Globalizzazione e rapporto tra Nord e Sud Mondo

Transcript

Globalizzazione e rapporto tra Nord e Sud Mondo
LA GLOBALIZZAZIONE E IL RAPPORTO
TRA NORD E SUD DEL MONDO
di
STEFANO ZAMBERLAN
Il processo di globalizzazione
Con il termine globalizzazione si va ad indicare il fenomeno di espansione e liberalizzazione del commercio e della telecomunicazione su
scala planetaria, che permette oggigiorno di comunicare, viaggiare e
spostare merci e capitali in ogni parte del globo con costi e tempi bassissimi rispetto al passato recente. Come data di inizio della componente economica e finanziaria del processo di globalizzazione, si è soliti indicare il 1971, anno in cui il presidente americano Richard Nixon decretò la fine della convertibilità del dollaro in oro e perciò la caduta del sistema di Bretton Woods e la nascita di un sistema mobile di cambi fra
le valute.
Tale processo è stato poi governato dai maggiori Paesi capitalisti,
riuniti nell’allora “Gruppo dei 7”, il cosiddetto G7. Lo scopo era di rendere il mercato globale, in modo tale che merci e capitali avrebbero potuto spostarsi in tutto il mondo raggiungendo così un’allocazione il più
efficiente possibile. Per far ciò si seguì la strada della deregulation e
quindi della liberalizzazione dei traffici finanziari. Le istituzioni internazionali create a Bretton Woods, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, assieme al GATT (General Agreement on Tariffs
and Trade), poi assorbito nell’Organizzazione Mondiale per il Commercio, il WTO (World Trade Organization), furono utilizzate per guidare e favorire tale processo.
Inizialmente vi fu una ventata di ottimismo, in quanto era opinione
diffusa che questa liberalizzazione dei mercati avrebbe portato ad un aumento generale della ricchezza, favorendo così lo sviluppo di tutti. Purtroppo negli ultimi decenni le tendenze di fondo che sono emerse si sono
dimostrate ben diverse. Infatti, l’aumento del commercio internazionale,
l’integrazione dei mercati finanziari e la destrutturazione del processo di
produzione, attraverso la terziarizzazione e la delocalizzazione, non solo
43
Estratto «Il pensiero economico moderno», vol. 2, 2005, pp. 43-64.
hanno avuto degli effetti imprevisti in campo economico, ma hanno anche determinato delle notevoli ripercussioni sociali e politiche.
Le tendenze in atto e il divario tra Nord e Sud del Mondo
Attualmente vi sono alcune tendenze di fondo che destano preoccupazione. La prima è un processo di destrutturazione del tradizionale rapporto-controllo tra sfera politica e sfera economica. Gli Stati sovrani hanno
visto diminuire la propria capacità di influire sulle dinamiche finanziarie
ed economiche che si svolgono ora in un contesto globale, sul quale il
singolo legislatore nazionale ha una influenza ben limitata. Per fronteggiare la globalizzazione serve perciò una concertazione internazionale
delle politiche di intervento, che si rivela però lunga e complessa.
La seconda tendenza in atto è una diminuzione nei Paesi industrializzati del benessere collettivo, dovuto ad una maggiore concorrenza fiscale,
e di conseguenza ad una minore capacità di spesa sociale degli Stati. Una
situazione risolvibile con la ricerca di maggior efficienza degli apparati
pubblici e con il criterio della sussidiarietà nel rapporto fra Stato ed Enti
locali. Una strada comunque non facile, pensiamo al solo caso Italia,
con un livello fiscale che rimane alto ed una gestione della pubblica amministrazione da sempre poco efficiente e problematica dal punto di vista
delle attribuzioni di competenza e responsabilità.
La terza tendenza è una crescita delle aree ricche e industrializzate
maggiore di quella delle aree povere ed un conseguente amento della
disuguaglianza fra reddito. L’aumento della ricchezza vi è stato sì, e
quindi la povertà in senso assoluto è diminuita, ma la povertà relativa è
andata aumentando. Convenzionalmente un soggetto, inteso come singolo individuo o nucleo familiare, è considerato povero in senso assoluto se ha a disposizione meno di un dollaro al giorno per l’accesso ai beni di prima necessità. Risulta difficile comunque una valutazione precisa della disuguaglianza tra il benessere dei vari Paesi, a causa del differente costo della vita e la non omogeneità dei beni consumati. Inoltre, il
divario in termini di reddito può non essere accompagnato da un aumento della povertà assoluta e degli indicatori sociali. Ciononostante, il
fenomeno è innegabile, bisogna per di più notare che se la povertà assoluta è andata diminuendo, il numero dei poveri è andato però aumentando per effetto della crescita demografica mondiale.
44
Estratto «Il pensiero economico moderno», vol. 2, 2005, pp. 43-64.
Il divario di reddito non si riscontra solo tra Paesi sviluppati e Paesi in
via di sviluppo (Pvs), ma si manifesta anche all’interno degli stessi Paesi
industrializzati, e questo per effetto del progresso tecnologico e della
suddivisione dei lavoratori in due classi: i non qualificati da una parte e i
superspecializzati ad alto know how dall’altra. Ulteriore tendenza, infatti,
è la diminuzione del capitale sociale, con la nascita di nuove opportunità
di sviluppo economico per i Paesi economicamente emergenti grazie alla
migrazione di forza lavoro o alla mobilità dei capitali e degli investimenti
attratti dal basso costo degli lavoratori non qualificati.
Purtroppo, la delocalizzazione porta spesso ad uno sfruttamento dei
lavoratori e dei bambini, ed isola ancor più i Paesi maggiormente poveri,
gli ultimi della lista, che senza elementi di interesse per le grandi correnti
finanziarie cadano nella “trappola della povertà”. I flussi finanziari, infatti, si spostano non dove sono necessari allo sviluppo, ma dove trovano le
condizioni migliori per la loro remunerazione. Tuttavia, l’attuale preminenza delle attività finanziarie su quelle economiche, il loro aumentare di
volume, l’informatizzazione delle transazioni e l’integrazione dei mercati
determinano una maggior probabilità di crisi finanziarie, che possono aver origine da speculazioni locali o da politiche fiscali e monetarie azzardate, le cui conseguenze si riversano poi su tutto il sistema. Un esempio
sono le crisi delle borse valori del Sud-Est asiatico degli ultimi anni.
Altro effetto negativo che si registra è l’aumento delle emissioni inquinanti e il depauperamento delle risorse naturali. Ciò perché, da una
parte, si ha la scarsa volontà dei Paesi industrializzati, specie in momenti
di congiuntura difficili come quello attuale, di inserire limitazioni alle attività economiche volte a tutelare la salute e l’ambiente, con una poco incisiva governance ambientale nazionale e internazionale. Dall’altra, si ha
lo sfruttamento effettuato dai Paesi in via di sviluppo, che nel tentativo di
recuperare terreno rispetto ai Paesi ricchi, o semplicemente di sopravvivere, scaricano pesantemente i costi economici sull’ambiente o lo utilizzano a ritmi eccessivi rispetto alla sua capacità di rigenerazione.
