Dieci minuti fa - Fabbri Editori

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Dieci minuti fa - Fabbri Editori
3 Esperienze di vita – Per un mondo migliore e interculturale
Lucia Tumiati
Dieci minuti fa
Il ragazzo protagonista di questo brano si rende conto, all’improvviso e in modo sconvolgente, che la sorella handicappata
non è poi così felice e così amata da tutti, come egli pensava.
1. sfotterlo: schernirlo,
deriderlo.
2. polio: poliomielite,
malattia infettiva acuta
virale che colpisce i centri motori del midollo
spinale con conseguente paralisi muscolare.
3. zeppa: rialzo in sughero o legno.
4. si arruffiana: si di-
mostra compiacente,
condiscendente.
E adesso c’era anche questa storia con sua sorella. Adesso? Macché
adesso. Da sempre c’era questa storia.
«Non rispondere a tua sorella.»
«Porta rispetto a tua sorella.»
«Non ti permetto di tirare i pugni a tua sorella.»
Povera cocca. Lei era femmina, lei era più grande, lei era una donna, e le donne non si toccano. Ma chi l’ha stabilito che le donne non
si toccano? A calci, l’avrebbe presa, quell’anatra di sorella, fin da
piccola pronta a belare per qualsiasi cosa, pronta a correre dalla
mamma, pronta a sfotterlo1 per qualsiasi sbaglio. Lei era brava, a
scuola, lui no. Lei era carina, i riccioli neri la facevano sembrare «un
angelo». Di certo lo sapeva e si guardava allo specchio per delle ore.
Quando la mamma non c’era si metteva anche i bigodini, quelli che
si scaldano con la corrente.
Era carina, di viso, ma aveva avuto la polio2, e aveva una gamba diversa dall’altra. Lei non sembrava neppure farci caso. Aveva chiesto
e ottenuto anche gli stivali. Con quelle gambe. E la mamma glieli
aveva comperati, naturalmente. Dentro ci metteva una zeppa3, e
quasi non si vedeva che zoppicava.
«Le sorelle sono tutte una peggio dell’altra», dicevano i suoi compagni.
«La mia fa sempre la spia.»
«La mia si arruffiana4 i nonni che le danno sempre ragione e poi le
sganciano anche dei soldi.»
«La mia ci ha il ragazzo, esce sempre di nascosto e i genitori non se
ne accorgono. Credono che vada a fare i compiti dalle amiche e invece va fuori con lui e il vespino. Li vedo, i grandi, al giardino, dove si ritrovano. Saranno quindici, venti. Ridono, parlano (ma di cosa parleranno, poi!), si baciano, fanno le gimcane con il Ciao, la Vespa, il Garelli…»
Mia sorella non ci va, con quelli del giardino. Forse non la vogliono,
per via della gamba. Allora la mamma potrebbe anche fare a meno
di comprarle tutte le cose che le compra: le sottane lunghe, le bluse
larghe, la giacca di camoscio, gli anellini alle dita. A tutte le dita.
Chissà che bisogno c’è di mettersi tutte quelle cose nelle mani.
E io? Io che le gambe ce le ho dritte, perché sono nato fortunato,
devo solo accontentarmi della mia fortuna?
Se a lei comprano tante cose, a me perché non me le comprano?
«Ma non capisci? Non senti niente, dentro? Come puoi fare sempre
Rosetta Zordan, Il quadrato magico, Fabbri Editori © 2004 RCS Libri S.p.A. - Divisione Education
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i confronti? Smetti di pesare tutto quello che diamo a lei, che ha avuto quella sfortuna, e smetti di dare il colpetto alla bilancia, per far
credere che penda sempre dalla sua parte. Non è vero, lo sai che non
è vero.»
Io non do nessun colpetto alla bilancia. È la bilancia che va giù da
sé, anche a esser ciechi!
Ha compiuto quattordici anni oggi e le hanno comprato il Ciao.
Rosso. Con le borse per i libri già attaccate dietro.
«Non ti riuscirà certo di mandarlo», le ho detto, a tavola.
«Perché?» ha chiesto lei subito stizzita. È sempre stizzita quando
parla con me, come se io fossi il moscerino che le entra nel caffellatte. Io lo so cosa pensa, mia sorella. Pensa di certo: perché è successo a me, e non a lui? Ma che colpa ne ho, io, se è successo? E che
cosa posso farci, io, se lei è un po’ diversa da me?
