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RASSEGNA STAMPA giovedì 17 dicembre 2015 L’ARCI SUI MEDIA ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE WELFARE E SOCIETA’ DONNE E DIRITTI BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SPETTACOLO SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Corriere.it – Corriere Firoentino del 16/12/15 Una scuola per bimbi nel villaggio di Samb Modou e Mor Diop Un ospedale e una scuola nei villaggi nei due senegalesi uccisi in piazza Dalmazia il 13 dicembre di quattro anni fa. E’ il progetto realizzato da Fondazione «Il Cuore si scioglie» (Unicoop Firenze), Cgil Toscana e Arci Toscana di Jacopo Storni Un ospedale e una scuola nei villaggi di Samb Modou e Mor Diop, i due senegalesi uccisi in piazza Dalmazia il 13 dicembre di quattro anni fa. E’ il progetto realizzato da Fondazione «Il Cuore si scioglie» (Unicoop Firenze), Cgil Toscana e Arci Toscana grazie ad una raccolta fondi straordinaria che ha permesso di destinare 30mila euro ai due piccoli villaggi dai quali provenivano i due venditori ambulanti. Un progetto lungo quattro anni raccontato nel breve documentario dal titolo «Quattro anni dopo» realizzato da Antonio Chiavacci e Benedetto Ferrara, che si apre con l’autografo del calciatore della Fiorentina Babacar su un pallone donato agli abitanti dei due villaggi. I villaggi Mont Rolland e Darou, dopo il lutto per la perdita dei due ragazzi, tornano così a sorridere. A Mont Rolland è stato realizzato un importante presidio sanitario, che servirà per le cure degli oltre 5mila abitanti e che mancava dal 1988. All’interno della struttura, oltre alle cure e all’assistenza dei malati, verrà fatta anche informazione e prevenzione sanitaria, oltre alla realizzazione di un registro nascite. A Darou è invece stata costruita una scuola per 300 bambini dai 6 ai 14 anni, con tanto di banchi, sedie e lavagne. «Da un evento tragico e violentissimo come quello successo il 13 dicembre 2011 poteva sgorgare un fiume d’odio – ha detto Gianluca Mengozzi, presidente Arci Toscana - invece grazie alla disponibilità dei senegalesi in toscana, alla voglia di capire, grazie a tante cittadine e cittadini toscani che hanno rifiutato che nella propria regione potessero succedere cose simili, è nata un’esperienza bellissima». http://corrierefiorentino.corriere.it/firenze/notizie/cronaca/15_dicembre_16/scuola-bimbivillaggio-samb-modou-mor-diop-a9cc171a-a409-11e5-a522-0c99e24ed959.shtml Da la Nazione del 16/12/15 Nel paese natale di Samb e Diop per dare un senso a quella strage Piazza Dalmazia al Senegal: il reportage c i parenti delle vitti, QUATTRO ANNI dopo la tragedia razzista che ha sconvolto Firenze, una delegazione dei rappresentanti di Arci Toscana, Regione Toscana, Cgil e Fondazione `11 Cuore si Scioglie' si è recata nei villaggi delle due vittime: Mont Rolland e Darou, nel cuore del Senegal, per portare il saluto e le presenza viva delle istituzioni e dei cittadini che, ancora oggi, non hanno dimenticato. Il ricordo ha trovato una forma concreta e tangibile: nel 2013 infatti, Arci, Cgil e Il Cuore si Scioglie hanno organizzato una raccolta di fondi con cui hanno realizzato un ambulatorio medico e una scuola nei due villaggi, in memoria delle 2 due vittime della strage razzista del 13 dicembre 2011. E ieri al cinema Alfieri è stato proiettato il video reportage realizzato durante questa missione, a testimonianza del fatto che la solidarietà e l'accoglienza sono più forti della violenza e del razzismo. L'iniziativa, intitolata `Oltre l'indifferenza: per non dimenticare Samb e Diop', è stata organizzata in collaborazione con la Comunità Senegalese. «Lo scopo del nostro viaggio - ha detto Irene Mangani, de Il Cuore si scioglie - è stato quello di mostrare la nostra vicinanza. La gente e i bimbi ci hanno accolto con molta gioia, è stato un bellissimo regalo, siamo soddisfatti del risultato dell'impegno: ora in quei villaggi ci sono una scuola e un ambulatorio medico». «Siamo andati due anni fa a visitare i due villaggi - ha spiegato Gianluca Mengozzi, presidente Arci Toscana - dove abbiamo conosciuto i parenti delle vittime. E con loro abbiamo deciso di fare una piccola azione solidale con circa 30mila euro messi a disposizione da tanti toscani per la realizzazione di quanto da loro richiesto: il diritto alla salute e il diritto allo studio e all'istruzione. Tutti noi torniamo arricchiti da questa esperienza, che rinsalda la solidarietà e la vicinanza tra toscani e senegalesi». «Abbiamo anche visitato la `porta del viaggio senza ritorno' della `Maison des esclaves' - ha ricordato Maurizio Brotini di Cgil Toscana, in Senegal con Alessio Gramolati -. Il luogo attraverso cui, per centinaia di anni, portoghesi, olandesi e spagnoli hanno fatti schiavi milioni di africani, spedendoli nelle Americhe. Si racconta che Nelson Mandela, visitando questo luogo, si fosse ritirato nell'anfratto più cupo e inaccessibile, e vi fosse rimasto per lunghi minuti, piangendo. Visitate la `porta' e fatevi raccontare dalle guide del luogo quale fosse il trattamento riservato per centinaia di anni a uomini, fanciulle, bambini africani dall’uomo bianco. E fatene tesoro». Da Repubblica.it (Bologna) del 16/12/15 Acrobati, musicisti e attori: il circo torna in Montagnola Arriva il gruppo Side Kunste-Cirque, con artisti da tutta Europa di GIULIA FOSCHI Invia per email Il circo contemporaneo torna al Parco della Montagnola: a raccogliere il testimone del Circo Paniko è il Side Kunste-Cirque, un gruppo di acrobati, musicisti e attori da tutta Europa. Il tendone è già montato: non ci sono i problemi che una compagnia numerosa come il Circo Paniko aveva incontrato rispetto ai limiti previsti dalla zona, perché i Side sono di meno, e si sono stretti: “Noi stiamo tutti dentro a una sola roulotte”, spiegano. Il loro “Radio Tagadà” andrà in scena tutti i giorni dal 18 dicembre al 13 gennaio (prenotazioni 328 1221288): uno spettacolo di circo cabaret dedicato al varietà all’italiana, tra risate, brividi e musica dal vivo. Sul contenuto, la compagnia mantiene il mistero: “Per scoprire la magia che accade sotto il tendone del circo c’è una sola strada: aprirlo ed entrare”. Il circo è la linea conduttrice dell’attività invernale in Montagnola a cura di Arci e Antoniano. A dicembre tornano i campi invernali, il servizio di accoglienza per bambini con giochi, film, letture e attività. Domenica 27 è in programma lo spettacolo “Alla scoperta di Babbo Natale”, mercoledì 6 gennaio arriva la Befana verde (il programma completo è sul sito www.montagnolabologna.it). 3 “Siamo riusciti a riportare il circo in Montagnola - esulta l’assessore Matteo Lepore grazie alla collaborazione con l’Antoniano. La Montagnola è il biglietto da visita della città, stiamo lavorando per trasformarla in un nuovo distretto culturale”. Felici anche i nuovi ospiti circensi: “Il nostro obiettivo è riportare il circo nei centri storici - spiega Salvatore Frasca del gruppo Side - perché il circo è un patrimonio culturale dei cittadini, ma spesso viene emarginato, specialmente nelle nuove forme”. E il Circo Paniko? Non se ne è andato, ma torna dal 23 gennaio con un nuovo spettacolo al Parco di Villa Angeletti (prenotazioni 333 6298118). http://bologna.repubblica.it/cronaca/2015/12/16/news/acrobati_musicisti_e_attori_il_circo_t orna_in_montagnola-129619458/ Da Redattore Sociale del 17/12/15 Il circo alternativo fa tappa a Bologna, per riappropriarsi delle periferie Side Kunst-Cirque e Circo Paniko in città dal 18 dicembre al 21 febbraio. Lepore (Comune): “Occasione per vivere uno spazio come Villa Angeletti e riappropriarsi della Montagnola, intorno alla quale sta nascendo un distretto culturale”. In Montagnola dal 24 dicembre attivi i campi invernali per bambini BOLOGNA - Doppio appuntamento con il circo in città. Prima con il Side Kunst-Cirque che apre le danze in Montagnola e poi con l’arrivo del Circo Paniko che animerà con il suo spettacolo il parco di Villa Angeletti. “La programmazione invernale del circo è il segnale che questo spettacolo riesce a stare in centro e in periferia”, ha detto Matteo Lepore, assessore Economia e Promozione della città del Comune di Bologna che ha ricordato come Villa Angeletti rappresenti una “nuova centralità urbana che va vissuta” e la Montagnola “sia un luogo strategico, la porta della città, su cui stiamo investendo molto e intorno al quale stiamo costruendo un distretto culturale. Con il circo si vuole dare un ulteriore segnale per riappropriarsi di uno spazio attraverso la cultura”. Side Kunst-Cirque sarà in Montagnola dal 18 dicembre al 13 gennaio, mentre il Circo Paniko monterà il suo tendone a Villa Angeletti dal 23 gennaio al 21 febbraio. Un omaggio al varietà italiano, con una sequenza di artisti che presentano le loro performance, e la musica dal vivo. È “Radio Tagadà”, lo spettacolo di Side Kunst-Cirque che dopo una tournée europea approda a Bologna. “Il nostro sarà uno spettacolo comico, ma non voglio dire di più. Per scoprire cosa ci sarà, bisogna entrare sotto il tendone”, ha spiegato Salvatore Frasca di Side Kunst-Cirque che si è detto contento del ritorno del circo in centro, “le grandi strutture, la presenza di animali lo aveva emarginato nelle periferie”. Spettacolo nuovo invece per il Circo Paniko che negli ultimi cinque anni ha presentano il Cabaret degli Affamati e quest’anno ha deciso di “farlo morire, con l’ultima portata”, ha detto Giacomo Martini. “Credo sia importante che due delle 4 o 5 compagnie che fanno circo alternativo siano presenti in città – ha proseguito Martini – e sono contento che il Circo Paniko sia usato per rivitalizzare zone che hanno bisogno di aiuto”. Oltre al circo, durante la feste la Montagnola sarà aperta anche ad altre iniziative come ha spiegato Manuela Gargiulo di Antoniano (che gestisce lo spazio insieme ad Arci). “Abbiamo organizzato i campi invernali per i bambini a partire dal 24 dicembre, con educatori Arci e un’offerta che consente ai genitori di portarli anche solo per un giorno o un’ora”. Ci saranno laboratori, attività, aiuto per i compiti ma anche spettacoli come “Fun 4 Science – Scienza divertente” il 27 dicembre. E poi il 6 gennaio la Befana alle 16 si mostrerà ai bambini. “Quest’anno abbiamo deciso di declinare questo appuntamento in chiave green, perché oltre a rivitalizzare lo spazio con attività e spettacoli vogliamo rigualificarne la parte verde del parco – ha spiegato Gargiulo – sensibilizzando i bambini e le loro famiglie”. (lp) Da la stampa – Torino 7 del 17/12/15 XVIII DICEMBRE - PER NON DIMENTICARE Al Circolo Arci No.à appuntamento con "XVIII Dicembre - Per non dimenticare", una serata dedicata al ricordo della Strage di Torino del 18 dicembre 1922. Programma: Letture tratte dai libri dell'Archivio Enzo Lalli; Open mic con letture di poesie curde e turche; Chiara Acciarini, consigliere nazionale dell'ANED - Associazione Nazionale ex Deportati, intervento sul tema: "Filippo Acciarini, un testimone tenace della Strage di Torino del 18 dicembre 1922"; News dagli archivi sulla strage del 18 dicembre 1922; Intervento di A. Olivieri, Associazione verso il Kurdistan e Rete Kurdistan: "Strage di Ankara, 10 ottobre 2015"; Canti a cura dell'Union des amis Chanteurs. Ingresso con tessera ARCI. http://www.lastampa.it/2015/12/16/torinosette/eventi/xviii-dicembre-per-non-dimenticare70F2Nilep2DSOMjyHvJJmO/pagina.html Da CinemaItaliano.info del 17/12/15 Ad AstraDoc "Napolislam" e "Tempo Pieno" Terzo appuntamento, tutto partenopeo, con i registi Cioffi e Pagano ospiti in sala, quello in programma venerdì 18 dicembre al Cinema Astra di via Mezzocannone 109 per Astradoc – Viaggio nel Cinema del Reale 2016, la rassegna di Cinema Documentario (VII edizione) organizzata da Arci Movie, Parallelo 41 Produzioni, Coinor e Università degli Studi di Napoli Federico II con il patrocinio del Comune di Napoli. Si parte alle 20.00 con "TEMPO PIENO" di Lorenzo Cioffi sull’esperienza pedagogica della scuola elementare di Madonna Assunta in Bagnoli In un momento storico in cui la scuola pubblica affronta una gravissima crisi di risorse - e forse di “aspettative” da parte della comunità stessa - testimoniare di questa esperienza “stra-ordinaria” di scuola pubblica è un modo per contribuire alla riflessione sulla centralità e sul senso della scuola. Il documentario racconta di una scuola pubblica che funziona, di una pedagogia costantemente in ricerca, di un lavoro - quello della maestra - vissuto come un modo di vivere, di una classe fatta di persone che crescono. Dell'educazione come processo. Alle 21.30 si prosegue con "NAPOLISLAM" di Ernesto Pagano, vincitore del Biografilm Italia Award al Biografilm Festival di Bologna 2015 e recentemente al centro di un caso per la sospensione, poi rientrata, dalla programmazione dai Cinema del circuito UCI dopo i terribili attentati di Parigi. Il film racconta della conversione di dieci napoletani all'Islam cercando di restituirne le loro scelte e avendo come cornice quella di una città che non si presenta respingente, ma disposta quanto meno ad interrogarsi sulla diversità. Napolislam è un'opera necessaria in questo momento per comprendere e capire aldilà dei semplici e banali luoghi comuni. Il film rientra nella rassegna nazionale “L'Italia che non si vede” a cura di Ucca (Unione dei Circoli del Cinema Arci) a cui Astradoc aderisce. "Napolislam" e "Tempo Pieno" sono prodotto entrambi da Ladoc insieme a Isola Film. 5 http://www.cinemaitaliano.info/news/33725/ad-astradoc-napolislam-e-tempo-pieno.html Da Termoli On Line del 17/12/15 L’Arci Immigrazione Isernia presenta: “tuttaltrastoria.is” ISERNIA. Questo pomeriggio 18 dicembre alle ore 18:30 presso l’ex lavatoio, l’Arci Immigrazione Isernia presenterà il libro TUTTALTRASTORIA.IS. Dieci storie di altrettanti ragazzi profughi africani e asiatici arrivati nell’ultimo anno nella nostra città e nei paesi limitrofi. Per conoscerli un pò meglio e avere più coscienza di chi è il ragazzo africano o asiatico che incrociamo passeggiando per strada, o che incontriamo in ospedale o negli uffici pubblici a richiedere i documenti. Parteciperanno all’incontro: Antonio Iarussi, ideatore del libro; Don Francis Tiso, presbitero e scrittore statunitense che ha curato alcune delle dieci interviste; alcuni dei ragazzi residenti nei centri di accoglienza della provincia e protagonisti delle storie; modererà l’incontro Vasco Di Salvo, scrittore isernino. Sarà possibile acquistare il testo ad offerta libera. Il ricavato della vendita dei libri verrà donato all’Arci Immigrazione Isernia per la realizzazione del progetto “VoltaPagina” piccola biblioteca multiculturale. http://www.termolionline.it/197827/larci-immigrazione-isernia-presenta-tuttaltrastoria-is/ Da Centumcellae news del 16/12/15 L’Arci invita i cittadini a visitare i luoghi dell’accoglienza CIVITAVECCHIA – L’Arci di Civitavecchia si unisce all’appello dell’Arci Nazionale in occasione del 18 dicembre, “Giornata di azione globale per i diritti dei migranti”. “Desideriamo condividere con voi – affermano dal locale circolo Arci – quanto è emerso dall’incontro del 9 dicembre scorso presso la sede Arci di Piazza Piccinato 10, cui hanno partecipato il Forum Ambientalista, l’Unione degli Studenti e la Prof.ssa Contu promotrice insieme alla Iacoponi della Marcia delle donne e degli uomini scalzi realizzata a Civitavecchia l’11 settembre 2015. Vi ringraziamo per il prezioso contributo e ci aspettiamo ulteriori adesioni da parte di altre associazioni del territorio e di singoli cittadini che vogliano partecipare venerdì 18 dicembre alle ore 16:00 16,00 presso la sede dell’Arci alla Giornata di azione globale contro il razzismo, per i diritti dei migranti, dei rifiugiati e sfollati, indetta dall’ONU sin dal 2010″. “La guerra contro le persone migranti è sempre più cruenta. La cifra delle vittime nelle frontiere continua a crescere così come cresce la militarizzazione dei confini e la violenza da parte degli Stati del nord del Mondo. I movimenti razzisti e xenofobi si affermano negli ambiti istituzionali e politici e prendono piede anche nella società ma contemporaneamente settori della società civile si ribellano all’ordine degli Stati e sostengono i migranti nel loro scavalcare i confini. Migliaia sono le organizzazioni e i volontari impegnati ad offrire accoglienza e assistenza a migranti e rifugiati”. 6 “A sostegno delle ragioni dei migranti – concludono dall’Arci – e per rendere manifeste le attività delle associazioni e dei volontari che lavorano all’interno dei progetti SPRAR, per abbattere i muri della diffidenza della società civile, abbiamo il piacere di invitare la cittadinanza, in questa giornata celebrata in tutto il mondo, a visitare i luoghi dell’accoglienza per promuovere l’incontro con richiedenti asilo e rifugiati e condividere un pomeriggio all’insegna del confronto e della convivialità, durante il quale si svolgerà un breve dibattito, merenda etnica e tombolata finale”. http://www.centumcellae.it/primopiano/larci-invita-i-cittadini-a-visitare-i-luoghidellaccoglienza/ 7 ESTERI Da Avvenire del 17/12/15, pag. 8 L’emergente jihad dei Balcani arruola con 500 euro al mese NELLO SCAVO Alla fine Viktor Orban sta avendo la meglio. La contestata barriera metallica piantata perfino di persona dal premier ungherese, non solo è stata estesa ma adesso viene perfino esportata. Per respingere le ondate di profughi in marcia lungo la rotta balcanica, da giorni anche la Macedonia sta sigillando il confine sud con la Grecia. E per farlo ha ottenuto un regalo da Budapest: tonnellate di filo spinato arrivato direttamente dai depositi magiari ai militari di Skopje. La diplomazia dei cavalli di frisia non ferma gli jihadisti. E nei Balcani non si sa come fronteggiare un rischio a lungo sottostimato: le centinaia di cittadini con un passaporto di Skopie, Pristina, Belgrado, Tirana, arruolatisi nel Daesh, chi per rabbia e chi per denaro. I numeri, quelli che ossessionano gli uffici dell’antiterrorismo di un intero continente, raccontano una verità indigesta. I “combattenti stranieri” da queste parti sono il problema minore, perché ad essere oramai incontrollabile è il flusso dei “combattenti interni”. Se con i primi parzialmente ci si consola liquidandoli come immigrati ingrati che dall’Europa si recano a combattere nelle trincee del jihad, compreso il rischio che rientrando possano compiere attacchi nelle nostre città; i secondi sono invece cittadini balcanici, dunque europei, che si arruolano nelle formazioni del Califfato. I numeri sono in gran parte noti. E fanno paura. Perciò vengono fatti circolare di malavoglia. Secondo le autorità del Kosovo, che hanno ricevuto nelle settimane scorse un dettagliato e documentato rapporto del Centro studi per la sicurezza di Pristina (Kcss) i casi accertati solo quest’anno sono 232. In gran parte ex combattenti della guerra nella ex Jugoslavia, ancora in età da mortaio. In Macedonia l’ufficio del premier Gjorge Ivanov parla di 69 compatrioti di Alessandro Magno da poco rientrati, mentre almeno 110 sono ancora agli ordini del Daesh e 25 risultano morti in battaglia. La proverbiale ritrosia dell’intelligence macedone fa scommettere che le cifre, quelle vere, vadano riviste al rialzo. «Ci sono – ha osservato ieri il coordinatore dei servizi segreti italiani, Giam- piero Massolo – due criticità: la compresenza di 'combattenti stranieri' tra i flussi ed il fatto che questa rotta fa tappa in Paesi balcanici caratterizzati da un alto tasso di radicalizzazione jihadista». Dopo che un paio dei terroristi di Parigi sono risultati essere tra i migranti che hanno attraversato i Balcani, l’Unione Europea preme per maggiori controlli. «Non funzionerà, è solo “politika”. A che serve chiudere le porte di entrata se non abbiamo modo di sorvegliare chi esce?», ammette a bassa voce l’anziano sergente macedone che si accontenterebbe gli pagassero gli straordinari per il lavoro sporco fatto a Gevgelija e nei paraggi, dove di tanto in tanto i giornalisti vengono allontanati di peso, «per ragioni di sicurezza». In altre parole, per consentire ai nuclei antisommossa di poter eseguire senza testimoni scomodi le usuali e indiscriminate cariche di alleggerimento sui migranti, nell’attesa che il muro macedone sia completato. Da queste parti assoldare un mercenario o servirsi di un contrabbandiere non è mai stato un problema. Chi ai tempi della guerra dei Balcani aveva sventagliato la prima raffica di Khalasnikov a meno di vent’anni, oggi ne ha poco più di quaranta. E se non ha trovato un 8 impiego tra gli irregolari in Ucraina, la Siria è la Mecca degli ex ragazzi dal grilletto facile. In Macedonia un insegnante non arriva a guadagnare 300 euro al mese. In Serbia o nel Kosovo non va molto meglio. Il Califfo assicura agli «stranieri con esperienza» e una famiglia sulle spalle uno stipendio di almeno 500 euro al mese, maggiorato se si è istruttori, oltre alla possibilità di fare carriera e arrotondare con ogni genere di affare in nero: petrolio, oppio, automezzi, elettrodomestici, telefonini, computer e schiavi, preferibilmente donne. Intanto nel ventre molle della rotta balcanica, al confine tra Macedonia e Serbia, laddove i sentieri si perdono nella Valle di Preshevo – geograficamente in Serbia, ma presidiata dalle vedette dei banditi kosovari – accadono fatti su cui le autorità preferiscono soprassedere, magari parlando di cruenti ma non inconsueti scontri tra gang. In uno di questi, però, hanno perso la vita otto poliziotti macedoni e quattordici “criminali” di cui non è mai stata fornita la lista completa dei nomi. È successo il 5 maggio di quest’anno, quando la nuova via terrestre dei profughi non era ancora in prima pagina. Una strage come quella, con 22 morti in un combattimento durato dall’alba al tramonto nei sobborghi frontalieri di Kumanovo, in Europa non si è mai vista. Al ministero dell’Interno di Skopje qualcuno si lasciò sfuggire una parola mai più pronunciata: terroristi. Non del tutto una falsità. Perché oggi fonti di polizia a Kumanovo confermano che i criminali originariamente accusati di essere albanesi che istigavano all’odio etnico - erano «implicati in vari traffici, compresi quello di migranti e armi dirette verso Il Medio Oriente». Il nuovo Eldorado della “Balkan jihad”. del 17/12/15, pag. 15 Mosul Guerriglia casa per casa, popolazioni filo-Isis Cosa attende i soldati che difenderanno la diga DAL NOSTRO INVIATO KOBANE (Siria) Le colline attorno alla diga sono brulle, costellate di villaggi poveri: casette ad un piano, fattorie isolate con torme di cani randagi spaventati dalla guerra. L’anno scorso tra il 15 e 19 agosto, quando i guerriglieri di Isis avevano occupato gli spalti alti dello sbarramento e setacciavano i nuclei urbani vicini, i peshmerga bloccavano l’accesso a noi giornalisti dicendo: «Sono zone dove è facile organizzare