Ultima tendenza, ma non meno importante, è il rischio di una
omogeneizzazione culturale, intesa come perdita o non valorizzazione
delle singole identità culturali. Con la globalizzazione si ha il rischio che
le tradizioni peculiari scompaiano, andando verso un appiattirsi dello stile
di vita e delle norme sociali sul modello occidentale, il quale, purtroppo,
è spesso basato sempre più su elementi culturali legati al consumismo e al
sistema economico.
45
Estratto «Il pensiero economico moderno», vol. 2, 2005, pp. 43-64.
Il sistema economico a base agricola dei Pvs
La globalizzazione e gli accordi emersi dalle contrattazioni del WTO,
purtroppo, hanno finito con l’aggravare il già pesante divario tra Nord e
Sud del mondo, portando i ricchi ad essere sempre più ricchi e i poveri
sempre più poveri. Infatti, si sono messi sullo stesso piano Paesi dal peso
politico ed economico troppo sbilanciato anche solo per poter parlare di
concorrenza. I Paesi del Terzo e Quarto mondo non hanno un peso né politico né economico tale da contrattare condizioni o clausole favorevoli in
sede internazionale.
L’economia dei Paesi in via di sviluppo è principalmente basata su
un’agricoltura di tipo monoculturale. In passato, infatti, quando molti di
questi territori erano colonie, si svilupparono le produzioni agricole esotiche tipiche del luogo e le attività minerarie estrattive, che spesso rimangono ancor oggi i soli mezzi di sostentamento. Questi Paesi sono perciò
costretti ad esercitare una forte pressione sul loro patrimonio naturale, per
riuscire ad ottenere un minimo di risorse per mitigare, con scarsi effetti,
la grave situazione in cui versano, con danno per le generazioni future e
per l’umanità intera. Emblematico è l’abbattimento della foresta Amazzonica, definito come l’ultimo grande polmone verde della Terra.
Tale situazione con la liberalizzazione dei mercati è andata aggravandosi, perché a seguito degli accordi commerciali i Paesi del Sud del mondo sono stati costretti a spingere sulle loro produzioni tipiche, le uniche
che, a causa della politica fortemente protezionistica degli Stati Uniti e
dell’Europa verso i prodotti cerealicoli e tessili, possono entrare nel mercato internazionale ed attirare valuta estera. Inoltre, molti Paesi industrializzai – tra cui quelli europei con la Politica agricola comunitaria (Pac) –
attraverso le sovvenzioni alle esportazioni, stimate in ben 300 miliardi
l’anno (fonte: Undp, 2003, pp. 182 e ss.), consentono ai produttori nazionali di collocare le proprie merci sui mercati dei Pvs con un prezzo inferiore al costo di produzione che sopportano, andando a vincere la concorrenza dei produttori locali che altrimenti avrebbero un prezzo minore grazie al basso costo del lavoro. Così facendo i prodotti alimentari tropicali
destinati ai Paesi del Nord e non concorrenti con le produzioni agricole di
questi ultimi, come il caffé, il cotone, le banane e altri, hanno finito per
egemonizzare la produzione agricola, costringendo i Paesi in via di sviluppo a comprare sul mercato internazionale i cereali con cui sfamarsi,
che nel corso del tempo hanno visto aumentare il loro prezzo. Ne deriva
46
Estratto «Il pensiero economico moderno», vol. 2, 2005, pp. 43-64.
una crescente dipendenza alimentare, per il fatto che il reddito ottenuto
dalle produzioni tipiche è inferiore al denaro necessario ad acquistare i
cereali non più prodotti internamente.
Vi è stata di conseguenza una costante riduzione della percentuale di
terra destinata all’agricoltura di sussistenza, per favorire l’espansione delle colture da esportazione, sulle quali però lucrano solo pochi ricchi latifondisti e gli esportatori. Questa elite blocca di fatto la possibilità di modificare l’assetto delle colture, mentre dalle stime risulta che il misero
compenso dato ai contadini rappresenta solo pochi punti percentuali del
prezzo finale. Inoltre, la coltivazione intensiva applicata e la messa a coltura di nuove terre determina un progressivo impoverimento delle risorse naturali, causando la desertificazione di vaste zone coltivabili e la distruzione
di foreste o di aree boschive. Analogamente accade per l’allevamento bovino da esportazione, soprattutto in America Latina, che cresce a dismisura assorbendo produzione agricola alimentare, mentre il consumo interno
di carne da parte della popolazione raggiunge i minimi storici.
Si stima che le barriere doganali erette dai Paesi industriali per proteggere i loro prodotti, e le sovvenzioni all’esportazione, per permettere
ai loro prodotti di conquistare i mercati stranieri, rappresentino un mancato guadagno per i Paesi poveri di circa 100 miliardi di dollari l’anno,
più o meno il doppio di ciò che ricevono sotto forma di aiuti finanziari
per il loro sviluppo. D’altra parte, tali provvedimenti protezionistici
permettono di proteggere l’agricoltura e i settori ad essa collegati nei
Paesi industrializzati, anche se la produttività, a volte eccessiva rispetto
alla domanda ed ottenuta con metodi intensivi nocivi per l’ambiente,
costringe le autorità a distruggere parte di ciò che viene prodotto. Non è
detto però che i Pvs saprebbero sfruttare appieno il venir meno di questi
ostacoli, senza prima attuare quanto meno una riforma agraria interna.
La delocalizzazione produttiva e i suoi effetti sociali
Drammatica è altresì la situazione dei sistemi industriali presenti nei
Paesi poveri, i quali desiderosi di inserirsi nel circuito di produzione e
scambio globale, sono però troppo deboli per imporre qualsiasi tipo di
condizione al capitale internazionale. Il fenomeno della delocalizzazione
è andato così ad avere degli effetti sociali rovinosi. L’impatto potenzialmente positivo della delocalizzazione, previsto dai modelli tradizionali di
47
Estratto «Il pensiero economico moderno», vol. 2, 2005, pp. 43-64.
commercio internazionali, è stato vanificato da un livello troppo basso di
capitale umano iniziale e da una bassa qualità istituzionale, elementi sui
quali la gran parte delle multinazionali continuano a lucrare. Va detto, infatti, che le disumane condizioni di lavoro della manodopera industriale e
dei salariati agricoli rappresentano l’attrattiva principale per gli investitori
stranieri. Il Sud del mondo, con la sua vasta offerta di manodopera, in
particolare minorile, e le sue paghe misere, è da molti anni per le imprese,
soprattutto le multinazionali, un luogo ideale per produrre a costi minori.
In questi “paradisi normativi” si evitano inoltre molti “fastidiosi inconvenienti” e limiti normativi, grazie alla scarsa regolamentazione vigente in
materia di tutela del lavoro e dell’ambiente.