Non potevo certo risponderle quello che pensavo davvero. Come si
fa a dire certe cose? Dirle che con quella gamba sarebbe certo stata
una frana. No. Ma le ho detto solo che le ragazze non ci sanno fare,
con i motorini. Volevo umiliarla, lei e il suo motorino rosso.
«Capirai», ha riso lei con sufficienza (ha un tono che mi fa prudere
le mani). «Da che vado a scuola, all’ospedale ci sono sempre andati
i maschi. Corrono come pazzi, sono più o meno cretini come te.»
«Ragazzi, ma non litigherete mica anche oggi?» aveva cominciato a
predicare la mamma.
«Le ragazze col motorino sono delle poco di buono», ho detto io, alzando le spalle.
«Sbaglio, o sei rimasto un po’ indietro?» ha riso il babbo. «Che razza di pregiudizi hai in testa?»
«Tu non vedi mai niente. Io le vedo le ragazze, coi motorini, qui sotto, ai giardini, cosa credi. E ho visto l’Anna, e ho visto la Giulia, e
ho visto la Susanna. Loro, e i loro ragazzi…»
«Carogna», mi ha detto mia sorella.
Ridevano, il babbo e la mamma, come se io fossi il buffone di casa.
E mi è venuta la voglia di farli smettere di ridere. Che capissero una
buona volta che non sono più un bambino, che le cose le vedo, e so
giudicare. Ed è per questo che gli ho risposto:
«Sì sì, ridete. Perché tanto, lei, ai giardini non ci va di certo».
Era chiaro quello che volevo dire, e l’hanno capito fin troppo bene.
«Alzati», mi ha detto il babbo, «e vai in camera tua.»
Ed è così che me sono andato in camera mia sbattendo la porta, perché «non me ne frega niente».
Non me ne frega niente di lei, di quelle come lei, ma non perché sia
diversa, ma perché è cattiva, perfida, un serpente.
Non me ne importa niente della mamma, del babbo, della scuola, di
quello che dicono, fanno, pensano i grandi.
All’inferno mia sorella, all’inferno tutte le sorelle della terra. È lei
che mi avvelena l’esistenza.
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5. mocciose: ragazzine che si danno arie da
grandi.
Mai una volta che mi aiutasse in qualche cosa. Mai una volta che mi
dicesse:
«Vado al cine, vuoi venire con me?»
Mai una volta che se prendo un quattro provasse a dire che può anche essere colpa dei professori. Tanto lei quattro non l’ha mai preso.
Lei studia. Lei è tanto intelligente. Lei sta sempre a casa a fare i compiti.
Le poche volte che vengono le sue amiche la mamma prepara le torte. E con che premura! È da quando sono nato che vedo le amiche
di mia sorella mangiare le torte, e prendere il tè, e i salatini. «Grazie
bambine, tornate presto», dice la mamma. Grazie. E perché grazie?
Erano loro che avrebbero dovuto ringraziare. Invece la mamma era
così dolce, così premurosa verso quelle mocciose5.
«Meno male che se ne sono andati», dice, al contrario, quando vanno via i miei amici. A lei dà noia che noi si giochi al pallone nell’ingresso, o si faccia la lotta in salotto.
È colpa mia se sono nato maschio? È colpa mia se i miei amici fanno chiasso? Non potremo mica giocare alle signore.
Mia sorella sarà anche sfortunata, con quella gamba, io non sono così cattivo da non capirlo. Però con quella scusa lei tutto quello che
vuole lo ottiene. E io, siccome ho le gambe dritte, risulto l’egoista di
casa.
Almeno potessi essere un po’ diverso anch’io. Avessi tre occhi, o un
piede più lungo e uno più corto, chissà, forse i miei genitori mi vorrebbero più bene.
Almeno trovassi un cane che mi azzannasse. A un mio amico un lupo ha dato un morso, e lui ha avuto due milioni di risarcimento danni. Se mi dessero due milioni me ne andrei di casa. Una volta l’ho
persino detto, a tavola. La mamma (ti pareva!) si è messa a ridere:
«Andresti poco lontano», mi ha detto. Mai, mai che mi prenda sul
serio.
«E dove andresti?» ha chiesto il babbo incuriosito.
