rassegna stampa

Transcript

rassegna stampa
RASSEGNA STAMPA
giovedì 17 dicembre 2015
L’ARCI SUI MEDIA
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
WELFARE E SOCIETA’
DONNE E DIRITTI
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SPETTACOLO
SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Corriere.it – Corriere Firoentino del 16/12/15
Una scuola per bimbi nel villaggio
di Samb Modou e Mor Diop
Un ospedale e una scuola nei villaggi nei due senegalesi uccisi in
piazza Dalmazia il 13 dicembre di quattro anni fa. E’ il progetto
realizzato da Fondazione «Il Cuore si scioglie» (Unicoop Firenze), Cgil
Toscana e Arci Toscana
di Jacopo Storni
Un ospedale e una scuola nei villaggi di Samb Modou e Mor Diop, i due senegalesi uccisi
in piazza Dalmazia il 13 dicembre di quattro anni fa. E’ il progetto realizzato da
Fondazione «Il Cuore si scioglie» (Unicoop Firenze), Cgil Toscana e Arci Toscana grazie
ad una raccolta fondi straordinaria che ha permesso di destinare 30mila euro ai due piccoli
villaggi dai quali provenivano i due venditori ambulanti. Un progetto lungo quattro anni
raccontato nel breve documentario dal titolo «Quattro anni dopo» realizzato da Antonio
Chiavacci e Benedetto Ferrara, che si apre con l’autografo del calciatore della Fiorentina
Babacar su un pallone donato agli abitanti dei due villaggi.
I villaggi Mont Rolland e Darou, dopo il lutto per la perdita dei due ragazzi, tornano così a
sorridere. A Mont Rolland è stato realizzato un importante presidio sanitario, che servirà
per le cure degli oltre 5mila abitanti e che mancava dal 1988. All’interno della struttura,
oltre alle cure e all’assistenza dei malati, verrà fatta anche informazione e prevenzione
sanitaria, oltre alla realizzazione di un registro nascite. A Darou è invece stata costruita
una scuola per 300 bambini dai 6 ai 14 anni, con tanto di banchi, sedie e lavagne.
«Da un evento tragico e violentissimo come quello successo il 13 dicembre 2011 poteva
sgorgare un fiume d’odio – ha detto Gianluca Mengozzi, presidente Arci Toscana - invece
grazie alla disponibilità dei senegalesi in toscana, alla voglia di capire, grazie a tante
cittadine e cittadini toscani che hanno rifiutato che nella propria regione potessero
succedere cose simili, è nata un’esperienza bellissima».
http://corrierefiorentino.corriere.it/firenze/notizie/cronaca/15_dicembre_16/scuola-bimbivillaggio-samb-modou-mor-diop-a9cc171a-a409-11e5-a522-0c99e24ed959.shtml
Da la Nazione del 16/12/15
Nel paese natale di Samb e Diop
per dare un senso a quella strage
Piazza Dalmazia al Senegal: il reportage c i parenti delle vitti,
QUATTRO ANNI dopo la tragedia razzista che ha sconvolto Firenze, una delegazione dei
rappresentanti di Arci Toscana, Regione Toscana, Cgil e Fondazione `11 Cuore si
Scioglie' si è recata nei villaggi delle due vittime: Mont Rolland e Darou, nel cuore del
Senegal, per portare il saluto e le presenza viva delle istituzioni e dei cittadini che, ancora
oggi, non hanno dimenticato. Il ricordo ha trovato una forma concreta e tangibile: nel 2013
infatti, Arci, Cgil e Il Cuore si Scioglie hanno organizzato una raccolta di fondi con cui
hanno realizzato un ambulatorio medico e una scuola nei due villaggi, in memoria delle
2
due vittime della strage razzista del 13 dicembre 2011. E ieri al cinema Alfieri è stato
proiettato il video reportage realizzato durante questa missione, a testimonianza del fatto
che la solidarietà e l'accoglienza sono più forti della violenza e del razzismo. L'iniziativa,
intitolata `Oltre l'indifferenza: per non dimenticare Samb e Diop', è stata organizzata in
collaborazione con la Comunità Senegalese.
«Lo scopo del nostro viaggio - ha detto Irene Mangani, de Il Cuore si scioglie - è stato
quello di mostrare la nostra vicinanza. La gente e i bimbi ci hanno accolto con molta gioia,
è stato un bellissimo regalo, siamo soddisfatti del risultato dell'impegno: ora in quei villaggi
ci sono una scuola e un ambulatorio medico». «Siamo andati due anni fa a visitare i due
villaggi - ha spiegato Gianluca Mengozzi, presidente Arci Toscana - dove abbiamo
conosciuto i parenti delle vittime. E con loro abbiamo deciso di fare una piccola azione
solidale con circa 30mila euro messi a disposizione da tanti toscani per la realizzazione di
quanto da loro richiesto: il diritto alla salute e il diritto allo studio e all'istruzione. Tutti noi
torniamo arricchiti da questa esperienza, che rinsalda la solidarietà e la vicinanza tra
toscani e senegalesi». «Abbiamo anche visitato la `porta del viaggio senza ritorno' della
`Maison des esclaves' - ha ricordato Maurizio Brotini di Cgil Toscana, in Senegal con
Alessio Gramolati -. Il luogo attraverso cui, per centinaia di anni, portoghesi, olandesi e
spagnoli hanno fatti schiavi milioni di africani, spedendoli nelle Americhe. Si racconta che
Nelson Mandela, visitando questo luogo, si fosse ritirato nell'anfratto più cupo e
inaccessibile, e vi fosse rimasto per lunghi minuti, piangendo. Visitate la `porta' e fatevi
raccontare dalle guide del luogo quale fosse il trattamento riservato per centinaia di anni a
uomini, fanciulle, bambini africani dall’uomo bianco. E fatene tesoro».
Da Repubblica.it (Bologna) del 16/12/15
Acrobati, musicisti e attori: il circo torna in
Montagnola
Arriva il gruppo Side Kunste-Cirque, con artisti da tutta Europa
di GIULIA FOSCHI
Invia per email
Il circo contemporaneo torna al Parco della Montagnola: a raccogliere il testimone del
Circo Paniko è il Side Kunste-Cirque, un gruppo di acrobati, musicisti e attori da tutta
Europa. Il tendone è già montato: non ci sono i problemi che una compagnia numerosa
come il Circo Paniko aveva incontrato rispetto ai limiti previsti dalla zona, perché i Side
sono di meno, e si sono stretti: “Noi stiamo tutti dentro a una sola roulotte”, spiegano. Il
loro “Radio Tagadà” andrà in scena tutti i giorni dal 18 dicembre al 13 gennaio
(prenotazioni 328 1221288): uno spettacolo di circo cabaret dedicato al varietà all’italiana,
tra risate, brividi e musica dal vivo. Sul contenuto, la compagnia mantiene il mistero: “Per
scoprire la magia che accade sotto il tendone del circo c’è una sola strada: aprirlo ed
entrare”.
Il circo è la linea conduttrice dell’attività invernale in Montagnola a cura di Arci e
Antoniano. A dicembre tornano i campi invernali, il servizio di accoglienza per bambini con
giochi, film, letture e attività. Domenica 27 è in programma lo spettacolo “Alla scoperta di
Babbo Natale”, mercoledì 6 gennaio arriva la Befana verde (il programma completo è sul
sito www.montagnolabologna.it).
3
“Siamo riusciti a riportare il circo in Montagnola - esulta l’assessore Matteo Lepore grazie alla collaborazione con l’Antoniano. La Montagnola è il biglietto da visita della città,
stiamo lavorando per trasformarla
in un nuovo distretto culturale”. Felici anche i nuovi ospiti circensi: “Il nostro obiettivo è
riportare il circo nei centri storici - spiega Salvatore Frasca del gruppo Side - perché il circo
è un patrimonio culturale dei cittadini, ma spesso viene emarginato, specialmente nelle
nuove forme”.
E il Circo Paniko? Non se ne è andato, ma torna dal 23 gennaio con un nuovo spettacolo
al Parco di Villa Angeletti (prenotazioni 333 6298118).
http://bologna.repubblica.it/cronaca/2015/12/16/news/acrobati_musicisti_e_attori_il_circo_t
orna_in_montagnola-129619458/
Da Redattore Sociale del 17/12/15
Il circo alternativo fa tappa a Bologna, per
riappropriarsi delle periferie
Side Kunst-Cirque e Circo Paniko in città dal 18 dicembre al 21 febbraio.
Lepore (Comune): “Occasione per vivere uno spazio come Villa
Angeletti e riappropriarsi della Montagnola, intorno alla quale sta
nascendo un distretto culturale”. In Montagnola dal 24 dicembre attivi i
campi invernali per bambini
BOLOGNA - Doppio appuntamento con il circo in città. Prima con il Side Kunst-Cirque che
apre le danze in Montagnola e poi con l’arrivo del Circo Paniko che animerà con il suo
spettacolo il parco di Villa Angeletti. “La programmazione invernale del circo è il segnale
che questo spettacolo riesce a stare in centro e in periferia”, ha detto Matteo Lepore,
assessore Economia e Promozione della città del Comune di Bologna che ha ricordato
come Villa Angeletti rappresenti una “nuova centralità urbana che va vissuta” e la
Montagnola “sia un luogo strategico, la porta della città, su cui stiamo investendo molto e
intorno al quale stiamo costruendo un distretto culturale. Con il circo si vuole dare un
ulteriore segnale per riappropriarsi di uno spazio attraverso la cultura”. Side Kunst-Cirque
sarà in Montagnola dal 18 dicembre al 13 gennaio, mentre il Circo Paniko monterà il suo
tendone a Villa Angeletti dal 23 gennaio al 21 febbraio.
Un omaggio al varietà italiano, con una sequenza di artisti che presentano le loro
performance, e la musica dal vivo. È “Radio Tagadà”, lo spettacolo di Side Kunst-Cirque
che dopo una tournée europea approda a Bologna. “Il nostro sarà uno spettacolo comico,
ma non voglio dire di più. Per scoprire cosa ci sarà, bisogna entrare sotto il tendone”, ha
spiegato Salvatore Frasca di Side Kunst-Cirque che si è detto contento del ritorno del circo
in centro, “le grandi strutture, la presenza di animali lo aveva emarginato nelle periferie”.
Spettacolo nuovo invece per il Circo Paniko che negli ultimi cinque anni ha presentano il
Cabaret degli Affamati e quest’anno ha deciso di “farlo morire, con l’ultima portata”, ha
detto Giacomo Martini. “Credo sia importante che due delle 4 o 5 compagnie che fanno
circo alternativo siano presenti in città – ha proseguito Martini – e sono contento che il
Circo Paniko sia usato per rivitalizzare zone che hanno bisogno di aiuto”.
Oltre al circo, durante la feste la Montagnola sarà aperta anche ad altre iniziative come ha
spiegato Manuela Gargiulo di Antoniano (che gestisce lo spazio insieme ad Arci).
“Abbiamo organizzato i campi invernali per i bambini a partire dal 24 dicembre, con
educatori Arci e un’offerta che consente ai genitori di portarli anche solo per un giorno o
un’ora”. Ci saranno laboratori, attività, aiuto per i compiti ma anche spettacoli come “Fun
4
Science – Scienza divertente” il 27 dicembre. E poi il 6 gennaio la Befana alle 16 si
mostrerà ai bambini. “Quest’anno abbiamo deciso di declinare questo appuntamento in
chiave green, perché oltre a rivitalizzare lo spazio con attività e spettacoli vogliamo
rigualificarne la parte verde del parco – ha spiegato Gargiulo – sensibilizzando i bambini e
le loro famiglie”. (lp)
Da la stampa – Torino 7 del 17/12/15
XVIII DICEMBRE - PER NON DIMENTICARE
Al Circolo Arci No.à appuntamento con "XVIII Dicembre - Per non dimenticare", una serata
dedicata al ricordo della Strage di Torino del 18 dicembre 1922. Programma: Letture tratte
dai libri dell'Archivio Enzo Lalli; Open mic con letture di poesie curde e turche; Chiara
Acciarini, consigliere nazionale dell'ANED - Associazione Nazionale ex Deportati,
intervento sul tema: "Filippo Acciarini, un testimone tenace della Strage di Torino del 18
dicembre 1922"; News dagli archivi sulla strage del 18 dicembre 1922; Intervento di A.
Olivieri, Associazione verso il Kurdistan e Rete Kurdistan: "Strage di Ankara, 10 ottobre
2015"; Canti a cura dell'Union des amis Chanteurs. Ingresso con tessera ARCI.
http://www.lastampa.it/2015/12/16/torinosette/eventi/xviii-dicembre-per-non-dimenticare70F2Nilep2DSOMjyHvJJmO/pagina.html
Da CinemaItaliano.info del 17/12/15
Ad AstraDoc "Napolislam" e "Tempo Pieno"
Terzo appuntamento, tutto partenopeo, con i registi Cioffi e Pagano ospiti in sala, quello in
programma venerdì 18 dicembre al Cinema Astra di via Mezzocannone 109 per Astradoc
– Viaggio nel Cinema del Reale 2016, la rassegna di Cinema Documentario (VII edizione)
organizzata da Arci Movie, Parallelo 41 Produzioni, Coinor e Università degli Studi di
Napoli Federico II con il patrocinio del Comune di Napoli.
Si parte alle 20.00 con "TEMPO PIENO" di Lorenzo Cioffi sull’esperienza pedagogica della
scuola elementare di Madonna Assunta in Bagnoli
In un momento storico in cui la scuola pubblica affronta una gravissima crisi di risorse - e
forse di “aspettative” da parte della comunità stessa - testimoniare di questa esperienza
“stra-ordinaria” di scuola pubblica è un modo per contribuire alla riflessione sulla centralità
e sul senso della scuola. Il documentario racconta di una scuola pubblica che funziona, di
una pedagogia costantemente in ricerca, di un lavoro - quello della maestra - vissuto come
un modo di vivere, di una classe fatta di persone che crescono. Dell'educazione come
processo.
Alle 21.30 si prosegue con "NAPOLISLAM" di Ernesto Pagano, vincitore del Biografilm
Italia Award al Biografilm Festival di Bologna 2015 e recentemente al centro di un caso per
la sospensione, poi rientrata, dalla programmazione dai Cinema del circuito UCI dopo i
terribili attentati di Parigi. Il film racconta della conversione di dieci napoletani all'Islam
cercando di restituirne le loro scelte e avendo come cornice quella di una città che non si
presenta respingente, ma disposta quanto meno ad interrogarsi sulla diversità. Napolislam
è un'opera necessaria in questo momento per comprendere e capire aldilà dei semplici e
banali luoghi comuni. Il film rientra nella rassegna nazionale “L'Italia che non si vede” a
cura di Ucca (Unione dei Circoli del Cinema Arci) a cui Astradoc aderisce.
"Napolislam" e "Tempo Pieno" sono prodotto entrambi da Ladoc insieme a Isola Film.
5
http://www.cinemaitaliano.info/news/33725/ad-astradoc-napolislam-e-tempo-pieno.html
Da Termoli On Line del 17/12/15
L’Arci Immigrazione Isernia presenta:
“tuttaltrastoria.is”
ISERNIA. Questo pomeriggio 18 dicembre alle ore 18:30 presso l’ex lavatoio, l’Arci
Immigrazione Isernia presenterà il libro TUTTALTRASTORIA.IS.
Dieci storie di altrettanti ragazzi profughi africani e asiatici arrivati nell’ultimo anno nella
nostra città e nei paesi limitrofi.
Per conoscerli un pò meglio e avere più coscienza di chi è il ragazzo africano o asiatico
che incrociamo passeggiando per strada, o che incontriamo in ospedale o negli uffici
pubblici a richiedere i documenti.
Parteciperanno all’incontro:
Antonio Iarussi, ideatore del libro;
Don Francis Tiso, presbitero e scrittore statunitense che ha curato alcune delle dieci
interviste;
alcuni dei ragazzi residenti nei centri di accoglienza della provincia e protagonisti delle
storie;
modererà l’incontro Vasco Di Salvo, scrittore isernino.
Sarà possibile acquistare il testo ad offerta libera. Il ricavato della vendita dei libri verrà
donato all’Arci Immigrazione Isernia per la realizzazione del progetto “VoltaPagina” piccola
biblioteca multiculturale.
http://www.termolionline.it/197827/larci-immigrazione-isernia-presenta-tuttaltrastoria-is/
Da Centumcellae news del 16/12/15
L’Arci invita i cittadini a visitare i luoghi
dell’accoglienza
CIVITAVECCHIA – L’Arci di Civitavecchia si unisce all’appello dell’Arci Nazionale in
occasione del 18 dicembre, “Giornata di azione globale per i diritti dei migranti”.
“Desideriamo condividere con voi – affermano dal locale circolo Arci – quanto è emerso
dall’incontro del 9 dicembre scorso presso la sede Arci di Piazza Piccinato 10, cui hanno
partecipato il Forum Ambientalista, l’Unione degli Studenti e la Prof.ssa Contu promotrice
insieme alla Iacoponi della Marcia delle donne e degli uomini scalzi realizzata a
Civitavecchia l’11 settembre 2015. Vi ringraziamo per il prezioso contributo e ci aspettiamo
ulteriori adesioni da parte di altre associazioni del territorio e di singoli cittadini che
vogliano partecipare venerdì 18 dicembre alle ore 16:00 16,00 presso la sede dell’Arci alla
Giornata di azione globale contro il razzismo, per i diritti dei migranti, dei rifiugiati e sfollati,
indetta dall’ONU sin dal 2010″.
“La guerra contro le persone migranti è sempre più cruenta. La cifra delle vittime nelle
frontiere continua a crescere così come cresce la militarizzazione dei confini e la violenza
da parte degli Stati del nord del Mondo. I movimenti razzisti e xenofobi si affermano negli
ambiti istituzionali e politici e prendono piede anche nella società ma
contemporaneamente settori della società civile si ribellano all’ordine degli Stati e
sostengono i migranti nel loro scavalcare i confini. Migliaia sono le organizzazioni e i
volontari impegnati ad offrire accoglienza e assistenza a migranti e rifugiati”.
6
“A sostegno delle ragioni dei migranti – concludono dall’Arci – e per rendere manifeste le
attività delle associazioni e dei volontari che lavorano all’interno dei progetti SPRAR, per
abbattere i muri della diffidenza della società civile, abbiamo il piacere di invitare la
cittadinanza, in questa giornata celebrata in tutto il mondo, a visitare i luoghi
dell’accoglienza per promuovere l’incontro con richiedenti asilo e rifugiati e condividere un
pomeriggio all’insegna del confronto e della convivialità, durante il quale si svolgerà un
breve dibattito, merenda etnica e tombolata finale”.
http://www.centumcellae.it/primopiano/larci-invita-i-cittadini-a-visitare-i-luoghidellaccoglienza/
7
ESTERI
Da Avvenire del 17/12/15, pag. 8
L’emergente jihad dei Balcani arruola con 500
euro al mese
NELLO SCAVO
Alla fine Viktor Orban sta avendo la meglio. La contestata barriera metallica piantata
perfino di persona dal premier ungherese, non solo è stata estesa ma adesso viene
perfino esportata. Per respingere le ondate di profughi in marcia lungo la rotta balcanica,
da giorni anche la Macedonia sta sigillando il confine sud con la Grecia. E per farlo ha
ottenuto un regalo da Budapest: tonnellate di filo spinato arrivato direttamente dai depositi
magiari ai militari di Skopje.
La diplomazia dei cavalli di frisia non ferma gli jihadisti. E nei Balcani non si sa come
fronteggiare un rischio a lungo sottostimato: le centinaia di cittadini con un passaporto di
Skopie, Pristina, Belgrado, Tirana, arruolatisi nel Daesh, chi per rabbia e chi per denaro. I
numeri, quelli che ossessionano gli uffici dell’antiterrorismo di un intero continente,
raccontano una verità indigesta.
I “combattenti stranieri” da queste parti sono il problema minore, perché ad essere oramai
incontrollabile è il flusso dei “combattenti interni”. Se con i primi parzialmente ci si consola
liquidandoli come immigrati ingrati che dall’Europa si recano a combattere nelle trincee del
jihad, compreso il rischio che rientrando possano compiere attacchi nelle nostre città; i
secondi sono invece cittadini balcanici, dunque europei, che si arruolano nelle formazioni
del Califfato. I numeri sono in gran parte noti.
E fanno paura. Perciò vengono fatti circolare di malavoglia. Secondo le autorità del
Kosovo, che hanno ricevuto nelle settimane scorse un dettagliato e documentato rapporto
del Centro studi per la sicurezza di Pristina (Kcss) i casi accertati solo quest’anno sono
232. In gran parte ex combattenti della guerra nella ex Jugoslavia, ancora in età da
mortaio. In Macedonia l’ufficio del premier Gjorge Ivanov parla di 69 compatrioti di
Alessandro Magno da poco rientrati, mentre almeno 110 sono ancora agli ordini del Daesh
e 25 risultano morti in battaglia. La proverbiale ritrosia dell’intelligence macedone fa
scommettere che le cifre, quelle vere, vadano riviste al rialzo. «Ci sono – ha osservato ieri
il coordinatore dei servizi segreti italiani, Giam- piero Massolo – due criticità: la
compresenza di 'combattenti stranieri' tra i flussi ed il fatto che questa rotta fa tappa in
Paesi balcanici caratterizzati da un alto tasso di radicalizzazione jihadista». Dopo che un
paio dei terroristi di Parigi sono risultati essere tra i migranti che hanno attraversato i
Balcani, l’Unione Europea preme per maggiori controlli.
«Non funzionerà, è solo “politika”. A che serve chiudere le porte di entrata se non abbiamo
modo di sorvegliare chi esce?», ammette a bassa voce l’anziano sergente macedone che
si accontenterebbe gli pagassero gli straordinari per il lavoro sporco fatto a Gevgelija e nei
paraggi, dove di tanto in tanto i giornalisti vengono allontanati di peso, «per ragioni di
sicurezza». In altre parole, per consentire ai nuclei antisommossa di poter eseguire senza
testimoni scomodi le usuali e indiscriminate cariche di alleggerimento sui migranti,
nell’attesa che il muro macedone sia completato.
Da queste parti assoldare un mercenario o servirsi di un contrabbandiere non è mai stato
un problema. Chi ai tempi della guerra dei Balcani aveva sventagliato la prima raffica di
Khalasnikov a meno di vent’anni, oggi ne ha poco più di quaranta. E se non ha trovato un
8
impiego tra gli irregolari in Ucraina, la Siria è la Mecca degli ex ragazzi dal grilletto facile.
In Macedonia un insegnante non arriva a guadagnare 300 euro al mese.
In Serbia o nel Kosovo non va molto meglio. Il Califfo assicura agli «stranieri con
esperienza» e una famiglia sulle spalle uno stipendio di almeno 500 euro al mese,
maggiorato se si è istruttori, oltre alla possibilità di fare carriera e arrotondare con ogni
genere di affare in nero: petrolio, oppio, automezzi, elettrodomestici, telefonini, computer e
schiavi, preferibilmente donne. Intanto nel ventre molle della rotta balcanica, al confine tra
Macedonia e Serbia, laddove i sentieri si perdono nella Valle di Preshevo –
geograficamente in Serbia, ma presidiata dalle vedette dei banditi kosovari – accadono
fatti su cui le autorità preferiscono soprassedere, magari parlando di cruenti ma non
inconsueti scontri tra gang. In uno di questi, però, hanno perso la vita otto poliziotti
macedoni e quattordici “criminali” di cui non è mai stata fornita la lista completa dei nomi.
È successo il 5 maggio di quest’anno, quando la nuova via terrestre dei profughi non era
ancora in prima pagina.