I governi, dai regimi spesso repressivi e polizieschi, e le oligarchie locali pur di mantenere questi flussi finanziari, che lasciano a loro le briciole e assicura margini di profitto consistenti alle economie dei Paesi industrializzati, si fanno garanti della libertà di sfruttamento e di inquinamento che esiste, se necessario anche attraverso misure violente per soffocare
l’attività sindacale o le proteste degli operai. L’ingiustizia sociale è alla
base di un sistema economico internazionale che attira nel Terzo mondo
produzioni agricole e di beni destinati non tanto al mercato interno, ma
piuttosto all’esportazione nei Paesi ricchi. Così lucrano pochi imprenditori locali che ricevono gli appalti dalle multinazionali straniere, mentre i
salariati vivono nella miseria come condizione necessaria al funzionamento di questo meccanismo ingiusto.
Nel Sud del mondo non c’è, come spesso si crede, una massa uniforme di poveri tutti uguali fra loro, nullafacenti e in attesa di aiuti umanitari, ma ci sono milioni di lavoratori sfruttati e ridotti alla fame. I salari di
questi lavoratori a stento raggiungono la sussistenza, anzi, spesso anche
se tutti i membri della famiglia lavorano, inclusi i bambini, i soldi racimolati non bastano a coprire le necessità di base. L’incidenza del costo
dei salari sul prezzo di vendita dei beni manifatturieri prodotti nel Terzo
mondo è irrisoria, spesso al di sotto dell’1%, a dimostrazione che non è
su questi salari così bassi che si costruisce il differenziale che permette
all’impresa di rimanere sul mercato, non è una reale necessità imposta
dalle leggi del mercato, ma un modo irresponsabile di tagliare sui costi,
incrementando i profitti in un modo che si può definire immorale. La
ricerca del profitto è legittima da parte di un’impresa, ma ciò non toglie
che sia, da un punto di vista etico, opportuna l’inclusione nell’agire di
un minimo di finalità sociali. Quanto meno si deve tendere ad operare
48
Estratto «Il pensiero economico moderno», vol. 2, 2005, pp. 43-64.
nel rispetto della dignità e della salute umana, prima di tutto, e della sostenibilità ambientale poi.
La responsabilità dei Paesi industrializzati
Si ravvisa perciò la necessità di prendere coscienza della realtà che ci
circonda e che ci lega a ciò che accade nel resto del mondo e che coinvolge elementi che possono sembrare separati ma che in realtà sono interconnessi fra loro: la sostenibilità del nostro modello di produzione e di
consumo, lo sviluppo del Terzo mondo, il rispetto dei diritti umani, la
protezione dell’ambiente. Solo cogliendo il legame che esiste fra questi
fenomeni si possono trovare delle motivazioni tali da generare una volontà di cambiamento, un cambiamento che coinvolge le scelte dei consumatori, degli imprenditori e degli organismi governativi e internazionali. Per
orientare queste scelte ci deve essere un impegno che parte dalla base e
che si esplica non tanto nelle grandi mobilitazioni o manifestazioni, ma
piuttosto nella vita di tutti i giorni attraverso un consumo e delle preferenze più etiche e socialmente più responsabili.
La ricchezza dei Paesi industrializzati, abbiamo visto, si mantiene anche grazie alla povertà e allo scarso potere contrattuale dei Paesi del Terzo Mondo dell’Africa, del Sud-Est Asiatico e dell’America Latina, le ragioni di scambio di questi Paesi sono diminuite nel corso degli ultimi due
decenni di un complessivo del 50%. Le conseguenze negative per questi
sistemi economici sono pesantissime e si riflettono sulle possibilità di iniziare un effettivo processo di sviluppo socioeconomico che porti ad un
minimo di benessere diffuso. In situazione di estrema povertà, di mancanza di istruzione e di disgregazione sociale della popolazione in cui
versano molti dei Paesi sottosviluppati, è più facile per le multinazionali
esportare le materie prime che servono ai sistemi industriali dei Paesi ricchi, mentre le forze economiche e politiche estere, soprattutto in caso di
guerre civili, possono sostenere i gruppi o i dittatori che meglio potranno
assecondare le loro pretese, il tutto sulle spalle delle popolazioni ridotte
in situazioni tragiche. E queste guerre, soprattutto in Africa, passano sotto
silenzio. Purtroppo le armi sono prodotte nei Paesi industrializzati in cui
vi è la pace, e ciò fa sì che tra i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite siedano i cinque maggiori produttori di armi,
che controllano quasi il 90% di questo traffico che supera gli 800 miliardi
49
Estratto «Il pensiero economico moderno», vol. 2, 2005, pp. 43-64.
di dollari l’anno. Sicuramente sarebbe un passo importante verso la pace
e un commercio più etico, se si cercasse di riconvertire queste produzioni
limitandone la proliferazione.
Per quanto riguarda l’agricoltura, invece, come già descritto, le tariffe
che i Paesi industrializzati applicano sulle importazioni provenienti dai
Pvs sono, rispetto alla media generale, del 30% circa più elevate, in particolare sono colpite le produzioni tessili e alimentari. Inoltre, i Pvs subiscono una perdita annua di decine di miliardi di dollari a causa dei sussidi
all’agricoltura per l’esportazione erogati dai Paesi industrializzati.
I grandi flussi finanziari, che nascono da una ricchezza ottenuta anche
attraverso un rapporto sbilanciato tra Nord e Sud del mondo, non vanno
ad investire sulle attività locali nei Paesi meno sviluppati, ma finanziano
le attività delle multinazionali e di coloro che ricevono da queste gli appalti. Questo perché, come detto, l’attività finanziaria tradizionale risponde esclusivamente ad elementi di natura economica. Innanzitutto, l’entità
dei finanziamenti che verrebbero richiesti nei Pvs per le piccole attività
agricole o manifatturiere, anche a livello aggregato, è normalmente esigua. I tassi di crescita che si prospettano poi sono modesti e con un ritmo
considerato troppo lento. Inoltre, la gestione di un rapporto con una miriade di clienti sparsi su un territorio tanto vasto richiederebbe un notevole impegno in personale e strutture addette alla promozione, gestione e
recupero crediti, con conseguente aumento delle attività amministrative e
burocratiche e quindi un aumento dei costi. Perciò per i piccoli produttori
dei Paesi poveri è quasi preclusa la via del credito presso istituti finanziari tradizionali. Ciò porta non solo all’impossibilità di far nascere nuove
attività, ma anche alla cessazione di quelle già esistenti a vantaggio
dell’elite ricca che può così accentrare ancor più nelle proprie mani la
produzione agricola e manifatturiera. Altra gravissima conseguenza è il
dilagare dell’usura, talmente diffusa che le sue logiche sono oramai considerate normali, e che porta alla lunga alla cessione dell’attività o addirittura
alla “cessione” dei propri figli, perché questi possano ripagare, con anni di
duro lavoro, i debiti che i genitori sono stati costretti a contrarre.
