come
risultato la realizzazione di ambienti su livelli diversi, i quali sono stati variamente danneggiati sia dalle
arature profonde che dalla presenza di una moderna
conduttura che hanno compromesso la conservazione degli alzati dei muri; malgrado ciò, è stato possibile determinare che anche il corpo meridionale
ha avuto numerose fasi di ampliamento, modifica e
cambio d’uso dei vani. La costruzione del nucleo originale del complesso è inquadrabile nella tarda età
repubblicana (probabilmente era una fattoria), ma
subì sostanziali modifiche in età augustea, quando fu
inglobato nel complesso della villa. La fase di massimo sviluppo è della prima e media età imperiale, con
funzione di ambienti di servizio; dopo un’apparente
cesura nel III sec. d.C. si verificò un’importante fase
di rioccupazione tardo-antica, che è possibile inquadrare – alla luce dei nuovi ritrovamenti – tra IV e VI
sec. d.C.
Il dato più importante che emerge dagli scavi
2011 (fig. 2) è l’esistenza di due vani a nord degli ambienti XXIII e XXV e soprattutto l’esistenza di un
collegamento, rappresentato dalla continuazione del
muro di contenimento, con il settore settentrionale
e monumentale della villa che si trovava su un terrazzo più basso (fig. 1). Risulta evidente come parte
delle strutture monumentali siano state intercettate
e distrutte in occasione della costruzione del cimitero, secondo quanto riportato anche da Persichetti6,
quando alla profondità di m 0,50 furono individuate delle tombe, alcune terragne ed altre definite alla
cappuccina, mentre alla profondità di m 2,50 furono
trovati muri in opera cementizia, un capitello dorico con parte del fusto e un altro frammento di fusto
di colonna scanalata in calcare, nonché frammenti
di marmi policromi pertinenti a pavimenti in opus
sectile.
Fig. 3. Frammento di capitello dorico in calcare.
Nella campagna 2011 proprio dallo scavo nell’area
alle spalle del cimitero è emerso un frammento di capitello dorico in calcare con abaco quadrato, lati lisci
ed echino dal profilo rigonfio (fig. 3), identico a quello rinvenuto nel 2008 e a quello conservato all’interno del cimitero7. Tali capitelli erano pertinenti al
peristilio di cui è stato indagato l’angolo nord-ovest,
costituito da un doppio colonnato, dotato sul lato interno di colonne in laterizio rivestite di stucco rosso
liscio, mentre al lato esterno doveva appartenere la
colonna qui presentata. In base all’analisi dei materiali rinvenuti negli strati di fondazione del muro di
fondo del portico, esso è databile all’età augustea8.
Inoltre, il rinvenimento di cornici modanate in marmo bianco e di lastre di cipollino ha confermato
come le moderne costruzioni abbiamo distrutto una
porzione della pars urbana, dove la decorazione delle
pareti era ottenuta con crustae di marmo e i pavimenti erano in opus sectile, con elementi in africano,
giallo antico, pavonazzetto, marmo di Carrara e marmo proconnesio.
Oltre al collegamento con il settore residenziale
della villa si sono indagate le complesse stratigrafie
degli ambienti interessati anche dalla fase di rioccupazione tardo-antica, in particolare i vani XXIVXXV che si aprivano sull’ambiente XXIII, con portico ligneo e tettoia in laterizi.
Quest’ultimo ambiente, di m 3,37 x 9, ha rivelato una stratigrafia interessante. Il muro meridionale,
realizzato con pietre calcaree e frammenti di laterizi
legati con malta grigia, è dotato di un contrafforte
rettangolare (m 0,80 x 0,70), da interpretare come la
fondazione di un pilastro, indice della presenza fin
dalla prima fase costruttiva di un’area aperta, forse
un piccolo cortile porticato funzionale alle cucine
della villa. Nella fase di uso di epoca tardo-antica anche i piani di calpestio degli ambienti che vi si affacciavano, come si può osservare nella sezione (fig. 2),
hanno subito un rialzamento fino a oltre m 0,47 e la
fondazione del pilastro fu utilizzata come focolare.
Fig. 2. Foto aerea degli scavi 2011 (saggio B).
7
Kay 2009; Kay 2011.
Kay 2009; Kay 2011.
6
8
Persichetti 1896.
162
Risultati della campagna di scavo 2011 nella villa romana di San Lorenzo Falacrinae (Cittareale, Rieti)
attestando una continuità d’uso ininterrotta. Anche
in questo ambiente la presenza di un focolare, caratterizzato da ampie zone di bruciato e da un piano di
laterizi di forma quadrata, simile a quelli individuati
nel settore settentrionale della villa, induce a ritenere
gli ambienti funzionali alla conservazione e cottura
dei cibi.