Una strage come quella, con 22 morti in un combattimento durato dall’alba al tramonto nei
sobborghi frontalieri di Kumanovo, in Europa non si è mai vista. Al ministero dell’Interno di
Skopje qualcuno si lasciò sfuggire una parola mai più pronunciata: terroristi. Non del tutto
una falsità. Perché oggi fonti di polizia a Kumanovo confermano che i criminali originariamente accusati di essere albanesi che istigavano all’odio etnico - erano «implicati
in vari traffici, compresi quello di migranti e armi dirette verso Il Medio Oriente». Il nuovo
Eldorado della “Balkan jihad”.
del 17/12/15, pag. 15
Mosul
Guerriglia casa per casa, popolazioni filo-Isis
Cosa attende i soldati che difenderanno la diga
DAL NOSTRO INVIATO
KOBANE (Siria) Le colline attorno alla diga sono brulle, costellate di villaggi poveri: casette
ad un piano, fattorie isolate con torme di cani randagi spaventati dalla guerra. L’anno
scorso tra il 15 e 19 agosto, quando i guerriglieri di Isis avevano occupato gli spalti alti
dello sbarramento e setacciavano i nuclei urbani vicini, i peshmerga bloccavano l’accesso
a noi giornalisti dicendo: «Sono zone dove è facile organizzare imboscate. Tra le rocce
piazzano le mine. Dalle colline alte i cecchini dominano settori molto ampi. Non possiamo
garantire la vostra sicurezza». Il bacino artificiale si vede da molto lontano, si incunea
azzurro in mezzo al marrone verdastro. D’estate una lieve brezza allieta un poco dal caldo
opprimente. Ma d’inverno soffia perennemente il vento freddo del deserto, che non trova
ostacoli e porta facilmente a temperature ben sotto lo zero.
Questo è il luogo della diga posta una quarantina di chilometri a nord di Mosul. La sua
instabilità cronica, strutturale, si offre a facile metafora delle difficoltà che attendono i 450
militari italiani destinati a garantire la sicurezza dei tecnici e operai della Trevi di Cesena
chiamati a cercare di ripararla. I problemi che la circondano sono però politici e militari,
prima che ingegneristici. L’area a sud di Dohuk e a nord di Mosul, dal giugno 2014 capitale
irachena del Califfato, è infatti terra di confine tra le province curde e quelle sunnite. Non a
caso i peshmerga, grazie alla copertura dei caccia americani, prima di avanzare sono
costretti a setacciare i villaggi. Qui la popolazione sunnita sta in maggioranza con Isis. La
guerriglia è strada per strada, casa per casa. I cartelli stradali sono in curdo e arabo,
raramente in inglese. I villaggi vuoti, le abitazioni abbandonate stanno a testimoniare le
9
ultime fughe di popolazione, compresa quella cristiana, oggi rifugiata soprattutto a Erbil,
ma in maggioranza già emigrata tra Europa, Canada, Usa.
Ci siamo fermati quattro giorni fa sulle sponde settentrionali del grande lago artificiale
venendo da Erbil. Sulla statale verso nord, interminabili file di camion turchi rappresentano
la linfa vitale per la provincia autonoma curda, formalmente ancora sottomessa alla
sovranità di Bagdad, ma de facto ormai totalmente indipendente. Nel giugno-settembre
2014 il lago era praticamente irraggiungibile. Adesso, con il fronte spostato a ridosso di
Mosul, vengono le famiglie curde per i picnic del venerdì. Però la diga resta inavvicinabile.
La pattugliano unità scelte di peshmerga assieme a un pugno di commando americani e
inglesi. «La diga è troppo importante. Non dobbiamo assolutamente rischiare ancora che
cada nelle mani di Isis», dicono i comandi di Dohuk. Così hanno posto limiti invalicabili ben
lontani dallo sbarramento e sulle colline più alte: sensori elettronici, visori notturni, campi
minati. Gira anche voce che siano state poste delle reti nel bacino, per evitare che Isis
possa lanciare cariche esplosive galleggianti.
I tecnici italiani dovranno comunque fare i conti con instabilità strutturali di vecchia data.
Se ne accorsero presto i dirigenti del consorzio italo-tedesco che nel 1980 Saddam
Hussein assoldò per costruire lo sbarramento sul Tigri. L’ex dittatore iracheno lo volle in
quella gola aperta una quarantina di chilometri a nord di Mosul, anche se la qualità del
suolo era considerata assolutamente inadatta, per il fatto che nei suoi piani le priorità
politiche sovrastavano quelle economiche. Intendeva continuare l’«arabizzazione» della
regione, spingendo i curdi verso nord. La costruzione andò per le lunghe. Lo sbarramento
sfiora i tre chilometri e mezzo e raggiunge l’altezza di 133 metri. Dietro nacque un lago
gigantesco destinato a soddisfare la sete cronica del Paese, penalizzato dal fatto che le
sorgenti del Tigri e l’Eufrate sono situate tra le montagne turche. Oggi la diga ha in valore
ancora più vitale, visto che dal 2003 le strutture idriche del Paese sono diventate ancora
più obsolete. Ma nel 1984 i tecnici furono costretti a scavare profonde gallerie sotto la diga
destinate ad essere via via riempite con iniezioni di cemento e materiali consolidanti. Il
terreno gessoso si scioglie al contatto con l’acqua. L’embargo internazionale seguito
all’invasione del Kuwait nel 1990 ridusse ulteriormente le riparazioni. Nel marzo 2003
furono i blitz di peshmerga e marines ad evitare che potesse venire minata dai baathisti
fedelissimi di Saddam.
Fu allora che venne alla luce il problema della diga quale potenziale catastrofe umanitaria.
Gli ingegneri Usa resero noto che il suo crollo avrebbe causato un’onda alta oltre venti
metri: in due ore poteva sommergere Mosul, la valle di Ninive con i suoi antichi villaggi
cristiani, e avrebbe quindi raggiunto Bagdad con un onda alta ancora quattro metri e
mezzo. Vittime possibili: mezzo milione di persone, oltre a danni incalcolabili. Quella
minaccia non è cambiata, resta più attuale che mai. E i militari italiani dovranno contribuire
a dissiparla.
Lorenzo Cremonesi
del 17/12/15, pag. 7
Sei morti in Kurdistan, Amnesty contro
Ankara
Turchia. Rapporto sul «maltrattamento dei rifugiati» da parte del
governo Erdogan
Giuseppe Acconcia
10
Torna alta la tensione nel Kurdistan turco. Sei i morti nelle ultime ore, tre poliziotti e tre
giovani kurdi. Tra di loro, Salih Edim di appena 11 anni, è stato colpito da un proiettile alla
testa. Le forze speciali turche hanno fatto irruzione nelle abitazioni di alcuni politici del
partito democratico dei Popoli (Hdp), la sinistra filo-kurda. Il coprifuoco è stato esteso nelle
principali città del sud-est turco.
Secondo la Fondazione per i diritti umani della Turchia (Tihv), tra il 16 agosto e il 12
dicembre, in Turchia sono stati imposti almeno 52 coprifuochi in sette città, coinvolgendo
1,3 milioni di persone. Duri scontri sono andati avanti per ore a Diyarbakir e Sirnak. Acqua
corrente e corrente elettrica sono saltate per ore in questi centri. Il governo turco ha
autorizzato l’impiego regolare anche dell’esercito e delle forze speciali, a supporto delle
unità anti-terrorismo della polizia, nelle operazioni durante il coprifuoco. La Turkish Airlines
ha poi sospeso per il secondo giorno consecutivo i voli da Istanbul e Ankara per Sirnak.
Lo scontro tra Ankara e kurdi si è inasprito in seguito alle tensioni tra Russia e Turchia
dopo l’abbattimento del Sukhoi Su-24 sui cieli tra Siria e Turchia. Mosca ha imposto
sanzioni contro Ankara mentre la Turchia ha fermato varie navi russe e intensificato
controlli sulle navi mercantili nei suoi porti del Mar Nero, trattenendone finora 27. Mosca
aveva fermato otto navi mercantili turche. I kurdi siriani hanno mostrato un certo sostegno
per l’intervento di Mosca pur di liberarsi dalla pressante presenza turca. Ankara ha
imposto una safe-zone nel Kurdistan siriano (Rojava). Secondo Mosca, continua qui il
traffico di petrolio dello Stato islamico verso la Turchia.
La procura di Ankara ha aperto un’inchiesta per «tradimento» a carico del parlamentare di
opposizione Eren Erdem, del partito kemalista, che nei giorni scorsi aveva rilasciato
un’intervista in cui confermava il sostegno assicurato da Ankara ai jihadisti in Siria. Erdem
ha precisato che le sue dichiarazioni si basano su inchieste dalla magistratura turca.
Infine, il Segretario alla Difesa, Ashton Carter, in visita alla base di Incirlik da dove partono
i raid anti-Is della coalizione internazionale, ha chiesto ad Ankara di controllare meglio i
suoi confini per impedire rifornimenti essenziali per i jihadisti.
Amnesty International ha duramente criticato i maltrattamenti che subiscono i rifugiati in
Turchia. «L’Ue rischia di rendersi complice di gravi violazioni dei diritti umani ai danni di
rifugiati e richiedenti asilo», si legge nel report.
del 17/12/15, pag. 18
Kurdistan, se la felicità è esser ancora
profughi
Regno della violenza - I racconti delle donne yazide nei campi per le
minoranze in fuga dai jihadisti
Prigioniera per 11 mesi dell’Isis, marito e alcuni parenti uccisi, ‘liberata’ dopo il pagamento
di un riscatto di 20 mila dollari. Ranja, 25 anni, yazida, alla sua età ha già visto cose che
noi umani non riusciamo neppure a immaginare. La sottovalutazione del pericolo,
l’incapacità di non avere una via d’uscita. Così lei e la sua famiglia sono finiti nelle mani
del Daesh, pagando un prezzo altissimo.
Quando le milizie del Califfato sono entrate a Qaraqosh nel Kurdistan iracheno non c’è
stato scampo: “È successo tutto in poco tempo – racconta Ranja, ospite del campo
profughi yazida di Khanki – abbiamo tentato la fuga sulla montagna, ma ci hanno trovati.
11
Mio marito l’ho perso subito, lo hanno preso e poi ammazzato, lui come altri fratelli e
sorelle. Sono rimasta coi miei tre figli. Daesh ha portato tutti a Tel Afar e lì abbiamo vissuto
fino a pochi mesi fa, dentro uno stanzone, tutti insieme. Non ci davano da mangiare,
picchiavano e torturavano noi donne, una è stata uccisa davanti ai miei occhi…”.
Gli occhi e il volto terrificato di Ranja dicono e fanno capire fino a quale grado di violenza
possano essere arrivati i tagliagole di Al Baghdadi. Poi riprende: “Chi non parlava arabo
era nei guai, lo stesso chi non si convertiva. Spesso avevano il volto coperto, ma sono
riuscita a capire che in mezzo a quelle bestie c’erano tanti stranieri, europei e anche
cinesi. Poi è arrivato Osman, il negoziatore e ha tirato fuori me e i miei figli da
quell’inferno”.
“Aiutiamoli a casa loro” è lo slogan populista che ha ormai invaso tutti i talk che puntano
alla pancia del popolo. Piuttosto che assistere alla presunta invasione di stranieri – nello
stesso calderone si finisce per mettere clandestini, rifugiati, immigrati, profughi, stranieri
senza conoscere le singole peculiarità –, la gente sarebbe disposta a scucire risorse di
tasca propria per tenere gli indesiderati lontani. Facile parlare, l’azione è tutta un’altra
cosa: “Molti Paesi occidentali stanno investendo in Kurdistan proprio sul fronte degli aiuti
ai profughi siriani e iracheni – dice il responsabile del settore media del governatorato di
Duhok, Fawaz Mirani – tutti meno l’Italia. Durante un meeting a Milano per parlare di
questo argomento, le autorità italiane si erano dette entusiaste, poi sono sparite.
Aspettiamo con ansia un loro segnale. Da soli non ce la facciamo a sobbarcarci tutto il
lavoro, costretti a combattere e accogliere. Poi non vi meravigliate se dalle vostre parti
arrivano carovane di profughi in cerca di un futuro migliore”.
In Kurdistan non c’è futuro per le vittime della sanguinosa guerra innescata dal Daesh. La
popolazione della provincia settentrionale di Duhok è aumentata di 10 volte negli ultimi
anni, grazie ai circa 700 mila sfollati.
Il più grande campo profughi è a Domiz, periferia meridionale di Duhok, che ospita oltre 30
mila siriani. In mezzo a tanta disperazione, c’è una Ong italiana che fa del suo meglio per
alleviare le pene dei profughi, ‘Un ponte per’.
Presente in Iraq dal 1991, ai tempi della prima guerra del Golfo, è balzato agli onori delle
cronache grazie alla liberazione delle ‘due Simone’, rapite e liberate in Iraq nel 2003: “È
partito tutto con un ponte aereo dall’Italia e la commercializzazione dei datteri per
finanziare l’aiuto agli sfollati di guerra – racconta Caterina Mecozzi, responsabile dei
progetti di accoglienza nei campi profughi siriani di Duhok – oggi le cose sono cambiate.
Al punto da avere 60 dipendenti locali. Il nostro lavoro è molto importante e va dal
supporto psicologico delle persone che arrivano qui alla Mass communication. Informiamo
chi vuole lasciare il campo per raggiungere l’Europa a cosa va incontro, ci occupiamo di
bambini, di matrimoni precoci, di attività culturali e così via.
In Italia la gente pensa che i profughi vogliano scappare, tutti. Stando alla nostra
esperienza, un 40% pensa di restare nei campi ancora a lungo, 40% spera di tornare
presto a casa sua e solo il 20% pianifica il viaggio della speranza”.
La vita scorre sempre uguale nel perimetro del campo, transennato da una rete metallica.
Sono nati negozi, attività artigianali; ci sono sette scuole, due centri salute, ristoranti e
diversi campi sportivi. Nell’unico ben tenuto, uno scricciolo con la maglia di Messi si è
conquistato e si appresta a tirare un rigore. La palla entra piegando le mani del portiere.
12
del 17/12/15, pag. 19
Italiani in Libia, il rischio di finire subito
fuorigioco
Un’operazione Onu di “imposizione della pace” è piena di trappole: non
solo da parte di milizie e jihadisti, ma anche degli alleati francobritannici
di Enrico Piovesana
Gli esperti sono convinti. Una missione militare Onu in Libia a guida italiana non sarà
un’operazione di peacekeeping stile Libano, ma una guerra lunga e pericolosa stile
Afghanistan. Come nel 2011, però, Francia e Gran Bretagna sono pronte ad agire da sole
per metter fuori gioco l’Italia. Il generale italiano Paolo Serra, consigliere militare Onu in
Libia, sta pianificando l’invio di un nutrito contingente di Caschi blu per proteggere Tripoli,
addestrare le forze di sicurezza locali e mettere in sicurezza le installazioni petrolifere.
Secondo l’esperto militare Gianandrea Gaiani, direttore di Analisidifesa.it “lo Stato islamico
non si farà sfuggire la ghiotta occasione di colpire i soldati ‘crociati’”. I Caschi blu saranno
“bersaglio ideale”, e se attaccati dovremo rispondere, trasformando la stabilizzazione in
una guerra. “Avrebbe più senso intervenire subito in maniera più decisa, ma – secondo
Gaiani – Renzi e l’Onu non lo faranno. Hollande e Cameron invece, decisi a evitare un
ruolo guida di Roma, potrebbero giocare d’anticipo e l’Italia sarebbe costretta a un ruolo
gregario come nel 2011”.
I segnali che Parigi e Londra intendano muoversi in tale direzione non mancano, secondo
l’analista militare Pietro Batacchi, direttore di Rivista Italiana Difesa. “Abbiamo informazioni
attendibili sulla volontà di Parigi di lanciare raid aerei su obiettivi Isis a Sirte e Sabratah
anche prima dell’insediamento del governo unitario, e anche in assenza di formale
richiesta”. Intervento condotto insieme a Londra “in virtù dell’alleanza sancita nel 2010 e
della comune necessità strategica di garantirsi l’accesso al petrolio libico”. Batacchi non ha
dubbi: sarà fin da subito “una cosa seria”. Non qualche centinaio di carabinieri e
addestratori, ma migliaia di soldati pronti a difendersi e a combattere contro Isis e milizie
locali “che sono il vero problema”.
Concorda Michele Nones, direttore dell’area sicurezza e difesa dell’Istituto Affari
Internazionali: l’intervento, se ci sarà, sarà “lungo e pesante, anche in termini di perdite”,
soprattutto in assenza di un accordo politico sostenuto da tutte le tribù e le milizie locali
“che andranno disarmate”. Una missione di peace-enforcing assai poco pacifica: “Sarà più
enforcing che peace”. Un’azione autonoma francese “sarebbe inutile perché l’inefficacia
dei raid è ormai dimostrata, e un durissimo colpo alla solidarietà europea”.
Ma Parigi e Londra potrebbero decidere di agire in maniera più discreta, favorendo
un’azione militare da parte dell’Egitto, ferocemente contrario a un accordo che garantisca
un ruolo politico alla fazione guidata dai Fratelli musulmani. Possibilità concreta secondo
Germano Dottori, docente di studi strategici alla Luiss, che ritiene prematuro parlare di
missioni Onu perché l’accordo, se ci sarà, difficilmente reggerà ai veti incrociati: “Un
accordo favorevole agli islamisti di Tripoli verrebbe fatto saltare dall’Egitto. Se invece
verranno messi da parte gli islamisti, saranno loro a reagire con l’appoggio di Turchia e
Qatar”.
13
Del 17/12/2015, pag. 16
Renzi: “Niente bombe noi a Mosul per
aiutare” Italia, minacce sul web
Il premier alla Camera difende la “missione diga” La ditta Trevi:
“Urgente intervenire”. E sale in Borsa
GIAMPAOLO CADALANU
I paracadutisti italiani andranno a proteggere la diga di Mosul, ma «non per combattere»,
dice il ministro della Difesa. Proposta la missione, il governo vuole chiarire che «non ci
preoccupiamo delle esibizioni muscolari, ma di cose concrete»: il premier Renzi ha voluto
sottolinearlo, aggiungendo che «solo gli italiani possono mettere a posto quella diga»,
lesionata e «potrebbe distruggere Bagdad e metà dell’Iraq ». Nello stesso spirito
l’intervento di Roberta Pinotti, ministro della Difesa, secondo cui i militari della Folgore
«andranno a proteggere il lavoro di altri italiani che dovranno rimettere in sesto una
struttura fondamentale per il futuro dell’Iraq». La minaccia, più ancora che dai miliziani di
Daesh, il sedicente Stato Islamico, sembra arrivare dalle lesioni alla struttura della diga:
«Problemi significativi su cui bisogna intervenire, altrimenti c’è il rischio di un disastro
ambientale», ha aggiunto la titolare della Difesa. La linea italiana non cambia: si manda un
contingente per tutelare, in vari modi, gli iracheni, ma con l’idea di evitare l’uso della forza,
se sarà possibile. In parte è una risposta alle preoccupazioni di Laura Boldrini, presidente
della Camera, la quale ritiene «non efficace» la risposta militare contro il terrorismo,
soprattutto in assenza di un accordo politico, e sollecita invece un rafforzamento del lavoro
di intelligence internazionale. Ma la visione della politica italiana sembra non convincere il
fronte jihadista, quanto meno se si dà retta alle reazioni pubblicate sul web. «Isis farà di
voi maccheroni all’italiana», minaccia un utente di Twitter. Per un altro, i militari del nostro
Paese sono comunque «forze d’occupazione». Altri argomentano che «un numero così
elevato non è giustificato dalle esigenze di protezione dei lavoratori sulla diga».
Ovviamente, come sempre su Internet, si tratta solo di commenti non riconducibili a
militanti islamisti, e dunque non avrebbe senso considerarli una minaccia autentica. A
livello ufficiale, invece, è il governatore della provincia di Ninive, Naufal Hammadi Sultan Al
Akub, a esprimere «il benvenuto ai militari italiani», se il governo di Bagdad darà via libera
al loro intervento. L’area di Mosul resta comunque turbolenta: ieri le agenzie riferivano di
un bombardamento di mortai, in cui sono rimasti uccisi sei curdi peshmerga. In un altro
scontro, nei giorni scorsi, sono caduti tre soldati turchi. Lo scopo della missione italiana è
limitato alla garanzia della sicurezza per il personale coinvolto nella ristrutturazione della
diga, compito che gli esperti considerano abbastanza semplice. E d è ancora più
necessario perché si tratta di «ingegneri e maestranze riconosciuti in tutto il mondo per la
loro qualità professionale», come sottolinea Renzi. Di questa eccellenza sembra convinta
la Borsa: l’annuncio dell’appalto di Mosul, stimato attorno ai due miliardi di dollari, ha fatto
volare il titolo della Trevi. Le azioni dell’azienda di Cesena hanno chiuso con un rialzo del
25,3 per cento. La Trevi appare l’unica in grado di affrontare la ristrutturazione: «La diga è
costruita su rocce, al cui interno ci sono banchi gessosi che a contatto con l’acqua
subiscono processi di dissoluzione, provocando infiltrazioni che minano le fondamenta »,
ha spiegato Carlo Crippa, area manager dell’azienda romagnola per l’Iraq. Il
personaleTrevi «dovrebbe consolidare la struttura con un intervento di emergenza,
attraverso iniezioni di cemento».
14
Del 17/12/2015, pag. 36
L’arma del Gas
MAURIZIO RICCI
LA differenza fra il petrolio e il gas è che il primo arriva da tutto il mondo via nave: si
compra da chi si vuole. Il secondo, per lo più, arriva ancora attraverso i tubi, fissi e costosi,
dei gasdotti. Ecco perché, strategicamente, il petrolio è una sorta di randello, che uno
mulina alla cieca. Il gas, invece, è un’arma mirata, letale, che può lasciare la vittima
designata al buio e al freddo delle centrali elettriche e dei caloriferi spenti. E così Vladimir
Putin la usa da dieci anni, con cinismo e spregiudicatezza. Il problema è che non lega solo
il consumatore al fornitore. È un’arma a doppio taglio: anche il fornitore, se vuole vendere,
ha bisogno del consumatore. Lo stesso Putin ha avuto modo più volte di accorgersene, in
questi dieci anni, ogni volta che il colpo inferto dalla sua arma preferita gli è rimbalzato
addosso. La minaccia ripetuta di tagliare il gas verso l’Europa ha convinto molti, nella Ue,
che è meglio non dipendere troppo dalla Russia. E, per questo, anche l’ultima azzardata
scommessa, il raddoppio del Nord Stream, il gasdotto verso la Germania, potrebbe
svuotarglisi in mano.
Per capire il rapporto fra il Cremlino e Gazprom, bastano tre cifre. La metà dei soldi con
cui funziona lo Stato russo viene dalle tasse sui prodotti energetici, petrolio, ma, in
particolare, gas. Quasi l’80 per cento della produzione russa di metano è in mano a
Gazprom, che controlla anche il 100 per cento delle esportazioni. Il monopolio è lo
strumento più fidato dei disegni di politica estera del nuovo zar. Basta guardare il prezzario
del metano russo. Nella infida Polonia, costava, nel 2013, 526 euro a metro cubo. Molto
più che in Italia: 440 euro. E lontanissimo dall’amica Germania: 379 euro. Nelle strategie di
Putin, del resto, le convenienze economiche vengono per ultime. Il gasdotto che attraversa
l’Ucraina rifornisce l’Europa senza problemi, ma Putin preferisce ricattare Kiev, tentando in
ogni modo di aggirare il vecchio tracciato, con nuovi, costosi, gasdotti che hanno l’unico
merito di non attraversare il territorio ucraino.
Ci è riuscito con il Nord Stream, diretto in Germania, nel 2011. Ma aver mulinato troppo la
spada di Gazprom gli è costato il no della Ue al gemello South Stream, visto come un
pericoloso aumento di dipendenza europea dal metano russo. Allora ha provato a
stringere un patto con Erdogan, puntando su un gasdotto in terra turca. Ma, anche qui, più
ha potuto la politica: il contrasto sulla Siria ha, di fatto, fatto saltare il gasdotto turco.
Mettendo alle strette Putin.