Il debito dei Paesi poveri e gli aiuti finanziari
Altro elemento che contribuisce a mantenere in queste condizioni i
Paesi del Terzo e Quarto mondo è il giogo dei debiti. I Paesi industrializ-
50
Estratto «Il pensiero economico moderno», vol. 2, 2005, pp. 43-64.
zati per aiutare l’economia dei Pvs hanno messo a disposizione, attraverso la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, i capitali necessari per sostenere dei progetti di crescita. Tali progetti erogati però fallirono, soprattutto perché si cercò di esportare modelli di sviluppo maturati in altri contesti, quali quelli nord americano ed europeo. I prestiti erogati non poterono così essere pagati e le poche risorse monetarie prodotte dai Paesi poveri beneficiari sono usate per coprire a stento i soli interessi che maturano su questi debiti, al posto di essere reinvestite in sanità, istruzione e infrastrutture, elementi imprescindibili per sperare in uno
sviluppo socioeconomico. Il FMI allora cercò di porre rimedio imponendo degli aggiustamenti a diversi Paesi indebitati, obbligandoli a ridurre la
già scarsa spesa pubblica – per la sanità in Thailandia, per l’istruzione in
Pakistan o per le sovvenzioni alimentari in Venezuela ed Egitto – con effetti economici deludenti e ripercussioni sociali durissime. Si pensi alle
“rivolte della fame” di Caracas o del Cairo o all’esplosione di malattie
contagiose quali l’Aids. Su questo fronte purtroppo si ha l’inattività, per
scelta o per lobby, di gran parte della classe politica occidentale.
Se questa condizione di abuso economico, di indebitamento e di mal
gestione è ancora sconosciuta a larghe fasce delle popolazioni ricche, fra
le popolazioni povere, invece, è diffusa una maggior consapevolezza del
ciclo perverso in cui sono caduti i loro Governi e del ruolo delle multinazionali e degli organismi internazionali. Non è infatti insolito, come
riportano i giudici di pace dell’Onu, che anche i bambini interrogati sul
perché della loro situazione di povertà indicano come responsabili “States ’n World Bank”, ovvero gli Stati Uniti, o meglio le multinazionali
americane per il prelievo delle risorse, e la Banca Mondiale e il Fondo
Monetario Internazionale per il debito che devono pagare. Questi bambini probabilmente non sanno realmente di cosa parlano, ma molti degli
adulti sì. Per sensibilizzare la popolazione occidentale sono state promosse dalle Organizzazioni Non Governative (Ong) molte campagne di
sensibilizzazione per l’annullamento del debito, qualche passo in avanti
si è fatto, ma in sostanza la situazione è rimasta invariata, anche se
spesso questi debiti rappresentano una percentuale assai poco rilevante
del prodotto interno lordo (Pil) dei Paesi creditori.
In generale le politiche di aiuti finanziari, di sviluppo della tecnologia,
di protezione dei propri mercati interni e dei diritti di proprietà intellettuali sono risultate non essere vantaggiose per i Pvs. Va però ricordato che
sul finire del decennio sono emerse tendenze leggermente più favorevoli,
51
Estratto «Il pensiero economico moderno», vol. 2, 2005, pp. 43-64.
non senza la complicità di una forte pressione dal basso, basti pensare alla
già citata riduzione dei debiti e alla liberalizzazione dei brevetti sui farmaci di base per il trattamento dell’Aids in Africa.
Assai poco rilevanti sono, inoltre, la dimensione degli aiuti che i Paesi
industrializzati offrono ai Paesi poveri. Negli anni ’70 i Governi ricchi
avevano affermato di voler arrivare a stanziare lo 0,7% del proprio Pil in
aiuti, con il tempo tuttavia la quota destinata a finanziamenti è invece diminuita a solo un terzo di quanto previsto, nel 1980 i finanziamenti sono
stati di 57,6 miliardi di dollari, mentre nel 2001 solo di 54 miliardi. La
flessione maggiore si è avuta però nella prima parte degli anni ’90, mentre nel 2002 vi è stata una ripresa arrivando a 56 miliardi, con l’impegno
di un aumento ulteriore di 16 miliardi entro il 2006, vi è quindi una tendenza positiva nell’intensificare gli aiuti (fonte: Undap, 2003, Tab. 8.1).
Si stima che per raggiungere il volume di aiuti necessari ad avviare un
duraturo processo di sviluppo si dovrebbero stanziare altri 50 miliardi di
dollari. Certo la congiuntura non è favorevole a tale iniziativa, ma se
l’UE in seguito all’allargamento riuscisse a destinare l’1% del proprio
Pil in aiuti, probabilmente sarebbe in grado di centrare questo obiettivo,
dimostrando al mondo intero di saper coniugare la globalizzazione con
la solidarietà e i valori morali. Ovviamente non bastano buoni propositi
e aiuti finanziari, servono anche strategie e ricette fattibili ed efficaci.
Nuovi modelli di sviluppo per il Sud del Mondo
Spesso si sostiene che il mantenere i debiti consente di avere uno
strumento per farsi ascoltare e aiutare i Paesi poveri verso la democrazia
e lo sviluppo economico. Ma quali ideali esportiamo? Quelli di libertà civile o solo quelli di libertà economica? E quali ricette economiche? Quelle
adatte alle vocazioni del singolo Paese o solo le produzioni industriali scarsamente remunerative o altamente inquinanti? Questi Paesi, nella speranza
di un futuro migliore, rincorrono il modello di crescita economica occidentale, importando così le tecnologie già ammortizzate che i Paesi industrializzati vendono loro, obsolete e inquinanti. Oppure accettano quelle
lavorazioni che per l’elevato impatto ambientali non sono più competitive
nelle aree con una legislazione ambientale più matura e severa.
In molti Paesi poveri, soprattutto dell’Africa e dell’Asia, oltre alla presenza delle multinazionali estere che perpetrano una colonizzazione eco-
52
Estratto «Il pensiero economico moderno», vol. 2, 2005, pp. 43-64.
nomica, vi è però un grave problema di arretratezza sociale e politica, che
fa sì che non vi siano le condizioni necessarie affinché germogli uno sviluppo artigianale e agricolo diffuso, che possa portare ad un aumento del
benessere della popolazione.
In un tale contesto l’assorbimento del modello occidentale da parte
della popolazione ha portato alla nascita delle megalopoli e delle sterminate favelas, bidonville o baraccopoli che si voglia dire, dove si è ben lontano dal parlare di benessere o miglioramento delle condizioni sociali.
L’innesto della modernità all’occidentale è stato in molte realtà traumatico, perché ad essere importate non sono state le grandi conquiste della
società occidentale come lo Stato sociale, la tutela del lavoratore,
l’emancipazione femminile, la libertà di espressione e di iniziativa economica, tutti aspetti che sono maturati nei secoli in coevoluzione con la
società e la cultura occidentale. In questi Paesi, invece, vi è stato piuttosto l’importazione solo di quegli elementi del modello economico di libero mercato funzionali ai sistemi economici industrializzati del Nord,
che non sono però andati a modificare solo l’assetto economico produttivo, ma hanno avuto un impatto ben più forte, andando a soffocare e
minare gran parte del capitale sociale e culturale preesistente.
Si rivela in tutta la sua importanza la necessità di trovare delle vie di
sviluppo dolce, magari più lento, con tassi di crescita modesti, ma più
invasivo e diffuso, legato alla vocazione del territorio e delle popolazioni. Un esempio: se i progetti dei cicli integrati di produzione a zero
rifiuti e la produzione di energia elettrica locale con biomasse non interessa – per ora – ai Paesi industrializzati, perché non aiutare Pvs a sviluppare queste tecnologie più consone alle loro realtà? Sarebbe un passo
in avanti verso migliori condizioni di vita, senza escludere la possibilità
di ricaduta anche sui Paesi finanziatori del perfezionamento di questi
processi.
