di Maria Malatesta Nobili e farmacisti

Transcript

di Maria Malatesta Nobili e farmacisti
LE PROFESSIONI E LA CITTÀ. BOLOGNA 1860-1914
di Maria Malatesta
Nobili e farmacisti
Bologna entrò a far parte del Regno d’Italia guidata da un sindaco, il mar-chese Luigi Pizzardi che era un grande
proprietario terriero titolato1. Entrò nella prima guerra mondiale con un sindaco socialista, diplomato in Farmacia. Si sa
tutto o quasi della trasformazione politica della città, passata da un dominio moderato a quello popolare fino ad
approdare nelle braccia dei socia1isti2. Sappiamo meno, invece, sulla sua stratificazione sociale e sui cambiamenti che
l’hanno interessata. E prevalsa finora, tra gli storici, l’idea che i ceti agrari terrieri condizionassero in modo totalizzante
la vita di Bologna e che le trasformazioni avvenute tra otto e novecento nell’economia felsinea non avessero alterato il
vecchio blocco terriero3; semmai, gli sviluppi dell’industria. del credito e del commercio avevano allargato il blocco di
potere tradizionale inglobando nuovi soggetti, tra cui i professionisti, nella struttura preesistente, senza tuttavia scalzare
le consolidate posizioni di potere4.
Il farmacista Zanardi è un indizio sociale, oltre che una certezza politica. Il fatto che a conquistare Palazzo D’Accursio
fosse un farmacista di origine mantovana, che aveva esercitato con successo la professione di imprenditore
farmaceutico a Bologna, non significava solo la vittoria delle classi lavoratrici
1
A.
Albertazzi,
I
sindaci
di
Bologna:
Luigi
Pizzardi,
in
«Strenna
storica
bolognese»,
1987.p.
19-28.
2. E. Bassi. N.S. Onofri, Francesco Zanardi, il sindaco del pane, Bologna, Edizioni La Squilla, l976.p. 12-13.
3. I. Masulli, Crisi e trasformazione: strutture economiche, rapporti sociaIi e lotte politiche nel Bolognese (1880-1914), Bologna. Istituto per la
storia di Bologna. 1980, p. 34-35 M. Fornasari, Ct-edito ed élites a Bologna (1(111 ‘otto(ento al 11Ol’e(eflto. Bologna, Editrice
Compositori, 1998, p. 96 sgg.
4. P. D’Attorre. La Società agraria di Bologna nel novecento, in Fra studio, politica ed economia: la Società agraria dalle origini all’età
giolittiana,. Atti del 6° convegno, Bologna, 13-15 dicembre 1990, a cura di R. Finzi. Bologna, Comune di Bologna-Istituto per la
Storia di Bologna, 1992.
Società e storia n. 111, 2006
52 M. Malatesta
che avevano ottenuto il diritto di voto, ma anche un mutamento all’interno delle élites cittadine. Non era la prima volta
che un professionista sedeva nel posto occupato dagli esponenti del patriziato bolognese. Bologna aveva avuto tre
sindaci avvocati, Ulisse Casarini, Enrico Golinelli, Ettore Nadalini e un sindaco ingegnere, Carlo Carli5. La cosa
interessante era che a sessant’anni dall’unificazione, il governo della città fosse affidato all’esponente di una
professione intellettuale minore, che aveva acquistato un status pari a quello dei medici con la legge sulle professioni
sanitarie
del
1910.
Bologna
era
dunque
diventata
la
«città
dei
professionisti»?
Aurelio Alaimo è stato il primo a leggere la storia della Bologna post-unitana nella chiave della sua progressiva
«professionalizzazione» e a individuare nella nuova politica edilizia e igienista del comune l’occasione che consentì ai
medici e agli ingegneri di emergere alla ribalta della città e accrescere il loro potere all’interno del governo cittadino6.
L’ipotesi di lavoro da cui prende avvio questo saggio, è che nei cinquantaquattro anni che intercorrono tra la formazione
del Regno unito e la prima guerra mondiale vi sia stata una trasformazione decisiva all’interno delle élites bolognesi e
che il governo della città si sia spostato in misura significativa nella direzione di una borghesia colta, il cui punto di
riferimento non era solo la terra, ma le professioni e l’Università. Una borghesia dotata di una propria cultura,
variamente intrecciata al tessuto economico e sociale della città e attraversata da molteplici tendenze politiche, delle
quali Zanardi fu, alle soglie del conflitto mondiale, una delle espressioni.
Le dimensioni del gruppo
Nel 1881, anno del primo censimento che contiene i dati completi relativi alle professioni presenti nel comune e nel
circondano di Bologna, la popolazione cittadina ammontava a 121 .579 abitanti. Medici, avvocati e ingegneri
costituivano un gruppo omogeneo, dato che ognuna delle tre professioni rappresentava lo 0,16% della popolazione
[Tab.
1].
Era un gruppo rigorosamente maschile, che aprì i ranghi a qualche donna solo nel primo novecento. Le donne restarono
fuori dal mondo professionale bolognese, come in tutto il resto d’Italia, A loro era precluso l’esercizio del- l’avvocatura
e delle altre professioni legali, ma anche in campo medico, dove non vi erano ostacoli giuridici, la loro presenza era
esigua e inesistente nel ramo tecnico. Anche per le laureate dell’Alma mater nelle materie classiche e scientifiche,
l’insegnamento restava l’unico sbocco praticabile7. Solo due prati-
5. Sulle giunte Casarini e Golinelli v., tra gli altri, PP. D’Attorre, La
politica, in Bologna, a cura di R. Zangheri, Roma-Bari, Laterza,
1986.
6. A. Alaimo, L ‘organizzazione de//a città. Amministrazione e politica urbana a Bologna dopo l’Unità (1859-1889), Bologna, Il Mulino, 1990.
7. A. Cammelli, F. Scalone, Donne, università e professioni. il caso dell‘Ateneo bolognese a//a fine de//’ottocento, in «Storia in Lombardia»,
3/2000. Sulle studentesse bolognesi
carono la professione medica. La prima è Giuseppina Cattani, figura emblematica di un’emancipazione femminile
realizzata attraverso la scienza. Laureatasi nel 1884, ottenne a Torino la libera docenza in Patologia generale e nel 1888
iniziò a insegnare nell’Ateneo bolognese. Nel 1889 fu accolta come socio ordinario nella Società medica chirurgica (da
cui si dimise nel 1892)8. Nel 1895 la Cattani lasciò l’università per andare a dirigere un laboratorio di radiologia a
Imola, suo paese natale9. L’altra fu Linita Beretta, laureatasi nel primo nove- cento, che andò a fare il medico a Milano.
Le bolognesi che esercitarono la professione furono le laureate in Farmacia, occupazione ritenuta più confacente a una
donna, come d’altra parte l’impiego come ragioniera.
v. anche B. Dalla Casa, F. Tarozzi, Da «studentinnen» a «dottoresse»: la difficile conquista dell‘istruzione universitaria tra
ottocento e novecento, in Alma Mater Studiorum, La presenza femminile dal XVIII al XX secolo, Bologna, Clueb, 1988, p. 167-172.
8. Il suo necrologio fu pubblicato nel «Bullettino delle scienze mediche», 1915, p. 123.
9. Su Giuseppina Cattani v. , oltre a Cammelli, Scalone e Dalla Casa, Tarozzi, anche M. Zanotti, Giuseppina Cattani e la ricerca
batteriologica sul tetano, in La presenza Jèmminile, cit., e G. Vicarelli, Le donne possono essere medichesse? Eccezionalità e simbolo
delle laureate in medicina tra ottocento e novecento, in «Medicina e storia», 8/2004.