Il Cremlino ha infatti bisogno di dare ossigeno al suo gigante del gas. Con i prezzi che
crollano e la domanda stagnante, Gazprom vede nel 2015 i suoi proventi (cruciali per il
bilancio russo) cadere del 21 per cento, dopo essere scivolati già del 10 per cento (ma
dell’86 per cento se si conta in dollari, anziché in rubli) nel 2014. Nonostante la grande
fanfara che ha accolto l’accordo per la fornitura di metano alla Cina, l’alternativa asiatica al
cliente europeo è ancora remota. I gasdotti sono da costruire e Gazprom non ha i soldi per
farlo. Caduta anche l’opzione turca, l’ipotesi di raddoppiare il Nord Stream — vista finora
più che altro come un marcaposto a futura memoria — è diventata per il Cremlino una
priorità. Dall’altra parte, Putin ha trovato orecchie più attente del previsto. Nelle aziende
partner, anzitutto. Il crollo dei prezzi del petrolio e la conseguente paralisi degli
investimenti petroliferi spinge Shell a cercare altrove occasioni di investimento. Lo stesso
vale per un gigante dell’elettricità come E.On, alle prese con la decimazione dei profitti
seguita alla programmata chiusura delle centrali nucleari e alla crescita delle rinnovabili.
Ma un’attenzione non scontata la scommessa russa ha, probabilmente, trovato anche
nella politica tedesca. La Merkel e i suoi alleati socialdemocratici sanno che la Germania
15
ha pagato più degli altri paesi — in termini di mancato export, impianti costruiti in Russia
che girano a vuoto, piani di investimento rimessi nel cassetto — le sanzioni al Cremlino
per la guerra ucraina. Il mondo degli affari ha trangugiato la medicina, ma non l’ha ancora
digerita. E Berlino deve anche gestire la complicata transizione postnucleare: il boom delle
rinnovabili non basta, la Germania ha dovuto ricorrere spesso al carbone, smentendo tutti i
suoi manifesti ecologici: il gas (anche russo) inquina di meno. Infine, dimostrare a Putin
che sull’Ucraina non si molla, ma l’ostracismo non è totale e pregiudiziale, è una carta di
cui la diplomazia tedesca sente il bisogno. Anche a rischio di irritare gli alleati europei.
L’Italia, altrettanto colpita dallo stop nell’interscambio, ha mal digerito questi rinnovati
rapporti tra Berlino e Mosca. Oggi Renzi vola a Bruxelles, il dossier gas non è
ufficialmente sul tavolo del vertice tra i leader, ma l’Italia farà di tutto per riconquistare
posizioni. Il problema, poi, è che il potenziamento del Nord Stream può soddisfare la
politica di Berlino, ma economicamente non sta in piedi. Portare al doppio la capacità di un
gasdotto di cui, attualmente, si utilizza solo la metà della capacità esistente non sembra
una necessità. La verità è che l’Europa ha sempre meno bisogno di metano. Siamo tornati
a consumarne quanto venti anni fa. Frutto della crisi economica, ma, soprattutto,
dell’aumento di efficienza delle centrali, delle industrie e, in particolare, delle case. Nel
futuro — 20 o 30 anni, quanto bisogna, almeno, considerarne per un impianto come un
gasdotto — il metano sarà sempre più un combustibile di riserva, da utilizzare — come già
avviene spesso oggi — nei momenti di picchi di consumo, quando sole e vento non
bastano o non sono disponibili. Su questa base, il metano che arriva attualmente è più che
sufficiente. E se quello fornito attualmente da Norvegia e Olanda dovesse diminuire esiste
l’alternativa del trasporto via nave o di accordi con fornitori di enorme potenziale, come
l’Iran, titolare delle più grandi riserve di metano al mondo, o l’Egitto. Come detto più volte
in questi anni, a Bruxelles, il nodo, piuttosto, è rendere più efficiente e meglio ripartita la
distribuzione del metano che già arriva fra i paesi europei. D’altra parte, il partner russo
appare, come sempre, assai poco affidabile. Gazprom dovrebbe farsi carico di metà
dell’investimento nel nuovo gasdotto ed è assai dubbio che possa trovare 5-10 miliardi di
dollari, avendone già impegnati 70 per i gasdotti verso la Cina. Inoltre, se i contratti
valgono, Nord Stream per Gazprom sarebbe subito in perdita, perché il gigante russo deve
pagare i diritti di transito sui gasdotti ucraini anche se non ci passa dentro una molecola di
gas, fino al 2030. Pare difficile che l’Europa accetti di vedere l’Ucraina apertamente
truffata. Questo non significa che, alla fine, il raddoppio del Nord Stream non vada in
porto. Ma il tentativo della Cancelleria di Berlino di dire che la decisione è in mano ad
aziende private e non ai governi è vuoto in partenza. Le leggi comunitarie impediscono a
Gazprom di controllare un gasdotto e anche la distribuzione del relativo metano. È il
motivo per cui è saltata South Stream. Perché Nord Stream ne resti indenne, occorre che
la politica, a Bruxelles, decida di esentarla.
Per ridare fiato al suo gigante dell’energia il Cremlino ha deciso di puntare su Berlino Lo
scontro con Ankara per il conflitto siriano ha affondato il progetto di gasdotto Turk Stream
Da Avvenire del 17/12/15, pag. 14
L’Ue «consegna» il Sakharov al blogger
saudita Badawi
La moglie: «Hanno punito uno spirito libero»
16
LUCA GERONICO
INVIATO A STRASBURGO
Scende un po’ lenta dalla tribunetta dell’Europarlamento, certo emozionata nell’abitino
nero appena scollato, Ensaf Haidar, moglie di Raif Badawi. Tocca a lei ritirare il premio
Sakharov 2015. «Avrei voluto che oggi ci fosse qui mio marito. Prima di tutto, a suo nome,
vi chiedo un minuto di silenzio per le vittime di Parigi. È questo il più grande desiderio di
mio marito». Suo malgrado, questa donna saudita madre di tre figli rifugiati con lei in
Canada, è l’icona della libertà di pensiero imprigionata. Raif è in carcere dal giugno 2012
in Arabia Saudita perché nel suo blog “Free Saudi Liberal” aveva criticato figure religiose.
Nel 2008 il primo arresto con la proibizione di lasciare il Paese.
Nel 2012 un nuovo arresto con l’accusa di “apostasia”: la Corte d’appello di Gedda ha
confermato il primo settembre 2014 la condanna a 1.000 frustate, 50 alla settimana.
«Sappiamo poco di lui. Sappiamo che ora ha problemi di salute », sospira con un lieve
sorriso Ensaf poco dopo la ceri- monia in sala stampa. Il 9 gennaio scorso, dopo la grande
preghiera del venerdì, le prime 50 frustate in piazza davanti a una folla osannante. Dopo
15 minuti di “spettacolo” il giovane blogger, 31 anni, è tornato in carcere. L’indignazione
internazionale ha sinora ottenuto una sospensione della tortura, ma non delle altre due
pene: 10 anni di carcere e una multa di 1 milione di rial (circa 196mila euro). Quando un
commosso Martin Schulz chiede davanti all’emiciclo la sua liberazione, la standing ovation
dura a lungo. «Re Salman – afferma – conceda la grazia, rilasci subito e senza condizioni
Raif Badawi permettendogli di tornare alla sua famiglia». Un simbolo che l’Europa vuole
difendere per denunciare con lui tutti gli altri casi di detenzione per reati di opinione in
Arabia Saudita.
Schulz ricorda l’avvocato difensore del blogger, condannato a 15 anni per aver fondato
l’Osservatorio per i diritti umani e il giovane attivista Ali Mohammed Baqir al-Nimr,
condannato a morte e alla successiva crocifissione. «Nessun commercio di armi, nessun
introito legato al petrolio potrà esimerci dal lottare per i diritti umani», afferma Schulz che
assicura che si sta facendo tutto il possibile per liberare Raif. La trattativa deve restare
aperta, anche con il governo di Riad «perché solo con il dialogo si può ottenere un
risultato positivo». La speranza di una liberazione, la ribalta di Strasburgo, non appanna il
coraggio della denuncia: «Nelle società arabe il pensiero libero è blasfemo. La società del
mondo arabo vive sotto il giogo di un regime teocratico, i religiosi cercano di intimidire i
pensatori», dichiara davanti ai deputati Ensaf Haidar. Per questo suo marito marcisce in
prigione, anche se Raif «non è un criminale, è uno spirito libero, il suo crimine è essere
una voce libera nel Paese del pensiero unico».
La targa del Sakharov è su una sedia vuota. Nell’ultima frase la donna cita Raif: «A coloro
che augurano la morte, noi auguriamo la vita, a coloro che augurano l’ignoranza
auguriamo di tornare alla ragione». Ensaf è esile, magrissima dopo aver iniziato a
novembre lo sciopero della fame. Mentre lascia la sala stampa, chi l’accompagna
racconta: «Quando Raif riesce a parlarle al telefono, chiede solo e sempre una cosa: “I
bambini si ricordano ancora di me?”»
del 17/12/15, pag. 10
Lo smarrimento della République
17
Tempi presenti. La deriva securitaria e la sterzata a destra della Francia:
un percorso di letture, fra scrittori, antropologi e storici per interrogarsi
sulla crisi di senso dell'occidente
Guido Caldiron
Si potrebbe dire che il segno dei tempi l’hanno indicato proprio le sue parole. Per
commentare l’esito delle elezioni regionali francesi, Jean-Marie Le Pen non è ricorso a
nessun odioso gioco di parole antisemita, bensì a una citazione tratta da un bestseller.
Spiegando la sconfitta del Front National attraverso la retorica complottista che gli è
propria, il vecchio parà ha evocato il sorprendente afflusso ai seggi di certe banlieue piene
immigrati dove regna d’abitudine l’astensionismo, prima di concludere: «Non vorrei che nel
2017 si verificasse l’ipotesi avanzata da Houellebecq, vale a dire il debutto del governo del
presidente Mustapha».
Un riferimento esplicito a Sottomissione (Bompiani), romanzo-evento di quest’anno, in cui
è descritta la sfida per l’Eliseo nel 2022 tra Marine Le Pen e il candidato di un partito
islamista vicino ai Fratelli musulmani. Competizione che condurrà alla nomina del primo
presidente musulmano del paese anche grazie ai voti del «fronte repubblicano» costituito
dal centrodestra e dai socialisti. In altre parole, è alla fantapolitica di un romanzo di grande
successo che si è affidato il fondatore del Front National per analizzare la situazione del
suo paese. Forse perché, indipendentemente da ciò che si può pensare del talento
letterario di Michel Houellebecq, Sottomissione è prima di tutto un’illustrazione del modo in
cui una parte dei francesi guarda oggi al proprio paese.
La «resa» sociale
Accusato di islamofobia, sospetto che più passaggi del libro non aiutano certo a dissipare,
ma in realtà più interessato a criticare i vizi e la propensione al servilismo verso il potere
dell’ambiente accademico e intellettuale parigino, il pamphlet dell’autore di Le particelle
elementari tratteggia con le tinte della decadenza, della cialtroneria e della miseria umana
l’élite culturale e politica d’oltralpe. François, il protagonista del libro, è pronto a convertirsi
alla fede dei nuovi padroni pur di non rinunciare alla sua carriera universitaria. Se il
vecchio mondo in cui è cresciuto comincia a crollare, lui cerca una nuova sistemazione:
«L’idea sconvolgente e semplice, mai espressa con tanta forza prima di allora, che il
culmine della felicità umana consista nella sottomissione più assoluta».
L’idea che il problema non sia tanto «la forza dell’altro», quanto la propria intrinseca
debolezza, la crescente fragilità di un sistema sociale, culturale, di valori alimenta così
anche nelle pagine di Houellebecq quel tema del declino dell’Occidente con cui autori ben
più impegnati su questo fronte, su tutti Oriana Fallaci di La rabbia e l’orgoglio, hanno
inteso definire la cifra di una presunta «resa» del Vecchio continente di fronte al mondo.
Anche in Francia, Houellebecq è del resto tutt’altro che isolato, al punto che il suo nome è
stato spesso affiancato a quello di altri scrittori, intellettuali, polemisti e commentatori
radiofonici o televisivi che con le loro posizioni hanno dato corpo alla progressiva e
apparentemente inarrestabile droitisation del paese. Un fenomeno che si è espresso nei
consensi andati al Front National come nella lunga egemonia politica della destra
muscolare di Nicolas Sarkozy: non solo una crisi sociale perciò, ma anche una più
generale «crisi di senso» che riguarda settori sempre più vasti del paese.
Così, secondo lo storico Pierre Rosanvallon, è dalla fine degli anni Novanta che si è
assistito in Francia all’apparizione di «una nuova forma di pensiero illiberale». Non solo
una svolta politica a destra, ma qualcosa di più profondo. «La democrazia implica una
capacità permanente di fare autocritica, ha spiegato lo studioso, ma ciò che sta
emergendo ora oltrepassa questo quadro: si tratta di sentimenti molto più negativi che
costruiscono un’idea di declino, se non di vera e propria decadenza. Il pensiero critico e la
18
riflessione sulla modernità sembrano bloccati e la loro crisi alimenta ora questo
ripiegamento su una cultura ’di reazione’».
Proprio all’inizio di questa nuova fase, un giovane storico parigino, Daniel Lindenberg
aveva fissato una prima istantanea della vicenda in Le rappel à l’ordre. Enquete sur les
nouveaux réactionnaires (Seuil, 2002), un libro le cui analisi di fondo restano valide ancora
oggi. Lindenberg descriveva, infatti, la svolta «reazionaria» di un certo numero di
intellettuali provenienti dalla sinistra. Il tono e i contenuti delle critiche avanzate da costoro
nei confronti dell’eredità del ’68, della cultura dei diritti dell’uomo, del modello di
integrazione repubblicana, dell’antirazzismo, dell’Islam, del femminismo rappresentavano
agli occhi dello studioso «un superamento dell’orizzonte democratico, fino a sprofondare in
una deriva neoconservatrice se non apertamente reazionaria».
Il suicidio francese
Tra i nomi citati in quell’opera compariva già Houellebecq, al pari dello scrittore Maurice
Dantec ma anche sociologi come Pierre André Taguieff, filosofi come Marcel Gauchet o
Alain Finkielkraut, studiosi come Pierre Manent e una ex icona della cultura progressista
come Régis Debray. Al di là del loro percorso iniziale, questi intellettuali hanno finito per
esprimere la «nostalgia di una democrazia forte, dagli accenti eroici», se non ad auspicare
un vero e proprio «neo-populismo». Ma se la deriva di una parte dell’intelligentsia
sessantottina, passata per l’esperienza dei nouveaux philosophes, e approdata da una
sana critica del totalitarismo sovietico ad un incauto abbraccio con la «difesa
dell’Occidente», è simile a quella dei neoconservatori statunitensi, il tema delle nuove
sintesi tra destra e sinistra è rimasto una costante del contesto francese come ha ribadito
di recente l’antropologo Jean-Loup Amselle in Les nouveaux rouges-bruns (Lignes, 2014)
riflettendo sulle traiettorie di personaggi come Alain Soral e Dieudonné, ma analizzando in
seguito anche il posizionamento ambiguo del filosofo pop Michel Onfray.
La stessa vigilia del recente voto regionale è stata caratterizzata da un aspro dibattito sulle
pagine di Libération e Le Monde su quelle figure del mainstream intellettuale e mediatico
considerate responsabili di una piena legittimazione degli argomenti del Front National.
Personaggi ancora una volta diversi e apparentemente incompatibili, come il filosofo ex
gauchiste Alain Finkielkraut o il giornalista del quotidiano conservatore Le Figaro, Eric
Zemmour, autori rispettivamente di L’identità infelice (Guanda, 2013) e Le suicide français
(Albin Michel, 2014), libri, specie il secondo, divenuti dei veri casi editoriali, che
denunciano seppur con sfumature diverse l’annichilimento dell’identità della République
sotto i colpi del «politicamente corretto» e del relativismo culturale. Ancora una volta, la
crisi del paese è letta in termini di declino, di smarrimento identitario, di impoverimento dei
punti di riferimento tradizionali.
Una sorta di sinistra eco di quella rivolta intellettuale reazionaria descritta dallo storico
israeliano Zeev Sternhell in Contro l’Illuminismo (Baldini, 2007) che ha fatto coincidere da
sempre il trionfo della ragione con le fasi di decadenza di una civiltà: non una rivolta contro
la modernità, ma per un’altra idea di modernità, esente da «pericoli» come la democrazia,
la libertà, l’uguaglianza.
In una simile prospettiva, i voti per Marine Le Pen rischiano di rappresentare il classico
albero che cela una vasta foresta.
19
Da Avvenire del 17/12/15, pag. 14
Le esecuzioni sono in calo «Mai così poche in
24 anni»
Nel 2015 sono state 28, il 20% in meno dell’anno precedente.
Diminuiscono anche le sentenze capitali: meno 33%. Due terzi dei
detenuti messi a morte avevano disturbi psichici
WASHINGTON
Il dato è «storico»: nel 2015 ci sono state 28 esecuzioni. Parola della Death Penalty
Information Center (Dpic), uno dei principali centri di ricerca sulla pena di morte negli Stati
Uniti. Non si aveva un numero così ridotto dal 1991. Rispetto all’anno precedente, sono
state il 20 per cento in meno. E si sono concentrate in sei Stati, l’86 per cento, tuttavia,
sono avvenute in tre: Texas – con il dato più alto, 13 prigionieri messi a morte – Missouri –
sei –, Georgia, 5. Il resto – quattro – sono avvenute in Oklahoma, Florida e Virginia.
Anche le sentenze capitali comminate dai tribunali federali sono diminuite drasticamente.
Quest’anno sono state 49, il 33 per cento in meno rispetto al 2014, si legge nel rapporto
della Dpic. Non accadeva dagli anni Settanta. Per la prima volta in vent’anni, inoltre, il
numero di detenuti nel braccio della morte è sceso sotto le 3mila unità. A 70, la cui
esecuzione era stata programmata entro il 2015, è stato concesso un rinvio, una grazia o
una commutazione della pena. Sei condannati, infine, sono stati riconosciuti innocenti e
liberati. I numeri sembrerebbero mostrare un mutamento di tendenza. Confermata anche
dai più recenti sondaggi d’opinione: sempre più americani preferiscono altri tipi di pene.
«L’utilizzo della pena di morte si sta facendo sempre più raro. Sporadico. Non si tratta solo
di variazioni statistiche annuali ma di un più ampio cambiamento negli atteggiamenti nei
confronti della pena capitale», ha affermato Rovert Dunham, direttore della Dpic che ha
curato il rapporto. A ricorrere al boia sono ormai i tribunali di poche contee: meno del 2 per
cento del totale. Il record, in particolare, spetta a quella di Riverside, che ha emesso il 16
per cento dei verdetti di morte. Mentre, nuovi Stati hanno scelto di bandire le esecuzioni. Il
Nebraska le ha ufficialmente abolite, in Connecticut è stata la Corte Suprema a dichiararle
incostituzionali e la Pennsylvania ha dichiarato una moratoria.
In un panorama positivo resta, tuttavia, un particolare inquietante. Due terzi dei 28
prigionieri messi a morte mostrava sintomi di problemi mentali, disabilità psichiche o un
passato di forti traumi e abusi.
20
INTERNI
del 17/12/15, pag. 3
Più yacht, meno ricercatori
Università. Nella legge di stabilità c'è il taglio alle tasse sulle barche di
lusso, non il sussidio di disoccupazione Dis-Coll ai ricercatori precari
dell’università. Stanziate risorse per i 500 euro ai 18enni. Mai
riconoscere i diritti a chi lavora: questa è la legge. La protesta a
Montecitorio domani. Il coordinamento No Triv: «Ecco come il governo
sta sabotando i referendum contro le trivelle»
Roberto Ciccarelli
ROMA
Sono due le misure che, ad oggi, descrivono la legge di stabilità che il governo Renzi si
appresta a far votare al parlamento. Niente disoccupazione ai precari della ricerca, ma
intanto si elimina la supertassa sugli yacht (sopra i 14 metri) introdotta dal governo Monti.
Nel patchwork impazzito delle micro-misure contenute nella manovra che sarà discussa
da oggi alla Camera tutto è improvvisato, ma nulla è casuale.
Se il favore ai costruttori di barche di lusso è chiaro, più complessa è la valutazione della
bocciatura della possibilità di estendere la «Dis-Coll» agli assegnisti di ricerca senza
nemmeno esaminare l’ipotesi di ricomprendere dottorandi e borsisti e limitandosi a
prorogare l’istituto per il 2016. In primo luogo questa decisione contrasta con il presunto
spirito di «civilizzazione» esibito dal presidente del Consiglio Renzi nella lotta contro il
terrorismo.
Soldi ai consumi, non a chi lavora
All’indomani degli attentati sanguinosi di Parigi, il premier annunciò la famosa legge «un
euro sulla sicurezza, un euro sulla cultura». In questa partita rientrava la «mancetta
elettorale» ai 18enni nel 2016: 500 euro per andare al cinema, a teatro, ai musei. Soldi ai
«consumi», più che a coloro che quella cultura producono. È la legge che Renzi ha
seguito con gli 80 euro ai dipendenti fino a 26 mila euro di reddito (ora esteso alle forze
dell’ordine) o con i 500 euro ai docenti della scuola, sempre per i «consumi».
Mai sostenere chi lavora, (o chi ha perso il lavoro), meglio dirottare le risorse su chi
compra e dunque finanzia le imprese o le amministrazioni che usano eserciti di precari per
tenere aperti musei e tutto il circuito connesso nell’editoria di settore, ad esempio. Questo
impianto si è arricchito di un lieve incremento al Fondo integrativo per la concessione di
borse di studio che sale nel 2016 da 50 a 54,7 milioni (e altri 4,7 milioni nel 2017).
«Risorse assolutamente insufficienti per garantire la copertura totale delle borse di studio
e risolvere la drammatica situazione causata dai nuovi meccanismi di calcolo dell’Isee:
servono almeno altri 150 milioni per garantire la borsa di studio a tutti gli aventi diritto»
sostiene Alberto Campailla (Link).
Operazioni che non cancellano la realtà dei fatti: per chi studia, elabora saperi e,
addirittura, ne crea qualcuno non esiste alcuna forma di tutela. Il caso dei precari della
ricerca è paradigmatico: dottorandi e assegnisti, che versano i contributi alla gestione
separata Inps come tutti i parasubordinati e autonomi, non avranno il sussidio di
disoccupazione. Non sono lavoratori, sono studenti a vita. Ne è nato un caso: la «DisColl» infatti è stata rifinanziata, ma non per tutti i «cococò». Venerdì ci sarà anche una
protesta a Montecitorio organizzata da Flc-Cgil, i dottorandi dell’Adi, gli studenti di Link, i
21
ricercatori precari del Coordinamento dei Non strutturati e i ricercatori della Rete29Aprile.
In questi giorni ci sono presidi da Bari a Milano, da Padova a Roma e Torino.
La protesta viene da lontano: una petizione online ha raccolto 9 mila firme, sono state
inviate 2.750 mail alla Commissione Bilancio della Camera. Non è mai arrivata una
risposta. Il governo Renzi, e il Pd, la pensano come i baroni dell’università: i precari che
versano i loro contributi all’Inps sono controfigure che svolgono funzione da
soprammobile, mentre in realtà tengono in vita i corsi di laurea. Mai riconoscere diritti nel
basso impero renziano.
No Triv: Renzi sabota il referendum
Altro dettaglio che parla del tutto. Il coordinamento nazionale No Triv sostiene che il
governo «vuole sabotare il referendum» anti-trivelle. «Un autentico inganno» lo definisce il
movimento. Gli emendamenti presentati dal governo alla legge di stabilità ricalcano solo
apparentemente i quesiti referendari presentati dalle regioni. Le modifiche proposte
dall’esecutivo dissimulano «in modo subdolo» il rilancio delle attività petrolifere in
terraferma e in mare, e persino entro le 12 miglia marine, eludendo così gli obiettivi del
referendum.
I passaggi incriminati sarebbero quelli che si riferiscono all’abolizione del «piano delle
aree» e nella previsione per cui si fanno salvi tutti i procedimenti collegati a titoli abilitativi
già rilasciati» all’entrata in vigore della manovra nel 2016. «Un mix esplosivo — così viene
definito — L’obiettivo è mantenere in vita tutti i procedimenti in corso entro le 12 miglia
marine». «Questi emendamenti sono un sabotaggio e uno schiaffo alla democrazia del
nostro paese».