L’impegno dei Paesi del Sud del mondo
Fondamentale però, perché si possa applicare una qualsiasi ricetta di
sviluppo, è che i Pvs riescano a superare l’arretratezza o la disagiata situazione socio-politica che spesso li affligge. Sono molti i fattori che
hanno portato i Paesi del Sud del mondo ad essere meno sviluppati e ricchi, tra questi si possono ricordare, oltre alla posizione geografica, al cli-
53
Estratto «Il pensiero economico moderno», vol. 2, 2005, pp. 43-64.
ma e alle frequenti catastrofi ambientali – come alluvioni e siccità –, anche la collocazione geopolitica, l’esperienza coloniale e il percorso verso
l’indipendenza, l’esposizione debitoria, i regimi politici non democratici
e le loro scelte, le guerre civili ed etniche o quelle verso le nazioni confinanti, le epidemie e le malattie.
Particolare importanza rivestono, infatti, i fattori politici ed istituzionali, l’impegno che si chiede a questi Paesi è dunque di svolgere un ruolo
attivo nella lotta alla povertà, concentrandosi sulla mobilitazione delle risorse umane ed economiche interne e sullo sviluppo sociale. Per fare ciò
si deve innanzitutto aumentare la stabilità interna, garantire l’equità e la
certezza del diritto, il diritto di proprietà ed eliminare la corruzione dalle
pubbliche amministrazioni. Poi si deve migliorare le condizioni di vita
della popolazione attraverso la fornitura dei servizi sociali di base: sanitari, igienici e scolastici. Purtroppo attualmente sono scarse le risorse destinate a tali scopi, mentre percentuali importanti del Pil sono impiegate per
il mantenimento dell’esercito e per campagne militari dai rovinosi effetti
in termine di vite umane e risorse economiche.
Cercare di effettuare tali cambiamenti istituzionali e politici vuol dire
scontrarsi con gli interessi delle classi e delle elite che detengono il potere: i militari, i grandi latifondisti, i proprietari delle manifatture e i grandi
commercianti. All’interno delle Nazioni Unite però è sempre più radicata
la convinzione che un elemento importante per lo sviluppo e il raggiungimento di migliori condizioni di vita sia il passaggio a forme di governo
maggiormente democratiche. È stato dimostrato, infatti, che i Paesi democratici possono più facilmente raggiungere risultati di sviluppo in
quanto, attraverso un insieme di regole eque, la possibilità dei cittadini di
esprimere le proprie istanze e la responsabilizzazione dei governanti e
degli amministratori, permettono una partecipazione più vasta che si riflette da una parte sulla maggior stabilità istituzionale e dall’altra in una
maggiore mobilitazione di forze civili ed economiche. È più facile che in
un clima democratico si crei la propensione ad intraprendere iniziative
volte a migliorare la propria situazione e quella del proprio Paese.
Fattori chiavi per lo sviluppo dei Paesi in via di sviluppo
Nel corso degli ultimi decenni molti Paesi sono passati ad un sistema
capitalistico, dai Paesi del Terzo mondo che si liberavano dalla domina-
54
Estratto «Il pensiero economico moderno», vol. 2, 2005, pp. 43-64.
zione colonialista, ai Paesi dell’America Latina e del blocco comunista
che dopo l’89 abbandonavano il sistema pianificato. Purtroppo il capitalismo non ha portato benessere e ricchezza ma anzi, ha trascinato molti Paesi nella crisi. L’insieme delle ricette che sono emerse nel corso degli ultimi anni, alla luce dei ripetuti fallimenti, sembrano indicare la possibilità
di una convergenza dei Pvs verso condizioni di benessere socioeconomico simili a quelle dei Paesi più ricchi, condizionata però dalla presenza
congiunta di alcuni fondamentali elementi, alcuni già visti sopra, interdipendenti e sinergici. Sono: la stabilità delle istituzioni pubbliche e delle
politiche economiche, il diritto di proprietà, un adeguato tasso di risparmio e di investimento in capitali fisici, l’investimento in capitale umano
con il raggiungimento di un livello di scolarizzazione adeguato e di una
buona coesione sociale, la diffusione e l’accesso alle tecnologie informatiche e alla rete elettronica. Solo se questi elementi si avvicineranno qualitativamente a quelli dei Paesi industrializzati i Paesi del Sud potranno
inserirsi vantaggiosamente nel circuito economico e finanziario mondiale
e migliorare il proprio status. Se solo uno di questi fattori manca gli altri
non possono garantire lo sviluppo. Certo non sono i soli elementi che influiscono, ma sembrano essere quelli determinanti. La creazione di reddito e lo spirito imprenditoriale sono gli elementi principali per la creazione
di ricchezza, ma devono essere supportati da questi importanti fattori.
Hernando de Soto, ritenuto il più grande economista del Sud del mondo, consulente di diversi governi, tra cui Argentina, Cile ed Egitto, ha
ravvisato nel diritto di proprietà uno dei fattori determinanti
dell’arretratezza delle economie del Terzo mondo definite economie informali. Quello che manca in molte realtà sarebbe il collegamento tra il
mercato e la legge, ovvero la forma necessaria per rappresentare le attività patrimoniali. Le abitazioni e i terreni coltivabili nelle economie povere
soddisfano i bisogni immediati di procurare un riparo e beni alimentari,
nelle economie ricche, invece, possono essere utilizzati a fini produttivi
più ampi, come fornire la garanzia per ottenere un finanziamento con cui
avviare un’attività economica. Ma il convertire un bene fisico immobile
in capitale richiede un processo complesso con più attori che ruotano attraverso un elemento di riferimento che è il diritto di proprietà. De Soto
sostiene che la posizione marginale in cui si vengono a trovare i poveri
nei Paesi in via di sviluppo e nelle ex nazioni sovietiche deriverebbe in
gran parte dalla loro incapacità di beneficiare degli effetti positivi che la
proprietà formale fornisce, ovvero:
55
Estratto «Il pensiero economico moderno», vol. 2, 2005, pp. 43-64.
- fissare il potenziale economico dei beni, attraverso meccanismi per
valutare e usare il potenziale del bene al di là delle funzioni immediate, passando ad un concetto di qualità legata ai benefici economici e
sociali che dalla proprietà possono derivare.
- Integrare le informazioni disperse in un unico sistema, come è avvenuto nei Paesi occidentali, dove le regole e le informazioni che sovrintendono al diritto di proprietà e ai suoi usi sono state standardizzate e
rese disponibili a tutti, non più frammentate e diverse da paese a paese. Così i vari usi che i proprietari possono fare con i loro beni è avvantaggiato dall’immaginazione collettiva e viene conosciuto e riconosciuto da una rete più ampia di persone.