54 M. Malatesta
Le dimensioni e la distribuzione dell’élite professionale bolognese non era- no molto cambiate rispetto al periodo preunitario. Stando ai dati elaborati da Athos Bellettini, nel 1841 gli avvocati bolognesi erano lo 0,33% di una popolazione
di 50.809 abitanti. i medici lo 0,34% e gli ingegneri lo O,18% 10. Dopo l’unificazione, l’aumento della popolazione e
delle possibilità di lavoro, aveva fatto abbassare la concentrazione delle professioni entro le mura cittadine a favore di
una maggiore distribuzione sul territorio comunale, ma Bologna resta- va sempre il luogo in cui si svolgeva la maggior
parte dell’attività professionale di tutto il circondano. Le professioni forensi e quella ingegneristica restarono all’interno
del comune, mentre l’espansione nel circondano riguardò i notai, i farmacisti e soprattutto i medici, circa un terzo dei
quali esercitava fuori (nel 1881 erano 98 su 302, nel 1901 erano 105 su 391).
Nel I 901 la popolazione era passata da 121.579 a 147.898 individui e anche il numero dei professionisti presenti nel
comune era aumentato. Gli avvocati e procuratori erano passati allo 0,17%, i medici e chirurghi allo O,19%, gli
ingegneri e architetti allo O, 17%. Rispetto a vent’anni prima, gli avvocati e gli ingegneri erano cresciuti dello 0,01 %;
l’aumento più consistente, pari allo 0,03% era quello dei medici. La crescita dei professionisti bolognesi fu la conseguenza dell’ espansione dell’istruzione superiore. Negli anni settanta, seppure con un ritmo più lento rispetto i paesi
europei più industrializzati, la popolazione universitaria italiana iniziò a crescere. Le iscrizioni alle facoltà e agli istituti
superiori passarono dall’ 1 ,9% del 1860-61 al 9,4% del 1880-81 fino a raggiungere il picco del 9,7% nel 1890-91. Nel
corso del decennio, però, subirono un arresto e si attestarono nel 1901 attorno all’8%, per poi risalire leggermente negli
anni prima della guerra 11.
Tra le università del Nord Italia Bologna, che al momento dell’Unità aveva un terzo degli studenti di Pavia, ebbe
l’aumento più spettacolare, tanto da quadruplicare agli inizi del secolo la popolazione studentesca. Gli iscritti, che erano 386 nel 1860-61, passarono a 670 nel 1880-81 e arrivarono nel 1900-1 alla cifra di I 862. A Bologna, tra il 1875 e il i
915 si laurearono 8625 studenti; nel 1914 i laureati furono 262, con una riuscita che sfiorò il 92%12. Ma anche qui le
iscrizioni universitarie subirono una flessione nel corso del decennio, calarono di circa 300 unità e si attestarono, nel
1910-11, a quota 1440. A farne le spese fu la facoltà di Medicina, i cui iscritti scesero da 548 del 1887 a 276 del 190708. Viceversa, gli studenti di Giurisprudenza raddoppiarono (da 314 del 1887-8, a 686 del l9O7-8)13. I laureati
dell’Ateneo bolognese nell’a.a. 1910-11 furono 270 ( 263 maschi e 12 femmine) di cui 60 a Giurisprudenza e 62 a Me-
10. A. Bellettini, La popolazione delle campagne bolognesi alla metà del secolo XIX, Bologna, Istituto per la storia di Bologna,
Zanichelli, 1971, p. 267.
11 . A. Cammelli, Universities and professions, in Society and the professions in Italy, 1860-1914, a cura di M. Malatesta,
Cambridge, Cambridge University press, 1995. p. 61.
12. A. Cammelli, Università e studenti: dinamiche culturali e sociali dall‘Unità ai giorni nostri, in L’Università a Bologna. Maestri,
studenti e luoghi dal XVI al XX secolo, Bologna, Amilcare Pizzi editore, 1988, p. 78.
13. L’Università a Bologna, cit., p. 228-229.
Le professioni e la città. Bologna 1860-1914 55
dicina (2 femmine), 56 a Ingegneria, 2 a Farmacia 14, scesi a 256 nel 1914 (di cui 54 a Giurisprudenza, 63 a Medicina,
48 a Ingegneria)15.
Il calo degli iscritti all’università verificatosi su scala nazionale, si ripercosse sul numero dei professionisti, dal
momento che all’epoca, a differenza di quanto accade oggi, la riuscita universitaria era molto alta e il numero dei
laureati si discostava di poco da quello degli iscritti 16. Alle soglie della guerra il “popolo dei professionisti” italiani era
in termini percentuali leggermente calato ed era passato dallo 0,311 % nel 1881, allo 0,3% del 1911. Questa tendenza si
manifestò soprattutto nell’Italia settentrionale. Qui i medici erano lo 0,058% nel 1881 e tali rimasero nel 1911; gli
avvocati e procuratori passarono dallo 0,053% del 1881 allo 0,051 % del 1911; infine gli ingegneri e architetti scesero
dallo 0,042% del 1881 allo 0,039% del 1911. Anche a Bologna il numero dei professionisti si ridimensionò nel primo
novecento. La leggera flessione degli avvocati [Tab. ] fu accompagnata da una diminuzione più consistente dei medici e
degli ingegneri, che li portò al di sotto della quota del 1881.
Il calo degli studenti universitari verificatosi nel primo novecento è attribuibile, secondo Marzio Barbagli 17, all’avvio
dell’industrializzazione, che spinse sul mercato molti giovani che nel ventennio della grande depressione si era iscritto
all’università in mancanza di lavoro. In realtà, nel Nord industrializzato il numero dei professionisti rimase pressoché
costante, mentre per interpretare i dati relativi a Bologna vanno presi in considerazione anche fattori interni, quali la
crisi della Scuola superiore d’ingegneria. Se si affronta la questione dal punto di vista della storia delle élites, un dato
appare evidente: i professionisti italiani non cambiarono la loro struttura nell’impatto con l’industrializzazione; quelli
bolognesi, poi, si distinsero per una notevole contrazione dei loro ranghi. A dispetto della teoria del sovraffollamento,
che iniziò a guadagnare consensi in quegli anni, il campo professionale bolognese affrontava blindato il nuovo secolo.
Un’élite chiusa?
Un gruppo sociale che nell’arco di quarant’anni oscilla tra 600 individui (1881), 799 (1901) e 732 (1911), a fronte di
una popolazione del comune che era passata da 12 1 .579 a 172.806 abitanti, deve la sua ristrettezza tanto a fattori
esterni quali la congiuntura economica, la struttura dei mercati locali, il li- vello di istruzione della comunità, quanto ai
fattori interni. Si tratta in que14 C. Ferraris, Statistiche dell’Università e degli Istituti superiori, in Direzione genera- le della statistica e del lavoro, Annali di
statistica, Roma, 1913.
15. Annuario della R. Università di Bologna, anno scolastico 1914-15.
16. A. Cammelli, A. Di Francia, Studenti, università, professioni:1861-1993, in l professionisti, Annali 10, Storia d’Italia, a cura di
M. Malatesta, Torino, Einaudi, 1996, p. 49-50.
17. M. Barbagli, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia, Bologna, Il Mulino, 1974.
56 M. Malatesta
st’ultimo caso di quelle strategie che consentono a un gruppo di riprodurre se stesso limitando l’apertura all’esterno,
quale la trasmissione del mestiere di padre in figlio e i matrimoni fatti scegliendo partners all’interno dello stesso
gruppo sociale o in gruppi affini. Queste strategie hanno l’effetto di rafforzare l’identità del gruppo e di non disperdere
il suo capitale culturale che, a sua volta, agisce come potente strumento di riproduzione delle élites 18.