Del 17/12/2015, pag. 2
La Corte costituzionale
Eletti i tre nuovi giudici dopo trentadue
scrutini il Pd scarica Forza Italia accordo con
i grillini
Barbera, Modugno e Prosperetti alla Corte
Il candidato dei dem è stato il meno votato
SILVIO BUZZANCA
ROMA.
Finalmente senatori e deputati ce l’hanno fatta: sono riusciti ad eleggere i tre giudici della
Corte costituzionale che mancavano da tempo. I nuovi membri della Consulta sono;
Franco Modugno, indicato dai grillini ed eletto con 609 voti; Giulio Prosperetti, scelto dai
centristi con 585 voti; Augusto Barbera, indicato dal Pd, nominato con 581 voti. Dieci in più
del quorum richiesto di 571 . La grande novità di questo giro di nomine è invece tutta
politica: Matteo Renzi e il Pd, infatti, hanno tagliato fuori dalla decisione Forza Italia e
Silvio Berlusconi e hanno stretto un accordo con il Movimento Cinque Stelle. Una scelta
che sembra il colpo definitivo al Patto del Nazareno e a possibili convergenze fra
democratici e forzisti. La novità che avrebbe convinto Renzi a rompere gli ormeggi e
abbandonare Berlusconi al suo destino sarebbe stato il violento scontro sulle scelte di
politica estera che si è verificato ieri mattina in aula con Renato Brunetta. Il capogruppo
forzista, infatti, ha attaccato duramente nel suo intervento il premier, chiamandolo più di
una volta in causa.
22
Renzi non ha gradito e nella replica ha reagito duramente. Lo scenario si è ripetuto anche
con i grillini. Ma dem e pentastellati stavano tessendo un accordo che aveva come base
l’esclusione del candidato forzista Francesco Paolo Sisto, ritenuto troppo legato alla
stagione delle legge ad personam berlusconiane. E quando l’area centrista, fino ad oggi
divisa, ha raggiunto un accordo sul nome di Giulio Prosperetti, tutte le tessere sono andate
al loro posto. Naturalmente l’esclusione di Forza Italia non ha reso felice Berlusconi. «Dico
solo che è molto grave che la Consulta non abbia al suo interno nemmeno un giudice che
sia del centrodestra, che oggi tra gli elettori è la componente più importante. Èuna cosa
grave». Ma nella decisione di Renzi hanno pesato anche le divisioni interne a Forza Italia,
incapace negli ultimi due anni di scegliere un candidato condiviso da tutto il gruppo. Un
clima di scontro interno che ha bruciato un bel po’ di candidati alla sostituzione di
Mazzella, l’ultimo giudice indicato da Forza Italia. Un risultato devastante per i forzisti che
adesso mettono sotto accusa la conduzione del gruppo di Brunetta. Ci sono volute
comunque 32 votazioni per un giudice, 10 per i secondo e 5 per il terzo. Un copione già
visto in passato. Per esempio nel 2002, quando Marco Pannella condusse un lungo
sciopero della sete per convincere il Parlamento a scegliere un membro della Consulta. E
anche in questa occasione i radicali hanno accompagnato le faticose nomine con le loro
proteste.
Del 17/12/2015, pag. 4
Ecco cosa cambierà dentro la Consulta su
Italicum e Severino
Modificati gli equilibri dentro la Corte. I rapporti di forza si misureranno
soprattutto sulla legge elettorale
LIANA MILELLA
Finalmente, alla Consulta, i giudici potranno stare a casa per un raffreddore. Finisce
l’incubo della presenza obbligatoria che ha impensierito per mesi il presidente Alessandro
Criscuolo, creando più di un pettegolezzo sulla salute delle alte toghe. Ricostituito il
plenum, si guarda con meno preoccupazione alle questioni già in programma per i
prossimi mesi, dalla legge Severino che torna per il governatore De Luca, alle pensioni,
alla sorte degli embrioni scartati, per finire con la questione più importante, il test sulla
costituzionalità dell’Italicum. Sia che Felice Besostri convinca qualche tribunale a spedirlo
alla Corte nei prossimi mesi, sia che giunga per l’ordinaria e prevista verifica alla sua
entrata in vigore a fine anno, la nuova legge elettorale sarà la cartina dei nuovi equilibri
alla Consulta. Ma eletti i nuovi giudici, la Corte è diventata più di sinistra o, come lamenta
Berlusconi, non ha neppure un rappresentante della destra? Innanzitutto un fatto è certo,
un giudice designato dalla destra, proprio dall’allora Pdl, c’è, ed è l’avvocato di Brescia
Giuseppe Frigo, il famoso legale del sequestro Soffiantini. Come certamente fa capo alla
destra Nicolò Zanon, costituzionalista milanese scelto da Napolitano l’anno scorso,
appena uscito dal Csm, dove a mandarlo era stato il Pdl. Lo descrivono in sintonia con gli
alfaniani, e certo Zanon, nelle sue uscite pubbliche, non ha mai nascosto le sue idee
conservatrici. Corte di destra o di sinistra allora? Innanzitutto una Corte che, fino
all’autunno del 2017 resterà uguale a se stessa. Perché solo tra ottobre e novembre del
2017 sono previste le uscite del presidente Criscuolo, magistrato eletto dalla Cassazione,
area Unicost, e di Frigo. Dunque è possibile incrociare i nomi dei giudici con le questioni
più rilevanti da decidere per capire se il premier Renzi, come in passato ha tuonato
23
Berlusconi, deve temere le mosse della Corte. Proprio la necessità di mandare lì uomini
fidati in vista dello scontro sull’Italicum ha bloccato per mesi le tre nomine, ha portato il Pd
a fare quadrato sul costituzionalista Augusto Barbera, che ha difeso la riforma Boschi e la
legge elettorale e viene considerato l’uomo che prenderà posizione a favore del governo
contro chi, all’opposto, si prefigge di affondare Italicum e riforma costituzionale. Ma
Barbera dovrà certamente vedersela con Giuliano Amato, il dottor Sottile che certo, dopo
lo stop di Renzi per il Colle, non è animato da buoni sentimenti verso il premier. Tant’è che
gli viene attribuita la regia che, a maggio scorso, ha portato la Corte a schierarsi contro il
governo sulle pensioni, mettendo Padoan e lo stesso Renzi in grave difficoltà. Peraltro, a
firmare la sentenza è stata la giuslavorista Silvana Sciarra, votata proprio dal Pd.
Ad oggi, all’area di sinistra, si può accreditare, con la Sciarra, anche il giudice Daria de
Pretis (sua la sentenza che ha promosso la legge Severino), moglie dell’ex deputato Pd e
ora direttore generale dell’Olaf Gianni Kessler, nominata anche da lei da Napolitano. La
storia e gli scritti del neo eletto Franco Modugno, primo giudice che entra alla Corte per
M5S, lasciano immaginare che certo le sue opzioni saranno progressiste. Come,
all’opposto, saranno influenzate dall’ideologia cattolica quelle di Giulio Prosperetti, il
professore che ha lavorato con Leopoldo Elia e Gino Giugni, ma è anche giudice d’appello
in Vaticano nonché sensibile alla politica di Confindustria.
Maggioranze e minoranze, ovviamente, saranno diverse sulle singole questioni, ma c’è da
giurare che Prosperetti, sugli embrioni, si farà portavoce delle tesi cattoliche. Sarà attento
agli equilibri «da contemperare», come ama dire, il presidente Criscuolo, com’è scontato
che da giudici come Paolo Grossi, un conservatore liberale, l’ex Corte dei conti Aldo
Carosi, il consigliere di Cassazione Mario Morelli e l’ex presidente del Consiglio di Stato
Giancarlo Coraggio, arriveranno interpretazioni centriste. Al piccolo drappello della sinistra
si può iscrivere il penalista Giorgio Lattanzi, ex Cassazione, mentre si muove con grande
cautela Marta Cartabia, un’allieva di Valerio Onida, portata da Napolitano, che potrebbe
diventare in futuro la prima presidente donna della Consulta.
del 17/12/15, pag. 5
Le primarie restano a tre e Sala ha il vento in
poppa
Milano. L'assessore al welfare della giunta Pisapia non ha alcuna
intenzione di farsi da parte per favorire la corsa della prescelta dal
sindaco Francesca Balzani. Se le primarie resteranno a tre, la vittoria
del manager Giuseppe Sala è pressoché certa. I tormenti di Sel che è
tentata di abbandonare la partita
Luca Fazio
Questo Pierfrancesco Majorino, però! Per ora, la premessa è d’obbligo considerati i molti
colpetti di scena di cui si mormora attorno a Palazzo Marino, è lui la vera sorpresa di
queste infinite primarie milanesi. Di più. L’assessore al welfare della giunta arancione del
“modello Milano” che fu, oltre ad essere giocatore di primissimo piano (è anche il primo e
l’unico ad essersi candidato) è diventato anche arbitro della partita. Altro che Giuliano
Pisapia. Decidendo di non ritirarsi per favorire la preferita del sindaco (la vice sindaco
Francesca Balzani), di fatto Majorino garantirà la vittoria del manager Giuseppe Sala.
24
Almeno stando ai sondaggi. La solita spaccatura “a sinistra”, si dice. Ma l’assessore ribelle
non si dà per vinto.
Un pazzo autolesionista? Non è detto. Majorino ha deciso di tenere duro con coerenza
senza cedere alle suppliche di quasi tutti i suoi sostenitori della prima ora che adesso non
vedono l’ora di mollarlo per sostenere il presunto cavallo vincente scelto dal sindaco; e
sarebbe questa la mossa geniale per dare continuità ad una esperienza che non c’è più. A
proposito di “continuità” ed altre virtù: cosa ci sarebbe mai da salvaguardare se già 7
assessori su 12 della giunta arancione si sono schierati con Giuseppe Sala? Inoltre,
decidendo di non farsi da parte, Majorino si è ritrovato solo contro tutti continuando a
coltivare relazioni sul territorio mentre altri più titolati di lui si sono persi per strada
elaborando strategie perdenti — e questo può giovare alla sua immagine di puro senza
compromessi e fuori dai giochetti di palazzo. Se questo è il quadro, se davvero Majorino e
Balzani si spartiranno i voti di queste primarie del Pd, il 7 febbraio potrebbe essere la
Waterloo di Pisapia.
La vice sindaca, che ogni giorno incrocia il suo assessore “ribelle”, sta ancora maturando
la decisione ma ormai sembra destinata a vestire i panni della prescelta da Pisapia, un
appoggio che in un’altra situazione sarebbe risultato sufficiente per battere il candidato
scelto da Matteo Renzi (si sa che a sinistra il sindaco gode ancora di grande credito). Per
ora, infatti, a nessuno è ancora venuto in mente che in nome dell’unità il “terzo incomodo”
potrebbe essere proprio lei e non il bistrattato Majorino. Quanto al manager col vento in
poppa destinato a raccogliere i cocci del centrosinistra, sta già incontrando la Milano che
conta e gode sempre di ottima stampa, anche se va dicendo in giro di essere (addirittura)
“di sinistra”. Ma è il candidato Majorino che continua ad avanzare come un trattore. Non
passa mezz’ora senza un rilancio su facebook: “Credo che le primarie siano una grande
occasione di partecipazione libera, trasparente. Per questo voglio, al contrario di quel che
avviene di solito, presentare la mia squadra ideale, la giunta che vorrei, prima del 7
febbraio. Perché dobbiamo togliere dalle stanzette e dai salotti il confronto sul futuro di
Milano (e ovviamente della mia squadra ideale non farebbero parte solo persone che mi
sostengono, poiché la scommessa è di tutto il centrosinistra)”. I fan si esaltano.
Per contro (i due non si amano), il sindaco Pisapia si limita a rilasciare dichiarazioni di
circostanza, anche se l’operazione Balzani in parte è già fallita: “L’ho detto più volte,
ognuno deve fare le sue scelte, è proprio questa la bellezza delle primarie. Ognuno è
libero di esprimere le proprie idee e le proprie opinioni, quello che è importante è che,
superate le primarie, si starà tutti insieme a lavorare per continuare un’esperienza che è
stata importante per la città”. Tutti felici e contenti come nelle favole, insomma, ma insieme
forse è una parola grossa. Soprattutto per Sel che aveva puntato su un candidato (e
adesso se ne ritrova due) per sopravvivere a Palazzo Marino nonostante la mutazione
genetica del Pd. Partecipare per perdere significherebbe essere costretti ad appoggiare
Sala, davvero una brutta fine. Sfilarsi all’ultimo minuto, invece, significherebbe fare un
salto nel voto il cui approdo è lontano da Palazzo Marino. “Io spero che non rompa la
coalizione — ha detto Pisapia — sono convinto che si debba andare avanti con il popolo di
centrosinistra allargato al civismo e a tutti i soggetti con cui abbiamo collaborato in questi
anni”. Sono tormenti. Si accettano scommesse. I bookmaker, che contano come i
sondaggi, dicono che Sel resterà aggrappata fino alla fine al prode Majorino. Nonostante
tutto, nonostante Sala.
25
Del 17/12/2015, pag. 2
Il doppio forno di Renzi: “Su alcuni temi si
dialoga con l’M5S”
GOFFREDO DE MARCHIS
IL RETROSCENA
Matteo Renzi ha preso atto della vittoria dei falchi sulle colombe dentro Forza Italia e la
mozione di sfiducia al governo ha certificato un dato di fatto. «Con Berlusconi non si
possono fare più accordi. E’ incapace di tenere uniti i suoi. Se la loro linea è quella di
scimmiottare Grillo e Salvini, allora tanto vale fare l’accordo con i Cinque Stelle», è stato il
ragionamento del premier. Il minimo comun denominatore, quando gli azzurri lo trovano,
ricalca semmai la linea Brunetta, cioè lo scontro frontale con il governo. Così è nato il
cambio di rotta, che ironicamente il leader pd definisce il «Risveglio della forza ». Ne ha
parlato con il capogruppo Ettore Rosato, regista delle operazioni in Parlamento. «All’ultima
votazione il 20 per cento dei deputati di Forza Italia non si è nemmeno presentato in aula ha spiegato Renzi ai suoi collaboratori -. Senza contare quanti di loro hanno sabotato
l’intesa». Era impossibile non mutare strategia. Tanto più con la benedizione di Sergio
Mattarella, sempre più preoccupato dallo stallo sull’elezione di ben tre giudici
costituzionali. A quel punto Renzi ha persino usato la mozione di sfiducia individuale
presentata dai grillini contro Maria Elena Boschi e ha provato a girarla a suo favore.
«Secondo me, questo è il momento giusto per fare un accordo con Grillo». Perchè i grillini
avranno subto l’occasione di evitare la trappola dell’inciucio. «Loro hanno la mozione su
Maria Elena. Possono fare casino lì. Ma adesso conta portare a casa i giudici».
Aproffitare dell’attimo, dunque, senza farsi illusioni su collaborazioni future. E’ vero che
l’ala dialogante del Movimento 5stelle era la più soddisfatta dell’accordo e come notava un
deputato del Movimento Luigi Di Maio in Transatlantico «camminava a un metro da terra».
Ma il patto della Consulta non avrà un seguito. Anzi, la prossima settimana sarà di nuovo
battaglia sul caso della Banca Etruria. Anche se a Palazzo Chigi contano di tornare a
parlare con il Movimento: sulle unioni civili e sulla riforma delle banche, ad esempio.
L’altissima quota di 570 voti necessari a eleggere i futuri membri della Consulta aveva
bisogno di un accordo blindato. L’ideale sarebbe stato un patto con tutti, Forza Italia
compresa come è avvenuto per la precedente elezione del giudice Sciarra. Ma Berlusconi
non ha più lo stesso controllo dei gruppi parlamentari. «Siamo tornati allo schema iniziale», spiega Ettore Rosato. Due settimane fa il Pd aveva proposto ai grillini il patto che
va inscena adesso: Augusto Barbera, Franco Modugno e un centrista. Grillo e Casaleggio
risposero di no affidando ai “portavoce” un coro di insulti per il professore Pd. In via
riservata questo schema era stato presentato anche al Quirinale. E Mattarella aveva
espresso il suo totale gradimento per una soluzione simile. Dunque si è tornati lì.
Certo, salta l’elezione di tre giudici favorevoli, in maniera palese e addirittura tifosa,
all’Italicum, la legge elettorale che passerà al vaglio della Consulta. Sisto, il candidato di
ForzaItalia tagliato fuori ieri, aveva votato la norma, era un sostenitore del patto del
Nazareno, fatto salvo il ripensamento condiviso con i suoi colleghi dopo la rottira di
Berlusconi. Insomma, l’idea di 3 voti sicuri per l’Italicum nel Palazzo della Consulta, è stata
giocoforza accantonata. Ma rimane vivo il nome di Barbera, che dei tre è sempre stato il
sostenitore maggiore della legge elettorale. E si sblocca una situazione che lo stesso
Renzi ha definito «una figura di m...». Dice il leader della minoranza Roberto Speranza:
«Avrei preferito tenere dentro tutti, Con la Sciarra ci siamo riusciti. Ma va bene anche così.
E noi della sinistra non abbiamo mai fatto mancare i voti a a Barbera che non a caso è
26
andato vicinissimo al quorum fermandosi a 546 voti». I dubbi dei dissidenti rimangono per
la sovraesposizione del professore bolognese sulla legge elettorale che una parte del Pd
non ha votato e che ha creato lo strappo di alcuni fuoriusciti. Ma anche nel cerchio stretto
dei renziani non sono emersi dubbi sul comportamento in aula dei bersaniani. Alla fine
Renzi non è stato obbligato a bruciare Barbera e il Pd ha ingoiato Modugno.
Alla conferenza dei capigruppo si è deciso intanto di votare al più presto la mozione di
sfiducia contro la Boschi. Tre giorni dalla presentazione del testo 5stelle. Sabato sarebbe
già il giorno giusto ma si andrà alla prossima settimana, comunque prima di Natale. Una
soluzione che va bene a Renzi, il quale è convinto che un «atto politico» allenterà la
tensione, al netto dell’inchiesta giudiziaria. E va bene ai presentatori grillini che avranno a
brevissimo la possibilità di tornare all’attacco dell’esecutivo.
Si apre invece una stagione diversa nei rapporti con Forza Italia. Della quale si sente la
eco nella campagna per le amministrative. Berlusconi si è deciso a giocarsela puntando
forte su Marchini a Roma e su Del Debbio a Milano, candidati in grado di dare fastidio agli
avversari del Pd. E’ la linea dura scelta del Cavaliere, un asse con Matteo Salvini e
Giorgia Meloni che servirà ad arrivare compatti al voto comunale sperando nelle divisioni a
sinistra. Com’è successo in Liguria dove adesso siede il governatore Giovanni Toti.
del 17/12/15, pag. 5
Nessuna ’disciplina repubblicana’ ci salverà
Italicum e voto francese. I commentatori renziani non si accorgono che
il modello francese fallito è il nostro, in presenza di un marcato
tripolarismo
Mauro Volpi
Chi voglia compiere un’analisi seria delle elezioni regionali francesi non può certo
cavarsela con una valutazione limitata alla ingegneria elettorale. Le questioni di fondo che
il voto ha segnalato sono ben altre.
In primo luogo è causa non secondaria della crescita del Front National lo smarrimento
della identità della sinistra al governo, come dimostra il fatto che il più consistente
aumento elettorale il Fn l’ha ottenuto in Regioni, come quelle del Nord Est, che erano in
passato feudi della sinistra. In secondo luogo l’esito del voto dimostra quanto sia inutile e
controproducente rincorrere l’estrema destra sul suo terreno, securitario e muscolare.
Infine vi è non da oggi una crisi del sistema politico-istituzionale che è dimostrata dalla
crescente insofferenza dei cittadini per la politica e dal distacco nei confronti delle
istituzioni, sempre meno in grado di contenere le spinte populistiche, eversive e xenofobe.
Ciononostante nessuna seria riflessione sulla Quinta Repubblica viene compiuta da parte
dei commentatori che in Italia sono stati da anni in prima fila nel sostenere riforme
istituzionali alla francese o comunque basate sull’elezione popolare del capo
dell’esecutivo. Ma vi è di più: i sostenitori del modello “italico” tentano di piegare
l’interpretazione delle elezioni regionali francesi alla esaltazione dell’Italicum e delle virtù di
«un sistema maggioritario di lista a due turni» (così D’Alimonte ne Il Sole 24 Ore del 15
dicembre scorso), che garantirebbe al secondo turno un aumento della partecipazione
elettorale come quello che si è verificato in Francia. Intanto fra il sistema elettorale
regionale francese e l’Italicum vi sono nette differenze. Nel primo è richiesta al primo turno
la maggioranza assoluta dei voti per ottenere il premio (pari a un quarto dei seggi
complessivi). Se per le elezioni regionali francesi si fosse applicato un sistema tipo
27
Italicum, il Fn avrebbe vinto e ottenuto il premio in due Regioni (Nord-Pas de CalaisPicardie e Provence-Alpes– Côte d’Azur), nelle quali ha superato al primo turno il 40 per
cento dei voti e sarebbe andato al ballottaggio in altre cinque Regioni, in quattro delle quali
sarebbe stato eliminato il candidato socialista.
Ancora: in Francia al secondo turno sono ammesse non solo le prime due liste ma tutte
quelle che superino il 10 per cento dei voti, il che ha determinato in tutte le Regioni, tranne
nelle due in cui il partito socialista ha ritirato volontariamente i propri candidati,
competizioni almeno triangolari al secondo turno. Ne consegue che gli apparentamenti fra
i partiti in vista del secondo turno non solo non sono vietati come nell’Italicum, ma
costituiscono la normalità e si sono verificati sia nella destra repubblicana sia nella sinistra.
Infine vi è una differenza sostanziale di natura politica; in Francia la “disciplina
repubblicana” ha impedito al Fn di vincere in due Regioni. Anche se tale principio mostra
la corda, essendo ormai rifiutato da Sarkozy e praticato unilateralmente sotto forma di
desistenza soltanto dai socialisti, comunque è ancora condiviso da un buon numero di
elettori e ciò spiega l’aumento dei partecipanti al voto al secondo turno. Al contrario in
Italia non può esservi nessuna “disciplina repubblicana” in presenza di una destra, fondata
sull’alleanza tra Forza Italia da un lato e Lega e Fratelli d’Italia (con il codazzo dei fascisti
di Casa Pound) dall’altro.
Di conseguenza è difficile che al secondo turno si avrebbe un aumento della
partecipazione al voto, essendo al contrario più probabile che una parte di quelli che
hanno votato al primo turno per la terza lista esclusa dalla competizione elettorale si
rifugino nell’astensione.
D’Alimonte opera anche una comparazione tra l’Italicum e il sistema praticato in Francia
per l’elezione dell’Assemblea nazionale. La tesi è che con il maggioritario a doppio turno in
collegi uninominali il Fn otterrebbe «una manciata di seggi», mentre con l’Italicum avrebbe
una rappresentanza più equa. Ora, è innegabile che il sistema elettorale francese può
produrre un effetto altamente distorsivo della volontà popolare, ma cosa c’è di più
distorsivo e antidemocratico di un sistema come l’Italicum che al secondo turno taglia fuori
una terza lista che potrebbe ottenere tra il 25 e il 30 per cento dei voti? E poi è vero che
nelle elezioni del 2012 il FN ha ottenuto solo due seggi, ma con il 13,6 per cento dei voti.
Ora veleggia verso il 30, il che significa che i suoi candidati andrebbero al secondo turno
nella grandissima maggioranza dei collegi e una parte di loro non esigua potrebbe vincere
il seggio, non essendo immaginabile, se non a prezzo di un suicidio politico, che il partito
socialista possa ritirare i suoi candidati in tutti i collegi in cui quelli del Fn siano in testa.
A fronte dei contorsionismi intellettuali dei commentatori di fede renziana, pare utile
segnalare la maggiore consapevolezza di importanti politologi francesi nel sottolineare la
crisi di un sistema elettorale che non trova più corrispondenza nella realtà. In particolare
Yves Mény (intervistato da La Repubblica il 7 dicembre) ha dipinto la situazione nei
seguenti termini: «Il sistema francese è diventato sociologicamente tripolare, ma con
meccanismi elettorali che sono ancora quelli del bipolarismo. La stabilità politica della
Quinta Repubblica è fatta con artifici elettorali. Ci deve essere sempre un solo vincitore,
che ha la maggioranza assoluta e tutti i poteri».
