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dal numero 6-7 de L’immaginazione giugno-luglio 1985
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FRANCO FORTINI
L’animale
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Stanotte un qualche animale
ha ucciso una bestiola, sottocasa. Sulle piastrelle
che illumina un bel sole
ha lasciato uno sgorbio sanguinoso
un mucchietto di visceri viola
e del fiele la vescica tutta d’oro.
Chissà dove ora si gode, dove dorme, dove sogna
di mordere e fulmineo eliminare
dal ventre della vittima le parti
fetide, amare.
Vedo il mare, è celeste, lietissime le vele.
E non è vero.
Il piccolo animale sanguinario
ha morso nel veleno
e ora cieco di luce
stride e combatte e implora dagli spini pietà.
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Notevolissimo poeta (fra i due o tre più importanti della sua generazione), Franco Fortini; ma
anche grande intellettuale: militante politico, teorico della letteratura, critico, traduttore, saggista.
In un momento in cui nell’ideologia e nel costume oggi dominanti, la figura del poeta tende a
dissociarsi sempre più da quella dell’intellettuale, e gli stessi onori a Fortini poeta (recentissimo
vincitore del premio Librex-Guggenheim “Eugenio Montale”) possono far dimenticare l’uomo di
cultura e di rigorosissimo impegno politico e teorico, “l’immaginazione” cerca con questo numero
di rendere omaggio alla complessa personalità, considerata nei suoi vari aspetti, di uno degli ultimi
maestri del nostro tempo.
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ROMANO LUPERINI
Il momento di Fortini
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1. L’animale, che compare su questa rivista per la prima volta, ed è una delle ultime poesie
composte da Fortini, è un testo di notevolissima qualità e intensità, per la complessità della sua
elaborazione formale (di cui, ovviamente, non sarà possibile dare conto qui in modo esteso e
puntuale), e per la densità del suo messaggio allegorico.
Nella straordinaria ricchezza della sua tessitura fonica, il sistema dei significanti appare bipartito e
tuttavia congiunto. La doppia partitura trova la sua unità nella parola che dà il titolo al
componimento; così: «bestiola», «sole», «fiele», «vele», «animale», «veleno» («animALE»;
«eliminare» «amare», «mare», «vero», «animale», «sanguinario») «animALE».
Si notano inoltre assonanze fra «vedo», «vero» e «veleno», «celeste» e «vele», rime. interne come
«ora»: «implora», consonanze, allitterazioni ecc.
Duplicità e unità, dunque. La duplicità è anche nel nesso stesso che rime, quasi-rime, assonanze,
consonanze istituiscono congiungendo fra loro parole e concetti di significato diverso e persino
opposto e così arricchendo e determinando (meglio: contribuendo a determinare) il senso del
messaggio. Ecco alcune coppie significative: «sole»: «bestiola» o, ancor più, «fiele»: «vele» (e
inoltre «vele» è parola inclusa in «veleno»); oppure «amare»: «mare» (che replica «fiele»; «vele»,
anche sul piano dei significati espliciti, data la contiguità di senso fra l’aggettivo «amare» e il
sostantivo «fiele» e fra «mare» e «vele»; mentre il senso di «amare» è confermato e rafforzato dalla
rima con «eliminare» e dalla isotopia di suoni con «sanguinario»). Due realtà: quella del sole, delle
vele e del mare; e quella, opposta del fiele, della crudeltà amara e sanguinaria. Una, si direbbe,
apparente; sostanziale l’altra. Di nuovo ci guida un’assonanza, raddoppiata dall’isotopia del gruppo
fonico «ve»: «vedo»: «vero»: «veleno». Il vero ha a che fare col veleno, il vedere della conoscenza
con la negatività (inoltre, per consonanza, «vero» è connesso con «ora» e con «implora»: con la
datità ineludibile del presente e della sua minaccia).
E infatti, a livello dei significati: «Vedo il mare, è celeste, lietissime le vele. / E non è vero».
Il piano della contingenza è negato. La verità non è quella che si vede e che per un attimo può
incantarci. È l’altra dell’animale sanguinario nascosto fra gli spini.
E tuttavia le due verità – quella negata e quella effettiva – fanno riferimento a due ordini sì diversi
ma indubbiamente esistenti. Il sole, le vele, il mare esistono davvero. In I lampi della magnolia (che
apre Paesaggio con serpente) si legge: «esiste la primavera, / la perfezione congiunta
all’imperfetto». Solo che fra questi due ordini non si danno mediazioni simboliche. Ancora in
Paesaggio con serpente: «La luna come cammina cammina / così ghiacciata. E senza la più
piccola / ipotesi di sopravvivenza. Come è chiaro / che inutilmente il reale è simbolico». La
«perfezione» delle vele è negata dall’imperfetto» della negatività, dalla crudeltà della bestiola.
Dunque i due ordini sono anche quello della perfezione e dell’imperfezione: concetti di natura etica
e razionale, non immagini. Il rapporto orizzontale (e confidenziale o sensuale) col reale stabilito dal
simbolismo è sostituito da uno verticale (o concettuale), che distingue, rapporta e contrappone due
ordine diversi: quello dell’allegoria.
Il cammino della luna è «inutilmente simbolico». La logica simmetrica, antropomorfica e
antropocentrica del simbolismo è revocata in dubbio. E anche questa «tendenza
disantropomorfizzante» si situa appunto – ci dice Lukàcs quasi in conclusione della sua Estetica –
«nell’allegoria».