L’indagine sulla trasmissione ereditaria della professione è stata fatta utilizzando un data-base che costituisce l’ossatura
di questa ricerca. Si tratta di un elenco dei professionisti registrati come tali negli «Indicatori» di Bologna, del- le loro
cariche e delle attività svolte. Per quanto riguarda gli avvocati, il data- base copre un periodo compreso tra il 1860 e il
1940 ed è formato complessi- vamente da 1088 avvocati, dei quali 561 esercitarono fino al 1914; F elenco dei medici e
degli ingegneri si ferma al 1914 ed è composto da 517 medici e da 461 ingegneri. Il data-base su cui si basa questa
indagine è quindi composto da 1539 nominativi, che rappresentano la quasi totalità dei professionisti che operarono a
Bologna dall’Unità alla prima guerra mondiale. In esso sono comprese le informazioni relative alle attività svolte e alle
cariche politiche, economiche, sociali ed accademiche ricoperte dai professionisti 19.
I professionisti bolognesi che vissero nel periodo liberale appartenevano alla borghesia cittadina, ma non avevano reciso
tutti i legami con la nobiltà. Si tratta di una percentuale minima, che non contrasta con le osservazioni fatte a livello
nazionale circa la distanza tra la nobiltà e le professioni 20: l’1,56% si fregiava del titolo di conte e lo 0,32% di quello di
marchese. Il titolo nobiliare era più diffuso tra gli avvocati (3,74%), a conferma di una tendenza dominante su scala
nazionale21 ma vi era anche una presenza di ingegneri titolati (1,3%), segno della persistenza di legami con la proprietà
terriera; irrisoria, in- vece, era la presenza di medici aristocratici (0,39%), a riprova della estrazione sociale più bassa di
questa professione.
18. M. Malatesta, I professionisti, in Le élites nella storia dell’Italia unita, a cura di G. Melis, Napoli, Cuen, 2003.
19. 11 data-base è stato composto incrociando le seguenti fonti: Archivio di stato di Bologna, Ufficio del registro delle successioni,
serie TI; «Indicatore della città di Bologna», anni 1865, 1867, 1870, 1880-81, 1898-99, 1901-2, 1915-16; Albo degli avvocati e dei
procuratori presso la corte d’Appello di Bologna, anni 1879, 1881, 1883, 1913, posseduti dalla famiglia Berti Arnoaldi Veli, che
gentilmente li ha messi a mia disposizione; E. Bottrigari, Cronaca di Bologna, a cura di A.Berselli, voi. III (1860-1867) e IV (18681871), Fonti e ricerche per la storia di Bologna, Bologna, Zanichelli editore, 1961 , 1962; Archivio del comune di Bologna, Tabelle
dei consiglieri comunali per ordine di anzianità, e Tabelle di presenza dei consiglieri alle adunanze; G. Belletti, Cronotassi dei
consiglieri provinciali 1823-1980, Bologna, Amministrazione provinciale di Bologna, 1982; L’Emilia—Romagna in Parlamento
(1861-1919),
a
cura
di
MS.
Piretti,
G.
Guidi,
Bologna,
Centro
ricerche
sto-
ria
politica,
1992.
20. G. Montroni, Un rapporto difficile:nobiltà e professioni, in I professionisti, cit.
21 . V. i dati riportati da F. Cammarano sull’estrazione nobiliare dei deputati al parlamento che di professione facevano gli avvocati:
The professions in Parliament, in Society and the professions in Italy, cit., tab. 8.1.1 , p. 300.
Le professioni e la città. Bologna 1860-1914 57
Ci troviamo di fronte a un gruppo piuttosto coeso, con un’origine sociale medio—alta, caratterizzato da un’endogamia
professionale elevata, che raggiunse le punte più alte tra gli avvocati. Siamo giunti a questa conclusione grazie a
un’indagine condotta su un campione formato da 29 avvocati, di 46 ingegneri e i 2 medici. L’analisi della paternità di
129 avvocati evidenzia la struttura di un’élite molto chiusa. Infatti il 52% circa del campione ha il padre che fa
l’avvocato22. È un tasso di endogamia assai alto, non riscontrabile in ugual misura nelle altre professioni e che avvicina
il ceto forense felsineo ai meccanismi di riproduzione che sono stati individuati all’ interno dell’avvocatura napoletana
23
.
L’avvocatura bolognese si riprodusse sul lungo periodo all’interno della borghesia colta (innanzitutto avvocati, ma
anche altre professioni liberali), con una percentuale pari al 60,4% del campione. Segue, a notevole distanza, la
provenienza terriera e piccolo-borghese. Il loro tasso di autoreclutamento si attestò sul lungo periodo attorno al 56%.
Abbiamo infatti individuato, all’interno del campione di 129 avvocati, un gruppo di 44 persone, i cui figli facevano a
loro volta gli avvocati e che si iscrissero all’albo tra il 1875 e il 1910 (33 individui) e tra il 1925 e il 1940 (11).
Non disponiamo per i medici e gli ingegneri di un campione altrettanto vasto; i dati in nostro possesso indicano che in
queste due professioni l’endogamia fosse inferiore: su 58 individui, solo 11 (pari al 19%) facevano la stessa professione
del padre (10 ingegneri su 46, 1 medico su i 2). I restanti 47 provenivano da famiglie con diversi mestieri. Una minore
endogamia professionale tra ingegneri e medici è un dato quasi fisiologico. Anche all’epoca, quella presente nelle
famiglie degli avvocati era legata soprattutto all’organizzazione della professione. Lo studio può passare di padre in
figlio, mentre nel caso di un medico che lavori in ospedale o di un ingegnere ferroviario, è piuttosto il capitale culturale
e le reti di relazioni del padre a orientare il figlio verso la medesima professione.
Medici e ingegneri appartenevano a un milieu sociale più ampio. La laurea in Medicina rappresentava già nella seconda
metà dell’ottocento un’occasione di ascesa sociale per i figli della piccola borghesia o della piccola proprietà terriera 24 e
il campione bolognese conferma questa tendenza. Per ampliare la casistica, abbiamo utilizzato un’altra fonte. Si tratta
della Società medica chirurgica bolognese, il sodalizio che raggruppava il vertice dell’élite medica bolognese. I 43
presidenti che si succedettero in cento anni di vita della società (dal
22. La ricerca sulla professione del padre dei 129 avvocati e dei 58 tra ingegneri e medici, e su 44 figli di avvocati e stata condotta in
parte presso l’Anagrafe del comune di Bologna; altre informazioni sono state ricavate dalle dichiarazioni di successione. I risultati di
questa indagine sono già stati pubblicati su questa rivista: M. Malatesta, La riproduzione di un‘élite: gli avvocati italiani dall’Unità
alla Repubblica, in «Società e storia», n. 100-101, 2003, p. 517-8.
23. P. Macry, Ottocento. Famiglie, élites, patrimoni a Napoli, Torino, Einaudi, 1988.
24. P. Frascani, I medici dall’Unità al fascjsmo, in I professionjsti, cit., p. 147.
58 M. Malatesta
1823 al 1923) furono per la maggior parte cattedratici che insegnavano nell’Ateneo bolognese. Conoscerne la
provenienza sociale è un indicatore interessante per capire quali fossero la mobilità e i meccanismi di riproduzione
sociale ai vertici della professione.