- Rendere le persone responsabili, dato un sistema certo e uniforme di
leggi, infatti, non vi è più bisogno di creare un ordinamento locale per
proteggere la proprietà informale sui beni. In questo modo i proprietari diventano liberi di sperimentare e scoprire il modo di generare dai
loro beni valore in surplus, aumentandone la fruibilità. Allo stesso
tempo però la proprietà formale non solo protegge il possesso ma dà
anche maggior sicurezza alle transazioni, incoraggiando i cittadini a
rispettare i titoli e a onorare i contratti.
- Rendere i beni fruibili, creando una separazione tra le caratteristiche
economiche di un bene e il suo rigido stato fisico, grazie alla separazione tra l’uso fisico immediato e la rappresentazione del diritto, il
quale si può combinare, dividere, mettere in circolazione e usare per
stimolare affari commerciali.
- Mettere in comunicazione le persone, grazie all’integrazione delle informazioni e alla responsabilizzazione si crea una sorta di network, una
rete di agenti commerciali identificabili e responsabili su base individuale. La vera novità del sistema formale non è la difesa della proprietà,
attuabile anche da altre organizzazioni e sistemi, ma il radicale miglioramento del flusso delle comunicazioni riguardanti i beni e il loro potenziale, migliorando al contempo lo status dei loro proprietari.
- Proteggere le transazioni, grazie ai documenti contenenti la rappresentazione del bene qualsiasi persona che lo voglia usare è informato
sui fattori che potrebbero limitare o migliorare il suo utilizzo. Inoltre,
accanto ai sistemi di documentazione pubblica, si sviluppano molti altri servizi privati per assistere le parti nelle contrattazioni relative alle
rappresentazioni, in modo da produrre, con maggior semplicità e sicurezza, valore in eccedenza.
56
Estratto «Il pensiero economico moderno», vol. 2, 2005, pp. 43-64.
L’economista de Soto, assieme ai suoi colleghi dell’Institute for Liberty and Democracy di Lima, ha stimato in 93.000 miliardi di dollari il
capitale “morto”, che non può essere utilizzato come propulsore
dell’attività economica. Ovviamente il diritto di proprietà non può prescindere dall’esistenza di una stabilità istituzionale che serve a garantire
sicurezza, sia a chi detiene i beni e vuole con essi intraprendere
un’attività economica, sia per gli investitori stranieri, che mettono a disposizione i propri capitali.
Altro elemento necessario allo sviluppo è la presenza di capitale sociale, inteso come grado di coesione, fiducia e solidarietà che intercorre
tra gli appartenenti ad una determinata comunità. Questo elemento è
importante in quanto molte delle operazioni economiche non sono sottoposte al controllo delle autorità e la loro riuscita dipende perciò dal
grado di fiducia reciproco delle controparti.
Come già detto, le istituzioni, sia politiche che amministrative, devono
comunque essere di qualità, ovvero non devono essere corrotte e corruttibili, ma devono tendere a tutelare e migliorare le condizioni dei cittadini.
Tra i vari compiti particolare importanza riveste quello di aumentare il
livello di scolarizzazione. È dimostrato che maggiore è questo livello in
un Paese, maggiore è il suo tasso di crescita, inoltre migliorare
l’istruzione femminile favorisce una diminuzione delle nascite e quindi
una dinamica demografica più equilibrata. Se in un Paese, però, non vi è la
possibilità di raggiungere un soddisfacente benessere, se vi è instabilità politica o scarsa qualità dei servizi pubblici, gli effetti dell’innalzamento della
formazione vengono in parte annullati dal fenomeno della “fuga dei cervelli”, che vede i lavoratori più qualificati trasferirsi verso Stati con migliori
condizioni e prospettive di vita.
Altro fattore importante emerso nell’ultimo decennio è la diffusione
delle tecnologie informatiche. La creazione di una rete permette l’accesso
e l’utilizzo delle conoscenze che sono presenti su internet, le quali hanno
una natura simile ai beni pubblici, in quanto sono a disposizione di tutti,
senza che il loro utilizzo da parte di un utente diminuisca la fruizione degli
altri. Garantire l’accesso a questi beni rimuove un differenziale negativo
che grava sui Pvs, eliminando il fenomeno denominato digital divide, con
tutte le potenzialità che derivano da un maggiore e più veloce trasferimento non solo di conoscenze, ma anche di prodotti, tramite prestazioni
di servizi o il trade on line, con effetti positivi diretti sul sistema economico. Ovviamente le istituzioni devono attuare politiche di liberalizzazione
57
Estratto «Il pensiero economico moderno», vol. 2, 2005, pp. 43-64.
del servizio di telecomunicazione evitando posizioni di monopolio.
Questa convergenza deve essere coordinata però con un cambiamento
delle produzioni e dei modelli di consumo delle società ricche. Non è ipotizzabile un semplice raggiungimento dei livelli di consumo da parte dei
Paesi poveri uguali a quelli attuali dei Paesi industrializzati, soprattutto a
parità di tecnologie. Ne deriverebbe un tale impatto ambientale da portare
in breve tempo il pianeta al collasso ecologico, mettendo a serio rischio le
condizioni per la sopravvivenza umana.
La riduzione dei consumi, non del benessere, nei Paesi ricchi
Un primo consiglio su quale comportamento dovrebbero adottare i
Paesi industrializzati per mitigare il problema della disuguaglianza tra
Nord e Sud del mondo, in un’ottica di finitezza delle risorse materiali ed
energetiche, ci viene dall’economista Nicholas Georgescu-Roegen.
Nel suo “programma bioeconomico minimale” Georgescu-Roegen
riconosce l’importanza del ruolo della domanda, «maggiore anche di
quello dell’offerta», e pone tra le priorità l’aiutare le popolazioni povere
a raggiungere il prima possibile un dignitoso tenore di vita. Egli da una
parte invita i governi ad interrompere la produzione di armi, evitando la
perdita di vite umane e liberando nuove risorse per lo sviluppo dei Paesi
poveri, dall’altra esorta le popolazioni ricche a ridurre il loro livello di
consumi. Questo non vuol però dire necessariamente per noi veder peggiorare le nostre condizioni, ma semplicemente che dobbiamo ridurre
gli sprechi e liberarci di alcuni dei nostri vizi. Si deve porre freno ad un
atteggiamento consumistico smodato, che comunque si dimostrerà distruttivo anche per noi nel lungo periodo, intrappolandoci in una spirale
entropica in cui la materia e l’energia che ora possiamo utilizzare viene
degradata irrimediabilmente, causando contemporaneamente un aumento dell’inquinamento e la distruzione dell’ambiente naturale. Questo lascerà alle generazioni future minori risorse e una minor qualità ambientale e perciò una minor qualità di vita. Tale rischio è stato evidenziato
con forza da Georgescu-Roegen, che rifiutando anche l’idea di uno stato
stazionario, sosteneva fermamente e coraggiosamente la necessità di siffatta riduzione, al fine di garantire alla specie umana un futuro duraturo.
Ma quello della riduzione è un argomento di discussione scomodo in
economia, che ancor oggi si preferisce evitare.
58
Estratto «Il pensiero economico moderno», vol. 2, 2005, pp. 43-64.