Ebbene, è l’esatta raffigurazione di un modello che in Francia non funziona più e viene
oggi riproposto in Italia, in presenza di un sistema politico marcatamente tripolare, dal
combinato disposto tra legge elettorale, che deve assicurare che vi sia un vincitore «la
sera stessa delle elezioni» grazie all’attribuzione di un premio abnorme e di un ballottaggio
che distorce la volontà popolare, e controriforma costituzionale che attribuirebbe una
somma enorme di poteri alla maggioranza artificiale dell’unica Camera che conta e al suo
leader, indebolendo i contrappesi istituzionali e gli istituti di garanzia.
28
Del 17/12/2015, pag. 15
Berlusconi, idea Vespa per Roma
All’insaputa del giornalista l’ex premier fa testare nei sondaggi la sua
candidatura a sindaco Incontro con Parisi per Milano, ma lui resiste.
L’apertura a Della Valle: “Magari facesse le scarpe a Renzi”
CARMELO LOPAPA
Nell’ora buona di domanda e risposta sotto i riflettori e le telecamere della tradizionale
presentazione del libro di Bruno Vespa, Silvio Berlusconi si è guardato bene dal
raccontare al giornalista-scrittore quel che ha rivelato 24 ore prima a Matteo Salvini e
Giorgia Meloni. Ovvero che nella disperata caccia a un candidato per Roma, il suo pallino
si è fermato proprio sul conduttore di Porta a Porta.
«Lo sto facendo testare dai sondaggi - ha spiegato ai due leader di Lega e Fdi ricevuti ad
Arcore martedì sera - Sarebbe un’ottima soluzione, se lui accettasse». Già, perché, come
ha rivelato il Cavaliere, il diretto interessato non sarebbe stato nemmeno informato. Vespa
- inconsapevole davvero o meno - una domanda su come finirà a Roma e Milano l’ha pure
piazzata, al Tempio di Adriano. Con vaga risposta del leader di Forza Italia: «Decideremo
nei primi mesi del 2016». Se è per questo, Berlusconi ha raccontato ai due giovani leader
di centrodestra che sta facendo testare sempre per la Capitale anche il generale Leonardo
Gallitelli, comandante generale dei Carabinieri dal 2009 al gennaio di quest’anno. E
questo dà la misura dell’impasse in cui è impantanato il centrodestra. La Meloni ha ribadito
l’altra sera a cena che lei preferirebbe non correre, compirebbe il passo solo se
«costretta» dall’assenza di qualsiasi alternativa. Ma ancora una volta ha confermato il veto
irremovibile su Alfio Marchini. E tanto è bastato - raccontano anche da fonti forziste - per
far archiviare una volta per tutte la candidatura dell’imprenditore che pure tanto piaceva
all’ex premier: «È troppo divisivo». Quanto a Milano, Berlusconi a Vespa rivela di avere in
programma «in settimana un incontro con Stefano Parisi, che è stato city manager che
consigliammo ad Albertini». Figura non di grande notorietà che, a quanto sembra, avrebbe
in realtà già declinato l’offerta. Il leader forzista tornerà alla carica. E intanto stronca di
fatto (e in pubblico) la candidatura di Alessandro Sallusti: «Con grande generosità si è
messo a disposizione, ma ha anche esplicitato che la sua disponibilità può essere ritirata
ove trovassimo un candidato che ritenessimo capace di vincere». Come dire: lui non lo è.
Ma tra la consueta accusa a Giorgio Napolitano («Mi impose lui ne 2011 le dimissioni») e
l’attacco a Renzi («Non siamo in democrazia, suo governo illegittimo, fossi in Mattarella
scioglierei le Camere»), il leader di Forza Italia si è lanciato in un endorsement più spinto
del solito in favore dell’imprenditore Diego Della Valle. Confermando le voci che vogliono
Berlusconi sempre più tentato dal sostenere la «discesa in campo». «Sceglieremo il
candidato premier con un accordo o con primarie molto regolamentate - è la premessa
non scontata - Della Valle? Non posso designarlo solo io, ma non è certo un avversario.
Magari scendesse in campo e facesse le scarpe alla sinistra». E giù applausi della claque
di una sala, che pure non è più quella gremitissima degli anni d’oro. Berlusconi ad ogni
modo c’è, con lui bisognerà fare i conti. «Ma prenderò una decisione sul mio ruolo quando
la corte di Strasburgo darà la sentenza sulla corte di Cassazione».
29
del 17/12/15, pag. 1/4
Se la storia si ripete
Licio Gelli. Il referente più importante della destra americana dopo la
Liberazione. Quel giorno del 1988 a Villa Wanda, quando il Venerabile
negava i rapporti con la banda neofascista di Tuti
Sandra Bonsanti
Era il 27 dicembre del 1947 e a Palazzo Giustiniani Enrico De Nicola, firma la Costituzione
italiana. Accanto a lui, in piedi, Alcide De Gasperi e, fra i due, un giovane di 25 anni con
una cartella in mano che contiene una copia della nostra Carta. E’, senza forse, il
momento più sacro della nostra nascita come Repubblica democratica. Ma il giovane che
assiste si chiama Francesco Cosentino, si iscriverà presto alla loggia P2 e con Licio Gelli,
una decina di anni dopo la firma solenne di De Nicola, contribuirà alla stesura del “Piano di
Rinascita”, documento programmatico della loggia segreta.
Ho sottoposto quella foto che compare su tutti i libri di storia a chi allora conobbe
Cosentino: non c’è alcun dubbio, è proprio lui. Ed è questo un particolare tanto inquietante
quanto sconosciuto e per niente studiato. Oggi che cerchiamo di fare bilanci sulla P2 io
non ho ancora risposte. Se non quella che sin dall’inizio della nostra Repubblica c’era
qualcosa che già si agitava nel sottobosco della politica. Tra i sostenitori della
Costituzione, c’era già chi era pronto a tradirla con un progetto di «rivitalizzazione del
sistema» e ritocchi costituzionali «successivi al restauro delle istituzioni fondamentali».
Questa foto che un giorno mi rendeva tanto fiera, mi pare oggi violentata dal dubbio. Non
credo che la commissione P2 abbia sottolineato questo aspetto, ma forse non conosco
tutti gli atti prodotti. In sostanza si potrebbe dire che la Repubblica italiana nacque già
insidiata dall’interno, da subito. E alla luce di tutto il resto che sappiamo ormai della loggia
di Gelli, dei progetti del Venerabile e dei suoi fratelli, verrebbe da concludere che non
poteva che andare così, negli anni. E cioè il crearsi e il perpetrarsi di quella malattia che
Norberto Bobbio aveva individuato dai primi giorni della scoperta degli elenchi: «Ciò che in
un regime democratico è assolutamente inammissibile è l’esistenza di un potere invisibile,
che agisce accanto a quello dello Stato, insieme dentro e contro, sotto certi aspetti
concorrente, sotto altri connivente, che si avvale del segreto non proprio per abbatterlo ma
neppure per servirlo. Se ne vale principalmente per aggirare o violare impunemente le
leggi».
Come può difendersi la Repubblica? Si domandava Bobbio. E la sua era come sempre
una risposta geniale: «L’unico modo di difendere le istituzioni democratiche è quello di fare
quadrato attorno a coloro che non hanno mai avuto la tentazione di sprofondare nel
sottosuolo per non farsi riconoscere. Sono molti, per fortuna, ma devono avere il coraggio
ed agire di conseguenza».
Mi occupavo di lui da quindici anni almeno, ma non lo avevo mai visto né sentito.
Dall’aprile del 1981, quando scoppiò la vicenda P2, era stato sempre in fuga o in prigione.
Dunque, quel 21 aprile del 1988 eravamo i primi ad incontrarlo a Villa Wanda: dico noi
perché erano due fotografi del Venerdì di Repubblica ad avere un appuntamento per un
servizio. Io ero una sorpresa. Lasciai la redazione romana con Giampaolo Pansa che mi
raccomandava: «Chiamalo Commendatore..!».
Disubbidii subito rivolgendomi a lui con un sonoro e quasi insultante «signor Gelli». «Ho
bagnato di lacrime i suoi articoli», mi disse appena mi presentai. Mi accusava di non aver
mai dato la sua versione dei fatti e io gli rispondevo forse un po’ aggressiva: «Ma lei
perché è scappato? Di cosa aveva paura?».
30
Più trascorre il tempo e più mi rendo conto di quanta parte di storia italiana sia passata per
Villa Wanda. E ora che lui è morto e Arezzo è diventata improvvisamente la città al centro
della polemica politica italiana e si cerca di fare dei bilanci, non resta che ammettere una
cosa molto semplice: Licio Gelli è stato il referente più importante degli accordi firmati
all’indomani della Liberazione tra gli americani e gli alleati italiani.
L’Italia doveva assicurare una obbediente e efficace difesa dal blocco sovietico e
soprattutto che il Pci fosse tenuto lontano dal governo del Paese. Gelli è stato l’alleato più
fedele della destra americana e dei suoi servizi segreti. Questo ha comportato l’essere a
conoscenza delle vicende più inquietanti e drammatiche della strategia della tensione e
anche conoscere e proteggere alcuni responsabili di quei fatti. Inoltre Gelli ha avuto una
conoscenza più che diretta di quali personaggi politici italiani sapessero e tacessero. Con
ognuno di loro ha avuto per tanti decenni una sorta di patto del silenzio.
Comunque in quel colloquio mi resi conto che non avrebbe mai smentito la conoscenza
dei capi politici della Dc, ma gli unici personaggi da cui era interessato a prendere le
distanze erano i neofascisti toscani delle cellule di Mario Tuti e di Arezzo, che lui aveva
invece incoraggiato e finanziato. Badava a ripetere: «Ma le pare che io che ho convocato
tre generali dei carabinieri qui a casa mia, avrei perso del tempo con quei ragazzi?».
Ci si chiede in queste ore se sia veramente finita: se la storia della P2 si chiuda qua
oppure no, se ci sia dell’altro, e altri personaggi ancora sconosciuti. Finita mi pare che non
sia. Tanto più che ex piduisti, alcuni dei quali molto vicini al Venerabile, sono ancora vivi e
vegeti e attivissimi. C’è ad esempio Luigi Bisignani che, giovane giornalista dell’Ansa
andava ogni mattina all’hotel Excelsior a fare la rassegna stampa al Venerabile. Ci sono
gli epigoni di quella “banda della Magliana”, incrocio fra servizi segreti e criminalità
comune che vennero agli onori della cronaca con la fuga a Londra e la morte sotto il Ponte
dei Frati Neri del banchiere piduista Roberto Calvi e che oggi spiccano nei racconti di
Roma Capitale. E c’è la strana storia del generale Mario Mori che in uno dei processi
siciliani per la trattativa tra Stato e Mafia è stato indicato come uno che reclutava adepti
per la loggia P2.
Infine, difficile negare che restano in piedi alcuni progetti di quello che fu il “Piano di
Rinascita” e che Gelli spiegò nei dettagli nella sua intervista al Maurizio Costanzo sul
Corriere della Sera del 1980. La critica alla Costituzione nata dalla Liberazione è ancora
quella che si fa oggi per giustificare le riforme del governo. Parola per parola. La storia si
ripete, almeno quella della P2.
Del 17/12/2015, pag. 20
Gelli, camera ardente senza potenti
La morte solitaria del capo della P2
Nella bara niente simboli massonici ma una spilletta con il fascio littorio
I visitatori: “Oggi stanno tutti alla larga ma un tempo gli facevano
l’inchino”
SEBASTIANO MESSINA
Lui è lì, dritto come una sentinella sull’attenti, e la malattia l’ha asciugato fino a renderlo
irriconoscibile. Ma persino nella bara di legno chiaro che nella camera ardente della
Misericordia richiude il suo corpo senza vita, avvolto in un abito blu con gli occhiali nel
taschino della giacca e le mani incrociate sull’inguine, Licio Gelli ha voluto i simboli ai quali
31
teneva di più. Non quelli della massoneria, di cui fu il più tenuto e il più rovinoso maestro
venerabile, ma altri due. Uno è la spilletta con il fascio littorio sul tricolore che portava
quando era ispettore della milizia del duce all’estero: «Sono fascista e voglio morire
fascista» aveva detto, e così è stato. L’altro è un vistoso anello all’anulare sinistro,
emblema aureo di una nobiltà acquisita, “conte sul cognome” per decreto di sua maestà
Umberto II, ricompensa per chissà quali servigi ottenuta nel 1980 da un re che non era più
re da 34 anni. E infatti “N. H. Conte Licio Gelli” hanno stampato sul suo manifesto funebre,
tra le formule standard degli annunci di lutto, “si è spento nella pace del Signore”, “ne
danno il triste annuncio”, “ non fiori ma opere di bene”. Ma quel titolo ha il suo effetto: «Me’
coglioni, pure conte!» commenta a voce alta, davanti al manifesto, un sessantenne con la
barbetta e il cappello, prima di andarsene in fretta scuotendo la testa.
Lì dentro, nella camera ardente, per fortuna non l’hanno sentito. Sulla lunga panca di
legno alla destra della bara, e sulle cinque pesanti sedie sul lato opposto siedono i figli
Raffaello e Maria Rosa e i nipoti. Osservano con lo sguardo spento gli amici che entrano,
toccano la mano del defunto e poi si fanno lentamente il segno della croce, prima di
firmare il registro delle condoglianze messo all’ingresso, tra una foto di Gelli che sorride da
una poltrona e la cassetta metallica delle offerte. Sotto il grande crocifisso appeso alla
parete ci sono cuscini di fiori, rose, sterlizie e margherite, ma non riempiono affatto la
stanza, e per la verità non si può dire che sia affollata, anzi, la camera ardente del
“burattinaio di Arezzo”. Ogni tanto il trillo irrispettoso di un cellulare rompe il silenzio che
regna nella stanza, ma non annuncia visite speciali. Dei potenti che un tempo Gelli teneva
in pugno, neanche l’ombra. All’ora di cena, la massima autorità registrata sui taccuini dei
cronisti sarà l’ex presidente dell’Arezzo calcio, Pie- ro Mancini.
Il segno che non si tratta di una cerimonia come tante altre lo danno gli uomini di una
vigilanza privata, metà in divisa e metà in borghese, che stazionano davanti all’ingresso
con il preciso compito di impedire ai giornalisti di avvicinarsi ai familiari, e scortano al bar
Raffaello Gelli come se fosse un capo di Stato, anche se non riescono a impedire che un
fotografo arrivi davanti al feretro con un cellulare nascosto in un mazzo di margherite (lo
fermeranno però all’uscita, quando lui commetterà l’errore di tornare indietro con i fiori, e
chiameranno la polizia per convincerlo a cancellare le foto del cadavere).
Quanto agli aretini, una signora bionda spiega ai giornalisti che non si faranno vedere:
«Tutti sanno chi gli faceva l’inchino quando passava, ma oggi nessuno vuol farsi vedere
dalle vostre telecamere, ed è inutile che vi spieghi perché». Qualcuno viene, in realtà.
Beniamino Severi, che era ispettore alle vendite quando la Giole del venerabile maestro
produceva materassi a molle, ci teneva, anche se sa pure lui che la città non amava il suo
principale: «Oggi qualcuno piangerà e qualcun altro sarà contento, ma io vi dico che
quest’uomo ha fatto anche del bene, a tanta gente». E c’è perfino un sacerdote, padre
Giovanni Serrone, superiore domenicano del santuario di Santa Maria del Sasso a
Bibbiena, che ne tesse le lodi davanti alle telecamere, spiegando che «l’ha rovinato la
massoneria », che «contro di lui c’è stato un accanimento esagerato, e penso a quella
senatrice di cui non ricordo il nome, Tina Anselmi, ecco», e che insomma quando è
arrivato davanti a San Pietro lui si augura che l’abbia mandato «su, in paradiso, perché il
Papa ha proclamato il Giubileo della Misericordia e spero che ce ne sia un po’ almeno
lassù, di misericordia...».
Eppure il marciapiedi deserto e il registro delle firme mezzo vuoto rivelano che la città
nutre altri sentimenti, e devono essere in tanti a pensarla come quel professore che,
bloccato dalle telecamere davanti alla Misericordia, dice «scusatemi, devo pesare le
parole» e poi quasi scandisce le sillabe quando spiega che «quest’uomo certamente ha
fatto conoscere la nostra città a tutti, ma non esattamente per fatti positivi».
32
Il professore è uno dei tanti aretini che hanno saputo della morte di Gelli solo dalle
locandine dei giornali appese attorno alle edicole. Perché era quasi mezzanotte, quando
lui se n’è andato. Le luci di villa Wanda sono rimaste accese per tutta la notte, dietro le
finestre del secondo piano, alla fine del vialetto di ghiaia che sale tra due file di grandi vasi
di coccio: proprio quelli nei quali trent’anni fa fu trovato l’oro del Venerabile, ultime tracce,
si sospettò allora, delle 20 tonnellate di lingotti aurei scomparsi tra il momento in cui Gelli
ne requisì 60 tonnellate al re Pietro II di Jugoslavia per conto del Servizio Informazioni
Militari fascista e quello della restituzione al sovrano a guerra finita, quando le tonnellate
risultarono solo 40. Uno dei tanti misteri che l’ex maestro venerabile ha portato con sé.
Del 17/12/2015, pag. 20
Mille nomi e una leggenda così la madre di
tutte le liste fece tremare l’Italia che conta
FILIPPO CECCARELLI
A UN DATO momento divenne complicato scrivere “piduista”, o anche, al limite, “piduisti”.
Il problema delle liste — e la scandalistica nazionale ne ha sempre prodotte in gran
quantità — è che ogni elenco tiene assieme condizioni diverse che però nel mucchio non
si distinguono più.
Per cui, cominciate a fioccare le prime cause per diffamazione, la più insidiosa delle quali
riguardò il nome del futuro presidente della Rai Enrico Manca, il giornalismo escogitò una
formula di salvaguardia per cui al posto di “piduista” si prese a scrivere: “il cui nome è
stato trovato nella lista della P2”. Alcuni — i più cauti, ma anche i più maliziosi —
aggiungevano a quel punto il numero di tessera, quando non la data di iscrizione e il
pagamento delle quote. Con quasi mille nomi, va da sé, la P2 fu la madre di tutte le liste.
Ma il guaio fu anche che a Gelli furono sequestrate varie liste, con aderenti diversi e
posizioni in sospeso. In pochissimi ammisero l’adesione: uno fu Maurizio Costanzo, con
un’intervista che non si è mai più rivista; l’altro fu Fabrizio Cicchitto che pure, nemmeno un
anno prima, aveva dato un’intervista in cui metteva in guardia: «Non c’è solo la P38, c’è
anche la P2». Molti altri scomparvero in attesa che passasse la bufera; oppure si fecero
scagionare da giurì d’onore, commissioni o tribunalini interni dei partiti o delle aziende.
Una delle leggende più spassose riguarda il giovane Berlusconi di cui si disse che
inizialmente avesse cercato un omonimo cui dare dei bei soldi per caricargli l’iscrizione.
Sennonché fu rinvenuto in effetti un altro Silvio Berlusconi, ma era un bimbo di 4 anni.
Quindi il non ancora Cavaliere smentì sdegnato che un fondatore di città come lui non
poteva essere ridotto al rango di apprendista muratore.
Parecchi persero la faccia; alcuni, come gli alti gradi degli Stati maggiori e un numero
impressionante di generali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, anche il posto
perché dovettero dimettersi. Altri invece non vennero nemmeno sfiorati. Altri ancora fecero
addirittura carriera. Il presidente della Repubblica Pertini definì la P2 “un’associazione a
delinquere”; mentre il suo successore Cossiga ne promosse gli aderenti a “galantuomini”.
Al dunque lo scandalo si risolse in una specie di epurazione, però controversa,
incompiuta, arbitraria, all’italiana. Poi venne fuori che c’era una seconda lista, più vera, e
altri mille seguaci occulti.
Seguirono, nel corso degli anni inchieste parlamentari, processi, libri, documentari, film. I
nomi dei piduisti si trovano in una gigantesca e beffarda lapide di marmo dell’artista Luca
Vitone. I Litfiba hanno dedicato alla P2 un loro brano. Il giudice Giuliano Turone, che
33
sequestrò gli elenchi a Castiglion Fibocchi, ha scritto (con Anna Vinci) e anche cantato in
un musical, “Tra le pieghe della P2”. Ma il trattamento, per chi ne faceva parte, non è stato
uniforme. Di lì a qualche anno Sindona e Calvi ci lasciarono la pelle.
Il Venerabile, piuttosto pignolo, si fece sequestrare anche un fantastico repertorio, subito
detto “Le Pagine Gialle della P2”, in cui gli iscritti erano classificati per settore a seconda
delle loro utilità, a partire da “Alberghi”. Consultarlo oggi spiega perché, dopo rimbalzi e
palleggi, l’allora governo Forlani chiuse l’elencone in un cassetto. C’era lì anche il nome
del suo capo di gabinetto, peraltro in compagnia del segretario generale del Quirinale,
Picella; del segretario generale della Farnesina, Malfatti; e dell’ex segretario generale di
Montecitorio, Ciccio Cosentino, cui forse si deve la stesura del Piano di Rinascita, che in
realtà sono due. C’erano il segretario del Psdi Pietro Longo, l’ex segretario di Saragat
Costantino Belluscio, deputati di tutte le correnti dc e delle varie obbedienze del craxismo
nascente. E soprattutto quattro ministri: oltre a Manca, Stammati, Sarti e Foschi.
Ma insieme con il superpoliziotto gastronomo, Federico Umberto D’Amato, e con il
generale Dalla Chiesa, che pure spiegò di essersi voluto “affacciare” sulla loggia per
capirci qualcosa, si ritrovò negli elenchi, con il debito sconcerto, l’intera catena di comando
dei servizi segreti, vecchi e nuovi, Sifar (Miceli e Maletti), Sismi (Santovito), Sisde
(Grassini), Cesis (Pelosi) freschi reduci del caso Moro. L’Eni era rappresentato da
presidente e dal vice, peraltro in lotta fra loro. Tra le banche spiccavano il Montepaschi e il
Banco di Roma. Angelone Rizzoli, Bruno Tassan Din e Franco Di Bella garantivano gli
affari, i debiti e il controllo del gruppo Rizzoli Corriere della Sera. Ma scendendo di livello è
irresistibile ricordare che fra i mille che Gelli designò come “la crema” figuravano anche
Alighiero Noschese, Claudio Villa, Gino Latilla, un paio di ufologi, qualche gaglioffo
toscano in odore di “Amici miei” e diversi esoteristi della domenica.
Chi voglia approfondire la faccenda, fetida e anche un po’ sanguinosa, ha a disposizione
una biblioteca di atti parlamentari raccolti dalla benemerita commissione presieduta da
Tina Anselmi. Ma l’indice anche ragionato dei nomi, oltre 500 pagine, uscì solo a metà
degli anni 90. Per la cronaca era troppo tardi, per la storia troppo presto.
34
LEGALITA’DEMOCRATICA
del 17/12/15, pag. 18
I sei anni di depistaggi
Così volevano nascondere la verità su Cucchi
Il 30 giugno scorso, il carabiniere Riccardo Casamassima detta a verbale: «Il maresciallo
Mandolini (comandante della Stazione dei carabinieri Roma-Appia, ndr) mettendosi una
mano sulla fronte mi disse: “è successo un casino, i ragazzi hanno massacrato di botte un
arrestato”. Mandolini si diresse verso l’ufficio del comandante di Torvergata e, in presenza
della mia compagna, il carabiniere Rosati, aggiunse il nome dell’arrestato, Cucchi, e disse
che stavano cercando di scaricare la responsabilità sugli agenti della Polizia
Penitenziaria». La verità sulla morte di Stefano Cucchi sta emergendo in tutta la sua
drammaticità. In cinquanta pagine il pm Giovanni Musarò ricostruisce sei anni di
depistaggi, di silenzi omissivi, di complicità dentro un microcosmo dell’Arma dei
carabinieri.