Abbiamo identificato l’origine paterna di 23 presidenti su 43: 12 erano figli di medici, 3 figli di avvocati e 1 di un
laureato in Giurisprudenza; 2 figli di ufficiali dell’esercito; 3 provenivano da famiglie titolate (conti e marchesi) e 2
erano di umile estrazione. Nella generazione nata alla fine del settecento (e che ricoprirà la carica di presidente durante
la Restaurazione), vi sono meno figli di medici, mentre troviamo rappresentate le due punte estreme, i nobili (G.B.
Ercolani e Giuseppe Ferri) e quelli di bassa estrazione (Antonio Alessandrini e Antonio Puccinotti). Il numero dei figli
di medici cresce dopo l’Unità: tra il 1861 e il 1924 ne abbiamo individuati 7 su 21 presidenti, 6 dei quali tra il
1888 e il 1924 25.
Da questi dati emerge il profilo dei grandi cimici bolognesi i quali, è bene sottolinearlo, solo in parte provengono da
famiglie autoctone. Alcuni erano ex-studenti dell’Alma Mater venuti da fuori Bologna; altri vi erano giunti dopo aver
vinto la cattedra universitaria o il primariato ospedaliero (come Bufalini, Murri, Roncati). La super élite che diresse la
Società medica chirurgica aveva un’origine sociale superiore a quella della media dei medici italiani; la sua endogamia
professionale aumentò verso la fine dell’ottocento, come risposta difensiva davanti all’aumento del numero dei medici.
La presenza di cattedratici di umili origini è la prova che il ceto dei professionisti bolognesi non fu totalmente chiuso.
Vi furono anche figli di famiglie distinte cadute in miseria, che riuscirono a studiare grazie all’ aiuto di parenti e
istituzioni caritatevoli. Giuseppe Ceneri, avvocato di grido e politico di primo piano nella Bologna post-unitaria, studiò
grazie ad un legato benefico dell’Opera pia dei vergognosi26. Il luminare Francesco Rizzoli era figlio di un ufficiale
napoleonico che fu ucciso dai banditi. Riuscì a studiare grazie alla generosità di uno zio.
La scelta delle mogli è un altro indicatore importante della chiusura o apertura di un’élite. I professionisti bolognesi
tesero a sposarsi all’interno del milieu benestante cittadino, e questo dato trova conferma nelle ricerche condotte da
Hannes Siegrist, secondo cui gli avvocati si riproducevano all’interno della borghesia proprietaria, piuttosto che
all’interno di un sistema endogamico ristretto 27. Abbiamo notizie certe su sei mogli figlie di professionisti, ma anche in
questo caso ci troviamo di fronte a una scelta di milieu: infatti ingegneri e avvocati sposavano figlie di medico e
viceversa. Le doti confermano l’apparte25 I presidenti, in Primo centenario della Società medica chirurgica di Bologna (1823-1923) a cura della Società, Bologna, 1924.
26. F. Della Peruta, Profilo di Giuseppe Ceneri, in Giuseppe Ceneri: l’avvocato, lo studioso, il politico, a cura di A. Varni, Bologna,
il Mulino, 2002, p. 13. 27. H. Siegrist, Gli avvocati nell’Italia del XIX secolo. Provenienza e matrimoni, titoli e prestigio, in
«Meridiana», n. 4, 1992.
Le professioni e la città. Bologna 1860-1914
59
nenza della sposa a famiglie agiate, oscillavano tra le 38.00028 e le 5.000 lire29; altre erano di entità minore, come quella
di 500 lire, come quella portata dalla moglie dell’avvocato Roncagli e girata alla figlia
30
. Altri padri furono invece
molto generosi con le figlie: quella pagata dall’ingegner Pellagri, morto nel 1906, ammontava a 40.000 lire 31.
I professionisti bolognesi sposarono donne di estrazione borghese. Poche le eccezioni a questa regola: l’avvocato
Ferdinando Pancaldi sposò la Anna Rusconi, sorella dell’avvocato Achille. figlio di Luigi32 il marchese Francesco
Rusconi, figlio di Alessandro, aveva invece sposato una marchesa Bentivoglio33. Infine il medico Ciro Giorgi, figlio di
un ingegnere, sposò la contessa Ottavia Tubertini, figlia dell’ingegner Edoardo. In quest’ultimo caso, tuttavia, sembra
prevalere la logica della endogamia professionale, più che la ricerca della moglie titolata34.
La Società medica chirurgica, l’Alma mater e la città
Le professioni italiane del periodo post-unitario erano alla ricerca di un assetto stabile dal punto di vista
dell’organizzazione interna e dei rapporti con lo stato e il mercato. Lo trovarono in tempi relativamente rapidi (1874 e i
875) gli avvocati e procuratori e i notai; i ragionieri e le professioni sanitarie, invece, ottennero la legge professionale in
età giolittiana (1906 e 1910); per gli ingegneri si dovrà attendere il 1923. Con la legge forense fu introdotto un sistema
di regolamentazione che fu esteso anche alle altre professioni. In ogni provincia era istituito un ordine o collegio, che
aveva il compito di tenere l’albo professionale a cui dovevano iscriversi i liberi professionisti, di controllare i requisiti
per l’iscrizione e di esercitare il potere disciplinare 35. Anche a Bologna le uniche istituzioni pubbliche erano l’ordine
degli avvocati e dei procuratori e il collegio dei notai. Ma questo non significa che le altre professioni liberali non
avessero proprie associazioni rappresentative che supplivano alle carenze della legislazione nazionale.
Bologna vantava una gloriosa tradizione perché ospitava due sodalizi prestigiosi, sorti entrambi agli inizi dell’ottocento:
la Società medica chirurgica e l’Accademia dei ragionieri. Le due associazioni non si limitarono a diffondere i progressi
scientifici delle rispettive discipline. ma ebbero un ruolo decisivo
28. Archivio di Stato di Bologna (d’ora in poi ASB), Ufficio del registro delle successioni, serie II (d’ora in poi Succ. ), b. 125.
29. ASB, Succ, b. 627.
30. lvi, b. 130.
31. Ivi, b. 486.
32. lvi, b. 385.
33. Ivi, b. 190 .
34. ASB, Succ. b. 492.
35. M. Malatesta, L’ordine professionale, ovvero l’espansione del paradigma avvocatizio, in «Parolechiave», 7/8. 1985.
60 M. Malatesta
nel processo di identificazione delle élites professionali all’interno del nuovo stato, oltre a costituire uno dei tramiti
principali tra le professioni e la città. A questi due sodalizi si aggiunsero, nell’ultimo ventennio del secolo, il Collegio
degli ingegneri e l’ordine dei medici, sorto anche a Bologna prima che la legge professionale ne legalizzasse l’esistenza.
Il legame tra questi sodalizi e l’Alma Mater fu tanto forte da poter parlare di una loro accademizzazione.
Nata nel 1805 (ma il progetto è del 1802), la Società medica chirurgica fece parte del disegno napoleonico di riforma
degli studi superiori italiani36. Divenuta nel 1811 la sezione medica dell’ ateneo, l’istituzione che raggruppava in ogni
città tutte le società e le accademie esistenti, il sodalizio medico visse con difficoltà il passaggio al governo pontificio,
del quale patì i controlli esasperati e l’imposizione di cattedratici nella Facoltà di medicina sulla base di criteri religiosi
piuttosto che scientifici. Fu ritenuta un focolaio antigovernativo e alcuni suoi membri, il dottor Luigi Mezzetti e il
farmacista Faustino Malaguti, furono arrestati negli anni. Malaguti emigrò nel 1831 in Francia, diventò rettore
dell’università di Rennes e là restò fino alla morte, avvenuta nel 1878.