imboscate. Tra le rocce piazzano le mine. Dalle colline alte i cecchini dominano settori molto ampi. Non possiamo garantire la vostra sicurezza». Il bacino artificiale si vede da molto lontano, si incunea azzurro in mezzo al marrone verdastro. D’estate una lieve brezza allieta un poco dal caldo opprimente. Ma d’inverno soffia perennemente il vento freddo del deserto, che non trova ostacoli e porta facilmente a temperature ben sotto lo zero. Questo è il luogo della diga posta una quarantina di chilometri a nord di Mosul. La sua instabilità cronica, strutturale, si offre a facile metafora delle difficoltà che attendono i 450 militari italiani destinati a garantire la sicurezza dei tecnici e operai della Trevi di Cesena chiamati a cercare di ripararla. I problemi che la circondano sono però politici e militari, prima che ingegneristici. L’area a sud di Dohuk e a nord di Mosul, dal giugno 2014 capitale irachena del Califfato, è infatti terra di confine tra le province curde e quelle sunnite. Non a caso i peshmerga, grazie alla copertura dei caccia americani, prima di avanzare sono costretti a setacciare i villaggi. Qui la popolazione sunnita sta in maggioranza con Isis. La guerriglia è strada per strada, casa per casa. I cartelli stradali sono in curdo e arabo, raramente in inglese. I villaggi vuoti, le abitazioni abbandonate stanno a testimoniare le 9 ultime fughe di popolazione, compresa quella cristiana, oggi rifugiata soprattutto a Erbil, ma in maggioranza già emigrata tra Europa, Canada, Usa. Ci siamo fermati quattro giorni fa sulle sponde settentrionali del grande lago artificiale venendo da Erbil. Sulla statale verso nord, interminabili file di camion turchi rappresentano la linfa vitale per la provincia autonoma curda, formalmente ancora sottomessa alla sovranità di Bagdad, ma de facto ormai totalmente indipendente. Nel giugno-settembre 2014 il lago era praticamente irraggiungibile. Adesso, con il fronte spostato a ridosso di Mosul, vengono le famiglie curde per i picnic del venerdì. Però la diga resta inavvicinabile. La pattugliano unità scelte di peshmerga assieme a un pugno di commando americani e inglesi. «La diga è troppo importante. Non dobbiamo assolutamente rischiare ancora che cada nelle mani di Isis», dicono i comandi di Dohuk. Così hanno posto limiti invalicabili ben lontani dallo sbarramento e sulle colline più alte: sensori elettronici, visori notturni, campi minati. Gira anche voce che siano state poste delle reti nel bacino, per evitare che Isis possa lanciare cariche esplosive galleggianti. I tecnici italiani dovranno comunque fare i conti con instabilità strutturali di vecchia data. Se ne accorsero presto i dirigenti del consorzio italo-tedesco che nel 1980 Saddam Hussein assoldò per costruire lo sbarramento sul Tigri. L’ex dittatore iracheno lo volle in quella gola aperta una quarantina di chilometri a nord di Mosul, anche se la qualità del suolo era considerata assolutamente inadatta, per il fatto che nei suoi piani le priorità politiche sovrastavano quelle economiche. Intendeva continuare l’«arabizzazione» della regione, spingendo i curdi verso nord. La costruzione andò per le lunghe. Lo sbarramento sfiora i tre chilometri e mezzo e raggiunge l’altezza di 133 metri. Dietro nacque un lago gigantesco destinato a soddisfare la sete cronica del Paese, penalizzato dal fatto che le sorgenti del Tigri e l’Eufrate sono situate tra le montagne turche. Oggi la diga ha in valore ancora più vitale, visto che dal 2003 le strutture idriche del Paese sono diventate ancora più obsolete. Ma nel 1984 i tecnici furono costretti a scavare profonde gallerie sotto la diga destinate ad essere via via riempite con iniezioni di cemento e materiali consolidanti. Il terreno gessoso si scioglie al contatto con l’acqua. L’embargo internazionale seguito all’invasione del Kuwait nel 1990 ridusse ulteriormente le riparazioni. Nel marzo 2003 furono i blitz di peshmerga e marines ad evitare che potesse venire minata dai baathisti fedelissimi di Saddam. Fu allora che venne alla luce il problema della diga quale potenziale catastrofe umanitaria. Gli ingegneri Usa resero noto che il suo crollo avrebbe causato un’onda alta oltre venti metri: in due ore poteva sommergere Mosul, la valle di Ninive con i suoi antichi villaggi cristiani, e avrebbe quindi raggiunto Bagdad con un onda alta ancora quattro metri e mezzo. Vittime possibili: mezzo milione di persone, oltre a danni incalcolabili. Quella minaccia non è cambiata, resta più attuale che mai. E i militari italiani dovranno contribuire a dissiparla. Lorenzo Cremonesi del 17/12/15, pag. 7 Sei morti in Kurdistan, Amnesty contro Ankara Turchia. Rapporto sul «maltrattamento dei rifugiati» da parte del governo Erdogan Giuseppe Acconcia 10 Torna alta la tensione nel Kurdistan turco. Sei i morti nelle ultime ore, tre poliziotti e tre giovani kurdi. Tra di loro, Salih Edim di appena 11 anni, è stato colpito da un proiettile alla testa. Le forze speciali turche hanno fatto irruzione nelle abitazioni di alcuni politici del partito democratico dei Popoli (Hdp), la sinistra filo-kurda. Il coprifuoco è stato esteso nelle principali città del sud-est turco. Secondo la Fondazione per i diritti umani della Turchia (Tihv), tra il 16 agosto e il 12 dicembre, in Turchia sono stati imposti almeno 52 coprifuochi in sette città, coinvolgendo 1,3 milioni di persone. Duri scontri sono andati avanti per ore a Diyarbakir e Sirnak. Acqua corrente e corrente elettrica sono saltate per ore in questi centri. Il governo turco ha autorizzato l’impiego regolare anche dell’esercito e delle forze speciali, a supporto delle unità anti-terrorismo della polizia, nelle operazioni durante il coprifuoco. La Turkish Airlines ha poi sospeso per il secondo giorno consecutivo i voli da Istanbul e Ankara per Sirnak. Lo scontro tra Ankara e kurdi si è inasprito in seguito alle tensioni tra Russia e Turchia dopo l’abbattimento del Sukhoi Su-24 sui cieli tra Siria e Turchia. Mosca ha imposto sanzioni contro Ankara mentre la Turchia ha fermato varie navi russe e intensificato controlli sulle navi mercantili nei suoi porti del Mar Nero, trattenendone finora 27. Mosca aveva fermato otto navi mercantili turche. I kurdi siriani hanno mostrato un certo sostegno per l’intervento di Mosca pur di liberarsi dalla pressante presenza turca. Ankara ha imposto una safe-zone nel Kurdistan siriano (Rojava). Secondo Mosca, continua qui il traffico di petrolio dello Stato islamico verso la Turchia. La procura di Ankara ha aperto un’inchiesta per «tradimento» a carico del parlamentare di opposizione Eren Erdem, del partito kemalista, che nei giorni scorsi aveva rilasciato un’intervista in cui confermava il sostegno assicurato da Ankara ai jihadisti in Siria. Erdem ha precisato che le sue dichiarazioni si basano su inchieste dalla magistratura turca. Infine, il Segretario alla Difesa, Ashton Carter, in visita alla base di Incirlik da dove partono i raid anti-Is della coalizione internazionale, ha chiesto ad Ankara di controllare meglio i suoi confini per impedire rifornimenti essenziali per i jihadisti. Amnesty International ha duramente criticato i maltrattamenti che subiscono i rifugiati in Turchia. «L’Ue rischia di rendersi complice di gravi violazioni dei diritti umani ai danni di rifugiati e richiedenti asilo», si legge nel report. del 17/12/15, pag. 18 Kurdistan, se la felicità è esser ancora profughi Regno della violenza - I racconti delle donne yazide nei campi per le minoranze in fuga dai jihadisti Prigioniera per 11 mesi dell’Isis, marito e alcuni parenti uccisi, ‘liberata’ dopo il pagamento di un riscatto di 20 mila dollari. Ranja, 25 anni, yazida, alla sua età ha già visto cose che noi umani non riusciamo neppure a immaginare. La sottovalutazione del pericolo, l’incapacità di non avere una via d’uscita. Così lei e la sua famiglia sono finiti nelle mani del Daesh, pagando un prezzo altissimo. Quando le milizie del Califfato sono entrate a Qaraqosh nel Kurdistan iracheno non c’è stato scampo: “È successo tutto in poco tempo – racconta Ranja, ospite del campo profughi yazida di Khanki – abbiamo tentato la fuga sulla montagna, ma ci hanno trovati. 11 Mio marito l’ho perso subito, lo hanno preso e poi ammazzato, lui come altri fratelli e sorelle. Sono rimasta coi miei tre figli. Daesh ha portato tutti a Tel Afar e lì abbiamo vissuto fino a pochi mesi fa, dentro uno stanzone, tutti insieme. Non ci davano da mangiare, picchiavano e torturavano noi donne, una è stata uccisa davanti ai miei occhi…”. Gli occhi e il volto terrificato di Ranja dicono e fanno capire fino a quale grado di violenza possano essere arrivati i tagliagole di Al Baghdadi. Poi riprende: “Chi non parlava arabo era nei guai, lo stesso chi non si convertiva. Spesso avevano il volto coperto, ma sono riuscita a capire che in mezzo a quelle bestie c’erano tanti stranieri, europei e anche cinesi. Poi è arrivato Osman, il negoziatore e ha tirato fuori me e i miei figli da quell’inferno”. “Aiutiamoli a casa loro” è lo slogan populista che ha ormai invaso tutti i talk che puntano alla pancia del popolo. Piuttosto che assistere alla presunta invasione di stranieri – nello stesso calderone si finisce per mettere clandestini, rifugiati, immigrati, profughi, stranieri senza conoscere le singole peculiarità –, la gente sarebbe disposta a scucire risorse di tasca propria per tenere gli indesiderati lontani. Facile parlare, l’azione è tutta un’altra cosa: “Molti Paesi occidentali stanno investendo in Kurdistan proprio sul fronte degli aiuti ai profughi siriani e iracheni – dice il responsabile del settore media del governatorato di Duhok, Fawaz Mirani – tutti meno l’Italia. Durante un meeting a Milano per parlare di questo argomento, le autorità italiane si erano dette entusiaste, poi sono sparite. Aspettiamo con ansia un loro segnale. Da soli non ce la facciamo a sobbarcarci tutto il lavoro, costretti a combattere e accogliere. Poi non vi meravigliate se dalle vostre parti arrivano carovane di profughi in cerca di un futuro migliore”. In Kurdistan non c’è futuro per le vittime della sanguinosa guerra innescata dal Daesh. La popolazione della provincia settentrionale di Duhok è aumentata di 10 volte negli ultimi anni, grazie ai circa 700 mila sfollati. Il più grande campo profughi è a Domiz, periferia meridionale di Duhok, che ospita oltre 30 mila siriani. In mezzo a tanta disperazione, c’è una Ong italiana che fa del suo meglio per alleviare le pene dei profughi, ‘Un ponte per’. Presente in Iraq dal 1991, ai tempi della prima guerra del Golfo, è balzato agli onori delle cronache grazie alla liberazione delle ‘due Simone’, rapite e liberate in Iraq nel 2003: “È partito tutto con un ponte aereo dall’Italia e la commercializzazione dei datteri per finanziare l’aiuto agli sfollati di guerra – racconta Caterina Mecozzi, responsabile dei progetti di accoglienza nei campi profughi siriani di Duhok – oggi le cose sono cambiate. Al punto da avere 60 dipendenti locali. Il nostro lavoro è molto importante e va dal supporto psicologico delle persone che arrivano qui alla Mass communication. Informiamo chi vuole lasciare il campo per raggiungere l’Europa a cosa va incontro, ci occupiamo di bambini, di matrimoni precoci, di attività culturali e così via. In Italia la gente pensa che i profughi vogliano scappare, tutti. Stando alla nostra esperienza, un 40% pensa di restare nei campi ancora a lungo, 40% spera di tornare presto a casa sua e solo il 20% pianifica il viaggio della speranza”. La vita scorre sempre uguale nel perimetro del campo, transennato da una rete metallica. Sono nati negozi, attività artigianali; ci sono sette scuole, due centri salute, ristoranti e diversi campi sportivi. Nell’unico ben tenuto, uno scricciolo con la maglia di Messi si è conquistato e si appresta a tirare un rigore. La palla entra piegando le mani del portiere. 12 del 17/12/15, pag. 19 Italiani in Libia, il rischio di finire subito fuorigioco Un’operazione Onu di “imposizione della pace” è piena di trappole: non solo da parte di milizie e jihadisti, ma anche degli alleati francobritannici di Enrico Piovesana Gli esperti sono convinti. Una missione militare Onu in Libia a guida italiana non sarà un’operazione di peacekeeping stile Libano, ma una guerra lunga e pericolosa stile Afghanistan. Come nel 2011, però, Francia e Gran Bretagna sono pronte ad agire da sole per metter fuori gioco l’Italia. Il generale italiano Paolo Serra, consigliere militare Onu in Libia, sta pianificando l’invio di un nutrito contingente di Caschi blu per proteggere Tripoli, addestrare le forze di sicurezza locali e mettere in sicurezza le installazioni petrolifere. Secondo l’esperto militare Gianandrea Gaiani, direttore di Analisidifesa.it “lo Stato islamico non si farà sfuggire la ghiotta occasione di colpire i soldati ‘crociati’”. I Caschi blu saranno “bersaglio ideale”, e se attaccati dovremo rispondere, trasformando la stabilizzazione in una guerra. “Avrebbe più senso intervenire subito in maniera più decisa, ma – secondo Gaiani – Renzi e l’Onu non lo faranno. Hollande e Cameron invece, decisi a evitare un ruolo guida di Roma, potrebbero giocare d’anticipo e l’Italia sarebbe costretta a un ruolo gregario come nel 2011”. I segnali che Parigi e Londra intendano muoversi in tale direzione non mancano, secondo l’analista militare Pietro Batacchi, direttore di Rivista Italiana Difesa. “Abbiamo informazioni attendibili sulla volontà di Parigi di lanciare raid aerei su obiettivi Isis a Sirte e Sabratah anche prima dell’insediamento del governo unitario, e anche in assenza di formale richiesta”. Intervento condotto insieme a Londra “in virtù dell’alleanza sancita nel 2010 e della comune necessità strategica di garantirsi l’accesso al petrolio libico”. Batacchi non ha dubbi: sarà fin da subito “una cosa seria”. Non qualche centinaio di carabinieri e addestratori, ma migliaia di soldati pronti a difendersi e a combattere contro Isis e milizie locali “che sono il vero problema”. Concorda Michele Nones, direttore dell’area sicurezza e difesa dell’Istituto Affari Internazionali: l’intervento, se ci sarà, sarà “lungo e pesante, anche in termini di perdite”, soprattutto in assenza di un accordo politico sostenuto da tutte le tribù e le milizie locali “che andranno disarmate”. Una missione di peace-enforcing assai poco pacifica: “Sarà più enforcing che peace”. Un’azione autonoma francese “sarebbe inutile perché l’inefficacia dei raid è ormai dimostrata, e un durissimo colpo alla solidarietà europea”. Ma Parigi e Londra potrebbero decidere di agire in maniera più discreta, favorendo un’azione militare da parte dell’Egitto, ferocemente contrario a un accordo che garantisca un ruolo politico alla fazione guidata dai Fratelli musulmani. Possibilità concreta secondo Germano Dottori, docente di studi strategici alla Luiss, che ritiene prematuro parlare di missioni Onu perché l’accordo, se ci sarà, difficilmente reggerà ai veti incrociati: “Un accordo favorevole agli islamisti di Tripoli verrebbe fatto saltare dall’Egitto. Se invece verranno messi da parte gli islamisti, saranno loro a reagire con l’appoggio di Turchia e Qatar”. 13 Del 17/12/2015, pag. 16 Renzi: “Niente bombe noi a Mosul per aiutare” Italia, minacce sul web Il premier alla Camera difende la “missione diga” La ditta Trevi: “Urgente intervenire”. E sale in Borsa GIAMPAOLO CADALANU I paracadutisti italiani andranno a proteggere la diga di Mosul, ma «non per combattere», dice il ministro della Difesa. Proposta la missione, il governo vuole chiarire che «non ci preoccupiamo delle esibizioni muscolari, ma di cose concrete»: il premier Renzi ha voluto sottolinearlo, aggiungendo che «solo gli italiani possono mettere a posto quella diga», lesionata e «potrebbe distruggere Bagdad e metà dell’Iraq ». Nello stesso spirito l’intervento di Roberta Pinotti, ministro della Difesa, secondo cui i militari della Folgore «andranno a proteggere il lavoro di altri italiani che dovranno rimettere in sesto una struttura fondamentale per il futuro dell’Iraq». La minaccia, più ancora che dai miliziani di Daesh, il sedicente Stato Islamico, sembra arrivare dalle lesioni alla struttura della diga: «Problemi significativi su cui bisogna intervenire, altrimenti c’è il rischio di un disastro ambientale», ha aggiunto la titolare della Difesa. La linea italiana non cambia: si manda un contingente per tutelare, in vari modi, gli iracheni, ma con l’idea di evitare l’uso della forza, se sarà possibile. In parte è una risposta alle preoccupazioni di Laura Boldrini, presidente della Camera, la quale ritiene «non efficace» la risposta militare contro il terrorismo, soprattutto in assenza di un accordo politico, e sollecita invece un rafforzamento del lavoro di intelligence internazionale. Ma la visione della politica italiana sembra non convincere il fronte jihadista, quanto meno se si dà retta alle reazioni pubblicate sul web. «Isis farà di voi maccheroni all’italiana», minaccia un utente di Twitter. Per un altro, i militari del nostro Paese sono comunque «forze d’occupazione». Altri argomentano che «un numero così elevato non è giustificato dalle esigenze di protezione dei lavoratori sulla diga». Ovviamente, come sempre su Internet, si tratta solo di commenti non riconducibili a militanti islamisti, e dunque non avrebbe senso considerarli una minaccia autentica. A livello ufficiale, invece, è il governatore della provincia di Ninive, Naufal Hammadi Sultan Al Akub, a esprimere «il benvenuto ai militari italiani», se il governo di Bagdad darà via libera al loro intervento. L’area di Mosul resta comunque turbolenta: ieri le agenzie riferivano di un bombardamento di mortai, in cui sono rimasti uccisi sei curdi peshmerga. In un altro scontro, nei giorni scorsi, sono caduti tre soldati turchi. Lo scopo della missione italiana è limitato alla garanzia della sicurezza per il personale coinvolto nella ristrutturazione della diga, compito che gli esperti considerano abbastanza semplice. E d è ancora più necessario perché si tratta di «ingegneri e maestranze riconosciuti in tutto il mondo per la loro qualità professionale», come sottolinea Renzi. Di questa eccellenza sembra convinta la Borsa: l’annuncio dell’appalto di Mosul, stimato attorno ai due miliardi di dollari, ha fatto volare il titolo della Trevi. Le azioni dell’azienda di Cesena hanno chiuso con un rialzo del 25,3 per cento. La Trevi appare l’unica in grado di affrontare la ristrutturazione: «La diga è costruita su rocce, al cui interno ci sono banchi gessosi che a contatto con l’acqua subiscono processi di dissoluzione, provocando infiltrazioni che minano le fondamenta », ha spiegato Carlo Crippa, area manager dell’azienda romagnola per l’Iraq. Il personaleTrevi «dovrebbe consolidare la struttura con un intervento di emergenza, attraverso iniezioni di cemento». 14 Del 17/12/2015, pag. 36 L’arma del Gas MAURIZIO RICCI LA differenza fra il petrolio e il gas è che il primo arriva da tutto il mondo via nave: si compra da chi si vuole. Il secondo, per lo più, arriva ancora attraverso i tubi, fissi e costosi, dei gasdotti. Ecco perché, strategicamente, il petrolio è una sorta di randello, che uno mulina alla cieca. Il gas, invece, è un’arma mirata, letale, che può lasciare la vittima designata al buio e al freddo delle centrali elettriche e dei caloriferi spenti. E così Vladimir Putin la usa da dieci anni, con cinismo e spregiudicatezza. Il problema è che non lega solo il consumatore al fornitore. È un’arma a doppio taglio: anche il fornitore, se vuole vendere, ha bisogno del consumatore. Lo stesso Putin ha avuto modo più volte di accorgersene, in questi dieci anni, ogni volta che il colpo inferto dalla sua arma preferita gli è rimbalzato addosso. La minaccia ripetuta di tagliare il gas verso l’Europa ha convinto molti, nella Ue, che è meglio non dipendere troppo dalla Russia. E, per questo, anche l’ultima azzardata scommessa, il raddoppio del Nord Stream, il gasdotto verso la Germania, potrebbe svuotarglisi in mano. Per capire il rapporto fra il Cremlino e Gazprom, bastano tre cifre. La metà dei soldi con cui funziona lo Stato russo viene dalle tasse sui prodotti energetici, petrolio, ma, in particolare, gas. Quasi l’80 per cento della produzione russa di metano è in mano a Gazprom, che controlla anche il 100 per cento delle esportazioni. Il monopolio è lo strumento più fidato dei disegni di politica estera del nuovo zar. Basta guardare il prezzario del metano russo. Nella infida Polonia, costava, nel 2013, 526 euro a metro cubo. Molto più che in Italia: 440 euro. E lontanissimo dall’amica Germania: 379 euro. Nelle strategie di Putin, del resto, le convenienze economiche vengono per ultime. Il gasdotto che attraversa l’Ucraina rifornisce l’Europa senza problemi, ma Putin preferisce ricattare Kiev, tentando in ogni modo di aggirare il vecchio tracciato, con nuovi, costosi, gasdotti che hanno l’unico merito di non attraversare il territorio ucraino. Ci è riuscito con il Nord Stream, diretto in Germania, nel 2011. Ma aver mulinato troppo la spada di Gazprom gli è costato il no della Ue al gemello South Stream, visto come un pericoloso aumento di dipendenza europea dal metano russo. Allora ha provato a stringere un patto con Erdogan, puntando su un gasdotto in terra turca. Ma, anche qui, più ha potuto la politica: il contrasto sulla Siria ha, di fatto, fatto saltare il gasdotto turco. Mettendo alle strette Putin. Il Cremlino ha infatti bisogno di dare ossigeno al suo gigante del gas. Con i prezzi che crollano e la domanda stagnante, Gazprom vede nel 2015 i suoi proventi (cruciali per il bilancio russo) cadere del 21 per cento, dopo essere scivolati già del 10 per cento (ma dell’86 per cento se si conta in dollari, anziché in rubli) nel 2014. Nonostante la grande fanfara che ha accolto l’accordo per la fornitura di metano alla Cina, l’alternativa asiatica al cliente europeo è ancora remota. I gasdotti sono da costruire e Gazprom non ha i soldi per farlo. Caduta anche l’opzione turca, l’ipotesi di raddoppiare il Nord Stream — vista finora più che altro come un marcaposto a futura memoria — è diventata per il Cremlino una priorità. Dall’altra parte, Putin ha trovato orecchie più attente del previsto. Nelle aziende partner, anzitutto. Il crollo dei prezzi del petrolio e la conseguente paralisi degli investimenti petroliferi spinge Shell a cercare altrove occasioni di investimento. Lo stesso vale per un gigante dell’elettricità come E.On, alle prese con la decimazione dei profitti seguita alla programmata chiusura delle centrali nucleari e alla crescita delle rinnovabili. Ma un’attenzione non scontata la scommessa russa ha, probabilmente, trovato anche nella politica tedesca. La Merkel e i suoi alleati socialdemocratici sanno che la Germania 15 ha pagato più degli altri paesi — in