Nuova inchiesta
La nuova inchiesta della procura di Giuseppe Pignatone nata un anno fa, dopo le
deposizioni di due detenuti e due carabinieri, e grazie alle intercettazioni telefoniche e poi
agli interrogatori di oltre quaranta testi, è arrivata al giro di boa. Adesso un nuovo perito
dovrà decidere se riformulare la gravità delle lesioni subite dal povero ragazzo pestato da
tre carabinieri (ad oggi sono state ritenute lesioni guaribili tra i 20 e 40 giorni). E se verrà
accertato il nesso di casualità tra il pestaggio e la morte di Cucchi, ai carabinieri indagati
sarà contestato il reato di omicidio preterintenzionale. Sei anni di depistaggi per
nascondere una drammatica verità. Ne è convinto il pm Musarò che lo scrive nella
richiesta di incidente probatorio: «Fu scientificamente orchestrata una strategia finalizzata
ad ostacolare l’esatta ricostruzione dei fatti e l’identificazione dei responsabili, per
allontanare i sospetti dai carabinieri appartenenti al Comando Stazione di Roma Appia».
Furono i carabinieri che arrestarono e poi perquisirono Stefano Cucchi a massacrarlo di
botte, a sottoporlo a quello che il pm Giovanni Musarò definisce «un violentissimo
pestaggio». A leggere gli atti delle indagini vengono fuori le omissioni come, per esempio,
l’assenza dei nominativi dei due carabinieri che arrestarono Stefano Cucchi, che lo
pestarono di botte. È impressionante il dialogo intercettato tra uno dei carabinieri autori del
pestaggio e la sua ex moglie. Alla donna lui aveva raccontato sei anni prima di aver
partecipato al pestaggio di Cucchi. Quando il carabiniere viene interrogato nel luglio
scorso, la donna gli invia un sms: «Non mi ha stupito leggere il tuo nome, prima o poi
sarebbe successo. Ecco quali erano i problemi al lavoro...».
Brogliacci sbianchettati
Preoccupato, il carabiniere chiama la donna: «Che cosa volevi dire? Prima fammi capì’ tu
hai la palla di vetro? Io non ho fatto niente, perché dovevo aspettarmi una cosa del
genere?». Lei: «Tu non hai fatto niente? È quello che raccontavi a me, a tua mamma, a
tuo padre. Che te ne vantavi pure...che te davi le arie. Raffaè hai raccontato di quanto vi
eravate divertiti a picchiare quel drogato di merda». Si capisce, leggendo le carte, che tra
le stazioni dei carabinieri di Roma-Appia, Torvergata, Tor Sapienza, si è cercato di
nascondere i fatti. Si è usato il «bianchetto» per cancellare il nominativo di Cucchi dal
registro dei fotosegnalamenti. Cucchi, nella ricostruzione della Procura di Roma, si oppone
al rilevamento delle impronte digitali, si dimena, gli parte uno schiaffo contro un
carabiniere. E a quel punto il pestaggio scientifico di altri tre carabinieri.
35
Sei anni di bugie
Perché viene cancellato il suo nome da quel registro? Perché il maresciallo della stazione
interrogato a processo dice che il fotosegnalamento non era obbligatorio? E perché i
carabinieri che massacrano di botte Cucchi, ufficialmente non esistono e vengono protetti
dalle stazioni dell’Arma? Sei anni dopo, la verità comincia ad affermarsi. Nel novembre
dell’anno scorso la Corte d’assise d’Appello nell’assolvere anche i medici del Pertini
mandarono gli atti alla Procura di Roma, ravvisando il comportamento omissivo di alcuni
carabinieri. E la Cassazione l’altro giorno ha confermato che non sono stati gli agenti della
penitenziaria a picchiare il ragazzo. Poi anche quel muro alzato da un «codice d’onore»
rispettato da commilitoni, sottufficiali, familiari, si è sgretolato. È ora La famiglia di Stefano
Cucchi potrà avere finalmente giustizia.
Guido Ruotolo
Del 17/12/2015, pag. 10
Arezzo
Dopo gli esposti dei risparmiatori, configurato un nuovo reato. Le
attività di controllo sotto esame: il dubbio è che ci siano state
omissioni. Nel dossier di Via Nazionale la pioggia di consulenze
milionarie
Etruria, il pm alza il tiro ipotesi truffa sui bond
Verifiche allargate a Consob e Bankitalia
FABIO TONACCI
Nella storia recente di Banca Etruria c’è un anno, il 2013, che è più importante degli altri.
Perché in quei dodici mesi accadono due cose, l’aumento di capitale per 100 milioni di
euro e l’emissione di circa 120 milioni di euro di obbligazioni subordinate, che stanno
portando la procura di Arezzo a valutare il ruolo di chi quelle operazioni doveva controllare
e vigilare. Bankitalia e Consob. Non solo. Se l’esposto di Federconsumatori porterà, come
ogni evidenza lascia presumere, all’apertura di una quarta indagine, il reato da cui si
partirà è quello di truffa ai danni dei clienti della banca. Un passo indietro.
Tra le carte del procuratore capo Roberto Rossi c’è una denuncia per “omessa vigilanza
della Banca d’Italia e di altri soggetti che hanno provocato un danno enorme, bruciando il
risparmio di migliaia di persone”. E’ firmata da Elio Lannutti di Adusbef e Rosario Trefiletti
di Federconsumatori. Viene definita “interessante” da un punto di vista investigativo,
perché messa in relazione, appunto, a quello che è successo nel 2013. Sull’aumento
patrimoniale di 100 milioni, effettuato a luglio e rivelatosi poi insufficiente, vengono citati
nella denuncia due passaggi del prospetto di Bankitalia emesso allora: “al momento gli
esiti dell’ispezione non sono noti e prevedibili”, e quindi “ove la qualità del portafoglio
creditizio e delle garanzie a mitigazione del relativo rischio dovessero essere considerate
non pienamente soddisfacenti, i requisiti aggiuntivi richiesti da Banca d’Italia potrebbero
essere innalzati”. Eppure in quel periodo gli ispettori di Bankitalia sono una presenza fissa
nell’istituto aretino: nel dicembre 2012 è iniziata l’ispezione settoriale, diventata poi
ispezione generale e conclusasi il 6 settembre 2013. Era stata anticipata da una lettera
inviata a Banca Etruria del governatore Ignazio Visco, datata 24 luglio 2012, che spiegava
che “la qualità degli impieghi scadenti e in progressivo peggioramento sulla quale influisce
un consistente stock di partite anomale; la fragile situazione di liquidità che nel prossimi
36
mesi risentirà dell’esigenza di fare parte del rimborso dell’ammontare delle obbligazioni in
scadenza; l’insufficienza di redditività” spingerebbero a inserire “nell’organismo
amministrativo esponenti connotati da rilevata professionalità e da un rafforzamento della
componente manageriale” A dicembre del 2013 il capo del pool ispettivo, Emanuele Gatti,
viene sentito come testimone informato dei fatti dal procuratore Rossi: parla chiaramente
di ostacolo alla sua opera di vigilanza da parte dei vertici (l’allora presidente Giuseppe
Fornasari, l’ex direttore generale Luca Bronchi e il dirigente centrale David Canestri, tutti
indagati e prossimi al rinvio a giudizio) e definisce la vendita del patrimonio immobiliare
della Banca (l’operazione Palazzo della Fonte) “fasulla”, usata solo per gonfiare i bilanci. Il
dubbio della procura è, dunque, perché a fronte a tutti questi elementi non sia stata posta
maggior attenzione da parte degli organi centrali di Banca d’Italia su ciò che stava
avvenendo nell’istituto aretino. Gatti quindi viene risentito a gennaio di quest’anno, e dà
questa spiegazione: se non avessero nascosto il livello di deterioramento dei crediti, la
richiesta di aumento del patrimonio sarebbe stata molto superiore ai 100 milioni di euro
autorizzati da Palazzo Koch. Se la procura di Arezzo troverà riscontri sull’ipotesi di
“omessa vigilanza”, manderà tutta la documentazione alla procura di Roma per
competenza territoriale. E lo stesso nel caso in cui emergano controlli carenti da parte
della Consob. Banca Etruria è infatti una spa quotata in borsa, e l’agenzia doveva
monitorare la massiccia emissione di obbligazioni subordinate nel 2013.
Proprio sulle modalità di come sono stati fatti sottoscrivere quei titoli, il procuratore sta
aspettando denunce specifiche dei singoli risparmiatori. Federconsumatori ha già trovato
otto persone disposte a farlo. Appena ne arriva una, si apre il procedimento per “truffa”,
che potenzialmente può essere devastante per i manager della banca: prima verranno
accertate le responsabilità dei funzionari e dei direttori di filiale, poi si valuterà se ci sia
stata una specifica indicazione del Cda a piazzare il più possibile le obbligazioni.
Repubblica è venuta in possesso anche del verbale di ispezione Bankitalia del febbraio
2015, da cui è scaturito il commissariamento della banca Etruria e la terza inchiesta della
procura di Arezzo, quella sulla mancata comunicazione di conflitti di interesse per cui sono
indagati l’ex presidente Lorenzo Rosi e l’ex membro del Cda Luciano Nataloni.
Si parla di “consulenze esterne ascese ad oltre 15 milioni di euro nel biennio 2013-2014”,
un premio di produzione da 2,1 milioni di euro diviso tra i dipendenti della banca
nonostante le difficoltà finanziare, e una liquidazione dell’ex direttore generale da 900 mila
euro. Intanto il procuratore di Arezzo è intervenuto sul caso della consulenza con il
governo, nello specifico con il Dipartimento affari giuridici e legislativi. “E’ un incarico
meramente tecnico, e non politico – spiega – ce l’ho fin dal 2013 quando il governo era
retto da Enrico Letta, e capo del Dagl c’era Carlo Deodato. L’incarico scadrà alla fine di
quest’anno come scadenza naturale ed è del tutto gratuito, non prendo soldi”.
37
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 17/12/15, pag. 6
Aperto il primo corridoio umanitario
Italia. Firmato il protocollo per garantire mille visti a migranti e
richiedenti asilo in condizioni considerate vulnerabili
Sara Manisera
Per la prima volta in Europa saranno aperti dei corridoi umanitari per salvare le vite dei
migranti in fuga.
Mentre i governi europei costruiscono muri, ripristinano i controlli alle frontiere e attuano
politiche repressive contro i migranti, un’ambiziosa iniziativa dimostra che esiste una
soluzione alternativa al traffico di esseri umani e ai morti in mare.
La Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (FCEI) e la Comunità di Sant’Egidio
annunciano l’apertura di corridoi umanitari verso l’Italia, dal Libano, dal Marocco e
dall’Etiopia.
Il protocollo firmato ieri, 15 dicembre, da Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di
Sant’Egidio, da Luca Maria Negro, presidente della FCEI, dal Viminale e dalla Farnesina,
prevede il rilascio di circa mille visti umanitari, a migranti e richiedenti asilo in condizioni
vulnerabili, ai quali se ne potrebbero aggiungere altri mille. Grazie al rilascio dei visti
umanitari da parte delle autorità consolari italiane, i profughi di diversa nazionalità e
religione potranno raggiungere l’Italia in modo sicuro e legale, evitando di rischiare la loro
vita nei viaggi verso l’Europa.
“Non vogliamo assistere impotenti a questo spettacolo di morte che avviene sulle nostre
coste”, afferma Cesare Zucconi, segretario generale della Sant’Egidio. “Vogliamo trovare
soluzioni alternative che risparmino questi viaggi disumani a persone che comunque
verrebbero in Europa e ne hanno pieno diritto. Il canale umanitario è uno strumento che
può sottrarre a scafisti e a trafficanti la possibilità di arricchirsi e proseguire questi traffici
illeciti”.
L’iniziativa sponsorizzata dalla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e dalla
Comunità Sant’Egidio è un progetto pilota molto innovativo, attuato per la prima volta in
Europa, che “potrebbe divenire un modello replicabile da altri attori della società civile”,
afferma Nando Sigona, vicedirettore dell’Institute for Research into Superdiversity
dell’Università di Birmingham, intervistato da il manifesto.
“Nonostante [le associazioni] abbiano risorse politiche, economiche e supporto logistico
per ospitare i migranti, questa iniziativa è di notevole importanza perché, per la prima
volta, la società civile negozia con un governo il rilascio di mille visti umanitari. Inoltre, se
si pensa che il governo inglese ha promesso il reinsediamento di duemila persone nel
2015, ci rendiamo conto della portata dell’iniziativa”, chiarisce il professore italiano.
Il canale umanitario non ha nessun costo per il governo italiano, essendo interamente
finanziato dalle due organizzazioni attraverso l’otto per mille. La comunità di Sant’Egidio
insieme alla Federazione delle Chiese Evangeliche, si farà carico del viaggio,
dell’accoglienza e delle attività d’integrazione dei profughi una volta giunti in Italia.
Nonostante le tariffe cambino a seconda della rotta, delle condizioni locali e delle modalità
di trasporto, i costi del viaggio e dell’accoglienza sono significativamente inferiori rispetto a
quanto pagherebbe un migrante per poter raggiungere l’Europa. “Noi spendiamo 300/400
euro per persona, il prezzo di un normale biglietto aereo”, chiarisce Cesare Zucconi.
38
“Inoltre il canale umanitario è uno strumento più sicuro e meno rischioso sia per i migranti,
sia per i paesi ospitanti, poiché l’identificazione dei rifugiati avviene prima della partenza”.
La selezione e l’identificazione dei beneficiari saranno condotte dalle associazioni partner
presenti nei paesi di origine, secondo i requisiti concordati con il governo italiano, senza
alcuna discriminazione religiosa e/o nazionale. In Libano sarà la Comunità Papa Giovanni
con Operazione Colomba, corpo civile di pace presente da due anni nel campo di Tel
Abbas, situato a nord di Tripoli, a selezionare le famiglie siriane mentre in Marocco sarà la
Sant’Egidio.
“Il corridoio umanitario è uno strumento sicuro perché le persone sono identificate prima
ancora di partire, quindi c’è una garanzia su chi giunge in Italia e c’è anche chiarezza sui
tempi e sulle modalità di accoglienza ed integrazione”, ribadisce il segretario generale di
quest’ultima organizzazione.
L’iniziativa dimostra l’esistenza di un’alternativa alla tratta di esseri umani e ai viaggi della
disperazione intrapresi dalle persone in fuga dai loro paesi d’origine. Secondo l’Alto
commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, nel 2015, quasi 870,000 persone hanno
attraversato il Mediterraneo per entrare in Europa mentre nel 2014 il numero degli arrivi ha
raggiunto quota 219,000.
Il maggior numero di migranti è stato registrato in Grecia (721,217) e in Italia (143,114),
seguite da Spagna (3,845) e Malta (106). Persone vulnerabili che non hanno altra scelta
se non quella di pagare trafficanti e organizzazioni criminali, mettendo a rischio la propria
vita per raggiungere un paese europeo.
Francois Crépeau, relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti dei migranti e
professore di diritto presso l’Università McGil in Canada, descrive il fenomeno dello
smuggling come un servizio:
“Le persone vogliono spostarsi e i trafficanti offrono servizi di mobilità. Se tali servizi
fossero offerti dagli stati, i trafficanti sarebbero fuori dal mercato. Negli anni cinquanta e
sessanta, milioni di persone sono emigrate in Europa. Nessuno è morto, non esisteva la
tratta e tutti avevano il diritto di poter entrare in Europa. Ottenevano il visto nelle
ambasciate e acquistavano normali biglietti aerei. Se si consentisse la libera circolazione, i
trafficanti non esisterebbero perché le persone sceglierebbero il modo più economico e
sicuro per spostarsi, invece che pagare diecimila euro e mettere a rischio la vita dei propri
figli”, spiega il professore canadese.
La migrazione, in definitiva, ha sempre fatto parte della storia dei popoli e continuerà ad
esistere. Niente ha impedito il flusso di migranti, né le barriere fisiche tra i paesi, né la
militarizzazione dell’Unione Europea. Gli stati membri dovrebbero rivedere le politiche
migratorie smettendo di vivere l’emigrazione come un’emergenza ed elaborando politiche
di medio e lungo termine che incoraggino i flussi tramite rotte legali e sicure. Questo
consentirebbe ai governi di rompere il sistema perverso dello smuggling ma soprattutto
permetterebbe di affrontare la migrazione con un approccio più umano.
Del 17/12/2015, pag. 17
Migranti, un’altra strage in mare sei bimbi
morti sulla costa turca
LORENZO FORLANI
Hanno tutti un’età compresa tra i 2 e i 6 anni i sei bambini trovati al largo delle coste
turche, morti in due diversi naufragi. I corpi dei primi due, di nazionalità irachena, sono
39
stati rinvenuti, con i giubbotti salvagente ancora addosso, da alcuni pescatori nei pressi di
Cesme, provincia di Smirne.
Il gommone su cui viaggiavano si era rovesciato nella notte. Al largo di Bodrum sono stati
trovati invece i corpi di altri 4 bimbi, che viaggiavano su un barcone inabissatosi nelle ore
precedenti. I guardacoste turchi, nel frattempo, riuscivano a salvare 58 persone, tra i quali
c’erano altri 22 bambini. Alla vigilia del summit di Bruxelles tra Turchia e Paesi Ue sulla
gestione dell’emergenza migranti, il conto dei morti in mare continua a salire. Secondo
l’Unicef i bambini-migranti annegati nel 2015 sono circa 200. L’incontro nella capitale
belga sarà per l’Ue l’occasione per fare il punto con Ankara, che riceverà 3 miliardi di euro
da Bruxelles per la gestione di circa 2,5 milioni di profughi e aspetta di conoscere il
numero di rifugiati ai quali l’Unione è disposta a concedere il visto d’ingresso il prossimo
anno. Gestione che presenta molte ambiguità, come ha rilevato un rapporto di Amnesty
International, in cui si legge che da settembre la Turchia ha fermato e trasferito centinaia
di rifugiati in centri di detenzione, dove sono stati spesso maltrattati e talvolta costretti a
tornare nei Paesi di provenienza. Una situazione che in parte stride con la procedura
d’infrazione decisa dall’Ue nei confronti dell’Italia per non aver identificato alcuni migranti
durante gli sbarchi degli scorsi mesi. Oggi l’astronauta Samantha Cristoforetti visiterà, in
compagnia del direttore generale dell’Unicef Paolo Rozera, proprio al centro rifugiati di
Lampedusa, sotto pressione da mesi, mentre ieri alla Camera Renzi ha definito
“strabiliante” questa la decisione dell’Ue, ricordando come la stessa Merkel avesse detto
lo scorso agosto che la solidarietà viene prima della burocrazia. «Europa, qual è il tuo
ruolo, affermare regolamenti o risolvere problemi?», ha detto il premier. Un’Europa per cui
il presidente della Commissione europea Juncker haribadito la proposta di istituire un
corpo di guardie di frontiera, «perché Schengen deve durare». Intanto, ieri a Pozzallo
(Ragusa) è stato arrestato il 19enne presunto scafista Fali Sengol, accusato di
favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
del 17/12/15, pag. 6
«Identificazione facciale dei migranti»
Europa. La proposta di Renzi al consiglio Ue di oggi. «Strabiliante la
procedura di infrazione»
Carlo Lania
Dire che è irritato forse è poco. Le accuse che Bruxelles ha rivolto all’Italia sulle gestione
dei migranti, e soprattutto l’annuncio dell’apertura di una procedura di infrazione per la
mancata identificazione delle decine di miglia di profughi sbarcati sulle nostre coste
bruciano come un ferro rovente a Matteo Renzi che considera ingiusti e ingiustificati i
rimproveri dell’Unione europea.
«E’ strabiliante che qualcuno in Europa abbia pensato di aprire una procedura di
infrazione perché non tutti quelli che abbiamo salvato sono stati identificati con le
impronte», spiega in mattinata Renzi intervenendo alla camera. Concetto che ripeterà
anche nell’intervento che terrà al Consiglio Ue in programma oggi e domani a bruxelles, e
che ieri ha concordato direttamente con il presidente della repubblica Sergio Mattarella in
un pranzo al Quirinale al quale ha partecipato anche il ministro delle riforme Maria Elena
Boschi. Intervento che oltre a difendere l’operato italiano, insisterà molto anche sulle
responsabilità altrui, dell’Europa in generale per la lentezza con cui procedono i
ricollocamenti e i rimpatri, e della Germania, che Renzi torna ad attaccare per la seconda
volta in pochi giorni: «Non tutte le persone arrivate in Germania ad agosto sono state
40
identificate e allora Merkel disse: viene prima la solidarietà e poi la burocrazia — ha
spiegato ancora il premier alla Camera -. Ma quello che vale per la Germania non vale per
l’Italia. Noi non replichiamo ma chiediamo: cara Europa qual è il tuo ruolo, affermare linee
di indirizzo burocratiche o risolvere i problemi?».
Da agosto, però, molte cose sono cambiate a partire dagli attentati di Parigi che hanno
portato l’Ue a decidere di identificare anche i propri cittadini in entrata e uscita dai propri
confini e a spingere su Italia e Grecia perché accelerino l’apertura degli hotspot. Altro
punto su cui Renzi insisterà oggi a Bruxelles, Renzi sente di aver fatto i compiti assegnati:
«L’Italia ha aperto il primo hot spot, domani (oggi, ndr) sarà aperto il secondo a Trapani,
poi a Pozzallo. Siamo pronti a intervenire tenendo fede ai nostri impegni, chiederemo agli
europei se sono in grado di tener di tener fede ai loro impegni», ha ricordato Renzi.
Il consiglio Ue di oggi dovrebbe dare il via libera all’istituzione di una guardia costiera e di
frontiera europea, autorizzata a intervenire in caso di emergenza ai confini anche senza
che ne sia stata fatta richiesta dal paese interessato. Particolare che ha suscitato non
poche resistenze in alcuni paesi membri, che rivendicano la gestione della sicurezza dei
propri confini. Anche su questo punto Renzi avrebbe in mente di portare una proposta
nuova che garantisca il mantenimento di Schengen, oggi messo pericolosamente in forse.
Ai capi di stato e di governo europei annuncerà però anche che, in più rispetto ad altri
paesi, insieme al rilevamento delle impronte digitali, l’Italia procederà anche
all’identificazione facciale dei migranti.
Il vertice di oggi sarà preceduto da un incontro ristretto tra i paesi più coinvolti dalla crisi
migranti (ma senza la partecipazione dell’Italia, che non è stata invitata), nel corso del
quale i discuterà anche di come — dopo l’accordo siglato con Ankara, si possa cooperare
con la Turchia per fermare l’arrivo dei migranti. Turchia dove ieri si verificata l’ennesima
strage di bambini: i corpi di sei piccoli profughi, con un’età compresa tra i 2 e i 6 anni sono
stati ritrovati nelle acque dell’Egeo al largo di Bodrum e nei pressi di Cesme.
Da Avvenire del 17/12/15, pag. 8
La denuncia di Amnesty: migranti maltrattati
in Turchia
MARTA OTTAVIANI
L’Unione Europea è sempre più vicina a venire considerata una complice della Turchia per
quanto riguarda il maltrattamento dei migranti sui confini fra la Mezzaluna e il Vecchio
Continente. Questa l’accusa, fortissima, di Amnesty International, che in un report ha
descritto come, a partire da settembre, le condizioni di chi cerca di varcare la frontiera per
raggiungere gli Stati dell’Unione siano addirittura peggiorate e come la situazione potrebbe
addirittura diventare più difficile dopo che il club di Bruxelles ha versato tre miliardi alla
Mezzaluna per affrontare l’emergenza migranti. Un’accusa che, sottolinea Amnesty, è
all’opposto della «generale, positiva attitudine» della Turchia nei confronti del capitolo
migranti.
Stando all’organizzazione, a partire da settembre, le autorità turche hanno iniziato ad
arrestare richiedenti asilo, soprattutto siriani e iracheni, che tentavano di passare il confine
con l’Europa, sia nello stretto di mare che divide la costa della Mezzaluna dalle isole
greche, sia vicino alla frontiera di terra. Nel documento si legge che dopo l’arresto è stato
41
confiscato loro il cellulare e gli è stato impedito di contattare sia la famiglia sia un
avvocato.