La funzione di sociabilità oppositiva esercitata dal sodalizio durante la Restaurazione, divenne partecipazione attiva al
‘48. Alla Guardia civica sorta a Bologna aderì un gruppo di medici- cattedratici, che facevano parte del Consiglio
medico superiore di revisione. Antonio Alessandrini, il padre della medicina veterinaria bolognese37, Marco Paolini,
Francesco Rizzoli, Giuseppe Brugnoli furono i rappresentanti di una élite medica locale emersa durante il Risorgimento
e rimasta alla guida della professione fino agli anni ottanta.
Il nesso tra medicina e politica, una delle chiavi di lettura del Risorgimento, si consolidò all’interno della Società
medica chirurgica anche grazie alla presenza di Farmi. Amico di Mezzetti, Farmi fu socio corrispondente nel 1839,
quando faceva ancora il medico condotto, come suo padre, a Russi. Fino al 1859 intrecciò l’attività professionale alla
politica e svolse anche incarichi tecnici, come quello di direttore della Sanità presso il ministero degli interni a Roma
nel 1848, ma anche negli anni successivi, quando la politica prevalse definitivamente sulla professione, continuò a
occuparsi di questioni sanitarie 38.
La politicizzazione della Società medica chirurgica bolognese significò collaborare con 1’amministrazione locale per il
miglioramento dell’ assistenza cittadina. Dobbiamo alla Società il progetto di riordino degli ospedali della città,
richiesto da Farini l’11 dicembre 1859 dopo essere diventato il governatore delle province dell’Emilia. La riforma,
diventata decreto il 10 marzo
36. Le informazioni sulla Società medica chirurgica sono tratte da L. Sighinolfi. La sto- ria della Società dalle origini ai giorni
nostri, in Primo centenario della Società medica chirurgica di Bologna (1823-1923), cit.
37. Sull’attività di Alessandrini, v. Le pratiche della veterinaria nella cultura dell’Emiha-Romagna e 1‘insegnamento nell’Università
di Bologna, Rastignano. Facoltà di Medicina veterinaria dell’Università degli studi di Bologna — Istituto per la storia di Bologna,
1984, cap. V.
38. Su Farmi medico, v. A. Messedaglia, La giovinezza di un dittatore. Carlo Farmi medico, Milano-Roma-Napoli, Società editrice
Dante Alighieri, 1914.
Le professioni e la città. Bologna 1860-1914
61
1860, unificava i vari ospedali cittadini in un’unica amministrazione e gettava le basi per la loro riorganizzazione39. Un
altro contributo alla sanità pubblica venne dall’iniziativa presa da Francesco Rizzoli, in quegli anni suo presidente e
sovrintendente degli ospedali, per realizzare il nuovo manicomio40. Rizzoli, che sedeva nel consiglio provinciale. riuscì
ad ottenere che i malati di mente ricoverati all’ospedale Sant’Orsola fossero spostati in un luogo più adatto, che lui
stesso aveva individuato nell’ex-convento delle domenicane, adibito a lazzaretto e situato in Sant’lsaia. Grazie alla
sinergia tra Rizzoli e Francesco Roncati, dal 1864 primario del reparto dei pazzi del Sant’Orsola, nel I 867 nacque il
manicomio provinciale, un modello di tecnologia sanitaria improntato ai criteri igienisti di cui Roncati era ferreo
sostenitore41.
La Società medica chirurgica diede un altro contributo alla modernizzazione della città offrendo la sua competenza
scientifica per la realizzazione dei programmi di igiene che dagli anni settanta divennero uno degli aspetti principali
della politica urbanistica42. Venne facilitata, nello svolgimento del suo ruolo di esperto, dalla presenza dei suoi membri
nel consiglio comunale, alcuni dei quali divennero assessori all’igiene. Augusto Mezzini, entrato nella Società nel 1861
, è uno di costoro. Consigliere comunale nel 1868 nella giunta Casarini, fu rieletto fino al 1889; dal 1878 al 1888 ricoprì
l’incarico di assessore all’igiene, come fecero Marcello Putti e Pietro Albertoni tra gli anni no- vanta e gli inizi del
nuovo secolo.
Il sodalizio medico si impegnò anche in iniziative filantropiche, quali la fondazione dell’Istituto degli ospizi marini, di
cui Francesco Rizzoli fu il primo presidente. Invece non brillò affatto nei riguardi della riforma della professione. La
resistenza ad addentrarsi su questo terreno emerse a ridosso del ‘48. In linea con quanto stava accadendo nelle
assemblee nazionali di altri paesi europei, anche in Italia il ‘48 fu vissuto da alcuni medici come un’occasione di
rinascita politica e professionale. Nel luglio del ‘48, sorse nelle Marche un comitato che intendeva inviare al Consiglio
dei deputati un progetto di riforma della professione. Fu solo grazie all’insistenza di Giovanni Brugnoli, se la So- cietà
alla fine aderì all’iniziativa dei medici marchigiani43. Ma quando, l’anno successivo, Farmi si rivolse direttamente alla
Società chiedendole di partecipare ai lavori di una commissione per la riforma della professione, essa declinò
39. F. Tarozzi. Enti locali e gestione de/la sanità pubblica a Bologna dopo l’Unità, in Gli ospedali in area padana fra settecento e
novecento, a cura di ML. Betri e E. Bressan, Milano, FrancoAngeli 1992, p. 353-358.
40. E. Dall’Osso, I primari chirurghi dell’ospedale Maggiore, in Sette secoli di vita ospitaliera in Bologna, Bologna, Cappelli, 1960,
p. 269.
41 . T. Giacanelli, K. Bellagamba Toschi. MA. Niccoli, La costituzione del manicomio di Bologna:1860-70, in «Società, scienza e
storia», 1, 1985.
42. Alaimo, L’organizzazione della città. cit., p. 159-167.
43. Sull’attenzione rivolta da Brugnoli alle questioni relative all’organizzazione della professione v. F. Tarozzi, Il ruolo dei primari
nelle strutture ospedaliere di Bologna nel secondo ottocento, in L ‘arte di guarire. Aspetti della professione medica tra medioevo ed
età contemporanea, a cura di ML. Betri, A. Pastore. Bologna. Clueb, 1993, p. 189-191.
62 M. Malatesta
l’invito, girando la proposta al Collegio medico e ai docenti dell’Università. In quell’occasione la Società medica
chirurgica espresse una linea molto simile a quella tenuta dalle élites delle professioni di tutto il mondo occidentale le
quali, forti della loro posizione sociale, si disinteressavano dei problemi di cui soffriva la base. Così, i luminari della
medicina bolognese non erano interessa- ti al riconoscimento pubblico della rappresentanza medica, al monopolio professionale o alla difesa dei medici condotti davanti agli enti locali, che erano i loro datori di lavoro.
Non stupisce allora né la posizione assunta nel 1848, né il parere, sollecita- to nel 1860 di nuovo da Farmi, sui medici
condotti di Ravenna. Costoro si lamentavano dei bassi stipendi e chiedevano di essere inseriti nella classe dei funzionari
governativi e sottratti dalle dipendenze dei comuni, perennemente afflitti da problemi di bilancio. La Società medica
chirurgica diede una risposta che esprimeva tutto l’egoismo di un’élite. Noncurante delle difficoltà in cui versava
l’organizzazione territoriale della sanità, essa attribuì i bassi stipendi dei medici condotti all’ eccessivo
«sovraffollamento» (concetto chiave nella storia delle élites professionali italiane, che si percepivano sempre in
eccesso). La soluzione era individuata nella nascita del nuovo stato, che avrebbe portato insperate possibilità di lavoro
nel campo militare, ingegneristico, matematico o della politica, decongestionando così le facoltà medico-chirurgiche 45.