Un’economia dal basso
Il secondo comportamento che possiamo adottare come consumatori
per aiutare i Paesi del Terzo mondo non riguarda l’entità dei nostri acquisti, bensì la scelta di cosa noi acquistiamo.
La globalizzazione ha avuto tra i suoi lati positivi quello di “rendere
prossimi i lontani”, attraverso la possibilità non solo di poter comunicare
ed avere rapporti commerciali con Paesi distanti a costi e tempi ridottissimi rispetto al passato, ma anche di poter venire a conoscenza, senza
l’avere interessi specifici, di cosa avviene in questi luoghi e di come sono
le reali condizioni di vita dei loro abitanti. Tale maggior informazione,
unita alla maggior sensibilità che è andata maturando nel tempo in ampi
strati della società occidentale, per quelli che sono definiti i diritti fondamentali dell’uomo o più in generale per le condizioni dei popoli meno
ricchi, ha portato alla richiesta da parte dei consumatori di una maggior
responsabilità sociale e di una maggior eticità sia da parte propria, sia da
parte degli operatori economici.
Dagli anni ’70 è andato sviluppandosi un movimento di consumo critico volto a rendere consapevole il consumatore del proprio ruolo di attore attivo del mercato, cercando di opporsi alle campagne pubblicitarie e
alle mode. Su questo modello di consumo andrà poi ad innestarsi il commercio equo e solidale. Dagli anni ’80, invece, nasce la cosiddetta finanza etica o socialmente responsabile, grazie soprattutto alla larga eco che
hanno ottenuto i movimenti ambientalisti e pacifisti che ha spinto molti
risparmiatori a porre dei vincoli all’utilizzo dei loro capitali, per non finanziare imprese ritenute non meritevoli. A questo fenomeno si aggiungerà la diffusione del microcredito e delle banche dei poveri, realtà nate
nei paesi del Sud del mondo per aiutare i lavoratori locali.
Il commercio equo e solidale
Il commercio equo e solidale presuppone uno scambio commerciale
fra i consumatori dei Paesi ricchi e i piccoli produttori dei Paesi poveri
che garantisca a questi ultimi un giusto compenso, equo per l’appunto.
Con il tempo si sono affiancate altre caratteristiche importanti per favorire lo sviluppo economico nei Paesi del Sud del mondo, infatti, per avere
tale forma di commercio attualmente si presuppone:
59
Estratto «Il pensiero economico moderno», vol. 2, 2005, pp. 43-64.
- il già citato giusto prezzo;
- l’instaurarsi di un rapporto duraturo tra produttori e importatori;
- il prefinanziamento dell’attività, il che permette di sopperire
all’indifferenza delle banche tradizionali e di combattere l’usura;
- un ambiente di lavoro rispettoso della dignità umana, sano e sicuro,
ove vi sia la possibilità di migliorare la propria condizione economica
e sociale per tutti, anche per i più svantaggiati;
- l’assistenza tecnica e finanziaria ai produttori se possibile;
- l’uso di sistemi produttivi sostenibili dal punto di vista ambientale;
- l’utilizzo di una parte dei ricavi per la realizzazione di infrastrutture
stabili locali, come scuole ed ospedali;
- l’accettazione della responsabilità pubblica (public accountability),
ovvero l’assunzione dell’impegno ad operare secondo la legislazione e
le regole vigenti nel Paese in cui l’attività si svolge.
Questi fattori permettono il fluire di risorse monetarie là dove i canali creditizi tradizionali non giungono e l’attivarsi di risorse umane dal
basso. Non si ha un “cadere dall’alto” di finanziamenti coordinati
dall’apparato burocratico statale, né di donazioni caritatevoli una tantum, che spesso vanno dispersi o “spariscono”. In tal modo si aiutano le
singole realtà locali con benefici immediati per i piccoli produttori ed il
loro contesto, contribuendo a sviluppare – fermo restando il ruolo delle
pubbliche istituzioni – alcuni dei fattori chiave per lo sviluppo prima
elencati, quali il capitale sociale, il grado di istruzione, il tasso di risparmio e di investimento in capitali fisici, la diffusione delle tecnologie informatiche.
La finanza etica e il microcredito
La finanza che si indica come “etica” si esplica attraverso diversi approcci, se consideriamo l’intermediario finanziario questo potrà:
- destinare una parte dei proventi ottenuti dagli investimenti sui mercati
finanziari in opere di beneficenza;
- svolgere un ruolo propositivo (engagement) all’interno dei consigli
di amministrazione delle aziende di cui possiedono le azioni, al fine
di influenzare le scelte del management verso una maggiore responsabilità sociale;
60
Estratto «Il pensiero economico moderno», vol. 2, 2005, pp. 43-64.
- escludere dai propri fondi di investimento delle aziende che violano
alcuni criteri etici, spesso individuati dai clienti, o delle attività economiche che ricadono in un Paese che ha un regime che viola palesemente i diritti fondamentali dell’uomo.
Per l’investitore scegliere la finanza etica, invece, vuol dire porre delle limitazioni al proprio portafoglio titoli attraverso dei criteri di esclusione e di inclusione. Attraverso dei criteri di esclusione si può decidere di
vietare all’intermediario finanziario l’utilizzo dei propri fondi per finanziare imprese che producono armi, che hanno stabilimenti nei Paesi del Terzo
mondo dove si sfruttano la manodopera e il lavoro minorile, che si rendono
responsabili di inquinamento e degrado ambientale o che causano violenze
agli animali. Si possono altresì escludere tutte le attività economiche che
ricadono in Paesi razzisti o con regimi dittatoriali. Con i criteri di inclusione si vanno ad individuare, al contrario, le attività in cui si vuole investire, che nel caso della finanza etica saranno rivolte sia a soggetti “vicini” del settore non-profit o ad attività ritenute socialmente utili all’interno
dei Paesi industrializzati, sia a soggetti “lontani”. In questo secondo caso
si possono sostenere attività internazionali a favore dello sviluppo economico nei Paesi del Sud del mondo, come il favorire il microcredito rivolto ai piccoli produttori locali, spesso riuniti in cooperative.
Date le limitazioni è minore la varietà dei titoli che possono comporre
un portafoglio etico, i rendimenti quindi possono essere inferiori, tuttavia
questi fondi rispondono al bisogno di agire concretamente per raggiungere una maggior responsabilità ed equità del sistema economico. È da rilevare però che con la loro diffusione e l’aumento della loro diversificazione, i rendimenti ottenuti dai fondi etici si avvicinano a quelli tradizionali,
così come ha rivelato lo studio dei fondi etici statunitensi ed inglesi che
sono paragonabili agli altri fondi di investimento standard.
Le banche etiche che nascono nei Paesi del Terzo mondo, invece,
hanno spesso il solo scopo di finanziare i piccoli produttori locali ritenuti,
come già sottolineato, soggetti non appetibili dagli istituti di credito tradizionali e vittime perciò degli usurai. Una delle peculiarità di queste banche
è il rapporto con i clienti, sono infatti i dipendenti che si recano di villaggio
in villaggio per proporre i loro prestiti che sono di modesta entità – in media 100 dollari –, ma sufficienti alle attività produttive in questione, rivolti
a gruppi omogenei di 5 o 6 persone e con quote di rimborso esigue e frequenti. Questi istituti sono una realtà in piena crescita, tanto che le Nazioni
Unite hanno dichiarato il 2005 “anno internazionale del microcredito”.