termini di mancato export, impianti costruiti in Russia che girano a vuoto, piani di investimento rimessi nel cassetto — le sanzioni al Cremlino per la guerra ucraina. Il mondo degli affari ha trangugiato la medicina, ma non l’ha ancora digerita. E Berlino deve anche gestire la complicata transizione postnucleare: il boom delle rinnovabili non basta, la Germania ha dovuto ricorrere spesso al carbone, smentendo tutti i suoi manifesti ecologici: il gas (anche russo) inquina di meno. Infine, dimostrare a Putin che sull’Ucraina non si molla, ma l’ostracismo non è totale e pregiudiziale, è una carta di cui la diplomazia tedesca sente il bisogno. Anche a rischio di irritare gli alleati europei. L’Italia, altrettanto colpita dallo stop nell’interscambio, ha mal digerito questi rinnovati rapporti tra Berlino e Mosca. Oggi Renzi vola a Bruxelles, il dossier gas non è ufficialmente sul tavolo del vertice tra i leader, ma l’Italia farà di tutto per riconquistare posizioni. Il problema, poi, è che il potenziamento del Nord Stream può soddisfare la politica di Berlino, ma economicamente non sta in piedi. Portare al doppio la capacità di un gasdotto di cui, attualmente, si utilizza solo la metà della capacità esistente non sembra una necessità. La verità è che l’Europa ha sempre meno bisogno di metano. Siamo tornati a consumarne quanto venti anni fa. Frutto della crisi economica, ma, soprattutto, dell’aumento di efficienza delle centrali, delle industrie e, in particolare, delle case. Nel futuro — 20 o 30 anni, quanto bisogna, almeno, considerarne per un impianto come un gasdotto — il metano sarà sempre più un combustibile di riserva, da utilizzare — come già avviene spesso oggi — nei momenti di picchi di consumo, quando sole e vento non bastano o non sono disponibili. Su questa base, il metano che arriva attualmente è più che sufficiente. E se quello fornito attualmente da Norvegia e Olanda dovesse diminuire esiste l’alternativa del trasporto via nave o di accordi con fornitori di enorme potenziale, come l’Iran, titolare delle più grandi riserve di metano al mondo, o l’Egitto. Come detto più volte in questi anni, a Bruxelles, il nodo, piuttosto, è rendere più efficiente e meglio ripartita la distribuzione del metano che già arriva fra i paesi europei. D’altra parte, il partner russo appare, come sempre, assai poco affidabile. Gazprom dovrebbe farsi carico di metà dell’investimento nel nuovo gasdotto ed è assai dubbio che possa trovare 5-10 miliardi di dollari, avendone già impegnati 70 per i gasdotti verso la Cina. Inoltre, se i contratti valgono, Nord Stream per Gazprom sarebbe subito in perdita, perché il gigante russo deve pagare i diritti di transito sui gasdotti ucraini anche se non ci passa dentro una molecola di gas, fino al 2030. Pare difficile che l’Europa accetti di vedere l’Ucraina apertamente truffata. Questo non significa che, alla fine, il raddoppio del Nord Stream non vada in porto. Ma il tentativo della Cancelleria di Berlino di dire che la decisione è in mano ad aziende private e non ai governi è vuoto in partenza. Le leggi comunitarie impediscono a Gazprom di controllare un gasdotto e anche la distribuzione del relativo metano. È il motivo per cui è saltata South Stream. Perché Nord Stream ne resti indenne, occorre che la politica, a Bruxelles, decida di esentarla. Per ridare fiato al suo gigante dell’energia il Cremlino ha deciso di puntare su Berlino Lo scontro con Ankara per il conflitto siriano ha affondato il progetto di gasdotto Turk Stream Da Avvenire del 17/12/15, pag. 14 L’Ue «consegna» il Sakharov al blogger saudita Badawi La moglie: «Hanno punito uno spirito libero» 16 LUCA GERONICO INVIATO A STRASBURGO Scende un po’ lenta dalla tribunetta dell’Europarlamento, certo emozionata nell’abitino nero appena scollato, Ensaf Haidar, moglie di Raif Badawi. Tocca a lei ritirare il premio Sakharov 2015. «Avrei voluto che oggi ci fosse qui mio marito. Prima di tutto, a suo nome, vi chiedo un minuto di silenzio per le vittime di Parigi. È questo il più grande desiderio di mio marito». Suo malgrado, questa donna saudita madre di tre figli rifugiati con lei in Canada, è l’icona della libertà di pensiero imprigionata. Raif è in carcere dal giugno 2012 in Arabia Saudita perché nel suo blog “Free Saudi Liberal” aveva criticato figure religiose. Nel 2008 il primo arresto con la proibizione di lasciare il Paese. Nel 2012 un nuovo arresto con l’accusa di “apostasia”: la Corte d’appello di Gedda ha confermato il primo settembre 2014 la condanna a 1.000 frustate, 50 alla settimana. «Sappiamo poco di lui. Sappiamo che ora ha problemi di salute », sospira con un lieve sorriso Ensaf poco dopo la ceri- monia in sala stampa. Il 9 gennaio scorso, dopo la grande preghiera del venerdì, le prime 50 frustate in piazza davanti a una folla osannante. Dopo 15 minuti di “spettacolo” il giovane blogger, 31 anni, è tornato in carcere. L’indignazione internazionale ha sinora ottenuto una sospensione della tortura, ma non delle altre due pene: 10 anni di carcere e una multa di 1 milione di rial (circa 196mila euro). Quando un commosso Martin Schulz chiede davanti all’emiciclo la sua liberazione, la standing ovation dura a lungo. «Re Salman – afferma – conceda la grazia, rilasci subito e senza condizioni Raif Badawi permettendogli di tornare alla sua famiglia». Un simbolo che l’Europa vuole difendere per denunciare con lui tutti gli altri casi di detenzione per reati di opinione in Arabia Saudita. Schulz ricorda l’avvocato difensore del blogger, condannato a 15 anni per aver fondato l’Osservatorio per i diritti umani e il giovane attivista Ali Mohammed Baqir al-Nimr, condannato a morte e alla successiva crocifissione. «Nessun commercio di armi, nessun introito legato al petrolio potrà esimerci dal lottare per i diritti umani», afferma Schulz che assicura che si sta facendo tutto il possibile per liberare Raif. La trattativa deve restare aperta, anche con il governo di Riad «perché solo con il dialogo si può ottenere un risultato positivo». La speranza di una liberazione, la ribalta di Strasburgo, non appanna il coraggio della denuncia: «Nelle società arabe il pensiero libero è blasfemo. La società del mondo arabo vive sotto il giogo di un regime teocratico, i religiosi cercano di intimidire i pensatori», dichiara davanti ai deputati Ensaf Haidar. Per questo suo marito marcisce in prigione, anche se Raif «non è un criminale, è uno spirito libero, il suo crimine è essere una voce libera nel Paese del pensiero unico». La targa del Sakharov è su una sedia vuota. Nell’ultima frase la donna cita Raif: «A coloro che augurano la morte, noi auguriamo la vita, a coloro che augurano l’ignoranza auguriamo di tornare alla ragione». Ensaf è esile, magrissima dopo aver iniziato a novembre lo sciopero della fame. Mentre lascia la sala stampa, chi l’accompagna racconta: «Quando Raif riesce a parlarle al telefono, chiede solo e sempre una cosa: “I bambini si ricordano ancora di me?”» del 17/12/15, pag. 10 Lo smarrimento della République 17 Tempi presenti. La deriva securitaria e la sterzata a destra della Francia: un percorso di letture, fra scrittori, antropologi e storici per interrogarsi sulla crisi di senso dell'occidente Guido Caldiron Si potrebbe dire che il segno dei tempi l’hanno indicato proprio le sue parole. Per commentare l’esito delle elezioni regionali francesi, Jean-Marie Le Pen non è ricorso a nessun odioso gioco di parole antisemita, bensì a una citazione tratta da un bestseller. Spiegando la sconfitta del Front National attraverso la retorica complottista che gli è propria, il vecchio parà ha evocato il sorprendente afflusso ai seggi di certe banlieue piene immigrati dove regna d’abitudine l’astensionismo, prima di concludere: «Non vorrei che nel 2017 si verificasse l’ipotesi avanzata da Houellebecq, vale a dire il debutto del governo del presidente Mustapha». Un riferimento esplicito a Sottomissione (Bompiani), romanzo-evento di quest’anno, in cui è descritta la sfida per l’Eliseo nel 2022 tra Marine Le Pen e il candidato di un partito islamista vicino ai Fratelli musulmani. Competizione che condurrà alla nomina del primo presidente musulmano del paese anche grazie ai voti del «fronte repubblicano» costituito dal centrodestra e dai socialisti. In altre parole, è alla fantapolitica di un romanzo di grande successo che si è affidato il fondatore del Front National per analizzare la situazione del suo paese. Forse perché, indipendentemente da ciò che si può pensare del talento letterario di Michel Houellebecq, Sottomissione è prima di tutto un’illustrazione del modo in cui una parte dei francesi guarda oggi al proprio paese. La «resa» sociale Accusato di islamofobia, sospetto che più passaggi del libro non aiutano certo a dissipare, ma in realtà più interessato a criticare i vizi e la propensione al servilismo verso il potere dell’ambiente accademico e intellettuale parigino, il pamphlet dell’autore di Le particelle elementari tratteggia con le tinte della decadenza, della cialtroneria e della miseria umana l’élite culturale e politica d’oltralpe. François, il protagonista del libro, è pronto a convertirsi alla fede dei nuovi padroni pur di non rinunciare alla sua carriera universitaria. Se il vecchio mondo in cui è cresciuto comincia a crollare, lui cerca una nuova sistemazione: «L’idea sconvolgente e semplice, mai espressa con tanta forza prima di allora, che il culmine della felicità umana consista nella sottomissione più assoluta». L’idea che il problema non sia tanto «la forza dell’altro», quanto la propria intrinseca debolezza, la crescente fragilità di un sistema sociale, culturale, di valori alimenta così anche nelle pagine di Houellebecq quel tema del declino dell’Occidente con cui autori ben più impegnati su questo fronte, su tutti Oriana Fallaci di La rabbia e l’orgoglio, hanno inteso definire la cifra di una presunta «resa» del Vecchio continente di fronte al mondo. Anche in Francia, Houellebecq è del resto tutt’altro che isolato, al punto che il suo nome è stato spesso affiancato a quello di altri scrittori, intellettuali, polemisti e commentatori radiofonici o televisivi che con le loro posizioni hanno dato corpo alla progressiva e apparentemente inarrestabile droitisation del paese. Un fenomeno che si è espresso nei consensi andati al Front National come nella lunga egemonia politica della destra muscolare di Nicolas Sarkozy: non solo una crisi sociale perciò, ma anche una più generale «crisi di senso» che riguarda settori sempre più vasti del paese. Così, secondo lo storico Pierre Rosanvallon, è dalla fine degli anni Novanta che si è assistito in Francia all’apparizione di «una nuova forma di pensiero illiberale». Non solo una svolta politica a destra, ma qualcosa di più profondo. «La democrazia implica una capacità permanente di fare autocritica, ha spiegato lo studioso, ma ciò che sta emergendo ora oltrepassa questo quadro: si tratta di sentimenti molto più negativi che costruiscono un’idea di declino, se non di vera e propria decadenza. Il pensiero critico e la 18 riflessione sulla modernità sembrano bloccati e la loro crisi alimenta ora questo ripiegamento su una cultura ’di reazione’». Proprio all’inizio di questa nuova fase, un giovane storico parigino, Daniel Lindenberg aveva fissato una prima istantanea della vicenda in Le rappel à l’ordre. Enquete sur les nouveaux réactionnaires (Seuil, 2002), un libro le cui analisi di fondo restano valide ancora oggi. Lindenberg descriveva, infatti, la svolta «reazionaria» di un certo numero di intellettuali provenienti dalla sinistra. Il tono e i contenuti delle critiche avanzate da costoro nei confronti dell’eredità del ’68, della cultura dei diritti dell’uomo, del modello di integrazione repubblicana, dell’antirazzismo, dell’Islam, del femminismo rappresentavano agli occhi dello studioso «un superamento dell’orizzonte democratico, fino a sprofondare in una deriva neoconservatrice se non apertamente reazionaria». Il suicidio francese Tra i nomi citati in quell’opera compariva già Houellebecq, al pari dello scrittore Maurice Dantec ma anche sociologi come Pierre André Taguieff, filosofi come Marcel Gauchet o Alain Finkielkraut, studiosi come Pierre Manent e una ex icona della cultura progressista come Régis Debray. Al di là del loro percorso iniziale, questi intellettuali hanno finito per esprimere la «nostalgia di una democrazia forte, dagli accenti eroici», se non ad auspicare un vero e proprio «neo-populismo». Ma se la deriva di una parte dell’intelligentsia sessantottina, passata per l’esperienza dei nouveaux philosophes, e approdata da una sana critica del totalitarismo sovietico ad un incauto abbraccio con la «difesa dell’Occidente», è simile a quella dei neoconservatori statunitensi, il tema delle nuove sintesi tra destra e sinistra è rimasto una costante del contesto francese come ha ribadito di recente l’antropologo Jean-Loup Amselle in Les nouveaux rouges-bruns (Lignes, 2014) riflettendo sulle traiettorie di personaggi come Alain Soral e Dieudonné, ma analizzando in seguito anche il posizionamento ambiguo del filosofo pop Michel Onfray. La stessa vigilia del recente voto regionale è stata caratterizzata da un aspro dibattito sulle pagine di Libération e Le Monde su quelle figure del mainstream intellettuale e mediatico considerate responsabili di una piena legittimazione degli argomenti del Front National. Personaggi ancora una volta diversi e apparentemente incompatibili, come il filosofo ex gauchiste Alain Finkielkraut o il giornalista del quotidiano conservatore Le Figaro, Eric Zemmour, autori rispettivamente di L’identità infelice (Guanda, 2013) e Le suicide français (Albin Michel, 2014), libri, specie il secondo, divenuti dei veri casi editoriali, che denunciano seppur con sfumature diverse l’annichilimento dell’identità della République sotto i colpi del «politicamente corretto» e del relativismo culturale. Ancora una volta, la crisi del paese è letta in termini di declino, di smarrimento identitario, di impoverimento dei punti di riferimento tradizionali. Una sorta di sinistra eco di quella rivolta intellettuale reazionaria descritta dallo storico israeliano Zeev Sternhell in Contro l’Illuminismo (Baldini, 2007) che ha fatto coincidere da sempre il trionfo della ragione con le fasi di decadenza di una civiltà: non una rivolta contro la modernità, ma per un’altra idea di modernità, esente da «pericoli» come la democrazia, la libertà, l’uguaglianza. In una simile prospettiva, i voti per Marine Le Pen rischiano di rappresentare il classico albero che cela una vasta foresta. 19 Da Avvenire del 17/12/15, pag. 14 Le esecuzioni sono in calo «Mai così poche in 24 anni» Nel 2015 sono state 28, il 20% in meno dell’anno precedente. Diminuiscono anche le sentenze capitali: meno 33%. Due terzi dei detenuti messi a morte avevano disturbi psichici WASHINGTON Il dato è «storico»: nel 2015 ci sono state 28 esecuzioni. Parola della Death Penalty Information Center (Dpic), uno dei principali centri di ricerca sulla pena di morte negli Stati Uniti. Non si aveva un numero così ridotto dal 1991. Rispetto all’anno precedente, sono state il 20 per cento in meno. E si sono concentrate in sei Stati, l’86 per cento, tuttavia, sono avvenute in tre: Texas – con il dato più alto, 13 prigionieri messi a morte – Missouri – sei –, Georgia, 5. Il resto – quattro – sono avvenute in Oklahoma, Florida e Virginia. Anche le sentenze capitali comminate dai tribunali federali sono diminuite drasticamente. Quest’anno sono state 49, il 33 per cento in meno rispetto al 2014, si legge nel rapporto della Dpic. Non accadeva dagli anni Settanta. Per la prima volta in vent’anni, inoltre, il numero di detenuti nel braccio della morte è sceso sotto le 3mila unità. A 70, la cui esecuzione era stata programmata entro il 2015, è stato concesso un rinvio, una grazia o una commutazione della pena. Sei condannati, infine, sono stati riconosciuti innocenti e liberati. I numeri sembrerebbero mostrare un mutamento di tendenza. Confermata anche dai più recenti sondaggi d’opinione: sempre più americani preferiscono altri tipi di pene. «L’utilizzo della pena di morte si sta facendo sempre più raro. Sporadico. Non si tratta solo di variazioni statistiche annuali ma di un più ampio cambiamento negli atteggiamenti nei confronti della pena capitale», ha affermato Rovert Dunham, direttore della Dpic che ha curato il rapporto. A ricorrere al boia sono ormai i tribunali di poche contee: meno del 2 per cento del totale. Il record, in particolare, spetta a quella di Riverside, che ha emesso il 16 per cento dei verdetti di morte. Mentre, nuovi Stati hanno scelto di bandire le esecuzioni. Il Nebraska le ha ufficialmente abolite, in Connecticut è stata la Corte Suprema a dichiararle incostituzionali e la Pennsylvania ha dichiarato una moratoria. In un panorama positivo resta, tuttavia, un particolare inquietante. Due terzi dei 28 prigionieri messi a morte mostrava sintomi di problemi mentali, disabilità psichiche o un passato di forti traumi e abusi. 20 INTERNI del 17/12/15, pag. 3 Più yacht, meno ricercatori Università. Nella legge di stabilità c'è il taglio alle tasse sulle barche di lusso, non il sussidio di disoccupazione Dis-Coll ai ricercatori precari dell’università. Stanziate risorse per i 500 euro ai 18enni. Mai riconoscere i diritti a chi lavora: questa è la legge. La protesta a Montecitorio domani. Il coordinamento No Triv: «Ecco come il governo sta sabotando i referendum contro le trivelle» Roberto Ciccarelli ROMA Sono due le misure che, ad oggi, descrivono la legge di stabilità che il governo Renzi si appresta a far votare al parlamento. Niente disoccupazione ai precari della ricerca, ma intanto si elimina la supertassa sugli yacht (sopra i 14 metri) introdotta dal governo Monti. Nel patchwork impazzito delle micro-misure contenute nella manovra che sarà discussa da oggi alla Camera tutto è improvvisato, ma nulla è casuale. Se il favore ai costruttori di barche di lusso è chiaro, più complessa è la valutazione della bocciatura della possibilità di estendere la «Dis-Coll» agli assegnisti di ricerca senza nemmeno esaminare l’ipotesi di ricomprendere dottorandi e borsisti e limitandosi a prorogare l’istituto per il 2016. In primo luogo questa decisione contrasta con il presunto spirito di «civilizzazione» esibito dal presidente del Consiglio Renzi nella lotta contro il terrorismo. Soldi ai consumi, non a chi lavora All’indomani degli attentati sanguinosi di Parigi, il premier annunciò la famosa legge «un euro sulla sicurezza, un euro sulla cultura». In questa partita rientrava la «mancetta elettorale» ai 18enni nel 2016: 500 euro per andare al cinema, a teatro, ai musei. Soldi ai «consumi», più che a coloro che quella cultura producono. È la legge che Renzi ha seguito con gli 80 euro ai dipendenti fino a 26 mila euro di reddito (ora esteso alle forze dell’ordine) o con i 500 euro ai docenti della scuola, sempre per i «consumi». Mai sostenere chi lavora, (o chi ha perso il lavoro), meglio dirottare le risorse su chi compra e dunque finanzia le imprese o le amministrazioni che usano eserciti di precari per tenere aperti musei e tutto il circuito connesso nell’editoria di settore, ad esempio. Questo impianto si è arricchito di un lieve incremento al Fondo integrativo per la concessione di borse di studio che sale nel 2016 da 50 a 54,7 milioni (e altri 4,7 milioni nel 2017). «Risorse assolutamente insufficienti per garantire la copertura totale delle borse di studio e risolvere la drammatica situazione causata dai nuovi meccanismi di calcolo dell’Isee: servono almeno altri 150 milioni per garantire la borsa di studio a tutti gli aventi diritto» sostiene Alberto Campailla (Link). Operazioni che non cancellano la realtà dei fatti: per chi studia, elabora saperi e, addirittura, ne crea qualcuno non esiste alcuna forma di tutela. Il caso dei precari della ricerca è paradigmatico: dottorandi e assegnisti, che versano i contributi alla gestione separata Inps come tutti i parasubordinati e autonomi, non avranno il sussidio di disoccupazione. Non sono lavoratori, sono studenti a vita. Ne è nato un caso: la «DisColl» infatti è stata rifinanziata, ma non per tutti i «cococò». Venerdì ci sarà anche una protesta a Montecitorio organizzata da Flc-Cgil, i dottorandi dell’Adi, gli studenti di Link, i 21 ricercatori precari del Coordinamento dei Non strutturati e i ricercatori della Rete29Aprile. In questi giorni ci sono presidi da Bari a Milano, da Padova a Roma e Torino. La protesta viene da lontano: una petizione online ha raccolto 9 mila firme, sono state inviate 2.750 mail alla Commissione Bilancio della Camera. Non è mai arrivata una risposta. Il governo Renzi, e il Pd, la pensano come i baroni dell’università: i precari che versano i loro contributi all’Inps sono controfigure che svolgono funzione da soprammobile, mentre in realtà tengono in vita i corsi di laurea. Mai riconoscere diritti nel basso impero renziano. No Triv: Renzi sabota il referendum Altro dettaglio che parla del tutto. Il coordinamento nazionale No Triv sostiene che il governo «vuole sabotare il referendum» anti-trivelle. «Un autentico inganno» lo definisce il movimento. Gli emendamenti presentati dal governo alla legge di stabilità ricalcano solo apparentemente i quesiti referendari presentati dalle regioni. Le modifiche proposte dall’esecutivo dissimulano «in modo subdolo» il rilancio delle attività petrolifere in terraferma e in mare, e persino entro le 12 miglia marine, eludendo così gli obiettivi del referendum. I passaggi incriminati sarebbero quelli che si riferiscono all’abolizione del «piano delle aree» e nella previsione per cui si fanno salvi tutti i procedimenti collegati a titoli abilitativi già rilasciati» all’entrata in vigore della manovra nel 2016. «Un mix esplosivo — così viene definito — L’obiettivo è mantenere in vita tutti i procedimenti in corso entro le 12 miglia marine». «Questi emendamenti sono un sabotaggio e uno schiaffo alla democrazia del nostro paese». Del 17/12/2015, pag. 2 La Corte costituzionale Eletti i tre nuovi giudici dopo trentadue scrutini il Pd scarica Forza Italia accordo con i grillini Barbera, Modugno e Prosperetti alla Corte Il candidato dei dem è stato il meno votato SILVIO BUZZANCA ROMA. Finalmente senatori e deputati ce l’hanno fatta: sono riusciti ad eleggere i tre giudici della Corte costituzionale che mancavano da tempo. I nuovi membri della Consulta sono; Franco Modugno, indicato dai grillini ed eletto con 609 voti; Giulio Prosperetti, scelto dai centristi con 585 voti; Augusto Barbera, indicato dal Pd, nominato con 581 voti. Dieci in più del quorum richiesto di 571 . La grande novità di questo giro di nomine è invece tutta politica: Matteo Renzi e il Pd, infatti, hanno tagliato fuori dalla decisione Forza Italia e Silvio Berlusconi e hanno stretto un accordo con il Movimento Cinque Stelle. Una scelta che sembra il colpo definitivo al Patto del Nazareno e a possibili convergenze fra democratici e forzisti. La novità che avrebbe convinto Renzi a rompere gli ormeggi e abbandonare Berlusconi al suo destino sarebbe stato il violento scontro sulle scelte di politica estera che si è verificato ieri mattina in aula con Renato Brunetta. Il capogruppo forzista, infatti, ha attaccato duramente nel suo intervento il premier, chiamandolo più di una volta in causa. 