Anche nel periodo post-unitario la Società medica chirurgica conservò il suo profilo di associazione scientifica, distante
dalle questioni più strettamente inerenti la professione, di cui si occupò solo occasionalmente46. L’identificazione tra la
Società medica chirurgica e l’Ateneo emerge in modo nettissimo dall’incrocio tra la carica di presidente della Società,
quella di rettore e di preside della Facoltà di medicina e chirurgia. Su 12 rettori che sì alternarono dal 1868 al 1915, 6
furono medici, di cui 5 presidenti e uno membro della Società medica chirurgica.
Il primo rettore dell’università post-unitaria, succeduto al reggente Antonio Montanari in carica dal 1859, fu
Giambattista Ercolani. Il medico conte e patriota, tornò a Bologna nel I 863, da cui era fuggito nel 1849 per rifugiarsi
prima in Toscana e poi a Torino, dove aveva diretto la Scuola veterinaria. Divenuto rettore nel 1868, Ercolani diede
avvio alla trasformazione della veterinaria bolognese, che nel 1871 fu inserita all’interno della facoltà di Medicina. Lo
Stabilimento di clinica veterinaria, di cui Ercolani era il direttore, divenne la Scuola dì veterinaria47, che dal 1875 fu
autorizzata a rilasciare la laurea quadriennale in Medicina veterinaria. Fu presidente della Società medica chirurgica dal
1881 al 1883. Nel 1876-77 divenne rettore Luigi Calori, titolare della cattedra di anatomia dal 1844 al 1896, presidente
della Società nel 1856 e nel
44. Sighinolfi, Storia della Società, cit.. p. 187-88.
45. Ibid., p. 240-41.
46. A. Alaimo, Società agraria e associazioni professionali a Bologna nell‘ottocento: una proposta di ricerca, in Fra studio, politica
ed economia: la Società agraria dalle origini all’età giolittiana, cit,, p, 317.
47. Le pratiche della veterinaria nella cultura dell’Emilia-Romagna, cit,, p. 214-220.
Le professioni e la Città. Bologna 1860-1914 63
1888. Gli succedettero Francesco Magni, fondatore della clinica oculistica bolognese, presidente della Società nel 1863,
rettore in carica fino al 1884-85; Murri, presidente della Società, con intervalli, dal 1884 al 1900 e rettore nel 1888-89;
Giovanni Brugnoli, rettore nel 1889-90 e presidente della Società nel 1890: conclude la serie dei rettori medici nella
Bologna post-unitaria Francesco Roncati, che ricoprì l’incarico nel 1895-96.
Ugualmente forte fu il nesso tra la presidenza della Facoltà di medicina e la Società medica chirurgica. Furono presidi
Brugnoli, Luigi Calori, Cesare Taruffi, Domenico Maiocchi, docente di clinica dermofilopatica, Roncati, Giovanni
Martinetti, professore di anatomia patologica, Giovanni Calderoni e per finire Alfonso Poggi (1907-1923), docente di
patologia speciale chirurgica di- mostrativa. In alcuni casi la carica di rettore e di preside precedette la presidenza della
Società, che consisteva allora in una sorta di noblesse oblige. Altre volte (Calori, Magni, Murri) la nomina a rettore
arrivò a coronare una carriera prestigiosissima, di cui faceva parte anche il riconoscimento della Società me- dica.
Presidenza della Società medica chirurgica, presidenza della Facoltà di medicina e chirurgia e infine il rettorato,
rappresentarono il cursus honorum più alto che fu percorso solo da Calori e da Brugnoli. Primario dell’Ospedale
maggiore dal 1861 , docente di patologia speciale medica all’università, Brugnoli fu attivissimo all’interno del
sodalizio, di cui fu il segretario per trentasei anni, prima di diventarne il presidente.
Il nesso tra l’Alma mater e la Società si allentò nel primo novecento, quando l’ateneo scivolò via dalle mani dei medici
che lo aveva tenuto saldamente per trent’anni circa e si fece rappresentare da rettori grecisti (Puntoni) e matematici
(Pesci, Leone). La carica di presidente della Società perse di peso anche nei confronti della Facoltà di medicina.
Bisogna arrivare al 1939 perché il suo ex-presidente Vittorio Putti, che nel 1912 prese il posto di Alessandro Codivilla
nella cattedra di ortopedia, ne diventi il preside.
L’università dei notabili era finita e con essa quei meccanismi di formazione delle élites mediche che avevano avuto
nella Società medica chirurgica uno dei punti nevralgici. Ma quest’ultima non aveva esaurito la sua funzione. Pur
continuando ad essere un sodalizio scientifico, la Società entrò in contatto con le nuove organizzazioni mediche, a
partire dal primo ordine, sorto per dare alla professione organizzazione e disciplina in attesa di una legge che non
arrivava mai. I soci Giulio Melotti, Luigi Marzotti, Domenico Maiocchi, Antonio Giovannini. furono consiglieri e
segretario del primo ordine dei medici48. La longa manus della Società non si fermò qui, ma proseguì anche quando
l’ordine fu trasformato in ente pubblico dalla legge sulle professione sanitarie del 1910. I nuovi soci, iscritti tra il 1910 e
il 1914, come Aristide Busi e Agostino Reggiani, furono i segretari dell’ordine, mentre il presidente fu un socio
autorevole della Società, il professor Luigi Silvagni, chiamato a presiedere la Federazione dell’ordine dei medici49.
48. «indicatore della città di Bologna», 1898-99.
49. «Indicatore della città di Bologna», 1915-16.
64 M. Malatesta
La Società si giostrò con abilità tra i mutamenti in atto nella professione medica, cercando di non perdere potere e di
difendere la sua identità. Prova ne è la variazione del tetto massimo dei soci residenti a Bologna, gli unici che
contassero veramente all’interno del sodalizio. Dopo l’Unità fu fissato per la prima volta un limite a questa categoria di
soci, fissato a 50. Nel 1865 il tetto fu spostato a 60 soci per poi tornare nel 1891 , ossia nel periodo in cui aumentarono
gli studenti in Medicina e gli esercenti la professione, a 50.
L’accademia dei ragionieri
Bologna possedeva un’ altra prestigiosa istituzione professionale, 1’ Accade- mia dei ragionieri. Sorta nel 1813 col
nome di Accademia dei logismofili, la nascita del sodalizio fu determinata, come nel caso della Società medico
chirurgica, dall’impulso dato dall’occupazione francese nel riordino delle professioni come in quello dell’istruzione
superiore. Nel Regno d’Italia i ragionieri furono regolamentati con un decreto del i 805 che imponeva, così come agli
ingegneri e agli architetti, di superare un esame per ottenere 1’abilitazione a esercitare la professione. La legislazione
napoleonica introdotta nello Stato pontificio, dove le professioni contabili non erano mai state sottoposte ad alcun
limite, stimolò l’iniziativa dei giovani ragionieri di Bologna. Un gruppo di costoro iniziò a riunirsi nel 1807 per
migliorare la propria formazione. Il rigo- re portato dagli ordinamenti francesi ebbe così 1’ effetto di recuperare e
valorizzare 1’antica tradizione dei computisti bolognesi, che nel settecento diedero un contributo importante ai tentativi
di razionalizzazione dell’amministrazione pubblica50.