Ma questa, come si legge nel documento, potrebbe essere solo la punta dell’iceberg. Molti
intervistati hanno raccontato di essere stati spostati in centri nel sud-est del Paese. Qui le
loro condizioni non sono certo migliorate, anzi. Nella maggior parte dei casi si è trattato di
detenzioni illegali, dove i migranti sono stati privati della loro libertà personale e della
possibilità di comunicare con l’esterno in modo arbitrario e il più delle volte senza
nemmeno sapere se fossero accusati di qualche reato. Alcuni hanno riportato percosse da
parte delle autorità che gestivano i centri. C’è poi l’accusa più terribile di tutte. Stando ad
alcune informazioni raccolte da Amnesty International, alcuni rifugiati sarebbero stati
rispediti nei loro Paesi d’origine, soprattutto Siria e Iraq, a meno che non potessero
dimostrare di avere soldi a sufficienza per mantenersi.
Il timore dell’organizzazione, espresso nelle conclusioni del report, è che questa politica
sia stata implementata anche a causa delle richieste politiche e logistiche dell’Unione
Europea, generosa nell’aiutare la Mezzaluna nella gestione dell’emergenza rifugiati, ma al
tempo stesso poco propensa ad accoglierli sul suo territorio. Amnesty teme che
l’implementazione dell’accordo sarà fatale per chi cerca di sfuggire dall’orrore della guerra
e ha ammonito tanto la Turchia quanto l’Europa a rispettare i diritti dei migranti e le
normative internazionali sui diritti umani.
del 17/12/15, pag. 25
L’Islam in Italia
Le nostre vite normali da musulmani «Ma non chiamateci moderati»
L’INCHIESTA
Alessandra Coppola
Si potrebbe forse provare con il «test del maiale»: chi lo mangia non è musulmano, oppure
non lo è abbastanza. È una provocazione, una delle argute invenzioni che tessono i
romanzi di Amara Lakhous (nello specifico, «Contesa per un maialino italianissimo a San
Salvario», e/o). Ma contiene una questione seria e attuale, sulla quale lo scrittore continua
a interrogarsi: come si distingue un islamico moderato? «Nel caso di una donna, per
esempio, non porta l’hijab? Fuma? Ha relazioni fuori dal matrimonio? Dice le parolacce? E
se invece è velata e prega con regolarità, si tratta di un’integralista?».
Nato nel 1970 ad Algeri, dove si è laureato in Filosofia, Lakhous nei suoi studi alla
Sapienza si è dedicato anche alla comunità musulmana italiana. Ha scritto quattro romanzi
sullo «scontro di civiltà» che alla fine è incontro di pregiudizi, manie e abitudini tra
condomini, mercati e stazioni ferroviarie. Ha vissuto a Roma, a Torino, in Francia, e ora
risponde al telefono da New York. «Il concetto di moderato è pieno di trappole — ragiona
—. Perché è stato importato da un altro contesto, di relazioni internazionali. A un certo
punto, i Paesi a maggioranza musulmana sono stati classificati come fondamentalisti o
moderati. In base alle convenienze. L’Arabia Saudita, per esempio, fondamentalista nel
senso peggiore della parola, è collocata tra i moderati perché ha appoggiato la guerra in
Afghanistan contro i sovietici, e così via. Questo concetto ora è applicato ai musulmani
tout court , ai quali viene chiesto di prendere una posizione moderata. Non ha senso.
Perché mai dovrei giustificarmi per qualcosa che hanno fatto altri, lontanissimi da me?».
Se il termine moderato risulta inadeguato, però, se sembra un’etichetta ritagliata per
tranquillizzare le coscienze occidentali e creare un «musulmano su misura» dall’aspetto
gradevole e poco dissonante, come si può correttamente riferirsi a chi, per esempio, non
42
va in moschea e non si attiene rigidamente a tutte le prescrizioni del Corano, e alla fine
rappresenta la maggioranza del milione e settecentomila fedeli in Italia? «Nato
musulmano, non praticante», suggerisce Youssry Alhoda. Non è un intellettuale, ma è un
uomo conosciuto a Milano per la sua straordinaria serietà e competenza, 53 anni e 5 figli,
titolare di una ditta di ristrutturazione, responsabile delle attività culturali di uno dei centri
islamici col timbro «moderato», la moschea di Segrate. «Per me è un dovere inserirmi nel
modo giusto e regolare nel posto in cui vivo — spiega —: l’Islam è questo, non si limita a
una preghiera. È ricevere aiuto e aiutare, è un sistema di vita. Non è una barba o un
foulard in testa». Degli oltre seimila versetti, dice, la maggioranza indica come comportarsi
da buon musulmano. E chi non lo fa alla lettera? «Non è praticante».
Nulla di male, ma neanche un ragazzo giovane come Burhan Mohammad, arrivato
bambino dal Pakistan a Villafranca di Verona, concede molto spazio alle sfumature: «Fino
a due anni fa ero il tipico trasgressore, mi ubriacavo, andavo in discoteca, portavo le
ragazze nei privé». In una vacanza in Tunisia è stato folgorato dalla frase di un amico, alla
vista di un uomo anziano col turbante bianco sul ciglio della strada: «Guardalo, se morisse
adesso non avrebbe problemi». Ha cominciato a riflettere, racconta, poi ha anche avuto
dei guai, ha perso il lavoro da metalmeccanico, il papà è stato male: «Un momento di crisi,
e non potevo parlarne con nessuno. Un conoscente mi ha proposto di andare in moschea.
Fino a vent’anni non ci avevo messo piede». E da allora neanche una birra? Ride. «Non è
che si possa essere praticante a metà…». Non è neanche che abbia smesso di divertirsi,
sostiene. Ha trovato, anzi, un modo piuttosto originale di rendere pubblica la sua svolta:
registra un video blog in cui scherza anche sui difetti degli islamici («Sempre pronti a
puntare il dito contro i peccati degli altri») o cerca di smontare pregiudizi. «Che cosa non
vuoi più sentirti dire come musulmano?». Con una certa tenerezza, uno dei suoi
intervistati, adolescente, confessa: «Non voglio che i miei compagni di scuola mi gridino
Allah u akbar ».
Resta la questione più seccante per i fedeli di tutte le età oggi in Italia: dover
continuamente spiegare di non avere contiguità coi terroristi. «Mi sento umiliata quando mi
chiedono di dissociarmi — dice Shereen Mohamed —. Io lo faccio anche, ma in quanto
essere umano dotato di logica. L’Islam non è l’Isis. È dura doverlo ripetere: io sono
italiana, musulmana, europea». Nell’immagine ideale di islamico «moderato», Shereen
rientra perfettamente: lodigiana, 22 anni, genitori egiziani, diligente studentessa
all’Università Cattolica di Milano, anima uno spazio di confronto con coetanei copti (e non
solo) che si chiama Swap ( Share with all people ). Strano? Per nulla. Molti musulmani
frequentano scuole cattoliche, tanti genitori non chiedono per i figli l’esonero dall’ora di
religione, gli oratori milanesi sono pieni di bimbi musulmani. Secondo una ricerca dell’anno
scorso, il 26,9% dei ragazzi di origine straniera che frequentano le parrocchie è islamico. E
i momenti di preghiera comune, con cattolici ed ebrei, sono tanti: è facile che tra praticanti
ci si intenda.
Più faticoso pare, forse, lo spazio per i «laici», o «non praticanti», o ancora come propone
Akram Idries, per i «riformisti». Ingegnere trentenne, italo-egiziano-sudanese,
collaboratore del blog La Città Nuova sul Corriere.it , Idries rivendica di essere musulmano
anche se la sua immagine non corrisponde allo stereotipo: «Gli islamici sono fatti anche
come me…». Cioè fedele, ma critico: «Questo modello di Islam ha fallito, non c’è bisogno
di essere a favore né contro, non ha senso parlare di moderati: servono riforme», che
aggiornino una serie di partiche e consuetudini consolidate in tempi remoti. È una linea
che non scandalizza l’orientalista Massimo Campanini, docente a Trento, massimo
esperto di Islam e politica: «Il riformismo fa parte del Dna dell’Islam, e individua una
corrente ben precisa di approccio innovativo alle fonti». Bocciata anche dal professore,
43
invece, l’etichetta «moderato»: «Sarebbe come dire che l’Islam è violento, e poi ci sono i
moderati che non lo sono…».
Assodato che esiste una possibilità riformista nell’Islam, e che ha anche precedenti storici,
chi potrebbe oggi realizzarla? Amara Lakhous ha una risposta: «La diaspora. Nel mondo
musulmano esistono due poteri: dittature e fondamentalisti. Che sembrano avversari, ma
alla fine sono giocatori della stessa squadra. Le riforme richiedono libertà, e la libertà si
trova in Europa e negli Usa». È tra i musulmani «occidentali», dunque, che si producono le
condizioni ideali per un Islam riformato, dice Lakhous. Ma attenzione, «tra partiti xenofobi
e socialisti che vogliono forgiare il musulmano su misura, si perde anche questa
opportunità».
44
WELFARE E SOCIETA’
del 17/12/15, pag. 2
Medici in prima linea contro Renzi
Sanità. Al primo sciopero unitario dal 2004 ha aderito il 75% del
personale medico. Un messaggio chiarissimo al governo contro tagli e
precarietà. Palazzo Chigi ha un problema: i duecentomila medici che ieri
hanno scioperato in massa contro i tagli alla sanità incroceranno di
nuovo le braccia a gennaio. Lo scontro è frontale
Roberto Ciccarelli
ROMA
La risposta del governo Renzi allo sciopero imponente nella sanità – 75% di adesioni, non
accadeva dal 2004 – è una partita di giro da illusionisti. L’emendamento alla legge di
stabilità sulle 6 mila assunzioni, una goccia nell’oceano, è stato ripresentato dopo il
clamoroso ritiro per mancanza di risorse certe con le seguenti modalità. Nella nuova
versione si dice che le assunzioni saranno fatte, a condizione che le regioni reperiscano le
risorse dopo anni di tagli e definanziamenti. Non ci sono risorse aggiuntive. Le regioni
dovranno tagliare per assumere nuovo personale da marzo, il 50% saranno i precari
attraverso un concorso. È il gioco delle tre carte: prima si tagliano al Fondo Sanitario
Nazionale 2,3 miliardi, poi si dice alle Regioni di farne altri, magari alzando i ticket sanitari.
È un circolo infernale senza fine.
Sanità agli sgoccioli
Al presidio organizzato ieri all’ospedale San Camillo di Roma, uno dei più grandi ospedali
della Capitale nel quartiere Monteverde, i medici e gli infermieri presenti si sono detti
«profondamente delusi» dalla soluzione trovata per le assunzioni. “Innanzitutto non c’è
nessuna cifra – ha detto il presidente dell’Anaao Domenico Iscaro — il numero 6 mila non
è riportato nell’emendamento, viene rinviato alle Regioni il compito di individuare il
fabbisogno di personale e di avviare le procedure concorsuali che dovrebbero essere
espletate nel prossimo triennio, un tempo molto lungo, e soprattutto non c’è nessuna
risorsa economica aggiuntiva prevista finalizzata». «Le risorse dovrebbero venire da
risparmi delle Regioni, che non sappiamo come possano essere fatti – ha aggiunto il
sindacalista — visto che siamo in un Fondo sanitario nazionale finanziato già con 1 solo
miliardo invece dei 5 previsti dal Patto per la Salute».
Riproponendo le assunzioni, in maniera a dir poco incerta, il governo ha cercato di
contrastare il colpo inferto dallo sciopero al suo consenso. Ma l’antidoto è peggiore del
male, come ha spiegato Tonino Aceti, Coordinatore Nazionale del Tribunale per i diritti del
malato-Cittadinanzattiva: “Il rischio reale che si corre, come l’esperienza ci dimostra, è che
in caso di mancata realizzazione di questi risparmi le risorse per far fronte alle assunzioni
le Regioni le andranno a reperire riducendo i servizi sanitari, aumentando i tempi di attesa
o aumentando i ticket. Questa eventualità deve essere scongiurata dal Governo, che su
questo dovrà garantire, vigilare attentamente e intervenire in forma sussidiaria attraverso il
Ministero della Salute qualora ce ne fosse bisogno”.
Le cifre di Lorenzin
A riprova della difficoltà del governo si può citare l’improvvisa conferenza stampa
organizzata dal ministro della Salute Beatrice Lorenzin nel bel mezzo dello sciopero.
Segno di grande debolezza, un’anomalia raramente registrata in Italia. Lorenzin ha
ribadito quello che sostiene, senza successo, da mesi: il suo governo non ha fatto tagli
45
lineari alla sanità, ha messo un miliardo in più sul fondo nazionale, assumerà 6 mila
persone. Queste, in breve, le cifre: saranno stanziati fino a 329 milioni di euro le
assunzioni entro il 2017. Le discusse norme sulla medicina difensiva saranno approvate al
massimo entro gli inizi dell’estate. Arriveranno nuovi Livelli essenziali di assistenza entro la
fine di febbraio grazie a 800 milioni vincolati dal Fondo sanitario nazionale. Poi una mezza
ammissione sulle ragioni dello sciopero che ha posto il problema della sopravvivenza del
futuro del sistema sanitario pubblico. Lorenzin sostiene di volere accogliere queste
motivazioni “in modo costruttivo”. E ha riconosciuto: “Se il sistema ha retto nonostante crisi
lo si deve proprio al sacrificio in termini di disponibilità e preparazione di medici e
infermieri”.
Sacrifici oltre ogni limite
Questi “sacrifici” e la “disponibilità”, oltre ogni limite,hanno evidentemente superato la
soglia della sostenibilità tra i 200 mila camici bianchi. Le cifre imponenti dello sciopero
raccontano una realtà drammatica: 40 mila interventi chirurgici saltati causa sciopero, ma
sono state garantire le urgenze, ha assicurato Alessandro Gargallo del sindacato degli
anestesisti Aroi. «I nostri pazienti che oggi troveranno chiusi 3 studi su 4 non se la
prenderanno, crediamo, con noi perché li abbiamo preparati a questa giornata di
protesta». Lo dicono Giacomo Milillo, segretario nazionale della Fimmg (Federazione
italiana medici di medicina generale), e Giampietro Chiamenti, presidente Fimp
(Federazione italiana medici pediatri).
Fronte compatto
Il problema sono i tagli. «In questi ultimi anni – ha detto Maria Luisa Agneni, responsabile
per l’Asl RM/E degli specialisti ambulatoriali del Sumai-Assoprof al presidio al San
Camillo– abbiamo assistito al disinvestimento nel Ssn, in primis sugli operatori, con il solo
effetto di ridurre cure e servizi di qualità ai cittadini”. Allo sciopero hanno aderito 16mila
medici specialisti ambulatoriali interni, con 500 mila prestazioni e 190 mila visite che non
eseguite.
La protesta proseguirà, sono già stati annunciati altri due scioperi. “il governo si impegni a
finanziare per davvero la sanità pubblica, a partire dal rinnovo del contratto – afferma la
segretaria nazionale della Fp Cgil, Cecilia Taranto — servono soluzioni strutturali al
problema dell’occupazione: la verità dietro le nuove assunzioni annunciate è che il
governo sta anche creando nuove sacche di precariato in sanità, dicendo alle regioni di
assumere fin dal primo gennaio nuovo personale con rapporti di lavoro flessibile”. Lo
scontro con il governo è frontale. Renzi non ne uscirà facilmente.
Da Avvenire del 17/12/15, pag. 10
Ludopatie, arrivano 50 milioni l’anno
Cresce la mobilitazione sul territorio: alleanza di tre Comuni in Abruzzo
FULVIO FULVI
Un fondo stabile di 50 milioni di euro l’anno, a decorrere dal 2016, per curare e riabilitare
le persone affette dalle patologie causate dall’azzardo. La cifra, stanziata dal ministero
della Salute, servirà anche per prevenire l’insorgere delle ludopatie. «Il fondo – ha
precisato il ministro Beatrice Lorenzin – verrà ripartito tra le Regioni e le Province
autonome sulla base di criteri stabiliti con un decreto ministeriale da approvare entro 60
giorni».
46
Non ci sarà dunque un carattere di una tantumper le risorse destinate alla lotta contro le
ludopatie ma, almeno stando a quanto detto ieri, l’impegno finanziario verrà riproposto
ogni dodici mesi. Confermata anche la serie di divieti alla pubblicità televisiva e radiofonica
dei giochi con vincita di denaro. Limiti che però saranno validi soltanto per le emittenti
generaliste e nella fascia oraria che va dalle 7 alle 22. Resterebbero fuori, dunque, tv e
radio tematiche e trasmissioni notturne. «In particolare – spiega il ministro – è vietata la
pubblicità che incoraggia il gioco eccessivo e incon-trollato, che ne neghi i rischi o lo
presenti come un modo per risolvere i problemi finanziari ». Ma saranno proibiti anche gli
spot che inducono l’ascoltatore a ritenere che la competenza del giocatore possa
permettere di vincere sistematicamente, che si rivolgono o facciano riferimento ai minori,
che presentino l’astensione dal gioco come un valore negativo o contengano dichiarazioni
infondate sulle possibilità di vincita. Sui divieti alle pubblicità è intervenuta, con una nota,
la Consulta Nazionale Antiusura 'Giovani Paolo II'. «Siamo soddisfatti ma ancora resta da
fare» ha detto monsignor Alberto D’Urso, vicepresidente della Consulta, secondo cui è
auspicabile che «si arrivi con sollecitudine a una legge nazionale sull’azzardo online che
oggi costituisce il vero problema avendo raggiunto nel 2015 un consumo pari a 89 miliardi
di euro». Intanto, tre Comuni abruzzesi dell’area metropolitana Chieti-Pescara, cioè
Cepagatti, San Giovanni Teatino e Spoltore si sono uniti in un progetto di aiuto a chi è
diventato 'schiavo del gioco'. Il progeto si chiama 'Stop the game': previsti sportelli di
ascolto e informazione, consultazioni con un’équipe di esperti, agevolazioni sulla Tari agli
esercizi che tolgono le slot machine e interventi di sostegno alle famiglie coinvolte.
Verranno promossi incontri nelle scuole e nelle associazioni, saranno formate, per dodici
mesi, unità terapeutiche composte da una decina di persone per la consulenza
diagnostica e l’avvio gruppi di mutuo-aiuto.
47
DONNE E DIRITTI
del 17/12/15, pag. 7
Chiara Saraceno: «Discutiamo di Gpa, ma
niente proibizioni»
Intervista. La sociologa Chiara Saraceno: «Impediamo lo sfruttamento
delle donne, ma l’appello di Se non ora quando è sbagliato»
Carlo Lania
«Bisogna tenere separata l’adozione dei bambini da parte di coppie dello stesso sesso
dalla gestazione per altri, perché quest’ultima è una questione che riguarda le coppie
omosessuali come quelle eterosessuali e va trattata separatamente. Aver messo assieme
questi due problemi – come si fa nell’appello di Se non ora quando — è stato un modo per
introdurre argomentazioni improprie contro le unioni civili».
Chiara Saraceno, sociologa celebre anche per i suoi studi sulla famiglia e sulle tematiche
femminili, è tra le prime firmatarie di un contro-appello in cui – diversamente da quanto
chiesto da una parte di femministe aderenti a Se non ora quando – si chiede di riaprire il
dibattito sulla gestazione surrogata, ma soprattutto si difende la possibilità per le coppie
omosessuali di adottare il figlio del partner grazie alle stepchid adoption inserite nel ddl
Cirinnà in discussione da gennaio al Senato. «Mettere assieme questi due tematiche –
ribadisce la sociologa – oltretutto è anche un modo per sussumere anche le lesbiche sotto
la questione gay e, come spesso succede, tutte le questioni omosessuali come
esclusivamente maschili».
Al centro di tutto lei pone i diritti dei bambini.
Certo. I questo paese in nome dell’unità della famiglia tradizionale a lungo si sono negati i
diritti dei figli che un tempo si chiamavano addirittura illegittimi, una parola fortissima. Poi,
fino al 2013, anche di quelli naturali. Ma non abbiamo proprio imparato niente? La legge
ora riconosce che ci sono diritti prioritari dei bambini comunque siano venuti al mondo, e
tra questi diritti c’è quello ad avere dei genitori.
Pensa che il dibattito sorto sulla gestazione per altri abbia come obiettivo le
stepchild adoption?
Nel manifesto di Se non ora quando si dice di essere favorevoli alle stepchild adoption
però, mettendo in questo modo sul piatto una discussione sulla gestazione per altri, senza
fare neanche la distinzione tra coppie lesbiche e gay, hanno permesso a persone come
Giovanardi di attaccare le stepchild adoption. Un attacco che non riguarda solo la
gestazione per altri ma più in generale le coppie omosessuali nella convinzione che non
abbiano il diritto ad avere figli. L’idea che ci sia una filiazione anche per quella via lì è
qualcosa che non possono reggere. Chi ha firmato l’appello di Se non ora quando pone un
problema vero sulla gestazione per altri che capisco. Io stessa ho delle resistenze nei
confronti di certe forme di gestazione surrogata, però pongo questioni serie come il fatto
che il corpo delle donne non è in vendita. Aver introdotto una questione così delicata in
questo momento, proprio quando si discute di unioni civili, avalla il retropensiero di chi
dice: togliamo l’adozione, perché altrimenti questo potrebbe provocare, incoraggiare
anche il ricorso alla gestazione surrogata. Allora vietassero anche il matrimonio
eterosessuale, perché anche quello prima o poi può portare alla gestazione per altri.
Lei dice: i bambini non sono una merce. In cosa vede questo pericolo?
48
In alcune cose orribili che succedono in India, piuttosto che in alcuni paesi ex socialisti
dove ti danno il bambino chiavi in mano e si configurano quasi delle vendite di bambini: io
te le commissiono e tu me lo dai, se però non è perfetto non lo voglio.
L’obiezione non sarebbe più pertinente se riferita alle donne che si offrono per la
gestazione per altri?
Dentro una gestazione per altri fatta in forme puramente mercantili, soprattutto in contesti
di forte sfruttamento, ci sono entrambi gli aspetti. C’è il problema che la donna non ha
nessun diritto sul bambino e di fatto lo vende, perché è pagata per darlo ad estranei. Però
la donna stessa è in vendita con il suo corpo, il suo tempo, i suoi nove mesi di gravidanza
senza che abbia il diritto di cambiare idea, di tenersi il bambino. E per di più costretta ad
abortire se il bambino non piace. L’errore del documento di Se non ora quando è di
pensare che i contesti di gestazione per altri siano tutti di questo tipo, quando non è vero.
E infatti molte coppie gay si rivolgono a paesi , come il Canada o gli Stati uniti, dove
la legge tutela la donna.
Certo la legge tutela la donna e viene mantenuto un rapporto con i bambini. Devo dire che
conosco situazioni di segno molto diverso, alcune delle quali mi portano a condividere –
solo per questo aspetto — l’accusa che le donne vengano trattate solo come uteri che
camminano. Però non è sempre così. Averlo affermato è una semplificazione indebita.
Lei dunque non è contraria per principio alla gestazione per altri?.
No. Intanto io sono contraria a proibizioni tranchant, che alimentano solo un mercato
clandestino. Giustamente uno può volere che certe forme di sfruttamento non si
verifichino, ma questo è anche un problema dei governi che devono stabilire regole
precise, così come è avvenuto e sta avvenendo con l’adozione internazionale. Bisogna
quindi incoraggiare la protezione delle donne che si offrono per la gestazione surrogata e i
loro diritti ultimi. Bisogna discutere di questi temi, proprio perché sono cambiate le nostre
percezioni. In Italia fino all’altro ieri era anche contro all’eterologa. E’ necessario lavorare
sulle garanzie. L’appello di Se non ora quando chiude invece ogni possibilità di
discussione, puntando tutto sulla bellezza della maternità, il rapporto con il corpo e così
via. Ma allora chiedo: e l’adozione, la maternità che avviene in altro modo, i bambini
adottati che non hanno questo rapporto con la donna che li ha partoriti? Che ne facciamo
di tutto questo? Ecco, l’appello è molto pericoloso anche perché non ne tiene conto.