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2. «L’animale» è la bestia umana. Rinvia a quel «pessimismo biologico e storico» di cui Fortini
parla nella premessa di Insistenze. Di nuovo si torna alla differenza fra simbolo e allegoria, magari,
questa volta, attraverso parole di Benjamin (da Il dramma barocco tedesco) che ben si attagliano
alla poesia di Fortini in generale e a questa in particolare: «Mentre nel simbolo, con la
trasformazione della caducità fuggevolmente si rivela il volto trasfigurato della natura nella luce
della redenzione, nell’allegoria si propone agli occhi dell’osservatore la facies hippocratica della
storia come un pietrificato paesaggio primevo. La storia in tutto quanto ha, fin dall’inizio, di
inopportuno, di doloroso, di sbagliato si configura in un volto – anzi: nel teschio di un morto». O
nel morso velenoso di un «piccolo animale sanguinario».
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3. «Vedo il mare, è celeste, lietissime le vele. / E non è vero.» Ma anche le vele e il mare sono
duplici. Si sdoppiano: per un verso sono l’incanto illusorio, la «sirena del mondo» che bisogna
negare per cogliere, sotto le apparenze della superficie, la forza del negativo (con moto di dialettica
negativa, giunto a Fortini da Marx e da Adorno). Per un altro, sono un possibile paradigma di
perfezione. Sono apparenza, ma anche possibile futura sostanza. La tensione all’adempimento è
tutta nello spasimo della bestiola, nello spazio che intercorre fra «veleno» e «luce», fra crudeltà e
«pietà», fra cecità biologica e preghiera storica («implora»). Dunque, con movimento analogo e
inverso, anche il negativo, o «l’imperfetto», è duplice: ha dentro di sé l’altro cui aspira, non si
consuma nella mera contingenza, mira a travalicarsi – e a realizzarsi.
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4. «C’era nell’aria del pomeriggio ventoso / qualcosa che non intendevo, che non sapevo.
Comparvero / una donna e una bambina e mi vennero incontro / dal bosco. Sottobraccio la
bambina / aveva un piccolo cestello tutto colmo di mirtilli. / La donna invece non la ricordo.
Vorrei / che questo fosse tutto».
È la strofa conclusiva di Incontri nel bosco in Paesaggio con serpente. Anche qui due ordini, quello
delle apparenze e quello dell’adempimento. Il primo non è simbolico del secondo, non allude a
esso: è «qualcosa che non intendevo, che non sapevo». Piuttosto è umbra, anticipazione figurale di
quello. E di nuovo solo la preghiera può colmare la distanza: «Vorrei / che questo fosse tutto».
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5. Se l’intento allegorico è chiaro, non altrettanto, però, lo è il contenuto dell’allegoria.
Certo, Insistenze (o, prima ancora, Dieci inverni, Verifica dei poteri, Questioni di frontiera) può
fornire una risposta: il «tutto» è la rivoluzione sociale, il regno della libertà pensato da Marx. Ma il
testo poetico si ferma al di qua di questo messaggio. In esso il «tutto» o la «perfezione» sono certo
allegoria di qualcosa: ma di cosa non è detto. In Fortini poeta c’è la tensione religiosa e allegorica a
un significato, non questo significato.
L’allegoria postula un senso, ma resta vuota. Lo spazio che divide la parzialità dall’adempimento,
l’apparenza dalla sostanza, rimane deserto. La congiunzione fra i due ordini può darsi solo per
spasimo intellettuale, con un atto di volontà e di sublimazione etica che tiene aperta la forbice che li
distingue e che così garantisce la possibilità di un significato, non ancora il suo contenuto.
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6. Secondo Lukàcs (che cita Benjamin) l’arte del Novecento è allegorica, ma oggetto dell’allegoria
sarebbe il nulla. Esprimerebbe un «bisogno religioso» ma questo attesterebbe solo se stesso. Donde,
una sfumatura di giudizio negativo.
E infatti anche l’allegoria di Fortini non è «piena». La resistenza all’insignificanza può esprimersi
solo in modi trasversali. Come avviene, d’altronde, in tutta la grande arte del Novecento. Epperò
tenere aperta quella forbice, divaricare una duplicità e indicare una possibile unità, non è «nulla». In
tempi di facili ‘oltrepassamenti della metafisica’, è testimonianza della necessità di un significato,
dell’imprescindibilità e della ineludibile responsabilità della interpretazione del mondo.
Lukàcs ci ammonisce che questo «bisogno religioso» va superato e che ciò potrà darsi solo in una
società diversa dall’attuale. Ha ragione. Ma senza questo «bisogno» non solo non ci potremo
avvicinare a essa, ma dimenticheremo anche che essa può esistere. Fortini, ostinatamente rinviando
a un diverso ordine, ostinatamente ce lo ricorda.
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7. Fortini è sempre stato estraneo alla tradizione simbolista e postsimbolista. Per un paio di decenni
e forse più, ciò lo ha condannato all’isolamento. Al di là delle mode, e nonostante l’esempio
(anch’esso isolato) di Saba, l’asse della nostra poesia ha continuato a essere quello indicato dalla
linea Montale-Luzi o Montale-Zanzotto (non senza recuperi dell’analogismo ungarettiano). Ma
l’ultimo Montale, Luzi a partire da Nel magma, e Zanzotto da La Beltà, per un verso, e Sereni (più
vicino a Saba e a Gozzano, nonché al Montale più prosastico e «romanzesco»), per un altro, hanno
chiuso un periodo: sono i poeti della crisi e del disfacimento della grande tradizione simbolista. Al
di là di essa, rispunta Fortini. Poteva sembrare un attardato, ed era un precursore. Comincia appena
ora il suo momento: in questo nostro tempo stravolto e «sanguinario», che «stride» di paura ma
anche manzonianamente «combatte» e «implora», in questo nostro Medio Evo, in cui non si dà più
possibilità di simboli, ma forse ancora e soltanto, di allegorie.