La fondazione ufficiale dell’Accademia avvenne due anni prima che il ritorno del Papa annullasse le norme
napoleoniche. Si trattò tuttavia, in questo come in altri casi verificatisi negli stati italiani, di una “restaurazione”
professionale di breve periodo. Nel 1828 fu ripristinata la normativa napoleonica, esame di abilitazione compreso, con
grande dispiacere dei ragionieri bolognesi. Le loro proteste riuscirono a bloccare l’introduzione del decreto, facendo
valere il criterio dell’anzianità di servizio come condizione per ottenere l’abilitazione. Nel 1836, tuttavia, una nuova
normativa valida in tutto lo Stato pontificio ripristinava gli esami di abilitazione, senza però scartare completamente il
criterio dell’anzianità. Sebbene la regolamentazione pontificia fosse meno rigorosa di quella napoleonica e più leggero
il controllo dello stato sulla professione, essa introdusse quel criterio che resterà alla base della futura regolamentazione
della professione nel nuovo stato unitario, ossia che solo coloro che erano iscritti agli albi provinciali, purché dotati
dell’indispensabile abilita50 B. Farolfi, Per una storia della professione contabile in età moderna: i computisti bolognesi tra sei e settecento, in Computisti,
ragionieri, aziendalisti. La costruzione di una professione e di una disciplina tra otto e novecento, a cura di M. Martini, S. Zan,
Padova. Cleup, 2001. p. 243-267.
Le professioni e la Città. Bologna 1860-1914 65
zione, potessero svolgere degli incarichi pubblici tra i quali, importantissimi, la consulenza nei fallimenti. riconosciuta
dai tribunali51.
Il 1828 costituì uno spartiacque nella vita dell’accademia, che aveva vivacchiato nei primi anni della Restaurazione.
Mutata la denominazione in Accademia dei ragionieri, il sodalizio si diede, al pari della Società medica chirurgica, un
numero chiuso, limitando il numero dei soci ordinari a 60. L’intento dell’ Accademia rimase prevalentemente formativo
e nell’ ambizione dei suoi aderenti avrebbe dovuto diventare una Scuola superiore di ragioneria, supplendo alla
mancanza di una cattedra universitaria52. I moti del ‘31 bloccarono ogni iniziativa. La pesante censura che si abbattè
sulla vita cittadina, e che aveva in qualche modo risparmiato la Società medica chirurgica, fu invece impietosa con i
ragionieri. Il gruppo era sospettato di pericolose tendenze politiche. Il presidente dell’Accademia dal 1823 al 1863 fu
Angelo Ferlini, ragioniere capo del comune di Bologna, le cui simpatie liberali gli costarono un anno di sospensione dal
servizio, oltre al sospetto di essere una talpa e di aver passato sottobanco nel 1858 a Minghetti, Pepoli e Farmi le
informazioni sul cattivo funzionamento dell’ amministrazione pontificia53.
In un primo momento, il passaggio al nuovo stato sembrò attribuire all’Accademia almeno una parte di quei compiti
formativi e professionali a cui aspirava. Infatti le fu riconosciuto il diritto di partecipare agli esami di abilitazione
fornendo ai commissari i quesiti da sottoporre ai candidati e nel 1869 Mm- ghetti, suo socio onorario, elevò
l’Accademia a ente morale di pubblica utilità. Si trattò di un sogno di breve durata. Nel 1865 fu infatti varato il
regolamento che abilitava i diplomati nella sezione di ragioneria degli istituti tecnici a svolgere la professione senza
alcun esame di abilitazione. La crisi attraversata dalla professione al momento di transitare nel nuovo stato si riflettè
nella vita del sodalizio bolognese, la cui attività entrò in sonno e la stessa pubblicazione dei suoi atti fu sospesa fino al
1873. In quegli anni la presidenza era retta da Augusto Bordoni, che fu a lungo consigliere comunale.
La linea di Bordoni fu improntata alla fedeltà e alla tradizione. Nella sua visione l’Accademia doveva restare un luogo
di elaborazione scientifica e di definizione disciplinare della professione di ragioniere e delle sue articolazioni interne e
a questo scopo il sodalizio si impegnò in veri e propri corsi di formazione professionale e di aggiornamento. Bordoni
guardava invece con grande sospetto le iniziative che cominciavano ad animare la ragioneria italiana e che miravano,
come tutte le altre professioni dell’epoca, a ottenere il riconoscimento legale e il monopolio professionale. Di fronte alle
prime richieste di una legge professionale per i ragionieri, l’Accademia bolognese ebbe una reazione
51. Sulla storia dell’Accademia fino all’Unità, v. M. Martini, La regolamentazione dei servizi contabili. Tappe normative e
associazionismo a Bologna nella prima metà del XIX secolo, in Avvocati medici ingegneri. Alle origini delle professioni moderne, a
cura di ML. Betri, A. Pastore, Bologna, Clueb, 1997.
52. A. Bordoni, Memoria del 30 ottobre 1859, in «Bollettino della scienza dei ragionieri», marzo 1860.
53. Martini, La regolamentazione, cit., p. 402 e 414 n.
66 M. Malatesta
totalmente negativa, e si oppose all’idea di «formare per legge una casta dei ragionieri, base i collegi degli avvocati e
dei notai»54.
Gli accademici di Bologna avevano ancora la mentalità tipica dei vecchi sodalizi professionali. Da un lato volevano
conservare il carattere elitario dell’associazione e per questo motivo rifiutavano di ammettere come soci ordinari coloro
che non avevano la licenza di ragioniere, ma che lavoravano in alcuni corpi della pubblica amministrazione avendo
superato alcuni esami speciali55. Questi impiegati non potevano godere degli stessi diritti dei ragionieri perché non era
loro consentito di svolgere la libera professione e di avere rapporti con i tribunali. Anche i ragionieri bolognesi, gruppo
numeroso e influente in città, avevano quella mentalità caratteristica delle élites professionali ottocentesche, la cui
posizione economica e sociale era tale da non aver bisogno della protezione dello stato. Bologna esprimeva su questo
tema la posizione ancora dominante a livello nazionale. Nel primo congresso dei ragionieri tenutosi a Roma nell’ottobre
1879, l’idea di una legge professionale fu respinta, mentre fu pro- posto di aumentare sul territorio nazionale il numero
dei collegi dei ragionieri, il cui compito principale avrebbe dovuto essere quello di indurre le amministrazioni locali ad
attribuire gli incarichi più importanti ai ragionieri collegiati 56.
La svolta dell’Accademia avvenne nel 1892 e coincise con le dimissioni di Augusto Bordoni, in carica dal 1865. Il
nuovo presidente fu Enrico Forlai, ragioniere dell’estrema sinistra, membro dell’Associazione democratica bolognese,
presidente della Società operaia, simpatizzante con i socialisti e appartenente al gruppo che sostenne la nascita, nel i
885, de «Il Resto del Carlino». Consigliere comunale e feroce oppositore del governo Crispi57. Forlai restò in carica due
anni, tanto basta per trasformare un’accademia tradizionale ed eh- tana in un sodalizio con spiccate caratteristiche
professionali e orientato alla tutela dei diritti dei ragionieri.
La strada aperta da Forlai fu portata avanti da Faustino Parisini. Rimasto in carica un solo anno, introdusse
un’innovazione importante. Nel 1895 stilò il regolamento per la costituzione dell’albo provinciale dei ragionieri di
Bologna, improntato ad un criterio radicalmente diverso da quello seguito dagli altri collegi provinciali. Questi ultimi
inserivano nell’albo i soci del collegio senza alcuna distinzione, mentre l’albo dell’Accademia bolognese comprendeva
solo i ragionieri provvisti della licenza della scuola tecnica58. Si realizzava così a Bologna una commistione tra vecchi
e nuovi criteri, tra la tradizione elitaria
54. Professioni e professionisti; istituzioni speciali, in «Bollettino dell’Accademia dei ragionieri di Bologna», 1878-79.