«So io dove andrei.»
«Ci puoi credere. Col quattro in geografia che si ritrova, non sa neppure dov’è Milano», ha detto sprezzante mia sorella.
E adesso sono qui in camera mia. Sono stato una carogna, lo ammetto, ma dopotutto l’hanno voluto loro.
Forse non mi hanno dato il solito ceffone perché era la festa di mia
sorella, per non sciuparle la gioia della torta, i regali (il motorino!),
il mazzo di fiori come una principessa. Roba che si vede nei film
americani. Che schifo.
A me di regali ne comprano pochi. Il pallone, l’enciclopedia (sai che
barba!), la penna con le cartucce.
A lei comprano le cose nei negozi del centro. Voleva la borsetta «da
postina». Le hanno comprato anche quella. Voleva i quaderni rilegati, con la copertina di tela. Glieli hanno presi. E a me quelli con la
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copertina di carta, e le foto dei calciatori, e le tabelline in fondo. Roba che se la tiri sulla testa del compagno di banco si sfascia e devi ricopiare tutti gli esercizi.
Forse, me, i miei genitori, non mi volevano come figlio. Alla televisione ho sentito una trasmissione in cui si diceva che i figli più amati sono quelli voluti. Loro amano lei, mia sorella, me mi considerano
poco. È vero che mi piace giocare al calcio, è vero che in fondo a me
bastano dei blue jeans forti, magari con le toppe colorate, e un maglione a collo alto. Ma ci sono tante altre cose che vorrei e non riesco ad avere.
Mia sorella parla per delle ore con mia madre. Parlano fitto fitto,
sembrano due alleate contro il mondo degli uomini.
«Sparecchia la tavola», mi dice la mamma.
«E lei?»
«Non ti occupare di quello che fa lei. Oggi tocca a te.»
«Ma lei cos’ha fatto oggi?»
«Lo so io. Tu fai il tuo.»
Che bisogno c’è che lo faccia io? C’erano mia sorella e la mamma.
Lo hanno sempre fatto. La mamma poi non deve fare altro. Non deve mica giocare al calcio. Mia sorella poi! Figurarsi se può giocare al
calcio!
No, le faccende le devo fare anch’io. E il babbo, allora?
Lui lavora, lui porta i soldi a casa, lui le faccende non le deve fare.
Ma che giustizia è mai questa?
«Potrebbe imparare a stirare anche mio fratello», ha detto quella
strega di mia sorella, l’altro giorno. Non ci mancava altro. Sta’ a vedere che adesso devo anche imparare a fare il bucato e il sugo. E la
mamma dà sempre ragione a lei.
Allora: io, perché maschio, mi devo accontentare di tutte le cose
bruttine e robuste, però devo fare le faccende in casa come le femmine.
Ma mia sorella, che è femmina, può avere tutte le cose che vuole,
adesso anche il motorino, che invece sarebbe da maschi, e io devo
anche stare zitto.
Non mi va giù. Vorrei potermene andare. Uscire di casa senza dire
niente, prendere il Ciao di quella lì (tanto lo so già mandare io, l’ho
imparato da un mio amico che mi ci porta sempre dietro, anche se è
proibito) e me ne andrei a cercare lavoro. A Milano per esempio
(certo che lo so dov’è Milano. Lo sanno tutti che Milano è in Piemonte). Non avrei più nessuno che mi dice fai così, fai colì.
Forse era meglio se nascevo femmina. Allora la mamma mi avrebbe
parlato, forse anche il babbo mi avrebbe preso sulle ginocchia e mi
avrebbe coccolato. Tanto più che io non gli farei fare brutta figura,
come mia sorella…
Sono bravi, loro, a far finta di niente.
«Cosa vuoi che sia avere una gamba un poco più sottile. Non sono
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6. rimuginare: pensa-
re e ripensare.
7. ché: perché.
8. omaggiarla: termi-
ne colloquiale che significa «ossequiarla,
renderle omaggio, onore».
le gambe che contano, nella vita, nei rapporti umani», ho sentito mia
madre che lo diceva a mia sorella. (Ma tante volte i ragazzi parlando
di me hanno detto: Chi, quello con la sorella zoppa?)
Ma che cos’è che conta, nella vita? Essere sani? Essere belli? Essere
ricchi?