22 Renzi non ha gradito e nella replica ha reagito duramente. Lo scenario si è ripetuto anche con i grillini. Ma dem e pentastellati stavano tessendo un accordo che aveva come base l’esclusione del candidato forzista Francesco Paolo Sisto, ritenuto troppo legato alla stagione delle legge ad personam berlusconiane. E quando l’area centrista, fino ad oggi divisa, ha raggiunto un accordo sul nome di Giulio Prosperetti, tutte le tessere sono andate al loro posto. Naturalmente l’esclusione di Forza Italia non ha reso felice Berlusconi. «Dico solo che è molto grave che la Consulta non abbia al suo interno nemmeno un giudice che sia del centrodestra, che oggi tra gli elettori è la componente più importante. Èuna cosa grave». Ma nella decisione di Renzi hanno pesato anche le divisioni interne a Forza Italia, incapace negli ultimi due anni di scegliere un candidato condiviso da tutto il gruppo. Un clima di scontro interno che ha bruciato un bel po’ di candidati alla sostituzione di Mazzella, l’ultimo giudice indicato da Forza Italia. Un risultato devastante per i forzisti che adesso mettono sotto accusa la conduzione del gruppo di Brunetta. Ci sono volute comunque 32 votazioni per un giudice, 10 per i secondo e 5 per il terzo. Un copione già visto in passato. Per esempio nel 2002, quando Marco Pannella condusse un lungo sciopero della sete per convincere il Parlamento a scegliere un membro della Consulta. E anche in questa occasione i radicali hanno accompagnato le faticose nomine con le loro proteste. Del 17/12/2015, pag. 4 Ecco cosa cambierà dentro la Consulta su Italicum e Severino Modificati gli equilibri dentro la Corte. I rapporti di forza si misureranno soprattutto sulla legge elettorale LIANA MILELLA Finalmente, alla Consulta, i giudici potranno stare a casa per un raffreddore. Finisce l’incubo della presenza obbligatoria che ha impensierito per mesi il presidente Alessandro Criscuolo, creando più di un pettegolezzo sulla salute delle alte toghe. Ricostituito il plenum, si guarda con meno preoccupazione alle questioni già in programma per i prossimi mesi, dalla legge Severino che torna per il governatore De Luca, alle pensioni, alla sorte degli embrioni scartati, per finire con la questione più importante, il test sulla costituzionalità dell’Italicum. Sia che Felice Besostri convinca qualche tribunale a spedirlo alla Corte nei prossimi mesi, sia che giunga per l’ordinaria e prevista verifica alla sua entrata in vigore a fine anno, la nuova legge elettorale sarà la cartina dei nuovi equilibri alla Consulta. Ma eletti i nuovi giudici, la Corte è diventata più di sinistra o, come lamenta Berlusconi, non ha neppure un rappresentante della destra? Innanzitutto un fatto è certo, un giudice designato dalla destra, proprio dall’allora Pdl, c’è, ed è l’avvocato di Brescia Giuseppe Frigo, il famoso legale del sequestro Soffiantini. Come certamente fa capo alla destra Nicolò Zanon, costituzionalista milanese scelto da Napolitano l’anno scorso, appena uscito dal Csm, dove a mandarlo era stato il Pdl. Lo descrivono in sintonia con gli alfaniani, e certo Zanon, nelle sue uscite pubbliche, non ha mai nascosto le sue idee conservatrici. Corte di destra o di sinistra allora? Innanzitutto una Corte che, fino all’autunno del 2017 resterà uguale a se stessa. Perché solo tra ottobre e novembre del 2017 sono previste le uscite del presidente Criscuolo, magistrato eletto dalla Cassazione, area Unicost, e di Frigo. Dunque è possibile incrociare i nomi dei giudici con le questioni più rilevanti da decidere per capire se il premier Renzi, come in passato ha tuonato 23 Berlusconi, deve temere le mosse della Corte. Proprio la necessità di mandare lì uomini fidati in vista dello scontro sull’Italicum ha bloccato per mesi le tre nomine, ha portato il Pd a fare quadrato sul costituzionalista Augusto Barbera, che ha difeso la riforma Boschi e la legge elettorale e viene considerato l’uomo che prenderà posizione a favore del governo contro chi, all’opposto, si prefigge di affondare Italicum e riforma costituzionale. Ma Barbera dovrà certamente vedersela con Giuliano Amato, il dottor Sottile che certo, dopo lo stop di Renzi per il Colle, non è animato da buoni sentimenti verso il premier. Tant’è che gli viene attribuita la regia che, a maggio scorso, ha portato la Corte a schierarsi contro il governo sulle pensioni, mettendo Padoan e lo stesso Renzi in grave difficoltà. Peraltro, a firmare la sentenza è stata la giuslavorista Silvana Sciarra, votata proprio dal Pd. Ad oggi, all’area di sinistra, si può accreditare, con la Sciarra, anche il giudice Daria de Pretis (sua la sentenza che ha promosso la legge Severino), moglie dell’ex deputato Pd e ora direttore generale dell’Olaf Gianni Kessler, nominata anche da lei da Napolitano. La storia e gli scritti del neo eletto Franco Modugno, primo giudice che entra alla Corte per M5S, lasciano immaginare che certo le sue opzioni saranno progressiste. Come, all’opposto, saranno influenzate dall’ideologia cattolica quelle di Giulio Prosperetti, il professore che ha lavorato con Leopoldo Elia e Gino Giugni, ma è anche giudice d’appello in Vaticano nonché sensibile alla politica di Confindustria. Maggioranze e minoranze, ovviamente, saranno diverse sulle singole questioni, ma c’è da giurare che Prosperetti, sugli embrioni, si farà portavoce delle tesi cattoliche. Sarà attento agli equilibri «da contemperare», come ama dire, il presidente Criscuolo, com’è scontato che da giudici come Paolo Grossi, un conservatore liberale, l’ex Corte dei conti Aldo Carosi, il consigliere di Cassazione Mario Morelli e l’ex presidente del Consiglio di Stato Giancarlo Coraggio, arriveranno interpretazioni centriste. Al piccolo drappello della sinistra si può iscrivere il penalista Giorgio Lattanzi, ex Cassazione, mentre si muove con grande cautela Marta Cartabia, un’allieva di Valerio Onida, portata da Napolitano, che potrebbe diventare in futuro la prima presidente donna della Consulta. del 17/12/15, pag. 5 Le primarie restano a tre e Sala ha il vento in poppa Milano. L'assessore al welfare della giunta Pisapia non ha alcuna intenzione di farsi da parte per favorire la corsa della prescelta dal sindaco Francesca Balzani. Se le primarie resteranno a tre, la vittoria del manager Giuseppe Sala è pressoché certa. I tormenti di Sel che è tentata di abbandonare la partita Luca Fazio Questo Pierfrancesco Majorino, però! Per ora, la premessa è d’obbligo considerati i molti colpetti di scena di cui si mormora attorno a Palazzo Marino, è lui la vera sorpresa di queste infinite primarie milanesi. Di più. L’assessore al welfare della giunta arancione del “modello Milano” che fu, oltre ad essere giocatore di primissimo piano (è anche il primo e l’unico ad essersi candidato) è diventato anche arbitro della partita. Altro che Giuliano Pisapia. Decidendo di non ritirarsi per favorire la preferita del sindaco (la vice sindaco Francesca Balzani), di fatto Majorino garantirà la vittoria del manager Giuseppe Sala. 24 Almeno stando ai sondaggi. La solita spaccatura “a sinistra”, si dice. Ma l’assessore ribelle non si dà per vinto. Un pazzo autolesionista? Non è detto. Majorino ha deciso di tenere duro con coerenza senza cedere alle suppliche di quasi tutti i suoi sostenitori della prima ora che adesso non vedono l’ora di mollarlo per sostenere il presunto cavallo vincente scelto dal sindaco; e sarebbe questa la mossa geniale per dare continuità ad una esperienza che non c’è più. A proposito di “continuità” ed altre virtù: cosa ci sarebbe mai da salvaguardare se già 7 assessori su 12 della giunta arancione si sono schierati con Giuseppe Sala? Inoltre, decidendo di non farsi da parte, Majorino si è ritrovato solo contro tutti continuando a coltivare relazioni sul territorio mentre altri più titolati di lui si sono persi per strada elaborando strategie perdenti — e questo può giovare alla sua immagine di puro senza compromessi e fuori dai giochetti di palazzo. Se questo è il quadro, se davvero Majorino e Balzani si spartiranno i voti di queste primarie del Pd, il 7 febbraio potrebbe essere la Waterloo di Pisapia. La vice sindaca, che ogni giorno incrocia il suo assessore “ribelle”, sta ancora maturando la decisione ma ormai sembra destinata a vestire i panni della prescelta da Pisapia, un appoggio che in un’altra situazione sarebbe risultato sufficiente per battere il candidato scelto da Matteo Renzi (si sa che a sinistra il sindaco gode ancora di grande credito). Per ora, infatti, a nessuno è ancora venuto in mente che in nome dell’unità il “terzo incomodo” potrebbe essere proprio lei e non il bistrattato Majorino. Quanto al manager col vento in poppa destinato a raccogliere i cocci del centrosinistra, sta già incontrando la Milano che conta e gode sempre di ottima stampa, anche se va dicendo in giro di essere (addirittura) “di sinistra”. Ma è il candidato Majorino che continua ad avanzare come un trattore. Non passa mezz’ora senza un rilancio su facebook: “Credo che le primarie siano una grande occasione di partecipazione libera, trasparente. Per questo voglio, al contrario di quel che avviene di solito, presentare la mia squadra ideale, la giunta che vorrei, prima del 7 febbraio. Perché dobbiamo togliere dalle stanzette e dai salotti il confronto sul futuro di Milano (e ovviamente della mia squadra ideale non farebbero parte solo persone che mi sostengono, poiché la scommessa è di tutto il centrosinistra)”. I fan si esaltano. Per contro (i due non si amano), il sindaco Pisapia si limita a rilasciare dichiarazioni di circostanza, anche se l’operazione Balzani in parte è già fallita: “L’ho detto più volte, ognuno deve fare le sue scelte, è proprio questa la bellezza delle primarie. Ognuno è libero di esprimere le proprie idee e le proprie opinioni, quello che è importante è che, superate le primarie, si starà tutti insieme a lavorare per continuare un’esperienza che è stata importante per la città”. Tutti felici e contenti come nelle favole, insomma, ma insieme forse è una parola grossa. Soprattutto per Sel che aveva puntato su un candidato (e adesso se ne ritrova due) per sopravvivere a Palazzo Marino nonostante la mutazione genetica del Pd. Partecipare per perdere significherebbe essere costretti ad appoggiare Sala, davvero una brutta fine. Sfilarsi all’ultimo minuto, invece, significherebbe fare un salto nel voto il cui approdo è lontano da Palazzo Marino. “Io spero che non rompa la coalizione — ha detto Pisapia — sono convinto che si debba andare avanti con il popolo di centrosinistra allargato al civismo e a tutti i soggetti con cui abbiamo collaborato in questi anni”. Sono tormenti. Si accettano scommesse. I bookmaker, che contano come i sondaggi, dicono che Sel resterà aggrappata fino alla fine al prode Majorino. Nonostante tutto, nonostante Sala. 25 Del 17/12/2015, pag. 2 Il doppio forno di Renzi: “Su alcuni temi si dialoga con l’M5S” GOFFREDO DE MARCHIS IL RETROSCENA Matteo Renzi ha preso atto della vittoria dei falchi sulle colombe dentro Forza Italia e la mozione di sfiducia al governo ha certificato un dato di fatto. «Con Berlusconi non si possono fare più accordi. E’ incapace di tenere uniti i suoi. Se la loro linea è quella di scimmiottare Grillo e Salvini, allora tanto vale fare l’accordo con i Cinque Stelle», è stato il ragionamento del premier. Il minimo comun denominatore, quando gli azzurri lo trovano, ricalca semmai la linea Brunetta, cioè lo scontro frontale con il governo. Così è nato il cambio di rotta, che ironicamente il leader pd definisce il «Risveglio della forza ». Ne ha parlato con il capogruppo Ettore Rosato, regista delle operazioni in Parlamento. «All’ultima votazione il 20 per cento dei deputati di Forza Italia non si è nemmeno presentato in aula ha spiegato Renzi ai suoi collaboratori -. Senza contare quanti di loro hanno sabotato l’intesa». Era impossibile non mutare strategia. Tanto più con la benedizione di Sergio Mattarella, sempre più preoccupato dallo stallo sull’elezione di ben tre giudici costituzionali. A quel punto Renzi ha persino usato la mozione di sfiducia individuale presentata dai grillini contro Maria Elena Boschi e ha provato a girarla a suo favore. «Secondo me, questo è il momento giusto per fare un accordo con Grillo». Perchè i grillini avranno subto l’occasione di evitare la trappola dell’inciucio. «Loro hanno la mozione su Maria Elena. Possono fare casino lì. Ma adesso conta portare a casa i giudici». Aproffitare dell’attimo, dunque, senza farsi illusioni su collaborazioni future. E’ vero che l’ala dialogante del Movimento 5stelle era la più soddisfatta dell’accordo e come notava un deputato del Movimento Luigi Di Maio in Transatlantico «camminava a un metro da terra». Ma il patto della Consulta non avrà un seguito. Anzi, la prossima settimana sarà di nuovo battaglia sul caso della Banca Etruria. Anche se a Palazzo Chigi contano di tornare a parlare con il Movimento: sulle unioni civili e sulla riforma delle banche, ad esempio. L’altissima quota di 570 voti necessari a eleggere i futuri membri della Consulta aveva bisogno di un accordo blindato. L’ideale sarebbe stato un patto con tutti, Forza Italia compresa come è avvenuto per la precedente elezione del giudice Sciarra. Ma Berlusconi non ha più lo stesso controllo dei gruppi parlamentari. «Siamo tornati allo schema iniziale», spiega Ettore Rosato. Due settimane fa il Pd aveva proposto ai grillini il patto che va inscena adesso: Augusto Barbera, Franco Modugno e un centrista. Grillo e Casaleggio risposero di no affidando ai “portavoce” un coro di insulti per il professore Pd. In via riservata questo schema era stato presentato anche al Quirinale. E Mattarella aveva espresso il suo totale gradimento per una soluzione simile. Dunque si è tornati lì. Certo, salta l’elezione di tre giudici favorevoli, in maniera palese e addirittura tifosa, all’Italicum, la legge elettorale che passerà al vaglio della Consulta. Sisto, il candidato di ForzaItalia tagliato fuori ieri, aveva votato la norma, era un sostenitore del patto del Nazareno, fatto salvo il ripensamento condiviso con i suoi colleghi dopo la rottira di Berlusconi. Insomma, l’idea di 3 voti sicuri per l’Italicum nel Palazzo della Consulta, è stata giocoforza accantonata. Ma rimane vivo il nome di Barbera, che dei tre è sempre stato il sostenitore maggiore della legge elettorale. E si sblocca una situazione che lo stesso Renzi ha definito «una figura di m...». Dice il leader della minoranza Roberto Speranza: «Avrei preferito tenere dentro tutti, Con la Sciarra ci siamo riusciti. Ma va bene anche così. E noi della sinistra non abbiamo mai fatto mancare i voti a a Barbera che non a caso è 26 andato vicinissimo al quorum fermandosi a 546 voti». I dubbi dei dissidenti rimangono per la sovraesposizione del professore bolognese sulla legge elettorale che una parte del Pd non ha votato e che ha creato lo strappo di alcuni fuoriusciti. Ma anche nel cerchio stretto dei renziani non sono emersi dubbi sul comportamento in aula dei bersaniani. Alla fine Renzi non è stato obbligato a bruciare Barbera e il Pd ha ingoiato Modugno. Alla conferenza dei capigruppo si è deciso intanto di votare al più presto la mozione di sfiducia contro la Boschi. Tre giorni dalla presentazione del testo 5stelle. Sabato sarebbe già il giorno giusto ma si andrà alla prossima settimana, comunque prima di Natale. Una soluzione che va bene a Renzi, il quale è convinto che un «atto politico» allenterà la tensione, al netto dell’inchiesta giudiziaria. E va bene ai presentatori grillini che avranno a brevissimo la possibilità di tornare all’attacco dell’esecutivo. Si apre invece una stagione diversa nei rapporti con Forza Italia. Della quale si sente la eco nella campagna per le amministrative. Berlusconi si è deciso a giocarsela puntando forte su Marchini a Roma e su Del Debbio a Milano, candidati in grado di dare fastidio agli avversari del Pd. E’ la linea dura scelta del Cavaliere, un asse con Matteo Salvini e Giorgia Meloni che servirà ad arrivare compatti al voto comunale sperando nelle divisioni a sinistra. Com’è successo in Liguria dove adesso siede il governatore Giovanni Toti. del 17/12/15, pag. 5 Nessuna ’disciplina repubblicana’ ci salverà Italicum e voto francese. I commentatori renziani non si accorgono che il modello francese fallito è il nostro, in presenza di un marcato tripolarismo Mauro Volpi Chi voglia compiere un’analisi seria delle elezioni regionali francesi non può certo cavarsela con una valutazione limitata alla ingegneria elettorale. Le questioni di fondo che il voto ha segnalato sono ben altre. In primo luogo è causa non secondaria della crescita del Front National lo smarrimento della identità della sinistra al governo, come dimostra il fatto che il più consistente aumento elettorale il Fn l’ha ottenuto in Regioni, come quelle del Nord Est, che erano in passato feudi della sinistra. In secondo luogo l’esito del voto dimostra quanto sia inutile e controproducente rincorrere l’estrema destra sul suo terreno, securitario e muscolare. Infine vi è non da oggi una crisi del sistema politico-istituzionale che è dimostrata dalla crescente insofferenza dei cittadini per la politica e dal distacco nei confronti delle istituzioni, sempre meno in grado di contenere le spinte populistiche, eversive e xenofobe. Ciononostante nessuna seria riflessione sulla Quinta Repubblica viene compiuta da parte dei commentatori che in Italia sono stati da anni in prima fila nel sostenere riforme istituzionali alla francese o comunque basate sull’elezione popolare del capo dell’esecutivo. Ma vi è di più: i sostenitori del modello “italico” tentano di piegare l’interpretazione delle elezioni regionali francesi alla esaltazione dell’Italicum e delle virtù di «un sistema maggioritario di lista a due turni» (così D’Alimonte ne Il Sole 24 Ore del 15 dicembre scorso), che garantirebbe al secondo turno un aumento della partecipazione elettorale come quello che si è verificato in Francia. Intanto fra il sistema elettorale regionale francese e l’Italicum vi sono nette differenze. Nel primo è richiesta al primo turno la maggioranza assoluta dei voti per ottenere il premio (pari a un quarto dei seggi complessivi). Se per le elezioni regionali francesi si fosse applicato un sistema tipo 27 Italicum, il Fn avrebbe vinto e ottenuto il premio in due Regioni (Nord-Pas de CalaisPicardie e Provence-Alpes– Côte d’Azur), nelle quali ha superato al primo turno il 40 per cento dei voti e sarebbe andato al ballottaggio in altre cinque Regioni, in quattro delle quali sarebbe stato eliminato il candidato socialista. Ancora: in Francia al secondo turno sono ammesse non solo le prime due liste ma tutte quelle che superino il 10 per cento dei voti, il che ha determinato in tutte le Regioni, tranne nelle due in cui il partito socialista ha ritirato volontariamente i propri candidati, competizioni almeno triangolari al secondo turno. Ne consegue che gli apparentamenti fra i partiti in vista del secondo turno non solo non sono vietati come nell’Italicum, ma costituiscono la normalità e si sono verificati sia nella destra repubblicana sia nella sinistra. Infine vi è una differenza sostanziale di natura politica; in Francia la “disciplina repubblicana” ha impedito al Fn di vincere in due Regioni. Anche se tale principio mostra la corda, essendo ormai rifiutato da Sarkozy e praticato unilateralmente sotto forma di desistenza soltanto dai socialisti, comunque è ancora condiviso da un buon numero di elettori e ciò spiega l’aumento dei partecipanti al voto al secondo turno. Al contrario in Italia non può esservi nessuna “disciplina repubblicana” in presenza di una destra, fondata sull’alleanza tra Forza Italia da un lato e Lega e Fratelli d’Italia (con il codazzo dei fascisti di Casa Pound) dall’altro. Di conseguenza è difficile che al secondo turno si avrebbe un aumento della partecipazione al voto, essendo al contrario più probabile che una parte di quelli che hanno votato al primo turno per la terza lista esclusa dalla competizione elettorale si rifugino nell’astensione. D’Alimonte opera anche una comparazione tra l’Italicum e il sistema praticato in Francia per l’elezione dell’Assemblea nazionale. La tesi è che con il maggioritario a doppio turno in collegi uninominali il Fn otterrebbe «una manciata di seggi», mentre con l’Italicum avrebbe una rappresentanza più equa. Ora, è innegabile che il sistema elettorale francese può produrre un effetto altamente distorsivo della volontà popolare, ma cosa c’è di più distorsivo e antidemocratico di un sistema come l’Italicum che al secondo turno taglia fuori una terza lista che potrebbe ottenere tra il 25 e il 30 per cento dei voti? E poi è vero che nelle elezioni del 2012 il FN ha ottenuto solo due seggi, ma con il 13,6 per cento dei voti. Ora veleggia verso il 30, il che significa che i suoi candidati andrebbero al secondo turno nella grandissima maggioranza dei collegi e una parte di loro non esigua potrebbe vincere il seggio, non essendo immaginabile, se non a prezzo di un suicidio politico, che il partito socialista possa ritirare i suoi candidati in tutti i collegi in cui quelli del Fn siano in testa. A fronte dei contorsionismi intellettuali dei commentatori di fede renziana, pare utile segnalare la maggiore consapevolezza di importanti politologi francesi nel sottolineare la crisi di un sistema elettorale che non trova più corrispondenza nella realtà. In particolare Yves Mény (intervistato da La Repubblica il 7 dicembre) ha dipinto la situazione nei seguenti termini: «Il sistema francese è diventato sociologicamente tripolare, ma con meccanismi elettorali che sono ancora quelli del bipolarismo. La stabilità politica della Quinta Repubblica è fatta con artifici elettorali. Ci deve essere sempre un solo vincitore, che ha la maggioranza assoluta e tutti i poteri». Ebbene, è l’esatta raffigurazione di un modello che in Francia non funziona più e viene oggi riproposto in Italia, in presenza di un sistema politico marcatamente tripolare, dal combinato disposto tra legge elettorale, che deve assicurare che vi sia un vincitore «la sera stessa delle elezioni» grazie all’attribuzione di un premio abnorme e di un ballottaggio che distorce la volontà popolare, e controriforma costituzionale che attribuirebbe una somma enorme di poteri alla maggioranza artificiale dell’unica Camera che conta e al suo leader, indebolendo i contrappesi istituzionali e gli istituti di garanzia. 