49
BENI COMUNI/AMBIENTE
del 17/12/15, pag. 4
Conflitto d’interessi, Virano non può guidare
l’azienda Tav
di Andrea Giambartolomei
L’ex commissario del governo alla Torino-Lione ed ex presidente dell’Osservatorio tecnico
sul Tav, Mario Virano, non può dirigere la Telt, società incaricata della costruzione della
grande opera. È in conflitto d’interesse e per questo è incompatibile. Lo ha stabilito
l’Autorità garante della concorrenza e dei mercati dopo l’udienza di giovedì scorso. La
decisione è stata comunicata all’interessato ieri.
La vicenda nasce da un esposto fatto dai consiglieri regionali del Movimento Cinque Stelle
in Piemonte indirizzato all’Anac di Raffaele Cantone, che poi ha inviato il fascicolo
all’Antitrust. Virano è stato nominato direttore generale di Telt il 23 febbraio scorso, giorno
in cui ha lasciato la carica di commissario del governo per la Torino-Lione.La legge sul
conflitto di interessi prevede che per un anno una persona che ha avuto un ruolo
nell’esecutivo non possa assumere incarichi in società con fini di lucro o in attività
imprenditoriali. Virano potrà ricorrere al Tar o al Presidente della Repubblica.
50
INFORMAZIONE
Del 17/12/2015, pag. 18
Tv. Nel budget 2016 più entrate da pubblicità grazie agli eventi e
maggiori introiti da canone per 148 milioni
Rai, spinta da canone e sport
Riforma verso l’ok definitivo al Senato - Nasce la divisione «Security»
Chiusura d’anno con un sostanziale pareggio (rosso di 3 milioni dopo le imposte); ricavi da
canone in aumento di 148 milioni; pubblicità in crescita di 40 milioni a quota 700 milioni;
ricavi totali attorno ai 2,7 miliardi, di cui poco meno di due terzi dal canone.
È stato approvato all’unanimità ieri il budget economico finanziario del Gruppo Rai per il
2016. Un placet che arriva quasi in contemporanea con il via libera definitivo alla riforma
della Rai atteso per stasera o domani mattina al massimo. Il Ddl di riforma ha infatti avuto
ieri il via libera della commissione Lavori Pubblici del Senato, passando quindi all’Aula di
Palazzo Madama per l’approvazione definitiva senza alcuna modifica rispetto al testo
trasmesso dalla Camera. Il budget per il 2016 – che come precisa la nota dell’azienda
guidata dal dg Antonio Campo Dall’Orto e dal presidente Monica Maggioni «costituirà la
base per lo sviluppo del Piano industriale 2016-2018» – è “mosso” in particolare da due
fattori sul versante ricavi: un’importante recupero dell’evasione per il canone e gli eventi
sportivi che caratterizzeranno la prossima primavera-estate. Per quanto riguarda il primo
punto, il miglioramento atteso è notevole. A budget è stato messo un tasso di evasione
dell’8% contro una media nazionale attualmente calcolata al 27% delle famiglie con punte
oltre il 40% in alcune regioni, per un mancato introito di almeno 500 milioni. L’evasione
all’8% è stata peraltro comunque identificata come “prudenziale” (per le utenze elettriche
si parla di un 4-5%). Insomma, il nuovo modello di riscossione in bolletta, come previsto
dalla legge di Stabilità, e l’attribuzione alla Rai dei due terzi del maggior gettito stimato
rispetto all’anno precedente dovrebbero portare a questo risultato. Certo, le famiglie
cominceranno a versare in bolletta una quota del canone non a gennaio (mese in cui nel
2015 era fissato il pagamento del canone), ma a partire dalla bolletta di luglio. Non solo.
Le compagnie di energia elettrica sono tenute a girare le somme alla Rai solo a dicembre
2016. Sarà comunque il ministero dell’Economia ad anticipare trimestralmente gli stessi
introiti dell’anno precedente. C’è poi tutto il discorso legato agli eventi sportivi. I diritti per le
Olimpiadi di Rio de Janeiro, dal 5 al 21 agosto, sono già in casa Rai come quelli per le
Paralimpiadi (7-18 settembre). Ancora non c’è nulla di definito per la fase finale degli
Europei in Francia, dal 10 giugno al 10 luglio, ma le simulazioni approvate ieri tengono
conto di una trasmissione da parte dell’emittente di Stato delle partite di calcio con un
accordo che potrebbe essere finalizzato a gennaio. Per quanto riguarda altri punti del
budget, i costi esterni per beni e servizi dovrebbero scendere di 8 milioni, mentre
dovrebbero rimanere stabili gli investimenti sul genere fiction e cinema (superiori ai 400
milioni). Il Cda della Rai ha inoltre deciso l’istituzione della Direzione Security. Il nuovo
«Chief Security Officer» sarà Genseric Cantournet, ex capitano della gendarmeria
francese e vicepresident Security in Telecom. Non è stato ancora deciso, invece, chi sarà
il capo della nuova macroarea “Comunicazione, Relazioni Esterne, Istituzionali e
Internazionali”, nata dalla fusione della direzione “Comunicazione e Relazioni Esterne” e
“Relazioni Istituzionali ed Internazionali”. Dovrebbe trattarsi di una figura non giornalistica
51
ma piuttosto brand-market oriented. L’attuale direttore delle Relazioni istituzionali e
internazionali, Alessandro Picardi, dovrebbe comunque avere un ruolo.
Di Rai ha parlato anche l’ad di Discovery Italia, Marinella Soldi, nella sua audizione in
commissione di Vigilanza sulla riforma dell’emittente pubblica. «Immaginiamo – ha detto –
un servizio pubblico totalmente finanziato dal canone, che non sia più schiavo dello share,
e che affianchi ai canali generalisti un numero limitato di canali tematici dedicati ad
esempio alla cultura, alle produzioni locali, a canali in lingua originale per i bambini,
sviluppando in ogni caso programmi e linguaggi che nulla abbiano a che vedere con quelli
della tv commerciale». Questo permetterebbe anche di «liberare risorse sul mercato,
alimentandone la crescita in termini di contenuti e di pluralismo».
52
CULTURA E SPETTACOLO
del 17/12/15, pag. 21
“Officina Pasolini”, verso l’inferno con l’abito
adatto
Un viaggio tra le forme d’espressione che hanno accompagnato PPP:
manoscritti originali, film, dipinti, costumi di scena, fotografie e
contributi audio
di Silvia D’Onghia
All’inferno bisogna andare con gli abiti adatti, perché non si sa mai chi si può incontrare.
Tre uomini vestiti da donna, per esempio, tre gerarchi fascisti, aguzzini della peggiore
specie con orecchini pendenti e vistose spille. I tre gerarchi di Salò o le 120 giornate di
Sodoma. È il “girone della borghesia”, uno dei tre che si attraversano nella “Officina
Pasolini”, la grande mostra polifonica dedicata al poeta – nel quarantennale della sua
scomparsa – nella “sua” Bologna. Un percorso dagli anni di formazione alla
degenerazione di Petrolio, dai miti arcaici all’attacco alla modernità.
Non esiste un solo modo corretto o completo per raccontare Pasolini, perché in qualunque
forma stilistica o linguistica lo si tenti di ingabbiare ci sarà sempre un contenuto diverso
che apre la porta di un altro orizzonte. Ecco perché “officina”: da opus facere, un
laboratorio nel quale il fabbro inventa, crea, modella. E la mostra è proprio questo, un
viaggio attraverso tutte le forme d’espressione che hanno accompagnato PPP: dai
manoscritti originali alle proiezioni dei film, dai dipinti ai costumi di scena, dalle fotografie ai
contributi audio. Allestita all’interno del MAMbo, un ex panificio nel distretto della
manifattura, e curata da Marco Antonio Bazzocchi, Roberto Chiesi e Gian Luca Farinelli,
“Officina” ha nella Bologna che dette i natali al poeta un inizio e una fine. Il resto, nella
grande navata centrale, è un punto di vista con mille messe a fuoco. E alcune chicche. “Io
possedevo già un ‘italiano’: ed era naturalmente quello delle Ceneri di Gramsci (con
qualche punta espressiva sopravvissuta da L’usignolo della chiesa cattolica); sapevo (per
istinto) che avrei potuto farne uso”: l’istinto che nel 1960 fece tradurre a Pasolini
l’Orestiade di Eschilo, “su richiesta di Gassman”. Lo stesso istinto che molti anni prima, nel
1947, gli aveva fatto mettere mano a un Edipo all’alba, abbozzo teatrale in cui il mito di
Edipo è rivisto alla luce dell’amore incestuoso di Ismene per suo fratello Eteocle. Non a
caso il mito e la sua funzione sono il filo rosso che accompagna il visitatore. Quello
classico, con – oltre all’Edipo – la Medea e gli Appunti per un’Orestiade africana. Ma poi
anche il Friuli, terra materna dalla quale Pasolini fu costretto a fuggire; la madre, la sua
Susanna e le madri infelici dei suoi film (su tutte, la Magnani di Mamma Roma); il Cristo,
quei poveri cristi dimenticati di Accattone e La Ricotta riscattati dal volto etereo ed eterno
di Enrique Irazoqui nel Vangelo secondo Matteo; le borgate romane, paradiso di purezza
dei condannati all’inferno; e i popoli lontani, l’utopia di un mondo ancora intatto
magistralmente illustrato dagli scatti di Roberto Villa sul set del Fiore delle Mille e una
Notte.
Le pareti di questa cattedrale laica rimandano le immagini dei film, e sembra quasi di
vederli gli attori, bardati nei preziosi costumi della sartoria Farani, esposti nuovamente
dopo molti anni. La voce di Pasolini risuona in una delle ultime interviste – alla tv francese
– prima di essere ammazzato all’Idroscalo di Ostia. O racconta Porno Teo Kolossal, il
53
progetto di film che il regista aveva in mente dagli anni Sessanta, poi accantonato per la
morte di Totò e ripreso con la collaborazione di Eduardo De Filippo. Pasolini non lo
realizzò mai, perché qualcuno – e mai sapremo chi – la notte del 2 novembre del ’75
decise che di lui si poteva fare a meno. I telegiornali che annunciano quell’orribile fine,
invece, ricordano ai visitatori della mostra, e a tutto il mondo, che di PPP ci sarebbe
bisogno. Oggi più di ieri.
54
SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
del 17/12/15, pag. 17
Niente social ai minori, divieto comico
di Alex Corlazzoli
Maestro, sei su Facebook?”. È una delle prime domande che sento quando entro in una
nuova classe di quarta o quinta elementare. Fino a qualche anno fa volevano sapere se
avevo una moglie, una fidanzata o dei figli. Ora la generazione 2000 è interessata a
sapere quanto sei connesso perché loro in quel mondo ci sono. Che piaccia o meno
all’Unione europea, il 38% dei ragazzi dai 9 ai 12 anni (secondo i dati Eurokids) e il 77% di
quelli dai 9-12 ha un profilo su un social network, nonostante per la maggior parte di questi
servizi il libero accesso è consentito solo dai 13 anni in su. Quando ieri mattina, entrato in
aula come ogni giorno, ho aperto con i miei ragazzi il quotidiano e letto la notizia che
presto non potranno più avere un profilo su Facebook, Instagram, Twitter e nemmeno una
casella di posta elettronica con Gmail perché l’Europarlamento ha deciso di portare da 13
a 16 anni il limite d’età per aprire un account, è scoppiato un boato di “nooo”.
E non sarà certo il nuovo regolamento europeo a fermare l’esercito dei nativi 2.0:
“Maestro, basta continuare a mettere un’età diversa al momento dell’iscrizione”, mi hanno
suggerito. Il parlamentare tedesco Jan Albrecht, autore della proposta emendamento in
questione che dovrà essere recepita entro il 2018 dagli Stati membri, non ha fatto i conti
con i tanti Marco, Giulia e Sofia che hanno persino l’autorizzazione dei genitori a usare
WhatsApp e Instagram.
Forse all’Europarlamento, dove vogliono alzare il livello dell’età digitale anche per avere
un indirizzo di posta elettronica non si sono accorti che, almeno in Italia, nella maggior
parte dei libri di italiano di classe quinta c’è persino un capitolo dedicato all’insegnamento
dell’uso dell’email. A questo punto dovremmo rivedere i testi e dire che finora gli
insegnanti hanno indotto i ragazzi a compiere un reato. Sarebbe interessante capire chi tra
gli europarlamentari della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni, ha
trascorso qualche giorno a capire che cosa fanno i nostri bambini sui social network. Basta
stare una settimana con chi è nato tra il 1995 e il 2004 per capire cosa succede. Massimo
ha dieci anni, fa la quinta. Si è registrato su Facebook inserendo come data di nascita il 28
maggio 1995. Datore di lavoro: Fc Internazionale Milano. Istruzione: istituto professionale
“Sraffa”. Ha persino inserito tra i dati l’anno di diploma: 2002. Ecco fatto, siamo in
Facebook con oltre 200 amici, maestro compreso.
Pubblica le foto della sua squadra, delle moto, dei suoi amici. Nulla di più. Fa quello che
faceva in altri modi, l’onorevole Albrecht quando aveva l’età del mio alunno. Oggi non è
più tempo dei poster in camera e delle telefonate.
L’89,8% utilizza Whatsapp per rimanere connesso con gli amici: più di uno su due manda
più di 50 messaggi al giorno (57,4%) per scherzare con i compagni ma anche per
scambiarsi informazioni sui compiti, per sapere a che ora incontrarsi in palestra.
Certo, tra i contatti dei miei ex alunni, su Instagram e Facebook c’è anche quella ragazzina
in costume e in biancheria intima ma forse perché nessuno ha spiegato lei le regole del
gioco. Il report sul bullismo in Italia, presentato in questi giorni dall’Istat, ci dice che tra i
ragazzi utilizzatori di cellulare e/o web, il 5,9% denuncia di avere subìto ripetutamente
azioni vessatorie via sms, email, chat o social network. La questione è un’altra: è urgente
55
fare educazione civica digitale. La scuola ha il compito di spiegare ai ragazzi i rischi e i
pericoli, i diritti e i doveri della vita digitale. Ha anche quello di formare quelle mamme e
quei papà che vivono un gap con la generazione dei loro figli. Non sarà certo
l’atteggiamento proibizionista dell’Ue a fermare i giovani 2.0 che, grazie anche alla Rete,
potranno essere più attivi, più partecipi, più cittadini.
56
ECONOMIA E LAVORO
del 17/12/15, pag. 27
Benvenuti (davvero) al Sud
La Basilicata vuole garantire il reddito minimo a ottomila persone con le
royalty del petrolio
Nel Texas d’Italia anche i disoccupati avranno un reddito minimo grazie al petrolio. La
Regione Basilicata ha deciso di investire le royalty del suo «oro nero» per pagare un
assegno a circa 8.000 famiglie prive di entrate economiche sicure e dignitose. È un punto
di svolta nel controverso rapporto tra l’estrazione degli idrocarburi e questa parte d’Italia a
lungo in testa alle classifiche della povertà; e la Basilicata, se da un lato possiede i
giacimenti di petrolio più ricchi dell’Europa continentale, dall’altro è tra le regioni che da
mesi stanno tentando di strappare al governo lo stop alle trivellazioni in mare.
Benvenuti al Sud che prova a uscire da un destino di arretratezza facendo leva sulle sue
risorse. Sono 7 le Regioni italiane intenzionate a garantire un salario minimo ai senza
lavoro (Lombardia, Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Molise, Puglia e appunto
Basilicata), a cui vanno aggiunte le province autonome di Trento e Bolzano. Ma mentre in
tutta Italia questa forma di welfare viene finanziata attraverso fondi europei sul
reinserimento nel mercato del lavoro, la Basilicata lo pagherà al 95% con gli indennizzi
incassati dalle compagnie che estraggono l’«amato-odiato» petrolio.
La Regione ha già approvato il regolamento e sta per pubblicare i bandi per gli aventi
diritto: l’iniziativa si rivolge principalmente a due categorie, i lavoratori per i quali scade la
cassa integrazione in deroga e le famiglie con un reddito inferiore a una certa soglia. Il
«reddito minimo» funzionerà così: i comuni lucani presenteranno progetti per lavori di
pubblica utilità per i quali impiegheranno i senza lavoro. Il compenso di questi ultimi (circa
500 euro al mese per un periodo di un anno) verrà pagato dalla Regione; nel contempo i
beneficiari potranno seguire corsi per riaffacciarsi sul mercato del lavoro. Le royalty sugli
idrocarburi garantiranno a questo piano non meno di 40 milioni di euro all’anno. L’obiettivo
è di cominciare a versare il contributo sociale dal febbraio del 2016.
«Fino a ieri — spiega il presidente della giunta regionale Marcello Pittella (Pd) — con i
proventi petroliferi pagavamo una carta sconto sui carburanti indistintamente a tutti i
residenti in Basilicata. Adesso abbiamo deciso di concentrare le risorse a beneficio della
fascia più svantaggiata della popolazione. La Basilicata ha fatto grandi passi avanti: la
percentuale di chi non gode di un reddito sufficiente è passata dal 50% al 38% ma non ci
può essere sviluppo se la società viaggia a due velocità».
La ricchezza portata dall’oro nero è al centro di roventi polemiche in Basilicata: troppo
squilibrio tra i profitti garantiti a chi estrae e le compensazioni per gli enti locali; troppo alto
il prezzo pagato dall’ambiente e dalla salute. Adesso il «reddito minimo» finanziato con le
royalty cerca di mettere le cose a posto. Difficile però non vedere la contraddizione: da un
lato la Basilicata ammortizza il disagio sociale grazie al petrolio ma dall’altro dice no alle
trivellazioni in mare e all’apertura di nuovi pozzi sulla terraferma.
«Non mi piacciono gli eccessi di certe proteste di piazza — prosegue Pittella — ma il
concetto a cui teniamo fede è la sostenibilità ambientale di cui parlano gli accordi
sottoscritti con il governo nel 1998 e nel 2006: lì quel limite di sostenibilità è fissato in
154.000 barili al giorno. E dunque non rovineremo le nostre coste e non autorizzeremo
nuove perforazioni in segno di rispetto per l’ambiente».
Claudio Del Frate
57
Del 17/12/2015, pag. 6
L’America alza i tassi stop al denaro gratis
“Meno rischi per ripresa”
Aumento di 25 centesimi: è la prima volta da 9 anni Yellen ottimista.
Avanza Wall Street. L’incognita Bce
FEDERICO RAMPINI
Alle ore 14 di Washington, le 20 italiane, gli schermi di tutto il mondo hanno lampeggiato
l’attesa notizia. “Breaking News”: +0,25% nei tassi della Federal Reserve. Una mossa
modesta ma gravida di conseguenze, lo spartiacque tra un “prima” e un “dopo”. L’ultima
volta accadde 9 anni e mezzo fa. Giugno 2006, l’allora presidente della Fed Ben Bernanke
alzò i tassi: a quota 5,25%. Un’altra era, un altro mondo. Oggi i rendimenti si sono appena
sollevati al di sopra dello zero. In mezzo c’è stata la crisi più grave dalla Depressione degli
anni Trenta, poi l’invenzione di una cura audace: una politica monetaria iperattiva
schiacciò i tassi a zero esattamente sei anni fa, quindi iniziò a inondare l’America e il
mondo con 4.000 miliardi di liquidità. Un esperimento senza precedenti, terapia di shock
inaudita. Ieri la donna più potente dell’economia mondiale ha potuto dire: missione
compiuta. Janet Yellen nella sua conferenza stampa ha spiegato perché è fiduciosa di
poter chiudere a poco a poco l’epoca delle misure eccezionali. La ripresa americana
compie 6 anni e 6 mesi «e mostra una forza soddisfacente». Ha sottolineato il 5% di
disoccupazione, vicino al pieno impiego. «I consumi e gli investimenti tengono, nonostante
gli sviluppi internazionali negativi». Il rallentamento cinese e la rivalutazione del dollaro
sono in cima alle preoccupazioni, ma «rispetto a quest’estate i rischi si sono ridotti ». Altro
segno di ritorno alla normalità, l’inflazione rialza la testa. Molto moderata, anche perché il
petrolio che crolla riduce i costi energetici.
La Yellen spiega che è un rincaro del costo del denaro di tipo omeopatico, somministrato
con moderazione. Salvo shock negativi l’anno prossimo ci saranno altri tre di questi
minuscoli rialzi. I tassi Fed arriveranno a 1,5% a fine 2016, a 2,5% a fine 2017, e a 3,25%
a fine 2018. Un “dovish hike”, un rialzo da “colombe”, deciso non per spegnere la ripresa
ma anzi per sostenerla. «Voglio vedere una crescita prolungata », spiega la Yellen,
aggiungendo che la guarigione del mercato del lavoro non è conclusa: ci sono ancora
troppi lavoratori a part-time; i salari non aumentano in modo soddisfacente. Iniziando ad
alzare i tassi oggi la Fed vuol evitare di trovarsi in una situazione pericolosa: se aspettasse
troppo a lungo, potrebbe trovarsi costretta a spegnere l’inflazione con rialzi del costo del
denaro più brutali e rapidi, innescando una recessione. «La prima cosa che gli americani
devono capire dalla nostra decisione di oggi, è quanto siamo fiduciosi sulla salute della
nostra economia», conclude. E Wall Street reagisce con un netto rialzo.
Il tasso che la Fed ha aumentato è quello sui Federal Funds, da cui ne dipendono altri,
che subito si muovono al rialzo: gli interessi percepiti sulle carte di credito dei consumatori,
i ratei dei mutui-casa a tasso variabile. «Ma partiamo da un costo del denaro
eccezionalmente basso», ha ricordato la Yellen, convinta che l’economia americana ha
spalle robuste per sostenere questo piccolo rincaro del credito. Può avere un effetto
psicologico positivo: se tutti si convincono che è finita l’emergenza, possono avere più
fiducia e comportarsi di conseguenza, dai consumi agli investimenti. I precedenti storici
però associano i rialzi dei tassi con le recessioni: e questa ripresa Usa è durata già molto
rispetto alla media. Quali le conseguenze internazionali? L’attenzione ossessiva dal resto
del mondo si giustifica: l’economia Usa influenza le altre, l’economia mondiale è un
58
sistema di vasi comunicanti. Se i rendimenti americani continuano la marcia all’insù, gli
investitori si sentono attratti verso titoli Usa che renderanno di più. Dunque i capitali
tenderanno ad affluire verso gli Usa. Effetto positivo: è possibile un’ulteriore svalutazione
dell’euro, fa bene agli esportatori e alla ripresa italiana. Ma quando i capitali si spostano
verso l’America, per trattenerli in Europa può diventare necessario offrire un po’ di più.
Tocca dunque alla Bce contrastare la spontanea tendenza dei mercati a seguire il rialzo
americano con un rincaro del costo del denaro alla periferia dell’impero. Chi si trova in una
tenaglia sono le economie emergenti già in recessione: per loro i capitali in fuga sono una
maledizione, tante imprese devono restituire debiti in dollari, le monete emergenti valgono
sempre meno e i debiti sempre di più. Piccoli risparmiatori, pensionati, possono salutare il
ritorno alla normale? Chi deve accantonare risparmi per il futuro, o vivere su quello che ha
da parte, con il tasso zero si sentiva più povero e magari cascava nella trappola della
finanza speculativa. Un ritorno a rendimenti positivi è una buona notizia, nel medio
termine. A breve però una ripercussione dei tassi che salgono, è la perdita di valore
dell’ampio stock di bond esistenti: il loro prezzo si muove nella direzione opposta ai tassi.
Si è già visto tremare il mercato dei junk-bond, in pesante perdita da settimane. Quale
“ritorno alla normale” ci aspetta? La crescita mondiale continua ad essere lentissima,
rispetto al periodo dagli anni 50 agli anni 90. La stagnazione secolare ha cause strutturali
come denatalità, invecchiamento, calo della forza lavoro attiva, diseguaglianze, scarsi
progressi nella produttività. Tutte cose che la politica monetaria non cura. I grandi assenti,
la Yellen lo ha ricordato, restano i governi: da anni le politiche di bilancio frenano la
crescita. Ora che la banca centrale più potente inizia a ritirarsi dal suo ruolo di supplenza,
la latitanza degli altri attori diventa ancora più problematica.
59