Conta di più essere intelligenti ma diversi, essere robusti ma non
bravi a scuola, essere indifferenti, essere amati?
Tirare pugni o essere ruffiani?
«Devi imparare ad essere più gentile», mi dice sempre la mamma.
Gentile. Come se la gente, fuori, fosse gentile.
«Devi essere un ragazzo sensibile, onesto, capace di capire chi soffre.»
Come se mia sorella soffrisse.
È di là, coi fiori, il motorino, e aspetta gli amici.
E io qui in camera a mangiarmi il fegato.
Potrei studiare, ma non ci penso neppure. Dovrei fare il riassunto di
un racconto.
Non voglio stare in camera a fare il riassunto mentre mia sorella sta
con gli amici. Non è giusto.
Lei dice che io do noia, sono invadente. Che quando entro ed esco
dalla stanza in cui lei sta, interrompo i loro discorsi (sai che discorsi!), infastidisco. Sono «un elemento di disturbo», così mi ha definito il babbo.
«Quando ci sono i tuoi amici, tua sorella non viene mica a darvi
noia», ha fatto notare mia madre. Per forza non ci viene: si vergogna…
Io non ho niente di che vergognarmi, e non capisco perché non possa andare a guardare chi viene in casa mia. Perché questa è casa mia,
e non solo di mia sorella.
Però è strano che il campanello ancora non sia suonato. È un secolo che sto qui dentro, da solo a rimuginare6.
Bene, se non viene nessuno, così posso andarmene di qui, ché7 la
partita di calcio comincia fra poco. Bene se non viene nessuno da
quell’antipatica di mia sorella. Così impara a credere che tutto il
mondo sia ai suoi piedi, che per la sua festa tutti debbano correre ad
omaggiarla8.
Sento uno strano silenzio. È un silenzio diverso dal solito. Non sento chiamare, non sento le risatine sciocche delle amiche di mia sorella. Oggi aveva invitato anche dei maschi. Si crede di essere una
donna adulta; magari si crede anche una donna fatale… Apro la porta e sbircio nel corridoio: nessuno. Guardo in salotto: ci sono i piattini, la torta, i salatini, i tovaglioli di carta colorati ancora in ordine.
Ma non c’è nessuno.
Il babbo non c’è mai, in casa, per solito, a quest’ora; oggi è rimasto
qui perché era la festa di mia sorella. Lo vedo nel suo studio, è serio,
la testa appoggiata a una mano, mi guarda senza vedermi. Lo guar-
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9. interdetto: forte-
mente sorpreso, turbato.
do, lo guardo e dentro sento una specie di dolore, come se avessi
guardato una cosa che non dovevo vedere.
Apro la porta di cucina e vedo mia madre che si asciuga rapida gli
occhi. Resto interdetto9.
Non mi sgrida per essere uscito dalla mia stanza senza permesso.
Mi guarda.
«Mamma…»
«Era la sua festa, poverina», mi dice a fatica, «e non sono venuti.»
«Perché?» mi scappa detto, incredulo.
«Con delle scuse, ma tu lo sai, perché. I ragazzi possono essere molto crudeli, certe volte. Ma tu cerca di non essere crudele mai. Almeno tu.»
Taccio. Non so cosa stia facendo mia sorella. È in camera sua.
Taccio perché è come se per la prima volta mi fossi affacciato a una
finestra che era rimasta sempre chiusa, e vedessi persone e sentimenti che non conoscevo.
Sento per la prima volta – come il bambino Pinocchio che guarda il
burattino di legno sulla seggiola – che quello che ero «prima» ora
non lo sarò più.
Mia sorella, che credevo felice e amata, non è poi così felice e così
amata da tutti.
Mio padre, che pensavo distratto, assente, è invece legato a noi come la nostra ombra, discreto, in silenzio, oggi l’ho visto triste.
Mia madre mi parla con amore, con dolore, come a un adulto.
Non so più cosa fare, cosa dire. Non ricordo più cosa pensassi dieci
minuti fa. Mi sembra che sia cambiato il mondo, e io sono sulla porta, e non so dove andare. Mi sembra anche che per la prima volta
tocchi a me fare qualcosa per aiutare «gli altri».
Ma cosa?
(da G. Arpino e altri, Questi ragazzi, Salani, Milano, rid.)
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