28 Del 17/12/2015, pag. 15 Berlusconi, idea Vespa per Roma All’insaputa del giornalista l’ex premier fa testare nei sondaggi la sua candidatura a sindaco Incontro con Parisi per Milano, ma lui resiste. L’apertura a Della Valle: “Magari facesse le scarpe a Renzi” CARMELO LOPAPA Nell’ora buona di domanda e risposta sotto i riflettori e le telecamere della tradizionale presentazione del libro di Bruno Vespa, Silvio Berlusconi si è guardato bene dal raccontare al giornalista-scrittore quel che ha rivelato 24 ore prima a Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Ovvero che nella disperata caccia a un candidato per Roma, il suo pallino si è fermato proprio sul conduttore di Porta a Porta. «Lo sto facendo testare dai sondaggi - ha spiegato ai due leader di Lega e Fdi ricevuti ad Arcore martedì sera - Sarebbe un’ottima soluzione, se lui accettasse». Già, perché, come ha rivelato il Cavaliere, il diretto interessato non sarebbe stato nemmeno informato. Vespa - inconsapevole davvero o meno - una domanda su come finirà a Roma e Milano l’ha pure piazzata, al Tempio di Adriano. Con vaga risposta del leader di Forza Italia: «Decideremo nei primi mesi del 2016». Se è per questo, Berlusconi ha raccontato ai due giovani leader di centrodestra che sta facendo testare sempre per la Capitale anche il generale Leonardo Gallitelli, comandante generale dei Carabinieri dal 2009 al gennaio di quest’anno. E questo dà la misura dell’impasse in cui è impantanato il centrodestra. La Meloni ha ribadito l’altra sera a cena che lei preferirebbe non correre, compirebbe il passo solo se «costretta» dall’assenza di qualsiasi alternativa. Ma ancora una volta ha confermato il veto irremovibile su Alfio Marchini. E tanto è bastato - raccontano anche da fonti forziste - per far archiviare una volta per tutte la candidatura dell’imprenditore che pure tanto piaceva all’ex premier: «È troppo divisivo». Quanto a Milano, Berlusconi a Vespa rivela di avere in programma «in settimana un incontro con Stefano Parisi, che è stato city manager che consigliammo ad Albertini». Figura non di grande notorietà che, a quanto sembra, avrebbe in realtà già declinato l’offerta. Il leader forzista tornerà alla carica. E intanto stronca di fatto (e in pubblico) la candidatura di Alessandro Sallusti: «Con grande generosità si è messo a disposizione, ma ha anche esplicitato che la sua disponibilità può essere ritirata ove trovassimo un candidato che ritenessimo capace di vincere». Come dire: lui non lo è. Ma tra la consueta accusa a Giorgio Napolitano («Mi impose lui ne 2011 le dimissioni») e l’attacco a Renzi («Non siamo in democrazia, suo governo illegittimo, fossi in Mattarella scioglierei le Camere»), il leader di Forza Italia si è lanciato in un endorsement più spinto del solito in favore dell’imprenditore Diego Della Valle. Confermando le voci che vogliono Berlusconi sempre più tentato dal sostenere la «discesa in campo». «Sceglieremo il candidato premier con un accordo o con primarie molto regolamentate - è la premessa non scontata - Della Valle? Non posso designarlo solo io, ma non è certo un avversario. Magari scendesse in campo e facesse le scarpe alla sinistra». E giù applausi della claque di una sala, che pure non è più quella gremitissima degli anni d’oro. Berlusconi ad ogni modo c’è, con lui bisognerà fare i conti. «Ma prenderò una decisione sul mio ruolo quando la corte di Strasburgo darà la sentenza sulla corte di Cassazione». 29 del 17/12/15, pag. 1/4 Se la storia si ripete Licio Gelli. Il referente più importante della destra americana dopo la Liberazione. Quel giorno del 1988 a Villa Wanda, quando il Venerabile negava i rapporti con la banda neofascista di Tuti Sandra Bonsanti Era il 27 dicembre del 1947 e a Palazzo Giustiniani Enrico De Nicola, firma la Costituzione italiana. Accanto a lui, in piedi, Alcide De Gasperi e, fra i due, un giovane di 25 anni con una cartella in mano che contiene una copia della nostra Carta. E’, senza forse, il momento più sacro della nostra nascita come Repubblica democratica. Ma il giovane che assiste si chiama Francesco Cosentino, si iscriverà presto alla loggia P2 e con Licio Gelli, una decina di anni dopo la firma solenne di De Nicola, contribuirà alla stesura del “Piano di Rinascita”, documento programmatico della loggia segreta. Ho sottoposto quella foto che compare su tutti i libri di storia a chi allora conobbe Cosentino: non c’è alcun dubbio, è proprio lui. Ed è questo un particolare tanto inquietante quanto sconosciuto e per niente studiato. Oggi che cerchiamo di fare bilanci sulla P2 io non ho ancora risposte. Se non quella che sin dall’inizio della nostra Repubblica c’era qualcosa che già si agitava nel sottobosco della politica. Tra i sostenitori della Costituzione, c’era già chi era pronto a tradirla con un progetto di «rivitalizzazione del sistema» e ritocchi costituzionali «successivi al restauro delle istituzioni fondamentali». Questa foto che un giorno mi rendeva tanto fiera, mi pare oggi violentata dal dubbio. Non credo che la commissione P2 abbia sottolineato questo aspetto, ma forse non conosco tutti gli atti prodotti. In sostanza si potrebbe dire che la Repubblica italiana nacque già insidiata dall’interno, da subito. E alla luce di tutto il resto che sappiamo ormai della loggia di Gelli, dei progetti del Venerabile e dei suoi fratelli, verrebbe da concludere che non poteva che andare così, negli anni. E cioè il crearsi e il perpetrarsi di quella malattia che Norberto Bobbio aveva individuato dai primi giorni della scoperta degli elenchi: «Ciò che in un regime democratico è assolutamente inammissibile è l’esistenza di un potere invisibile, che agisce accanto a quello dello Stato, insieme dentro e contro, sotto certi aspetti concorrente, sotto altri connivente, che si avvale del segreto non proprio per abbatterlo ma neppure per servirlo. Se ne vale principalmente per aggirare o violare impunemente le leggi». Come può difendersi la Repubblica? Si domandava Bobbio. E la sua era come sempre una risposta geniale: «L’unico modo di difendere le istituzioni democratiche è quello di fare quadrato attorno a coloro che non hanno mai avuto la tentazione di sprofondare nel sottosuolo per non farsi riconoscere. Sono molti, per fortuna, ma devono avere il coraggio ed agire di conseguenza». Mi occupavo di lui da quindici anni almeno, ma non lo avevo mai visto né sentito. Dall’aprile del 1981, quando scoppiò la vicenda P2, era stato sempre in fuga o in prigione. Dunque, quel 21 aprile del 1988 eravamo i primi ad incontrarlo a Villa Wanda: dico noi perché erano due fotografi del Venerdì di Repubblica ad avere un appuntamento per un servizio. Io ero una sorpresa. Lasciai la redazione romana con Giampaolo Pansa che mi raccomandava: «Chiamalo Commendatore..!». Disubbidii subito rivolgendomi a lui con un sonoro e quasi insultante «signor Gelli». «Ho bagnato di lacrime i suoi articoli», mi disse appena mi presentai. Mi accusava di non aver mai dato la sua versione dei fatti e io gli rispondevo forse un po’ aggressiva: «Ma lei perché è scappato? Di cosa aveva paura?». 30 Più trascorre il tempo e più mi rendo conto di quanta parte di storia italiana sia passata per Villa Wanda. E ora che lui è morto e Arezzo è diventata improvvisamente la città al centro della polemica politica italiana e si cerca di fare dei bilanci, non resta che ammettere una cosa molto semplice: Licio Gelli è stato il referente più importante degli accordi firmati all’indomani della Liberazione tra gli americani e gli alleati italiani. L’Italia doveva assicurare una obbediente e efficace difesa dal blocco sovietico e soprattutto che il Pci fosse tenuto lontano dal governo del Paese. Gelli è stato l’alleato più fedele della destra americana e dei suoi servizi segreti. Questo ha comportato l’essere a conoscenza delle vicende più inquietanti e drammatiche della strategia della tensione e anche conoscere e proteggere alcuni responsabili di quei fatti. Inoltre Gelli ha avuto una conoscenza più che diretta di quali personaggi politici italiani sapessero e tacessero. Con ognuno di loro ha avuto per tanti decenni una sorta di patto del silenzio. Comunque in quel colloquio mi resi conto che non avrebbe mai smentito la conoscenza dei capi politici della Dc, ma gli unici personaggi da cui era interessato a prendere le distanze erano i neofascisti toscani delle cellule di Mario Tuti e di Arezzo, che lui aveva invece incoraggiato e finanziato. Badava a ripetere: «Ma le pare che io che ho convocato tre generali dei carabinieri qui a casa mia, avrei perso del tempo con quei ragazzi?». Ci si chiede in queste ore se sia veramente finita: se la storia della P2 si chiuda qua oppure no, se ci sia dell’altro, e altri personaggi ancora sconosciuti. Finita mi pare che non sia. Tanto più che ex piduisti, alcuni dei quali molto vicini al Venerabile, sono ancora vivi e vegeti e attivissimi. C’è ad esempio Luigi Bisignani che, giovane giornalista dell’Ansa andava ogni mattina all’hotel Excelsior a fare la rassegna stampa al Venerabile. Ci sono gli epigoni di quella “banda della Magliana”, incrocio fra servizi segreti e criminalità comune che vennero agli onori della cronaca con la fuga a Londra e la morte sotto il Ponte dei Frati Neri del banchiere piduista Roberto Calvi e che oggi spiccano nei racconti di Roma Capitale. E c’è la strana storia del generale Mario Mori che in uno dei processi siciliani per la trattativa tra Stato e Mafia è stato indicato come uno che reclutava adepti per la loggia P2. Infine, difficile negare che restano in piedi alcuni progetti di quello che fu il “Piano di Rinascita” e che Gelli spiegò nei dettagli nella sua intervista al Maurizio Costanzo sul Corriere della Sera del 1980. La critica alla Costituzione nata dalla Liberazione è ancora quella che si fa oggi per giustificare le riforme del governo. Parola per parola. La storia si ripete, almeno quella della P2. Del 17/12/2015, pag. 20 Gelli, camera ardente senza potenti La morte solitaria del capo della P2 Nella bara niente simboli massonici ma una spilletta con il fascio littorio I visitatori: “Oggi stanno tutti alla larga ma un tempo gli facevano l’inchino” SEBASTIANO MESSINA Lui è lì, dritto come una sentinella sull’attenti, e la malattia l’ha asciugato fino a renderlo irriconoscibile. Ma persino nella bara di legno chiaro che nella camera ardente della Misericordia richiude il suo corpo senza vita, avvolto in un abito blu con gli occhiali nel taschino della giacca e le mani incrociate sull’inguine, Licio Gelli ha voluto i simboli ai quali 31 teneva di più. Non quelli della massoneria, di cui fu il più tenuto e il più rovinoso maestro venerabile, ma altri due. Uno è la spilletta con il fascio littorio sul tricolore che portava quando era ispettore della milizia del duce all’estero: «Sono fascista e voglio morire fascista» aveva detto, e così è stato. L’altro è un vistoso anello all’anulare sinistro, emblema aureo di una nobiltà acquisita, “conte sul cognome” per decreto di sua maestà Umberto II, ricompensa per chissà quali servigi ottenuta nel 1980 da un re che non era più re da 34 anni. E infatti “N. H. Conte Licio Gelli” hanno stampato sul suo manifesto funebre, tra le formule standard degli annunci di lutto, “si è spento nella pace del Signore”, “ne danno il triste annuncio”, “ non fiori ma opere di bene”. Ma quel titolo ha il suo effetto: «Me’ coglioni, pure conte!» commenta a voce alta, davanti al manifesto, un sessantenne con la barbetta e il cappello, prima di andarsene in fretta scuotendo la testa. Lì dentro, nella camera ardente, per fortuna non l’hanno sentito. Sulla lunga panca di legno alla destra della bara, e sulle cinque pesanti sedie sul lato opposto siedono i figli Raffaello e Maria Rosa e i nipoti. Osservano con lo sguardo spento gli amici che entrano, toccano la mano del defunto e poi si fanno lentamente il segno della croce, prima di firmare il registro delle condoglianze messo all’ingresso, tra una foto di Gelli che sorride da una poltrona e la cassetta metallica delle offerte. Sotto il grande crocifisso appeso alla parete ci sono cuscini di fiori, rose, sterlizie e margherite, ma non riempiono affatto la stanza, e per la verità non si può dire che sia affollata, anzi, la camera ardente del “burattinaio di Arezzo”. Ogni tanto il trillo irrispettoso di un cellulare rompe il silenzio che regna nella stanza, ma non annuncia visite speciali. Dei potenti che un tempo Gelli teneva in pugno, neanche l’ombra. All’ora di cena, la massima autorità registrata sui taccuini dei cronisti sarà l’ex presidente dell’Arezzo calcio, Pie- ro Mancini. Il segno che non si tratta di una cerimonia come tante altre lo danno gli uomini di una vigilanza privata, metà in divisa e metà in borghese, che stazionano davanti all’ingresso con il preciso compito di impedire ai giornalisti di avvicinarsi ai familiari, e scortano al bar Raffaello Gelli come se fosse un capo di Stato, anche se non riescono a impedire che un fotografo arrivi davanti al feretro con un cellulare nascosto in un mazzo di margherite (lo fermeranno però all’uscita, quando lui commetterà l’errore di tornare indietro con i fiori, e chiameranno la polizia per convincerlo a cancellare le foto del cadavere). Quanto agli aretini, una signora bionda spiega ai giornalisti che non si faranno vedere: «Tutti sanno chi gli faceva l’inchino quando passava, ma oggi nessuno vuol farsi vedere dalle vostre telecamere, ed è inutile che vi spieghi perché». Qualcuno viene, in realtà. Beniamino Severi, che era ispettore alle vendite quando la Giole del venerabile maestro produceva materassi a molle, ci teneva, anche se sa pure lui che la città non amava il suo principale: «Oggi qualcuno piangerà e qualcun altro sarà contento, ma io vi dico che quest’uomo ha fatto anche del bene, a tanta gente». E c’è perfino un sacerdote, padre Giovanni Serrone, superiore domenicano del santuario di Santa Maria del Sasso a Bibbiena, che ne tesse le lodi davanti alle telecamere, spiegando che «l’ha rovinato la massoneria », che «contro di lui c’è stato un accanimento esagerato, e penso a quella senatrice di cui non ricordo il nome, Tina Anselmi, ecco», e che insomma quando è arrivato davanti a San Pietro lui si augura che l’abbia mandato «su, in paradiso, perché il Papa ha proclamato il Giubileo della Misericordia e spero che ce ne sia un po’ almeno lassù, di misericordia...». Eppure il marciapiedi deserto e il registro delle firme mezzo vuoto rivelano che la città nutre altri sentimenti, e devono essere in tanti a pensarla come quel professore che, bloccato dalle telecamere davanti alla Misericordia, dice «scusatemi, devo pesare le parole» e poi quasi scandisce le sillabe quando spiega che «quest’uomo certamente ha fatto conoscere la nostra città a tutti, ma non esattamente per fatti positivi». 32 Il professore è uno dei tanti aretini che hanno saputo della morte di Gelli solo dalle locandine dei giornali appese attorno alle edicole. Perché era quasi mezzanotte, quando lui se n’è andato. Le luci di villa Wanda sono rimaste accese per tutta la notte, dietro le finestre del secondo piano, alla fine del vialetto di ghiaia che sale tra due file di grandi vasi di coccio: proprio quelli nei quali trent’anni fa fu trovato l’oro del Venerabile, ultime tracce, si sospettò allora, delle 20 tonnellate di lingotti aurei scomparsi tra il momento in cui Gelli ne requisì 60 tonnellate al re Pietro II di Jugoslavia per conto del Servizio Informazioni Militari fascista e quello della restituzione al sovrano a guerra finita, quando le tonnellate risultarono solo 40. Uno dei tanti misteri che l’ex maestro venerabile ha portato con sé. Del 17/12/2015, pag. 20 Mille nomi e una leggenda così la madre di tutte le liste fece tremare l’Italia che conta FILIPPO CECCARELLI A UN DATO momento divenne complicato scrivere “piduista”, o anche, al limite, “piduisti”. Il problema delle liste — e la scandalistica nazionale ne ha sempre prodotte in gran quantità — è che ogni elenco tiene assieme condizioni diverse che però nel mucchio non si distinguono più. Per cui, cominciate a fioccare le prime cause per diffamazione, la più insidiosa delle quali riguardò il nome del futuro presidente della Rai Enrico Manca, il giornalismo escogitò una formula di salvaguardia per cui al posto di “piduista” si prese a scrivere: “il cui nome è stato trovato nella lista della P2”. Alcuni — i più cauti, ma anche i più maliziosi — aggiungevano a quel punto il numero di tessera, quando non la data di iscrizione e il pagamento delle quote. Con quasi mille nomi, va da sé, la P2 fu la madre di tutte le liste. Ma il guaio fu anche che a Gelli furono sequestrate varie liste, con aderenti diversi e posizioni in sospeso. In pochissimi ammisero l’adesione: uno fu Maurizio Costanzo, con un’intervista che non si è mai più rivista; l’altro fu Fabrizio Cicchitto che pure, nemmeno un anno prima, aveva dato un’intervista in cui metteva in guardia: «Non c’è solo la P38, c’è anche la P2». Molti altri scomparvero in attesa che passasse la bufera; oppure si fecero scagionare da giurì d’onore, commissioni o tribunalini interni dei partiti o delle aziende. Una delle leggende più spassose riguarda il giovane Berlusconi di cui si disse che inizialmente avesse cercato un omonimo cui dare dei bei soldi per caricargli l’iscrizione. Sennonché fu rinvenuto in effetti un altro Silvio Berlusconi, ma era un bimbo di 4 anni. Quindi il non ancora Cavaliere smentì sdegnato che un fondatore di città come lui non poteva essere ridotto al rango di apprendista muratore. Parecchi persero la faccia; alcuni, come gli alti gradi degli Stati maggiori e un numero impressionante di generali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, anche il posto perché dovettero dimettersi. Altri invece non vennero nemmeno sfiorati. Altri ancora fecero addirittura carriera. Il presidente della Repubblica Pertini definì la P2 “un’associazione a delinquere”; mentre il suo successore Cossiga ne promosse gli aderenti a “galantuomini”. Al dunque lo scandalo si risolse in una specie di epurazione, però controversa, incompiuta, arbitraria, all’italiana. Poi venne fuori che c’era una seconda lista, più vera, e altri mille seguaci occulti. Seguirono, nel corso degli anni inchieste parlamentari, processi, libri, documentari, film. I nomi dei piduisti si trovano in una gigantesca e beffarda lapide di marmo dell’artista Luca Vitone. I Litfiba hanno dedicato alla P2 un loro brano. Il giudice Giuliano Turone, che 33 sequestrò gli elenchi a Castiglion Fibocchi, ha scritto (con Anna Vinci) e anche cantato in un musical, “Tra le pieghe della P2”. Ma il trattamento, per chi ne faceva parte, non è stato uniforme. Di lì a qualche anno Sindona e Calvi ci lasciarono la pelle. Il Venerabile, piuttosto pignolo, si fece sequestrare anche un fantastico repertorio, subito detto “Le Pagine Gialle della P2”, in cui gli iscritti erano classificati per settore a seconda delle loro utilità, a partire da “Alberghi”. Consultarlo oggi spiega perché, dopo rimbalzi e palleggi, l’allora governo Forlani chiuse l’elencone in un cassetto. C’era lì anche il nome del suo capo di gabinetto, peraltro in compagnia del segretario generale del Quirinale, Picella; del segretario generale della Farnesina, Malfatti; e dell’ex segretario generale di Montecitorio, Ciccio Cosentino, cui forse si deve la stesura del Piano di Rinascita, che in realtà sono due. C’erano il segretario del Psdi Pietro Longo, l’ex segretario di Saragat Costantino Belluscio, deputati di tutte le correnti dc e delle varie obbedienze del craxismo nascente. E soprattutto quattro ministri: oltre a Manca, Stammati, Sarti e Foschi. Ma insieme con il superpoliziotto gastronomo, Federico Umberto D’Amato, e con il generale Dalla Chiesa, che pure spiegò di essersi voluto “affacciare” sulla loggia per capirci qualcosa, si ritrovò negli elenchi, con il debito sconcerto, l’intera catena di comando dei servizi segreti, vecchi e nuovi, Sifar (Miceli e Maletti), Sismi (Santovito), Sisde (Grassini), Cesis (Pelosi) freschi reduci del caso Moro. L’Eni era rappresentato da presidente e dal vice, peraltro in lotta fra loro. Tra le banche spiccavano il Montepaschi e il Banco di Roma. Angelone Rizzoli, Bruno Tassan Din e Franco Di Bella garantivano gli affari, i debiti e il controllo del gruppo Rizzoli Corriere della Sera. Ma scendendo di livello è irresistibile ricordare che fra i mille che Gelli designò come “la crema” figuravano anche Alighiero Noschese, Claudio Villa, Gino Latilla, un paio di ufologi, qualche gaglioffo toscano in odore di “Amici miei” e diversi esoteristi della domenica. Chi voglia approfondire la faccenda, fetida e anche un po’ sanguinosa, ha a disposizione una biblioteca di atti parlamentari raccolti dalla benemerita commissione presieduta da Tina Anselmi. Ma l’indice anche ragionato dei nomi, oltre 500 pagine, uscì solo a metà degli anni 90. Per la cronaca era troppo tardi, per la storia troppo presto. 