La mancanza di materiali di pregio e ceramiche
fini, la presenza di oggetti di uso quotidiano, ceramica comune da fuoco e lucerne, oltre a piccoli oggetti personali, quali aghi crinali in osso e pendenti
in bronzo, suggerisce l’uso del complesso degli ambienti XXIV-XXV come cucine organizzate intorno
al cortile XXIII, in uso tra IV e inizi del VI sec. d.C.
Inoltre, l’attiguo ambiente XXVII risulta più ampio
e privo di tracce di focolari. Pur nella frammentarietà dei dati a disposizione, è possibile ipotizzare
che la presenza di diversi vani adibiti alla cottura dei
cibi legati ad un contesto domestico sia da mettere
in relazione con un complesso di servizio e ristoro
non lontano dalla via Salaria. Si può pensare che si
trattasse anche di botteghe, documentate anche nella
parte settentrionale9 dove erano attività produttive,
tra cui certamente produzione di ceramica.
Fig. 4. San Lorenzo, saggio B: ambiente XXIV (saggio B).
Fig. 5. San Lorenzo, ambiente XXIV: canaletta tagliata nel pavimento di cocciopesto (saggio B).
Nell’ambiente XXIV, di m 5 x 6,5 (fig. 4), era ben
conservato il pavimento in cocciopesto di prima età
imperiale e la datazione del vano è confermata anche
dai materiali di un butto contestuale all’esterno nel
muro ovest di questo ambiente, che è anche uno dei
meglio conservati di tutto il complesso, avendo un
filare di alzato in opus reticulatum e fondazioni, realizzate con ciottoli in calcare e laterizi, tenuti insieme
da una malta grigia. Nella fase tardo-antica contro
questo muro fu costruita una canaletta tagliata nel
pavimento di cocciopesto e realizzata con coppi rovesciati, di cui uno ancora in situ, che terminava in
una fossa circolare poco profonda (fig. 5). Si tratta
probabilmente di un ambiente adibito a piccolo magazzino, in quanto vi sono alcune fosse circolari, di
incerta funzione e destinate ad attività produttive,
testimoniate anche dalla presenza nell’angolo nordest di un focolare realizzato con laterizi di forma
quadrangolare.
L’ambiente XXV, di m 4 x 6,50 (fig. 6), scavato
solo per metà, ha rivelato somiglianze con quello
attiguo, documentate da attività della fase tardoantica direttamente sui piani pavimentali imperiali,
Fig. 6. San Lorenzo, ambiente XXV (saggio B).
Fig. 7. San Lorenzo, saggio B, tomba 2 (ambiente
XXIV).
9
Kay 2009; Kay 2012.
163
Stephen Kay
L’ultima fase di occupazione, legata all’abbandono del complesso tardo-antico, è rappresentata da
una sepoltura (fig. 7) rinvenuta nell’ambiente XXIV,
purtroppo priva di corredo, ma che per la tipologia
(a cassone con lastre di arenaria e il defunto inumato in direzione est-ovest) presenta strette somiglianze con la necropoli di Pallottini10 ed è inquadrabile
nell’avanzato VI sec. d.C. È interessante osservare
come le tombe a cassone appaiano “alla cappuccina”
per il collasso delle lastre di copertura; quindi è pos-
sibile ipotizzare che le tombe riportate da Persichetti
siano di questa tipologia e dedurre che non si trattasse di sepolture isolate, ma di una piccola necropoli,
come anche confermato dal rinvenimento nel 2010
di una sepoltura femminile datata tra VI e VII sec.
d.C.11.
Abstract
Bibliografia
Stephen Kay
The British School at Rome
[email protected]
th
The 7 season of field work in the territory of Falacrinae, the birth
place of the Emperor Vespasian, focused upon a final season of excavation at the Roman villa at San Lorenzo. The aim of the season
was investigate a previously unexplored area of the villa complex,
immediately to the west of the modern cemetery, in order to establish the extent and possible functions of the central part. The 2010
season had revealed the southern range of the villa, amongst which
were a series of rooms which continued northwards, on a similar
alignment to the features recorded to the north of the church. The
2011 excavation, which covered an area of approximately 265m²,
therefore initially focused upon these rooms, with the aim of identifying their function and chronology. The area was then gradually
extended northwards, tracing the western limit of the site, which
immediately revealed that a large part of the complex lies underneath the modern cemetery.
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10
11
Kay 2009; Cascino – Filippone 2010.
Kay 2012.
164