61
Estratto «Il pensiero economico moderno», vol. 2, 2005, pp. 43-64.
La responsabilità sociale delle imprese
La crescente richiesta di eticità nel comportamento delle imprese e
degli istituti finanziari da parte dei consumatori e dei lavoratori, ma anche
di parte del management, ha portato negli ultimi anni ad un crescente dibattito sulla responsabilità sociale d’impresa, portato avanti dai sindacati,
dalle organizzazioni solidariste e ambientaliste, dalle cooperative impegnate nel commercio equo e solidale, fino ad arrivare nei Parlamenti nazionali e alla Commissione dell’UE. In sede legislativa si studiano i codici di condotta per l’autoregolamentazione da parte delle imprese, i marchi
di qualità sociale e i processi di certificazione collegati. La responsabilità
di impresa tocca differenti aspetti, dalla tutela del lavoratore all’impatto
ambientale, alla trasparenza con i consumatori e più in generale al rapporto con gli stake holders e la comunità in cui si inserisce.
Sono molte le aziende che hanno voluto dotarsi di un codice di condotta etica, d’altra parte la maggior parte di esse lo hanno fatto per esigenze di tipo commerciale e di immagine, attraverso codici autoreferenziali che si adattano alle loro peculiarità, così da ridurre al minimo i limiti
e gli impegni che risultano essere scarsamente incisivi sull’attività produttiva e commerciale, anche dal punto di vista dei costi. Comunque è
importante che questi strumenti si stiano diffondendo, aprendo la strada
ad una futura regolamentazione e verifica da parte delle autorità competenti sia dei codici sia della certificazione sociale. Ciò potrebbe renderli
nel tempo effettivi strumenti di trasparenza e di rispetto della dignità umana e dell’ambiente, soprattutto per quanto riguarda le attività di delocalizzazione e l’assegnazione degli appalti ad aziende del Sud del mondo.
Una via percorribile
La globalizzazione economica, così come è stata impostata finora, anche se ha portato ad un aumento della ricchezza in termini assoluti, ha però aggravato la povertà relativa, ossia la differenza fra ricchi e poveri, anche all’interno degli stesi Paesi industrializzati. I fenomeni che hanno
portato a questa situazione sono legati alla finanza e all’economia globali,
sulle quali gli stessi Stati nazionali hanno un potere di intervento limitato
e devono ricorrere a strutture internazionali. Ma ciò non deve farci sentire
privi della possibilità di agire per cambiare le cose, se ognuno agirà in
62
Estratto «Il pensiero economico moderno», vol. 2, 2005, pp. 43-64.
modo socialmente responsabile si può sperare di indirizzare il sistema
economico verso nuove vie che consentano il rispetto della dignità umana
e dell’ambiente in ogni parte del mondo. Il consumatore avrà così compiuto un gesto che potrà favorire uno sviluppo economico e sociale coerente con i propri valori personali, incidendo effettivamente sulla realtà
del suo tempo, vicina o lontana che sia. Anche le pubbliche amministrazioni possono intraprendere vie di consumo socialmente responsabile che
potrebbe in futuro guidare, o almeno pesare in modo incisivo,
sull’assegnazione degli appalti pubblici.
Così come la globalizzazione ha permesso finora che produttori, distributori e consumatori sfruttassero più o meno consapevolmente i poveri del Sud del mondo, così oggi una maggior consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni ed una maggior sensibilità per i diritti fondamentali dell’uomo e per la tutela dell’ambiente, possono far sì che attraverso scelte quotidiane di consumo e di investimento, si possano aiutare
quelle popolazioni lontane a raggiungere migliori condizioni di vita e
uno sviluppo socioeconomico sostenibile. Questo atteggiamento non vuole né deve demonizzare l’impresa e l’economia di libero mercato, ma cerca di integrare le sue logiche di massimizzazione dei profitti e i suoi parametri di scelta con elementi di natura sociale ed etica che portino ad un
vantaggio duraturo di tutti i soggetti coinvolti nell’attività economica.
Se i Paesi in via di sviluppo riusciranno a mettere in atto le riforme interne necessarie sia di natura giuridica ed economica, come la riforma del
diritto di proprietà privata e la riforma agraria, sia di natura politica, con
l’apertura a forme di governo più democratiche, l’interruzione di politiche militari aggressive e la creazione di maggiori infrastrutture, allora si
creeranno quelle condizioni affinché i nuovi modelli di consumo, di
commercio equo solidale e di finanza etica, possano svolgere un importante
leva sullo sviluppo economico e sociale. Spetterà dunque ai Governi dei
Paesi ricchi e alle organizzazioni internazionali fare pressione ma soprattutto favorire e aiutare i Paesi poveri ad attuare i cambiamenti necessari, mentre i consumatori avranno la possibilità di sostenere con scelte più responsabili l’attività di chi è meno fortunato e vive e lavora nella povertà.
Stefano Zamberlan
Università degli Studi di Verona
Dipartimento di Economie, Società e Istituzioni
63
Estratto «Il pensiero economico moderno», vol. 2, 2005, pp. 43-64.
BIBLIOGRAFIA
AA.VV., I valori imprenditoriali a servizio della civiltà sociale, Le potenzialità
delle aziende non profit, Centro Toniolo, Verona 1997.
N. ACOCELLA, G. CICCARONE, M. FRANZINI, L. M. MILONE, F. R. PIZZUTI e M.
TIBERI, Rapporto su povertà e disuguaglianze negli anni della globalizzazione,
Pironti, Napoli 2004.
F. CAPRA, La scienza della vita, Rizzoli, Milano 2002.
H. DE SOTO, Il mistero del capitale. Perché il capitalismo ha trionfato in Occidente e ha fallito nel resto del mondo, Garzanti, Milano 2001.
M. DINUCCI, Il sistema globale, Zanichelli, Bologna 1998.
N. GEORGESCU-ROEGEN, Energia e miti economici, Boringhieri, Torino 1982.
R. GERMOV, F. MOTTA, Refugee Law in Australia, Oxford University Press,
South Melbourne 2003.
G. STIZ, Guida alla finanza etica, EMI, Bologna 1999.
G. TAGLIAVINI, Le basi culturali della sostenibilità del microcredito, in «Altreconomia», giugno 1998.
F. VOLPI, Il denaro della speranza, EMI, Bologna 1998.
M. YUNUS, Il banchiere dei poveri, Feltrinelli, Milano 2000.
S. ZAMAGNI, I caratteri peculiari della globalizzazione, consultabile all’indirizzo
web: http://www.bioetica-vssp.it/documenti/002103/002103.htm
S. ZAMBERLAN, L’identità europea tra globalizzazione, terrorismo e radici cristiane, in “Studi economici e sociali”, vol. 3-4, 2004, pp. 35-46.
64
Estratto «Il pensiero economico moderno», vol. 2, 2005, pp. 43-64.