34 LEGALITA’DEMOCRATICA del 17/12/15, pag. 18 I sei anni di depistaggi Così volevano nascondere la verità su Cucchi Il 30 giugno scorso, il carabiniere Riccardo Casamassima detta a verbale: «Il maresciallo Mandolini (comandante della Stazione dei carabinieri Roma-Appia, ndr) mettendosi una mano sulla fronte mi disse: “è successo un casino, i ragazzi hanno massacrato di botte un arrestato”. Mandolini si diresse verso l’ufficio del comandante di Torvergata e, in presenza della mia compagna, il carabiniere Rosati, aggiunse il nome dell’arrestato, Cucchi, e disse che stavano cercando di scaricare la responsabilità sugli agenti della Polizia Penitenziaria». La verità sulla morte di Stefano Cucchi sta emergendo in tutta la sua drammaticità. In cinquanta pagine il pm Giovanni Musarò ricostruisce sei anni di depistaggi, di silenzi omissivi, di complicità dentro un microcosmo dell’Arma dei carabinieri. Nuova inchiesta La nuova inchiesta della procura di Giuseppe Pignatone nata un anno fa, dopo le deposizioni di due detenuti e due carabinieri, e grazie alle intercettazioni telefoniche e poi agli interrogatori di oltre quaranta testi, è arrivata al giro di boa. Adesso un nuovo perito dovrà decidere se riformulare la gravità delle lesioni subite dal povero ragazzo pestato da tre carabinieri (ad oggi sono state ritenute lesioni guaribili tra i 20 e 40 giorni). E se verrà accertato il nesso di casualità tra il pestaggio e la morte di Cucchi, ai carabinieri indagati sarà contestato il reato di omicidio preterintenzionale. Sei anni di depistaggi per nascondere una drammatica verità. Ne è convinto il pm Musarò che lo scrive nella richiesta di incidente probatorio: «Fu scientificamente orchestrata una strategia finalizzata ad ostacolare l’esatta ricostruzione dei fatti e l’identificazione dei responsabili, per allontanare i sospetti dai carabinieri appartenenti al Comando Stazione di Roma Appia». Furono i carabinieri che arrestarono e poi perquisirono Stefano Cucchi a massacrarlo di botte, a sottoporlo a quello che il pm Giovanni Musarò definisce «un violentissimo pestaggio». A leggere gli atti delle indagini vengono fuori le omissioni come, per esempio, l’assenza dei nominativi dei due carabinieri che arrestarono Stefano Cucchi, che lo pestarono di botte. È impressionante il dialogo intercettato tra uno dei carabinieri autori del pestaggio e la sua ex moglie. Alla donna lui aveva raccontato sei anni prima di aver partecipato al pestaggio di Cucchi. Quando il carabiniere viene interrogato nel luglio scorso, la donna gli invia un sms: «Non mi ha stupito leggere il tuo nome, prima o poi sarebbe successo. Ecco quali erano i problemi al lavoro...». Brogliacci sbianchettati Preoccupato, il carabiniere chiama la donna: «Che cosa volevi dire? Prima fammi capì’ tu hai la palla di vetro? Io non ho fatto niente, perché dovevo aspettarmi una cosa del genere?». Lei: «Tu non hai fatto niente? È quello che raccontavi a me, a tua mamma, a tuo padre. Che te ne vantavi pure...che te davi le arie. Raffaè hai raccontato di quanto vi eravate divertiti a picchiare quel drogato di merda». Si capisce, leggendo le carte, che tra le stazioni dei carabinieri di Roma-Appia, Torvergata, Tor Sapienza, si è cercato di nascondere i fatti. Si è usato il «bianchetto» per cancellare il nominativo di Cucchi dal registro dei fotosegnalamenti. Cucchi, nella ricostruzione della Procura di Roma, si oppone al rilevamento delle impronte digitali, si dimena, gli parte uno schiaffo contro un carabiniere. E a quel punto il pestaggio scientifico di altri tre carabinieri. 35 Sei anni di bugie Perché viene cancellato il suo nome da quel registro? Perché il maresciallo della stazione interrogato a processo dice che il fotosegnalamento non era obbligatorio? E perché i carabinieri che massacrano di botte Cucchi, ufficialmente non esistono e vengono protetti dalle stazioni dell’Arma? Sei anni dopo, la verità comincia ad affermarsi. Nel novembre dell’anno scorso la Corte d’assise d’Appello nell’assolvere anche i medici del Pertini mandarono gli atti alla Procura di Roma, ravvisando il comportamento omissivo di alcuni carabinieri. E la Cassazione l’altro giorno ha confermato che non sono stati gli agenti della penitenziaria a picchiare il ragazzo. Poi anche quel muro alzato da un «codice d’onore» rispettato da commilitoni, sottufficiali, familiari, si è sgretolato. È ora La famiglia di Stefano Cucchi potrà avere finalmente giustizia. Guido Ruotolo Del 17/12/2015, pag. 10 Arezzo Dopo gli esposti dei risparmiatori, configurato un nuovo reato. Le attività di controllo sotto esame: il dubbio è che ci siano state omissioni. Nel dossier di Via Nazionale la pioggia di consulenze milionarie Etruria, il pm alza il tiro ipotesi truffa sui bond Verifiche allargate a Consob e Bankitalia FABIO TONACCI Nella storia recente di Banca Etruria c’è un anno, il 2013, che è più importante degli altri. Perché in quei dodici mesi accadono due cose, l’aumento di capitale per 100 milioni di euro e l’emissione di circa 120 milioni di euro di obbligazioni subordinate, che stanno portando la procura di Arezzo a valutare il ruolo di chi quelle operazioni doveva controllare e vigilare. Bankitalia e Consob. Non solo. Se l’esposto di Federconsumatori porterà, come ogni evidenza lascia presumere, all’apertura di una quarta indagine, il reato da cui si partirà è quello di truffa ai danni dei clienti della banca. Un passo indietro. Tra le carte del procuratore capo Roberto Rossi c’è una denuncia per “omessa vigilanza della Banca d’Italia e di altri soggetti che hanno provocato un danno enorme, bruciando il risparmio di migliaia di persone”. E’ firmata da Elio Lannutti di Adusbef e Rosario Trefiletti di Federconsumatori. Viene definita “interessante” da un punto di vista investigativo, perché messa in relazione, appunto, a quello che è successo nel 2013. Sull’aumento patrimoniale di 100 milioni, effettuato a luglio e rivelatosi poi insufficiente, vengono citati nella denuncia due passaggi del prospetto di Bankitalia emesso allora: “al momento gli esiti dell’ispezione non sono noti e prevedibili”, e quindi “ove la qualità del portafoglio creditizio e delle garanzie a mitigazione del relativo rischio dovessero essere considerate non pienamente soddisfacenti, i requisiti aggiuntivi richiesti da Banca d’Italia potrebbero essere innalzati”. Eppure in quel periodo gli ispettori di Bankitalia sono una presenza fissa nell’istituto aretino: nel dicembre 2012 è iniziata l’ispezione settoriale, diventata poi ispezione generale e conclusasi il 6 settembre 2013. Era stata anticipata da una lettera inviata a Banca Etruria del governatore Ignazio Visco, datata 24 luglio 2012, che spiegava che “la qualità degli impieghi scadenti e in progressivo peggioramento sulla quale influisce un consistente stock di partite anomale; la fragile situazione di liquidità che nel prossimi 36 mesi risentirà dell’esigenza di fare parte del rimborso dell’ammontare delle obbligazioni in scadenza; l’insufficienza di redditività” spingerebbero a inserire “nell’organismo amministrativo esponenti connotati da rilevata professionalità e da un rafforzamento della componente manageriale” A dicembre del 2013 il capo del pool ispettivo, Emanuele Gatti, viene sentito come testimone informato dei fatti dal procuratore Rossi: parla chiaramente di ostacolo alla sua opera di vigilanza da parte dei vertici (l’allora presidente Giuseppe Fornasari, l’ex direttore generale Luca Bronchi e il dirigente centrale David Canestri, tutti indagati e prossimi al rinvio a giudizio) e definisce la vendita del patrimonio immobiliare della Banca (l’operazione Palazzo della Fonte) “fasulla”, usata solo per gonfiare i bilanci. Il dubbio della procura è, dunque, perché a fronte a tutti questi elementi non sia stata posta maggior attenzione da parte degli organi centrali di Banca d’Italia su ciò che stava avvenendo nell’istituto aretino. Gatti quindi viene risentito a gennaio di quest’anno, e dà questa spiegazione: se non avessero nascosto il livello di deterioramento dei crediti, la richiesta di aumento del patrimonio sarebbe stata molto superiore ai 100 milioni di euro autorizzati da Palazzo Koch. Se la procura di Arezzo troverà riscontri sull’ipotesi di “omessa vigilanza”, manderà tutta la documentazione alla procura di Roma per competenza territoriale. E lo stesso nel caso in cui emergano controlli carenti da parte della Consob. Banca Etruria è infatti una spa quotata in borsa, e l’agenzia doveva monitorare la massiccia emissione di obbligazioni subordinate nel 2013. Proprio sulle modalità di come sono stati fatti sottoscrivere quei titoli, il procuratore sta aspettando denunce specifiche dei singoli risparmiatori. Federconsumatori ha già trovato otto persone disposte a farlo. Appena ne arriva una, si apre il procedimento per “truffa”, che potenzialmente può essere devastante per i manager della banca: prima verranno accertate le responsabilità dei funzionari e dei direttori di filiale, poi si valuterà se ci sia stata una specifica indicazione del Cda a piazzare il più possibile le obbligazioni. Repubblica è venuta in possesso anche del verbale di ispezione Bankitalia del febbraio 2015, da cui è scaturito il commissariamento della banca Etruria e la terza inchiesta della procura di Arezzo, quella sulla mancata comunicazione di conflitti di interesse per cui sono indagati l’ex presidente Lorenzo Rosi e l’ex membro del Cda Luciano Nataloni. Si parla di “consulenze esterne ascese ad oltre 15 milioni di euro nel biennio 2013-2014”, un premio di produzione da 2,1 milioni di euro diviso tra i dipendenti della banca nonostante le difficoltà finanziare, e una liquidazione dell’ex direttore generale da 900 mila euro. Intanto il procuratore di Arezzo è intervenuto sul caso della consulenza con il governo, nello specifico con il Dipartimento affari giuridici e legislativi. “E’ un incarico meramente tecnico, e non politico – spiega – ce l’ho fin dal 2013 quando il governo era retto da Enrico Letta, e capo del Dagl c’era Carlo Deodato. L’incarico scadrà alla fine di quest’anno come scadenza naturale ed è del tutto gratuito, non prendo soldi”. 37 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 17/12/15, pag. 6 Aperto il primo corridoio umanitario Italia. Firmato il protocollo per garantire mille visti a migranti e richiedenti asilo in condizioni considerate vulnerabili Sara Manisera Per la prima volta in Europa saranno aperti dei corridoi umanitari per salvare le vite dei migranti in fuga. Mentre i governi europei costruiscono muri, ripristinano i controlli alle frontiere e attuano politiche repressive contro i migranti, un’ambiziosa iniziativa dimostra che esiste una soluzione alternativa al traffico di esseri umani e ai morti in mare. La Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (FCEI) e la Comunità di Sant’Egidio annunciano l’apertura di corridoi umanitari verso l’Italia, dal Libano, dal Marocco e dall’Etiopia. Il protocollo firmato ieri, 15 dicembre, da Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio, da Luca Maria Negro, presidente della FCEI, dal Viminale e dalla Farnesina, prevede il rilascio di circa mille visti umanitari, a migranti e richiedenti asilo in condizioni vulnerabili, ai quali se ne potrebbero aggiungere altri mille. Grazie al rilascio dei visti umanitari da parte delle autorità consolari italiane, i profughi di diversa nazionalità e religione potranno raggiungere l’Italia in modo sicuro e legale, evitando di rischiare la loro vita nei viaggi verso l’Europa. “Non vogliamo assistere impotenti a questo spettacolo di morte che avviene sulle nostre coste”, afferma Cesare Zucconi, segretario generale della Sant’Egidio. “Vogliamo trovare soluzioni alternative che risparmino questi viaggi disumani a persone che comunque verrebbero in Europa e ne hanno pieno diritto. Il canale umanitario è uno strumento che può sottrarre a scafisti e a trafficanti la possibilità di arricchirsi e proseguire questi traffici illeciti”. L’iniziativa sponsorizzata dalla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e dalla Comunità Sant’Egidio è un progetto pilota molto innovativo, attuato per la prima volta in Europa, che “potrebbe divenire un modello replicabile da altri attori della società civile”, afferma Nando Sigona, vicedirettore dell’Institute for Research into Superdiversity dell’Università di Birmingham, intervistato da il manifesto. “Nonostante [le associazioni] abbiano risorse politiche, economiche e supporto logistico per ospitare i migranti, questa iniziativa è di notevole importanza perché, per la prima volta, la società civile negozia con un governo il rilascio di mille visti umanitari. Inoltre, se si pensa che il governo inglese ha promesso il reinsediamento di duemila persone nel 2015, ci rendiamo conto della portata dell’iniziativa”, chiarisce il professore italiano. Il canale umanitario non ha nessun costo per il governo italiano, essendo interamente finanziato dalle due organizzazioni attraverso l’otto per mille. La comunità di Sant’Egidio insieme alla Federazione delle Chiese Evangeliche, si farà carico del viaggio, dell’accoglienza e delle attività d’integrazione dei profughi una volta giunti in Italia. Nonostante le tariffe cambino a seconda della rotta, delle condizioni locali e delle modalità di trasporto, i costi del viaggio e dell’accoglienza sono significativamente inferiori rispetto a quanto pagherebbe un migrante per poter raggiungere l’Europa. “Noi spendiamo 300/400 euro per persona, il prezzo di un normale biglietto aereo”, chiarisce Cesare Zucconi. 38 “Inoltre il canale umanitario è uno strumento più sicuro e meno rischioso sia per i migranti, sia per i paesi ospitanti, poiché l’identificazione dei rifugiati avviene prima della partenza”. La selezione e l’identificazione dei beneficiari saranno condotte dalle associazioni partner presenti nei paesi di origine, secondo i requisiti concordati con il governo italiano, senza alcuna discriminazione religiosa e/o nazionale. In Libano sarà la Comunità Papa Giovanni con Operazione Colomba, corpo civile di pace presente da due anni nel campo di Tel Abbas, situato a nord di Tripoli, a selezionare le famiglie siriane mentre in Marocco sarà la Sant’Egidio. “Il corridoio umanitario è uno strumento sicuro perché le persone sono identificate prima ancora di partire, quindi c’è una garanzia su chi giunge in Italia e c’è anche chiarezza sui tempi e sulle modalità di accoglienza ed integrazione”, ribadisce il segretario generale di quest’ultima organizzazione. L’iniziativa dimostra l’esistenza di un’alternativa alla tratta di esseri umani e ai viaggi della disperazione intrapresi dalle persone in fuga dai loro paesi d’origine. Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, nel 2015, quasi 870,000 persone hanno attraversato il Mediterraneo per entrare in Europa mentre nel 2014 il numero degli arrivi ha raggiunto quota 219,000. Il maggior numero di migranti è stato registrato in Grecia (721,217) e in Italia (143,114), seguite da Spagna (3,845) e Malta (106). Persone vulnerabili che non hanno altra scelta se non quella di pagare trafficanti e organizzazioni criminali, mettendo a rischio la propria vita per raggiungere un paese europeo. Francois Crépeau, relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti dei migranti e professore di diritto presso l’Università McGil in Canada, descrive il fenomeno dello smuggling come un servizio: “Le persone vogliono spostarsi e i trafficanti offrono servizi di mobilità. Se tali servizi fossero offerti dagli stati, i trafficanti sarebbero fuori dal mercato. Negli anni cinquanta e sessanta, milioni di persone sono emigrate in Europa. Nessuno è morto, non esisteva la tratta e tutti avevano il diritto di poter entrare in Europa. Ottenevano il visto nelle ambasciate e acquistavano normali biglietti aerei. Se si consentisse la libera circolazione, i trafficanti non esisterebbero perché le persone sceglierebbero il modo più economico e sicuro per spostarsi, invece che pagare diecimila euro e mettere a rischio la vita dei propri figli”, spiega il professore canadese. La migrazione, in definitiva, ha sempre fatto parte della storia dei popoli e continuerà ad esistere. Niente ha impedito il flusso di migranti, né le barriere fisiche tra i paesi, né la militarizzazione dell’Unione Europea. Gli stati membri dovrebbero rivedere le politiche migratorie smettendo di vivere l’emigrazione come un’emergenza ed elaborando politiche di medio e lungo termine che incoraggino i flussi tramite rotte legali e sicure. Questo consentirebbe ai governi di rompere il sistema perverso dello smuggling ma soprattutto permetterebbe di affrontare la migrazione con un approccio più umano. Del 17/12/2015, pag. 17 Migranti, un’altra strage in mare sei bimbi morti sulla costa turca LORENZO FORLANI Hanno tutti un’età compresa tra i 2 e i 6 anni i sei bambini trovati al largo delle coste turche, morti in due diversi naufragi. I corpi dei primi due, di nazionalità irachena, sono 39 stati rinvenuti, con i giubbotti salvagente ancora addosso, da alcuni pescatori nei pressi di Cesme, provincia di Smirne. Il gommone su cui viaggiavano si era rovesciato nella notte. Al largo di Bodrum sono stati trovati invece i corpi di altri 4 bimbi, che viaggiavano su un barcone inabissatosi nelle ore precedenti. I guardacoste turchi, nel frattempo, riuscivano a salvare 58 persone, tra i quali c’erano altri 22 bambini. Alla vigilia del summit di Bruxelles tra Turchia e Paesi Ue sulla gestione dell’emergenza migranti, il conto dei morti in mare continua a salire. Secondo l’Unicef i bambini-migranti annegati nel 2015 sono circa 200. L’incontro nella capitale belga sarà per l’Ue l’occasione per fare il punto con Ankara, che riceverà 3 miliardi di euro da Bruxelles per la gestione di circa 2,5 milioni di profughi e aspetta di conoscere il numero di rifugiati ai quali l’Unione è disposta a concedere il visto d’ingresso il prossimo anno. Gestione che presenta molte ambiguità, come ha rilevato un rapporto di Amnesty International, in cui si legge che da settembre la Turchia ha fermato e trasferito centinaia di rifugiati in centri di detenzione, dove sono stati spesso maltrattati e talvolta costretti a tornare nei Paesi di provenienza. Una situazione che in parte stride con la procedura d’infrazione decisa dall’Ue nei confronti dell’Italia per non aver identificato alcuni migranti durante gli sbarchi degli scorsi mesi. Oggi l’astronauta Samantha Cristoforetti visiterà, in compagnia del direttore generale dell’Unicef Paolo Rozera, proprio al centro rifugiati di Lampedusa, sotto pressione da mesi, mentre ieri alla Camera Renzi ha definito “strabiliante” questa la decisione dell’Ue, ricordando come la stessa Merkel avesse detto lo scorso agosto che la solidarietà viene prima della burocrazia. «Europa, qual è il tuo ruolo, affermare regolamenti o risolvere problemi?», ha detto il premier. Un’Europa per cui il presidente della Commissione europea Juncker haribadito la proposta di istituire un corpo di guardie di frontiera, «perché Schengen deve durare». Intanto, ieri a Pozzallo (Ragusa) è stato arrestato il 19enne presunto scafista Fali Sengol, accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. del 17/12/15, pag. 6 «Identificazione facciale dei migranti» Europa. La proposta di Renzi al consiglio Ue di oggi. «Strabiliante la procedura di infrazione» Carlo Lania Dire che è irritato forse è poco. Le accuse che Bruxelles ha rivolto all’Italia sulle gestione dei migranti, e soprattutto l’annuncio dell’apertura di una procedura di infrazione per la mancata identificazione delle decine di miglia di profughi sbarcati sulle nostre coste bruciano come un ferro rovente a Matteo Renzi che considera ingiusti e ingiustificati i rimproveri dell’Unione europea. «E’ strabiliante che qualcuno in Europa abbia pensato di aprire una procedura di infrazione perché non tutti quelli che abbiamo salvato sono stati identificati con le impronte», spiega in mattinata Renzi intervenendo alla camera. Concetto che ripeterà anche nell’intervento che terrà al Consiglio Ue in programma oggi e domani a bruxelles, e che ieri ha concordato direttamente con il presidente della repubblica Sergio Mattarella in un pranzo al Quirinale al quale ha partecipato anche il ministro delle riforme Maria Elena Boschi. Intervento che oltre a difendere l’operato italiano, insisterà molto anche sulle responsabilità altrui, dell’Europa in generale per la lentezza con cui procedono i ricollocamenti e i rimpatri, e della Germania, che Renzi torna ad attaccare per la seconda volta in pochi giorni: «Non tutte le persone arrivate in Germania ad agosto sono state 40 identificate e allora Merkel disse: viene prima la solidarietà e poi la burocrazia — ha spiegato ancora il premier alla Camera -. Ma quello che vale per la Germania non vale per l’Italia. Noi non replichiamo ma chiediamo: cara Europa qual è il tuo ruolo, affermare linee di indirizzo burocratiche o risolvere i problemi?». Da agosto, però, molte cose sono cambiate a partire dagli attentati di Parigi che hanno portato l’Ue a decidere di identificare anche i propri cittadini in entrata e uscita dai propri confini e a spingere su Italia e Grecia perché accelerino l’apertura degli hotspot. Altro punto su cui Renzi insisterà oggi a Bruxelles, Renzi sente di aver fatto i compiti assegnati: «L’Italia ha aperto il primo hot spot, domani (oggi, ndr) sarà aperto il secondo a Trapani, poi a Pozzallo. Siamo pronti a intervenire tenendo fede ai nostri impegni, chiederemo agli europei se sono in grado di tener di tener fede ai loro impegni», ha ricordato Renzi. Il consiglio Ue di oggi dovrebbe dare il via libera all’istituzione di una guardia costiera e di frontiera europea, autorizzata a intervenire in caso di emergenza ai confini anche senza che ne sia stata fatta richiesta dal paese interessato. Particolare che ha suscitato non poche resistenze in alcuni paesi membri, che rivendicano la gestione della sicurezza dei propri confini. Anche su questo punto Renzi avrebbe in mente di portare una proposta nuova che garantisca il mantenimento di Schengen, oggi messo pericolosamente in forse. Ai capi di stato e di governo europei annuncerà però anche che, in più rispetto ad altri paesi, insieme al rilevamento delle impronte digitali, l’Italia procederà anche all’identificazione facciale dei migranti. Il vertice di oggi sarà preceduto da un incontro ristretto tra i paesi più coinvolti dalla crisi migranti (ma senza la partecipazione dell’Italia, che non è stata invitata), nel corso del quale i discuterà anche di come — dopo l’accordo siglato con Ankara, si possa cooperare con la Turchia per fermare l’arrivo dei migranti. Turchia dove ieri si verificata l’ennesima strage di bambini: i corpi di sei piccoli profughi, con un’età compresa tra i 2 e i 6 anni sono stati ritrovati nelle acque dell’Egeo al largo di Bodrum e nei pressi di Cesme. Da Avvenire del 17/12/15, pag. 8 La denuncia di Amnesty: migranti maltrattati in Turchia MARTA OTTAVIANI L’Unione Europea è sempre più vicina a venire considerata una complice della Turchia per quanto riguarda il maltrattamento dei migranti sui confini fra la Mezzaluna e il Vecchio Continente. Questa l’accusa, fortissima, di Amnesty International, che in un report ha descritto come, a partire da settembre, le condizioni di chi cerca di varcare la frontiera per raggiungere gli Stati dell’Unione siano addirittura peggiorate e come la situazione potrebbe addirittura diventare più difficile dopo che il club di Bruxelles ha versato tre miliardi alla Mezzaluna per affrontare l’emergenza migranti. Un’accusa che, sottolinea Amnesty, è all’opposto della «generale, positiva attitudine» della Turchia nei confronti del capitolo migranti. Stando all’organizzazione, a partire da settembre, le autorità turche hanno iniziato ad arrestare richiedenti asilo, soprattutto siriani e iracheni, che tentavano di passare il confine con l’Europa, sia nello stretto di mare che divide la costa della Mezzaluna dalle isole greche, sia vicino alla frontiera di terra. Nel documento si legge che dopo l’arresto è stato 41 confiscato loro il cellulare e gli è stato impedito di contattare sia la famiglia sia un avvocato. Ma questa, come si legge nel documento, potrebbe essere solo la punta dell’iceberg. Molti intervistati hanno raccontato di essere stati spostati in centri nel sud-est del Paese. Qui le loro condizioni non sono certo migliorate, anzi. Nella maggior parte dei casi si è trattato di detenzioni illegali, dove i migranti sono stati privati della loro libertà personale e della possibilità di comunicare con l’esterno in modo arbitrario e il più delle volte senza nemmeno sapere se fossero accusati di qualche reato. Alcuni hanno riportato percosse da parte delle autorità che gestivano i centri. C’è poi l’accusa più terribile di tutte. Stando ad alcune informazioni raccolte da Amnesty International, alcuni rifugiati sarebbero stati rispediti nei loro Paesi d’origine, soprattutto Siria e Iraq, a meno che non potessero dimostrare di avere soldi a sufficienza per mantenersi. Il timore dell’organizzazione, espresso nelle conclusioni del report, è che questa politica sia stata implementata anche a causa delle richieste politiche e logistiche dell’Unione Europea, generosa nell’aiutare la Mezzaluna nella gestione dell’emergenza rifugiati, ma al tempo stesso poco propensa ad accoglierli sul suo territorio. Amnesty teme che l’implementazione dell’accordo sarà fatale per chi cerca di sfuggire dall’orrore della guerra e ha ammonito tanto la Turchia quanto l’Europa a rispettare i diritti dei migranti e le normative internazionali sui diritti umani. del 17/12/15, pag. 25 L’Islam in Italia Le nostre vite normali da musulmani «Ma non chiamateci moderati» L’INCHIESTA Alessandra Coppola Si potrebbe forse provare con il «test del maiale»: chi lo mangia non è musulmano, oppure non lo è abbastanza. È una provocazione, una delle argute invenzioni che tessono i romanzi di Amara Lakhous (nello specifico, «Contesa per un maialino italianissimo a San Salvario», e/o). Ma contiene una questione seria e attuale, sulla quale lo scrittore continua a interrogarsi: come si distingue un islamico moderato? «Nel caso di una donna, per esempio, non porta l’hijab? Fuma? Ha relazioni fuori dal matrimonio? Dice le parolacce? E se invece è velata e prega con regolarità, si tratta di un’integralista?». Nato nel 1970 ad Algeri, dove si è laureato in Filosofia, Lakhous nei suoi studi alla Sapienza si è dedicato anche alla comunità musulmana italiana. Ha scritto quattro romanzi sullo «scontro di civiltà» che alla fine è incontro di pregiudizi, manie e abitudini tra condomini, mercati e stazioni ferroviarie. Ha vissuto a Roma, a Torino, in Francia, e ora risponde al telefono da New York. «Il concetto di moderato è pieno di trappole — ragiona —. Perché è stato importato da un altro contesto, di relazioni internazionali. A un certo punto, i Paesi a maggioranza musulmana sono stati classificati come fondamentalisti o moderati. In base alle convenienze. L’Arabia Saudita, per esempio, fondamentalista nel senso peggiore della parola, è collocata tra i moderati perché ha appoggiato la guerra in Afghanistan contro i sovietici, e così via. Questo concetto ora è applicato ai musulmani tout court , ai quali viene chiesto di prendere una posizione moderata. Non ha senso. Perché mai dovrei giustificarmi per qualcosa che hanno fatto altri, lontanissimi da me?». Se il termine moderato risulta inadeguato, però, se sembra un’etichetta ritagliata per tranquillizzare le coscienze occidentali e creare un «musulmano su misura» dall’aspetto gradevole e poco dissonante, come si può correttamente riferirsi a chi, per esempio, non 42 va in moschea e non si attiene rigidamente a tutte le prescrizioni del Corano, e alla fine rappresenta la maggioranza del milione e settecentomila fedeli in Italia? «Nato musulmano, non praticante», suggerisce Youssry Alhoda. Non è un intellettuale, ma è un uomo conosciuto a Milano per la sua straordinaria serietà e competenza, 53 anni e 5 figli, titolare di una ditta di ristrutturazione, responsabile delle attività culturali di uno dei centri islamici col timbro «moderato», la moschea di Segrate. «Per me è un dovere inserirmi nel modo giusto e regolare nel posto in cui vivo — spiega —: l’Islam è questo, non si limita a una preghiera. È ricevere aiuto e aiutare, è un sistema di vita. Non è una barba o un foulard in testa». Degli oltre seimila versetti, dice, la maggioranza indica come comportarsi da buon musulmano. E chi non lo fa alla lettera? «Non è praticante». Nulla di male, ma neanche un ragazzo giovane come Burhan Mohammad, arrivato bambino dal Pakistan a Villafranca di Verona, concede molto spazio alle sfumature: «Fino a due anni fa ero il tipico trasgressore, mi ubriacavo, andavo in discoteca, portavo le ragazze nei privé». In una vacanza in Tunisia è stato folgorato dalla frase di un amico, alla vista di un uomo anziano col turbante bianco sul ciglio della strada: «Guardalo, se morisse adesso non avrebbe problemi». Ha cominciato a riflettere, racconta, poi ha anche avuto dei guai, ha perso il lavoro da metalmeccanico, il papà è stato male: «Un momento di crisi, e non potevo parlarne con nessuno. Un conoscente mi ha proposto di andare in moschea. Fino a vent’anni non ci avevo messo piede». E da allora neanche una birra? Ride. «Non è che si possa essere praticante a metà…». Non è neanche che abbia smesso di divertirsi, sostiene. Ha trovato, anzi, un modo piuttosto originale di rendere pubblica la sua svolta: registra un video blog in cui scherza anche sui difetti degli islamici («Sempre pronti a puntare il dito contro i peccati degli altri») o cerca di smontare pregiudizi. «Che cosa non vuoi più sentirti dire come musulmano?». Con una certa tenerezza, uno dei suoi intervistati, adolescente, confessa: «Non voglio che i miei compagni di scuola mi gridino Allah u akbar ». Resta la questione più seccante per i fedeli di tutte le età oggi in Italia: dover continuamente spiegare di non avere contiguità coi terroristi. «Mi sento umiliata quando mi chiedono di dissociarmi — dice Shereen Mohamed —. Io lo faccio anche, ma in quanto essere umano dotato di logica. L’Islam non è l’Isis. È dura doverlo ripetere: io sono italiana, musulmana, europea». Nell’immagine ideale di islamico «moderato», Shereen rientra perfettamente: lodigiana, 22 anni, genitori egiziani, diligente studentessa all’Università Cattolica di Milano, anima uno spazio di confronto con coetanei copti (e non solo) che si chiama Swap ( Share with all people ). Strano? Per nulla. Molti musulmani frequentano scuole cattoliche, tanti genitori non chiedono per i figli l’esonero dall’ora di religione, gli oratori milanesi sono pieni di bimbi musulmani. Secondo una ricerca dell’anno scorso, il 26,9% dei ragazzi di origine straniera che frequentano le parrocchie è islamico. E i momenti di preghiera comune, con cattolici ed ebrei, sono tanti: è facile che tra praticanti ci si intenda. Più faticoso pare, forse, lo spazio per i «laici», o «non praticanti», o ancora come propone Akram Idries, per i «riformisti». Ingegnere trentenne, italo-egiziano-sudanese, collaboratore del blog La Città Nuova sul Corriere.it , Idries rivendica di essere musulmano anche se la sua immagine non corrisponde allo stereotipo: «Gli islamici sono fatti anche come me…». Cioè fedele, ma critico: «Questo modello di Islam ha fallito, non c’è bisogno di essere a favore né contro, non ha senso parlare di moderati: servono riforme», che aggiornino una serie di partiche e consuetudini consolidate in tempi remoti. È una linea che non scandalizza l’orientalista Massimo Campanini, docente a Trento, massimo esperto di Islam e politica: «Il riformismo fa parte del Dna dell’Islam, e individua una corrente ben precisa di approccio innovativo alle fonti». Bocciata anche dal professore, 43 invece, l’etichetta «moderato»: «Sarebbe come dire che l’Islam è violento, e poi ci sono i moderati che non lo sono…». Assodato che esiste una possibilità riformista nell’Islam, e che ha anche precedenti storici, chi potrebbe oggi realizzarla? Amara Lakhous ha una risposta: «La diaspora. Nel mondo musulmano esistono due poteri: dittature e fondamentalisti. Che sembrano avversari, ma alla fine sono giocatori della stessa squadra. Le riforme richiedono libertà, e la libertà si trova in Europa e negli Usa». È tra i musulmani «occidentali», dunque, che si producono le condizioni ideali per un Islam riformato, dice Lakhous. Ma attenzione, «tra partiti xenofobi e socialisti che vogliono forgiare il musulmano su misura, si perde anche questa opportunità». 44 WELFARE E SOCIETA’ del 17/12/15, pag. 2 Medici in prima linea contro Renzi Sanità. Al primo sciopero unitario dal 2004 ha aderito il 75% del personale medico. Un messaggio chiarissimo al governo contro tagli e precarietà. Palazzo Chigi ha un problema: i duecentomila medici che ieri hanno scioperato in massa contro i tagli alla sanità incroceranno di nuovo le braccia a gennaio. Lo scontro è frontale Roberto Ciccarelli ROMA La risposta del governo Renzi allo sciopero imponente nella sanità – 75% di adesioni, non accadeva dal 2004 – è una partita di giro da illusionisti. L’emendamento alla legge di stabilità sulle 6 mila assunzioni, una goccia nell’oceano, è stato ripresentato dopo il clamoroso ritiro per mancanza di risorse certe con le seguenti modalità. Nella nuova versione si dice che le assunzioni saranno fatte, a condizione che le regioni reperiscano le risorse dopo anni di tagli e definanziamenti. Non ci sono risorse aggiuntive. Le regioni dovranno tagliare per assumere nuovo personale da marzo, il 50% saranno i precari attraverso un concorso. È il gioco delle tre carte: prima si tagliano al Fondo Sanitario Nazionale 2,3 miliardi, poi si dice alle Regioni di farne altri, magari alzando i ticket sanitari. È un circolo infernale senza fine. Sanità agli sgoccioli Al presidio organizzato ieri all’ospedale San Camillo di Roma, uno dei più grandi ospedali della Capitale nel quartiere Monteverde, i medici e gli infermieri presenti si sono detti «profondamente delusi» dalla soluzione trovata per le assunzioni. “Innanzitutto non c’è nessuna cifra – ha detto il presidente dell’Anaao Domenico Iscaro — il numero 6 mila non è riportato nell’emendamento, viene rinviato alle Regioni il compito di individuare il fabbisogno di personale e di avviare le procedure concorsuali che dovrebbero essere espletate nel prossimo triennio, un tempo molto lungo, e soprattutto non c’è nessuna risorsa economica aggiuntiva prevista finalizzata». «Le risorse dovrebbero venire da risparmi delle Regioni, che non sappiamo come possano essere fatti – ha aggiunto il sindacalista — visto che siamo in un Fondo sanitario nazionale finanziato già con 1 solo miliardo invece dei 5 previsti dal Patto per la Salute». Riproponendo le assunzioni, in maniera a dir poco incerta, il governo ha cercato di contrastare il colpo inferto dallo sciopero al suo consenso. Ma l’antidoto è peggiore del male, come ha spiegato Tonino Aceti, Coordinatore Nazionale del Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva: “Il rischio reale che si corre, come l’esperienza ci dimostra, è che in caso di mancata realizzazione di questi risparmi le risorse per far fronte alle assunzioni le Regioni le andranno a reperire riducendo i servizi sanitari, aumentando i tempi di attesa o aumentando i ticket. Questa eventualità deve essere scongiurata dal Governo, che su questo dovrà garantire, vigilare attentamente e intervenire in forma sussidiaria attraverso il Ministero della Salute qualora ce ne fosse bisogno”. Le cifre di Lorenzin A riprova della difficoltà del governo si può citare l’improvvisa conferenza stampa organizzata dal ministro della Salute Beatrice Lorenzin nel bel mezzo dello sciopero. Segno di grande debolezza, un’anomalia raramente registrata in Italia. Lorenzin ha ribadito quello che sostiene, senza successo, da mesi: il suo governo non ha fatto tagli 45 lineari alla sanità, ha messo un miliardo in più sul fondo nazionale, assumerà 6 mila persone. Queste, in breve, le cifre: saranno stanziati fino a 329 milioni di euro le assunzioni entro il 2017. Le discusse norme sulla medicina difensiva saranno approvate al massimo entro gli inizi dell’estate. Arriveranno nuovi Livelli essenziali di assistenza entro la fine di febbraio grazie a 800 milioni vincolati dal Fondo sanitario nazionale. Poi una mezza ammissione sulle ragioni dello sciopero che ha posto il problema della sopravvivenza del futuro del sistema sanitario pubblico. Lorenzin sostiene di volere accogliere queste motivazioni “in modo costruttivo”. E ha riconosciuto: “Se il sistema ha retto nonostante crisi lo si deve proprio al sacrificio in termini di disponibilità e preparazione di medici e infermieri”. Sacrifici oltre ogni limite Questi “sacrifici” e la “disponibilità”, oltre ogni limite,hanno evidentemente superato la soglia della sostenibilità tra i 200 mila camici bianchi. Le cifre imponenti dello sciopero raccontano una realtà drammatica: 40 mila interventi chirurgici saltati causa sciopero, ma sono state garantire le urgenze, ha assicurato Alessandro Gargallo del sindacato degli anestesisti Aroi. «I nostri pazienti che oggi troveranno chiusi 3 studi su 4 non se la prenderanno, crediamo, con noi perché li abbiamo preparati a questa giornata di protesta». Lo dicono Giacomo Milillo, segretario nazionale della Fimmg (Federazione italiana medici di medicina generale), e Giampietro Chiamenti, presidente Fimp (Federazione italiana medici pediatri). Fronte compatto Il problema sono i tagli. «In questi ultimi anni – ha detto Maria Luisa Agneni, responsabile per l’Asl RM/E degli specialisti ambulatoriali del Sumai-Assoprof al presidio al San Camillo– abbiamo assistito al disinvestimento nel Ssn, in primis sugli operatori, con il solo effetto di ridurre cure e servizi di qualità ai cittadini”. Allo sciopero hanno aderito 16mila medici specialisti ambulatoriali interni, con 500 mila prestazioni e 190 mila visite che non eseguite. La protesta proseguirà, sono già stati annunciati altri due scioperi. “il governo si impegni a finanziare per davvero la sanità pubblica, a partire dal rinnovo del contratto – afferma la segretaria nazionale della Fp Cgil, Cecilia Taranto — servono soluzioni strutturali al problema dell’occupazione: la verità dietro le nuove assunzioni annunciate è che il governo sta anche creando nuove sacche di precariato in sanità, dicendo alle regioni di assumere fin dal primo gennaio nuovo personale con rapporti di lavoro flessibile”. Lo scontro con il governo è frontale. Renzi non ne uscirà facilmente. Da Avvenire del 17/12/15, pag. 10 Ludopatie, arrivano 50 milioni l’anno Cresce la mobilitazione sul territorio: alleanza di tre Comuni in Abruzzo FULVIO FULVI Un fondo stabile di 50 milioni di euro l’anno, a decorrere dal 2016, per curare e riabilitare le persone affette dalle patologie causate dall’azzardo. La cifra, stanziata dal ministero della Salute, servirà anche per prevenire l’insorgere delle ludopatie. «Il fondo – ha precisato il ministro Beatrice Lorenzin – verrà ripartito tra le Regioni e le Province autonome sulla base di criteri stabiliti con un decreto ministeriale da approvare entro 60 giorni». 46 Non ci sarà dunque un carattere di una tantumper le risorse destinate alla lotta contro le ludopatie ma, almeno stando a quanto detto ieri, l’impegno finanziario verrà riproposto ogni dodici mesi. Confermata anche la serie di divieti alla pubblicità televisiva e radiofonica dei giochi con vincita di denaro. Limiti che però saranno validi soltanto per le emittenti generaliste e nella fascia oraria che va dalle 7 alle 22. Resterebbero fuori, dunque, tv e radio tematiche e trasmissioni notturne. «In particolare – spiega il ministro – è vietata la pubblicità che incoraggia il gioco eccessivo e incon-trollato, che ne neghi i rischi o lo presenti come un modo per risolvere i problemi finanziari ». Ma saranno proibiti anche gli spot che inducono l’ascoltatore a ritenere che la competenza del giocatore possa permettere di vincere sistematicamente, che si rivolgono o facciano riferimento ai minori, che presentino l’astensione dal gioco come un valore negativo o contengano dichiarazioni infondate sulle possibilità di vincita. Sui divieti alle pubblicità è intervenuta, con una nota, la Consulta Nazionale Antiusura 'Giovani Paolo II'. «Siamo soddisfatti ma ancora resta da fare» ha detto monsignor Alberto D’Urso, vicepresidente della Consulta, secondo cui è auspicabile che «si arrivi con sollecitudine a una legge nazionale sull’azzardo online che oggi costituisce il vero problema avendo raggiunto nel 2015 un consumo pari a 89 miliardi di euro». Intanto, tre Comuni abruzzesi dell’area metropolitana Chieti-Pescara, cioè Cepagatti, San Giovanni Teatino e Spoltore si sono uniti in un progetto di aiuto a chi è diventato 'schiavo del gioco'. Il progeto si chiama 'Stop the game': previsti sportelli di ascolto e informazione, consultazioni con un’équipe di esperti, agevolazioni sulla Tari agli esercizi che tolgono le slot machine e interventi di sostegno alle famiglie coinvolte. Verranno promossi incontri nelle scuole e nelle associazioni, saranno formate, per dodici mesi, unità terapeutiche composte da una decina di persone per la consulenza diagnostica e l’avvio gruppi di mutuo-aiuto. 47 DONNE E DIRITTI del 17/12/15, pag. 7 Chiara Saraceno: «Discutiamo di Gpa, ma niente proibizioni» Intervista. La sociologa Chiara Saraceno: «Impediamo lo sfruttamento delle donne, ma l’appello di Se non ora quando è sbagliato» Carlo Lania «Bisogna tenere separata l’adozione dei bambini da parte di coppie dello stesso sesso dalla gestazione per altri, perché quest’ultima è una questione che riguarda le coppie omosessuali come quelle eterosessuali e va trattata separatamente. Aver messo assieme questi due problemi – come si fa nell’appello di Se non ora quando — è stato un modo per introdurre argomentazioni improprie contro le unioni civili». Chiara Saraceno, sociologa celebre anche per i suoi studi sulla famiglia e sulle tematiche femminili, è tra le prime firmatarie di un contro-appello in cui – diversamente da quanto chiesto da una parte di femministe aderenti a Se non ora quando – si chiede di riaprire il dibattito sulla gestazione surrogata, ma soprattutto si difende la possibilità per le coppie omosessuali di adottare il figlio del partner grazie alle stepchid adoption inserite nel ddl Cirinnà in discussione da gennaio al Senato. «Mettere assieme questi due tematiche – ribadisce la sociologa – oltretutto è anche un modo per sussumere anche le lesbiche sotto la questione gay e, come spesso succede, tutte le questioni omosessuali come esclusivamente maschili». Al centro di tutto lei pone i diritti dei bambini. Certo. I questo paese in nome dell’unità della famiglia tradizionale a lungo si sono negati i diritti dei figli che un tempo si chiamavano addirittura illegittimi, una parola fortissima. Poi, fino al 2013, anche di quelli naturali. Ma non abbiamo proprio imparato niente? La legge ora riconosce che ci sono diritti prioritari dei bambini comunque siano venuti al mondo, e tra questi diritti c’è quello ad avere dei genitori. Pensa che il dibattito sorto sulla gestazione per altri abbia come obiettivo le stepchild adoption? Nel manifesto di Se non ora quando si dice di essere favorevoli alle stepchild adoption però, mettendo in questo modo sul piatto una discussione sulla gestazione per altri, senza fare neanche la distinzione tra coppie lesbiche e gay, hanno permesso a persone come Giovanardi di attaccare le stepchild adoption. Un attacco che non riguarda solo la gestazione per altri ma più in generale le coppie omosessuali nella convinzione che non abbiano il diritto ad avere figli. L’idea che ci sia una filiazione anche per quella via lì è qualcosa che non possono reggere. Chi ha firmato l’appello di Se non ora quando pone un problema vero sulla gestazione per altri che capisco. Io stessa ho delle resistenze nei confronti di certe forme di gestazione surrogata, però pongo questioni serie come il fatto che il corpo delle donne non è in vendita. Aver introdotto una questione così delicata in questo momento, proprio quando si discute di unioni civili, avalla il retropensiero di chi dice: togliamo l’adozione, perché altrimenti questo potrebbe provocare, incoraggiare anche il ricorso alla gestazione surrogata. Allora vietassero anche il matrimonio eterosessuale, perché anche quello prima o poi può portare alla gestazione per altri. Lei dice: i bambini non sono una merce. In cosa vede questo pericolo? 48 In alcune cose orribili che succedono in India, piuttosto che in alcuni paesi ex socialisti dove ti danno il bambino chiavi in mano e si configurano quasi delle vendite di bambini: io te le commissiono e tu me lo dai, se però non è perfetto non lo voglio. L’obiezione non sarebbe più pertinente se riferita alle donne che si offrono per la gestazione per altri? Dentro una gestazione per altri fatta in forme puramente mercantili, soprattutto in contesti di forte sfruttamento, ci sono entrambi gli aspetti. C’è il problema che la donna non ha nessun diritto sul bambino e di fatto lo vende, perché è pagata per darlo ad estranei. Però la donna stessa è in vendita con il suo corpo, il suo tempo, i suoi nove mesi di gravidanza senza che abbia il diritto di cambiare idea, di tenersi il bambino. E per di più costretta ad abortire se il bambino non piace. L’errore del documento di Se non ora quando è di pensare che i contesti di gestazione per altri siano tutti di questo tipo, quando non è vero. E infatti molte coppie gay si rivolgono a paesi , come il Canada o gli Stati uniti, dove la legge tutela la donna. Certo la legge tutela la donna e viene mantenuto un rapporto con i bambini. Devo dire che conosco situazioni di segno molto diverso, alcune delle quali mi portano a condividere – solo per questo aspetto — l’accusa che le donne vengano trattate solo come uteri che camminano. Però non è sempre così. Averlo affermato è una semplificazione indebita. Lei dunque non è contraria per principio alla gestazione per altri?. No. Intanto io sono contraria a proibizioni tranchant, che alimentano solo un mercato clandestino. Giustamente uno può volere che certe forme di sfruttamento non si verifichino, ma questo è anche un problema dei governi che devono stabilire regole precise, così come è avvenuto e sta avvenendo con l’adozione internazionale. Bisogna quindi incoraggiare la protezione delle donne che si offrono per la gestazione surrogata e i loro diritti ultimi. Bisogna discutere di questi temi, proprio perché sono cambiate le nostre percezioni. In Italia fino all’altro ieri era anche contro all’eterologa. E’ necessario lavorare sulle garanzie. L’appello di Se non ora quando chiude invece ogni possibilità di discussione, puntando tutto sulla bellezza della maternità, il rapporto con il corpo e così via. Ma allora chiedo: e l’adozione, la maternità che avviene in altro modo, i bambini adottati che non hanno questo rapporto con la donna che li ha partoriti? Che ne facciamo di tutto questo? Ecco, l’appello è molto pericoloso anche perché non ne tiene conto. 49 BENI COMUNI/AMBIENTE del 17/12/15, pag. 4 Conflitto d’interessi, Virano non può guidare l’azienda Tav di Andrea Giambartolomei L’ex commissario del governo alla Torino-Lione ed ex presidente dell’Osservatorio tecnico sul Tav, Mario Virano, non può dirigere la Telt, società incaricata della costruzione della grande opera. È in conflitto d’interesse e per questo è incompatibile. Lo ha stabilito l’Autorità garante della concorrenza e dei mercati dopo l’udienza di giovedì scorso. La decisione è stata comunicata all’interessato ieri. La vicenda nasce da un esposto fatto dai consiglieri regionali del Movimento Cinque Stelle in Piemonte indirizzato all’Anac di Raffaele Cantone, che poi ha inviato il fascicolo all’Antitrust. Virano è stato nominato direttore generale di Telt il 23 febbraio scorso, giorno in cui ha lasciato la carica di commissario del governo per la Torino-Lione.La legge sul conflitto di interessi prevede che per un anno una persona che ha avuto un ruolo nell’esecutivo non possa assumere incarichi in società con fini di lucro o in attività imprenditoriali. Virano potrà ricorrere al Tar o al Presidente della Repubblica. 50 INFORMAZIONE Del 17/12/2015, pag. 18 Tv. Nel budget 2016 più entrate da pubblicità grazie agli eventi e maggiori introiti da canone per 148 milioni Rai, spinta da canone e sport Riforma verso l’ok definitivo al Senato - Nasce la divisione «Security» Chiusura d’anno con un sostanziale pareggio (rosso di 3 milioni dopo le imposte); ricavi da canone in aumento di 148 milioni; pubblicità in crescita di 40 milioni a quota 700 milioni; ricavi totali attorno ai 2,7 miliardi, di cui poco meno di due terzi dal canone. È stato approvato all’unanimità ieri il budget economico finanziario del Gruppo Rai per il 2016. Un placet che arriva quasi in contemporanea con il via libera definitivo alla riforma della Rai atteso per stasera o domani mattina al massimo. Il Ddl di riforma ha infatti avuto ieri il via libera della commissione Lavori Pubblici del Senato, passando quindi all’Aula di Palazzo Madama per l’approvazione definitiva senza alcuna modifica rispetto al testo trasmesso dalla Camera. Il budget per il 2016 – che come precisa la nota dell’azienda guidata dal dg Antonio Campo Dall’Orto e dal presidente Monica Maggioni «costituirà la base per lo sviluppo del Piano industriale 2016-2018» – è “mosso” in particolare da due fattori sul versante ricavi: un’importante recupero dell’evasione per il canone e gli eventi sportivi che caratterizzeranno la prossima primavera-estate. Per quanto riguarda il primo punto, il miglioramento atteso è notevole. A budget è stato messo un tasso di evasione dell’8% contro una media nazionale attualmente calcolata al 27% delle famiglie con punte oltre il 40% in alcune regioni, per un mancato introito di almeno 500 milioni. L’evasione all’8% è stata peraltro comunque identificata come “prudenziale” (per le utenze elettriche si parla di un 4-5%). Insomma, il nuovo modello di riscossione in bolletta, come previsto dalla legge di Stabilità, e l’attribuzione alla Rai dei due terzi del maggior gettito stimato rispetto all’anno precedente dovrebbero portare a questo risultato. Certo, le famiglie cominceranno a versare in bolletta una quota del canone non a gennaio (mese in cui nel 2015 era fissato il pagamento del canone), ma a partire dalla bolletta di luglio. Non solo. Le compagnie di energia elettrica sono tenute a girare le somme alla Rai solo a dicembre 2016. Sarà comunque il ministero dell’Economia ad anticipare trimestralmente gli stessi introiti dell’anno precedente. C’è poi tutto il discorso legato agli eventi sportivi. I diritti per le Olimpiadi di Rio de Janeiro, dal 5 al 21 agosto, sono già in casa Rai come quelli per le Paralimpiadi (7-18 settembre). Ancora non c’è nulla di definito per la fase finale degli Europei in Francia, dal 10 giugno al 10 luglio, ma le simulazioni approvate ieri tengono conto di una trasmissione da parte dell’emittente di Stato delle partite di calcio con un accordo che potrebbe essere finalizzato a gennaio. Per quanto riguarda altri punti del budget, i costi esterni per beni e servizi dovrebbero scendere di 8 milioni, mentre dovrebbero rimanere stabili gli investimenti sul genere fiction e cinema (superiori ai 400 milioni). Il Cda della Rai ha inoltre deciso l’istituzione della Direzione Security. Il nuovo «Chief Security Officer» sarà Genseric Cantournet, ex capitano della gendarmeria francese e vicepresident Security in Telecom. Non è stato ancora deciso, invece, chi sarà il capo della nuova macroarea “Comunicazione, Relazioni Esterne, Istituzionali e Internazionali”, nata dalla fusione della direzione “Comunicazione e Relazioni Esterne” e “Relazioni Istituzionali ed Internazionali”. Dovrebbe trattarsi di una figura non giornalistica 51 ma piuttosto brand-market oriented. L’attuale direttore delle Relazioni istituzionali e internazionali, Alessandro Picardi, dovrebbe comunque avere un ruolo. Di Rai ha parlato anche l’ad di Discovery Italia, Marinella Soldi, nella sua audizione in commissione di Vigilanza sulla riforma dell’emittente pubblica. «Immaginiamo – ha detto – un servizio pubblico totalmente finanziato dal canone, che non sia più schiavo dello share, e che affianchi ai canali generalisti un numero limitato di canali tematici dedicati ad esempio alla cultura, alle produzioni locali, a canali in lingua originale per i bambini, sviluppando in ogni caso programmi e linguaggi che nulla abbiano a che vedere con quelli della tv commerciale». Questo permetterebbe anche di «liberare risorse sul mercato, alimentandone la crescita in termini di contenuti e di pluralismo». 52 CULTURA E SPETTACOLO del 17/12/15, pag. 21 “Officina Pasolini”, verso l’inferno con l’abito adatto Un viaggio tra le forme d’espressione che hanno accompagnato PPP: manoscritti originali, film, dipinti, costumi di scena, fotografie e contributi audio di Silvia D’Onghia All’inferno bisogna andare con gli abiti adatti, perché non si sa mai chi si può incontrare. Tre uomini vestiti da donna, per esempio, tre gerarchi fascisti, aguzzini della peggiore specie con orecchini pendenti e vistose spille. I tre gerarchi di Salò o le 120 giornate di Sodoma. È il “girone della borghesia”, uno dei tre che si attraversano nella “Officina Pasolini”, la grande mostra polifonica dedicata al poeta – nel quarantennale della sua scomparsa – nella “sua” Bologna. Un percorso dagli anni di formazione alla degenerazione di Petrolio, dai miti arcaici all’attacco alla modernità. Non esiste un solo modo corretto o completo per raccontare Pasolini, perché in qualunque forma stilistica o linguistica lo si tenti di ingabbiare ci sarà sempre un contenuto diverso che apre la porta di un altro orizzonte. Ecco perché “officina”: da opus facere, un laboratorio nel quale il fabbro inventa, crea, modella. E la mostra è proprio questo, un viaggio attraverso tutte le forme d’espressione che hanno accompagnato PPP: dai manoscritti originali alle proiezioni dei film, dai dipinti ai costumi di scena, dalle fotografie ai contributi audio. Allestita all’interno del MAMbo, un ex panificio nel distretto della manifattura, e curata da Marco Antonio Bazzocchi, Roberto Chiesi e Gian Luca Farinelli, “Officina” ha nella Bologna che dette i natali al poeta un inizio e una fine. Il resto, nella grande navata centrale, è un punto di vista con mille messe a fuoco. E alcune chicche. “Io possedevo già un ‘italiano’: ed era naturalmente quello delle Ceneri di Gramsci (con qualche punta espressiva sopravvissuta da L’usignolo della chiesa cattolica); sapevo (per istinto) che avrei potuto farne uso”: l’istinto che nel 1960 fece tradurre a Pasolini l’Orestiade di Eschilo, “su richiesta di Gassman”. Lo stesso istinto che molti anni prima, nel 1947, gli aveva fatto mettere mano a un Edipo all’alba, abbozzo teatrale in cui il mito di Edipo è rivisto alla luce dell’amore incestuoso di Ismene per suo fratello Eteocle. Non a caso il mito e la sua funzione sono il filo rosso che accompagna il visitatore. Quello classico, con – oltre all’Edipo – la Medea e gli Appunti per un’Orestiade africana. Ma poi anche il Friuli, terra materna dalla quale Pasolini fu costretto a fuggire; la madre, la sua Susanna e le madri infelici dei suoi film (su tutte, la Magnani di Mamma Roma); il Cristo, quei poveri cristi dimenticati di Accattone e La Ricotta riscattati dal volto etereo ed eterno di Enrique Irazoqui nel Vangelo secondo Matteo; le borgate romane, paradiso di purezza dei condannati all’inferno; e i popoli lontani, l’utopia di un mondo ancora intatto magistralmente illustrato dagli scatti di Roberto Villa sul set del Fiore delle Mille e una Notte. Le pareti di questa cattedrale laica rimandano le immagini dei film, e sembra quasi di vederli gli attori, bardati nei preziosi costumi della sartoria Farani, esposti nuovamente dopo molti anni. La voce di Pasolini risuona in una delle ultime interviste – alla tv francese – prima di essere ammazzato all’Idroscalo di Ostia. O racconta Porno Teo Kolossal, il 53 progetto di film che il regista aveva in mente dagli anni Sessanta, poi accantonato per la morte di Totò e ripreso con la collaborazione di Eduardo De Filippo. Pasolini non lo realizzò mai, perché qualcuno – e mai sapremo chi – la notte del 2 novembre del ’75 decise che di lui si poteva fare a meno. I telegiornali che annunciano quell’orribile fine, invece, ricordano ai visitatori della mostra, e a tutto il mondo, che di PPP ci sarebbe bisogno. Oggi più di ieri. 54 SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI del 17/12/15, pag. 17 Niente social ai minori, divieto comico di Alex Corlazzoli Maestro, sei su Facebook?”. È una delle prime domande che sento quando entro in una nuova classe di quarta o quinta elementare. Fino a qualche anno fa volevano sapere se avevo una moglie, una fidanzata o dei figli. Ora la generazione 2000 è interessata a sapere quanto sei connesso perché loro in quel mondo ci sono. Che piaccia o meno all’Unione europea, il 38% dei ragazzi dai 9 ai 12 anni (secondo i dati Eurokids) e il 77% di quelli dai 9-12 ha un profilo su un social network, nonostante per la maggior parte di questi servizi il libero accesso è consentito solo dai 13 anni in su. Quando ieri mattina, entrato in aula come ogni giorno, ho aperto con i miei ragazzi il quotidiano e letto la notizia che presto non potranno più avere un profilo su Facebook, Instagram, Twitter e nemmeno una casella di posta elettronica con Gmail perché l’Europarlamento ha deciso di portare da 13 a 16 anni il limite d’età per aprire un account, è scoppiato un boato di “nooo”. E non sarà certo il nuovo regolamento europeo a fermare l’esercito dei nativi 2.0: “Maestro, basta continuare a mettere un’età diversa al momento dell’iscrizione”, mi hanno suggerito. Il parlamentare tedesco Jan Albrecht, autore della proposta emendamento in questione che dovrà essere recepita entro il 2018 dagli Stati membri, non ha fatto i conti con i tanti Marco, Giulia e Sofia che hanno persino l’autorizzazione dei genitori a usare WhatsApp e Instagram. Forse all’Europarlamento, dove vogliono alzare il livello dell’età digitale anche per avere un indirizzo di posta elettronica non si sono accorti che, almeno in Italia, nella maggior parte dei libri di italiano di classe quinta c’è persino un capitolo dedicato all’insegnamento dell’uso dell’email. A questo punto dovremmo rivedere i testi e dire che finora gli insegnanti hanno indotto i ragazzi a compiere un reato. Sarebbe interessante capire chi tra gli europarlamentari della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni, ha trascorso qualche giorno a capire che cosa fanno i nostri bambini sui social network. Basta stare una settimana con chi è nato tra il 1995 e il 2004 per capire cosa succede. Massimo ha dieci anni, fa la quinta. Si è registrato su Facebook inserendo come data di nascita il 28 maggio 1995. Datore di lavoro: Fc Internazionale Milano. Istruzione: istituto professionale “Sraffa”. Ha persino inserito tra i dati l’anno di diploma: 2002. Ecco fatto, siamo in Facebook con oltre 200 amici, maestro compreso. Pubblica le foto della sua squadra, delle moto, dei suoi amici. Nulla di più. Fa quello che faceva in altri modi, l’onorevole Albrecht quando aveva l’età del mio alunno. Oggi non è più tempo dei poster in camera e delle telefonate. L’89,8% utilizza Whatsapp per rimanere connesso con gli amici: più di uno su due manda più di 50 messaggi al giorno (57,4%) per scherzare con i compagni ma anche per scambiarsi informazioni sui compiti, per sapere a che ora incontrarsi in palestra. Certo, tra i contatti dei miei ex alunni, su Instagram e Facebook c’è anche quella ragazzina in costume e in biancheria intima ma forse perché nessuno ha spiegato lei le regole del gioco. Il report sul bullismo in Italia, presentato in questi giorni dall’Istat, ci dice che tra i ragazzi utilizzatori di cellulare e/o web, il 5,9% denuncia di avere subìto ripetutamente azioni vessatorie via sms, email, chat o social network. La questione è un’altra: è urgente 55 fare educazione civica digitale. La scuola ha il compito di spiegare ai ragazzi i rischi e i pericoli, i diritti e i doveri della vita digitale. Ha anche quello di formare quelle mamme e quei papà che vivono un gap con la generazione dei loro figli. Non sarà certo l’atteggiamento proibizionista dell’Ue a fermare i giovani 2.0 che, grazie anche alla Rete, potranno essere più attivi, più partecipi, più cittadini. 56 ECONOMIA E LAVORO del 17/12/15, pag. 27 Benvenuti (davvero) al Sud La Basilicata vuole garantire il reddito minimo a ottomila persone con le royalty del petrolio Nel Texas d’Italia anche i disoccupati avranno un reddito minimo grazie al petrolio. La Regione Basilicata ha deciso di investire le royalty del suo «oro nero» per pagare un assegno a circa 8.000 famiglie prive di entrate economiche sicure e dignitose. È un punto di svolta nel controverso rapporto tra l’estrazione degli idrocarburi e questa parte d’Italia a lungo in testa alle classifiche della povertà; e la Basilicata, se da un lato possiede i giacimenti di petrolio più ricchi dell’Europa continentale, dall’altro è tra le regioni che da mesi stanno tentando di strappare al governo lo stop alle trivellazioni in mare. Benvenuti al Sud che prova a uscire da un destino di arretratezza facendo leva sulle sue risorse. Sono 7 le Regioni italiane intenzionate a garantire un salario minimo ai senza lavoro (Lombardia, Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Molise, Puglia e appunto Basilicata), a cui vanno aggiunte le province autonome di Trento e Bolzano. Ma mentre in tutta Italia questa forma di welfare viene finanziata attraverso fondi europei sul reinserimento nel mercato del lavoro, la Basilicata lo pagherà al 95% con gli indennizzi incassati dalle compagnie che estraggono l’«amato-odiato» petrolio. La Regione ha già approvato il regolamento e sta per pubblicare i bandi per gli aventi diritto: l’iniziativa si rivolge principalmente a due categorie, i lavoratori per i quali scade la cassa integrazione in deroga e le famiglie con un reddito inferiore a una certa soglia. Il «reddito minimo» funzionerà così: i comuni lucani presenteranno progetti per lavori di pubblica utilità per i quali impiegheranno i senza lavoro. Il compenso di questi ultimi (circa 500 euro al mese per un periodo di un anno) verrà pagato dalla Regione; nel contempo i beneficiari potranno seguire corsi per riaffacciarsi sul mercato del lavoro. Le royalty sugli idrocarburi garantiranno a questo piano non meno di 40 milioni di euro all’anno. L’obiettivo è di cominciare a versare il contributo sociale dal febbraio del 2016. «Fino a ieri — spiega il presidente della giunta regionale Marcello Pittella (Pd) — con i proventi petroliferi pagavamo una carta sconto sui carburanti indistintamente a tutti i residenti in Basilicata. Adesso abbiamo deciso di concentrare le risorse a beneficio della fascia più svantaggiata della popolazione. La Basilicata ha fatto grandi passi avanti: la percentuale di chi non gode di un reddito sufficiente è passata dal 50% al 38% ma non ci può essere sviluppo se la società viaggia a due velocità». La ricchezza portata dall’oro nero è al centro di roventi polemiche in Basilicata: troppo squilibrio tra i profitti garantiti a chi estrae e le compensazioni per gli enti locali; troppo alto il prezzo pagato dall’ambiente e dalla salute. Adesso il «reddito minimo» finanziato con le royalty cerca di mettere le cose a posto. Difficile però non vedere la contraddizione: da un lato la Basilicata ammortizza il disagio sociale grazie al petrolio ma dall’altro dice no alle trivellazioni in mare e all’apertura di nuovi pozzi sulla terraferma. «Non mi piacciono gli eccessi di certe proteste di piazza — prosegue Pittella — ma il concetto a cui teniamo fede è la sostenibilità ambientale di cui parlano gli accordi sottoscritti con il governo nel 1998 e nel 2006: lì quel limite di sostenibilità è fissato in 154.000 barili al giorno. E dunque non rovineremo le nostre coste e non autorizzeremo nuove perforazioni in segno di rispetto per l’ambiente». Claudio Del Frate 57 Del 17/12/2015, pag. 6 L’America alza i tassi stop al denaro gratis “Meno rischi per ripresa” Aumento di 25 centesimi: è la prima volta da 9 anni Yellen ottimista. Avanza Wall Street. L’incognita Bce FEDERICO RAMPINI Alle ore 14 di Washington, le 20 italiane, gli schermi di tutto il mondo hanno lampeggiato l’attesa notizia. “Breaking News”: +0,25% nei tassi della Federal Reserve. Una mossa modesta ma gravida di conseguenze, lo spartiacque tra un “prima” e un “dopo”. L’ultima volta accadde 9 anni e mezzo fa. Giugno 2006, l’allora presidente della Fed Ben Bernanke alzò i tassi: a quota 5,25%. Un’altra era, un altro mondo. Oggi i rendimenti si sono appena sollevati al di sopra dello zero. In mezzo c’è stata la crisi più grave dalla Depressione degli anni Trenta, poi l’invenzione di una cura audace: una politica monetaria iperattiva schiacciò i tassi a zero esattamente sei anni fa, quindi iniziò a inondare l’America e il mondo con 4.000 miliardi di liquidità. Un esperimento senza precedenti, terapia di shock inaudita. Ieri la donna più potente dell’economia mondiale ha potuto dire: missione compiuta. Janet Yellen nella sua conferenza stampa ha spiegato perché è fiduciosa di poter chiudere a poco a poco l’epoca delle misure eccezionali. La ripresa americana compie 6 anni e 6 mesi «e mostra una forza soddisfacente». Ha sottolineato il 5% di disoccupazione, vicino al pieno impiego. «I consumi e gli investimenti tengono, nonostante gli sviluppi internazionali negativi». Il rallentamento cinese e la rivalutazione del dollaro sono in cima alle preoccupazioni, ma «rispetto a quest’estate i rischi si sono ridotti ». Altro segno di ritorno alla normalità, l’inflazione rialza la testa. Molto moderata, anche perché il petrolio che crolla riduce i costi energetici. La Yellen spiega che è un rincaro del costo del denaro di tipo omeopatico, somministrato con moderazione. Salvo shock negativi l’anno prossimo ci saranno altri tre di questi minuscoli rialzi. I tassi Fed arriveranno a 1,5% a fine 2016, a 2,5% a fine 2017, e a 3,25% a fine 2018. Un “dovish hike”, un rialzo da “colombe”, deciso non per spegnere la ripresa ma anzi per sostenerla. «Voglio vedere una crescita prolungata », spiega la Yellen, aggiungendo che la guarigione del mercato del lavoro non è conclusa: ci sono ancora troppi lavoratori a part-time; i salari non aumentano in modo soddisfacente. Iniziando ad alzare i tassi oggi la Fed vuol evitare di trovarsi in una situazione pericolosa: se aspettasse troppo a lungo, potrebbe trovarsi costretta a spegnere l’inflazione con rialzi del costo del denaro più brutali e rapidi, innescando una recessione. «La prima cosa che gli americani devono capire dalla nostra decisione di oggi, è quanto siamo fiduciosi sulla salute della nostra economia», conclude. E Wall Street reagisce con un netto rialzo. Il tasso che la Fed ha aumentato è quello sui Federal Funds, da cui ne dipendono altri, che subito si muovono al rialzo: gli interessi percepiti sulle carte di credito dei consumatori, i ratei dei mutui-casa a tasso variabile. «Ma partiamo da un costo del denaro eccezionalmente basso», ha ricordato la Yellen, convinta che l’economia americana ha spalle robuste per sostenere questo piccolo rincaro del credito. Può avere un effetto psicologico positivo: se tutti si convincono che è finita l’emergenza, possono avere più fiducia e comportarsi di conseguenza, dai consumi agli investimenti. I precedenti storici però associano i rialzi dei tassi con le recessioni: e questa ripresa Usa è durata già molto rispetto alla media. Quali le conseguenze internazionali? L’attenzione ossessiva dal resto del mondo si giustifica: l’economia Usa influenza le altre, l’economia mondiale è un 58 sistema di vasi comunicanti. Se i rendimenti americani continuano la marcia all’insù, gli investitori si sentono attratti verso titoli Usa che renderanno di più. Dunque i capitali tenderanno ad affluire verso gli Usa. Effetto positivo: è possibile un’ulteriore svalutazione dell’euro, fa bene agli esportatori e alla ripresa italiana. Ma quando i capitali si spostano verso l’America, per trattenerli in Europa può diventare necessario offrire un po’ di più. Tocca dunque alla Bce contrastare la spontanea tendenza dei mercati a seguire il rialzo americano con un rincaro del costo del denaro alla periferia dell’impero. Chi si trova in una tenaglia sono le economie emergenti già in recessione: per loro i capitali in fuga sono una maledizione, tante imprese devono restituire debiti in dollari, le monete emergenti valgono sempre meno e i debiti sempre di più. Piccoli risparmiatori, pensionati, possono salutare il ritorno alla normale? Chi deve accantonare risparmi per il futuro, o vivere su quello che ha da parte, con il tasso zero si sentiva più povero e magari cascava nella trappola della finanza speculativa. Un ritorno a rendimenti positivi è una buona notizia, nel medio termine. A breve però una ripercussione dei tassi che salgono, è la perdita di valore dell’ampio stock di bond esistenti: il loro prezzo si muove nella direzione opposta ai tassi. Si è già visto tremare il mercato dei junk-bond, in pesante perdita da settimane. Quale “ritorno alla normale” ci aspetta? La crescita mondiale continua ad essere lentissima, rispetto al periodo dagli anni 50 agli anni 90. La stagnazione secolare ha cause strutturali come denatalità, invecchiamento, calo della forza lavoro attiva, diseguaglianze, scarsi progressi nella produttività. Tutte cose che la politica monetaria non cura. I grandi assenti, la Yellen lo ha ricordato, restano i governi: da anni le politiche di bilancio frenano la crescita. Ora che la banca centrale più potente inizia a ritirarsi dal suo ruolo di supplenza, la latitanza degli altri attori diventa ancora più problematica. 59