55. Verbale dell’assemblea dell’8 dicembre 1873, ivi, 1876.
56. Resoconto del primo congresso nazionale dei ragionieri d’Italia, ivi. I 879-80.
57. M. Malatesta, il Resto del carlino. Potere Politico ed economico a Bologna dal 1885 al 1922, Milano, Guanda, 1978, p. 58, 97.
58. Queste informazioni sono tratte da R. Accademia dei ragionieri di Bologna. Cenni storici (MDCCCXJJ1-MCMXIII), Bologna,
1913 e da O. Tassinari Clò. P. Rubbi, Una «storia» nella storia, il Collegio dei ragionieri a Bologna 1895-1995, Bologna, Patron.
1995.
Le professioni e la città. Bologna 1860-1914 67
e meritocratica e la nuova difesa degli interessi professionali. Il modello «albo bolognese fu adottato dal collegio di
Milano; divenne poi un criterio nazionale al VI° Convegno dei ragionieri, tenutosi a Roma nel 1895 e nel quale fu
elaborato il secondo dei vari progetti di legge presentati in Parlamento prima della definitiva approvazione. Il contributo
dei rappresentanti bolognesi a queste assemblee consistette nel richiedere una legge che definisse con precisione quali
fossero le funzioni svolte dai ragionieri non solo in campo giudiziario, ma all’interno di tutta la pubblica
amministrazione.
Ferdinando Ricchieri si distinse in quegli anni per essere il fautore di una linea rigorosissima, che tentava di contrastare
le manovre compromissorie che si stavano affermando sul piano nazionale. Una parte dei contabili italiani, sprovvisti
della licenza della Scuola tecnica, aveva fondato a Firenze 1’Associazione dei ragionieri provetti, il cui scopo era quello
di far valere i diritti acquisiti e di evitare che il monopolio della professione finisse nelle mani dei diplomati in
ragioneria. Di fronte ai cedimenti che si stavano verificando a uve!lo nazionale nei confronti dei ragionieri non
diplomati, Ferdinando Ricchieri vicepresidente nel 1905, difese la tradizione elitaria e meritocratica del!’Accademia
bolognese. dichiarando con durezza che era meglio non avere una legge professionale, piuttosto che accettare uno
svilimento dello spirito che aveva improntato vent’anni di lotte59.
Il testo legislativo, del i 5 luglio 1906, istituiva i collegi dei ragionieri in ogni provincia, li apriva a tutti, diplomati o no,
facendo valere il criterio dell’anzianità. In tal modo veniva sancita davanti alle autorità amministrative e giudiziarie
l’equiparazione di tutti i ragionieri. il cui obbligo di iscriversi al Collegio rifiutava solo l’esercizio della libera
professione. Il progetto elitario dei ragionieri bolognesi subì dunque un arresto a causa di una legge «buonista» che
cercava di gestire la transizione dal vecchio al nuovo regime professionale nel modo più indolore possibile.
L’ordine degli avvocati e dei procuratori
I! 28 agosto 1874 si insediò presso la corte «appello di Bologna il primo consiglio dell’ordine degli avvocati e dei
procuratori, due mesi dopo il varo della legge, che avrebbe costituito per tutte le altre professioni liberali fino al primo
novecento il modello da imitare e con cui confrontarsi. L’effetto prodotto nell’ambiente bolognese dalla nascita del
primo ente pubblico professionale non fu immediato. Il meccanismo imitativo scattò negli anni novanta. I sodalizi degli
ingegneri e dei ragionieri si adeguarono alle nuove tendenze professio59 F. Ricchieri, Il progetto di legge sulla professione del ragioniere, in «Bollettino del- la Regia Accademia dei ragionieri in
Bologna». 1,1905; M. Martini, Per tutelare gli alti interessi di ordine generale. L ‘associazionismo dei ragionieri dal 1860 all’
ordinamento professionale del 1906, in Colletti bianchi. Ricerche su impiegati, funzionari e tecnici in Italia tra ottocento e
novecento, a cura di M. Soresina. Milano. Franco Angeli. 1998.
68 M. Malatesta
nalizzanti che avanzavano nel paese con una certa lentezza, segno di attaccamento alle strutture associative preesistenti
e consolidate.
Le ricerche condotte su scala nazionale hanno dimostrato le difficoltà incontrate dall’ordine nei primi anni di vita per
l’indifferenza degli avvocati, il fastidio nei confronti di un’ ulteriore carico burocratico60, o addirittura l’ostilità, come
nel caso di Milano, nei confronti del principio della collegialità61. Bologna fu rapida nell’attivare la nuova istituzione, a
fronte dei ritardi verificatisi in altre zone. E questo è già il segno di una risposta positiva dell’avvocatura bolognese alla
normativa dello stato unitario; che tuttavia non fossero tutte rose e fiori anche nell’efficiente Bologna, lo si arguisce da
alcuni elementi che emergono dai verbali del Consiglio dell’Ordine, studiati da Eleonora Proni62.
La situazione economica dell’ordine nei suoi primi anni di vita era disperata al punto che non fu possibile neppure
abbonarsi all’«Archivio giuridico». Si era arrivati a questo punto perché molti avvocati non pagavano la tassa annua.
Per rimediare a questa situazione, il presidente Giuseppe Ceneri applicò una tassa ai membri del consiglio dell’Ordine,
mentre le tasse di iscrizione e quelle per i vari certificati continuarono ad essere aumentate negli anni nel tentativo di
colmare il deficit. E noto che gli italiani avessero una scarsa propensione all’associazionismo, soprattutto se di stato.
L’esempio dei comizi agrari è illuminante. I proprietari terrieri, anche se ricchissimi, spesso non pagavano le misere
quote annue63. Ma il comizio non era un ente a cui fosse obbligatorio iscriversi. L’albo degli avvocati invece lo era e la
negligenza o il rifiuto di pagare la tassa annua di iscrizione era il segno di un debole senso di appartenenza, o addirittura
di una mancata identificazione con l’istituzione pubblica.
A Bologna, il consiglio dell’ordine si adoperò col massimo impegno per- ché fosse eliminato il distacco tra il ceto
forense locale e l’ordine. Giuseppe Ceneri, che ne fu il primo presidente, propose di organizzare delle conferenze
giuridiche per i giovani avvocati. Questa iniziativa, già sperimentata con successo a Roma, andava incontro agli intenti
del legislatore, che aveva immaginato gli ordini come luoghi di cultura giuridica e di sociabilità, come erano gli ordini
francesi e gli Inns of Court inglesi. Ma il bisogno di una «cultura del- l’ordine», era presente in molti avvocati
bolognesi, che chiedevano all’ordine di abbonarsi alle principali riviste giuridiche. Ad ostacolare la realizzazione di
60. F. Tacchi, Gli avvocati italiani dall’Unità alla Repubblica, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 73-84.
61 . F. Tacchi, Dalla Repubblica Cisalpina alla repubblica Italiana, in Avvocati a Milano. Sei secoli di storia, a cura di A. Gigli
Marchetti, A. Riosa, E Tacchi, Milano, Skira, 2004, p. 47.
62. E. Proni, Bologna la nascita dell’ordine degli avvocati e procuratori di Bologna 1874-1945, Bologna, Quaderni della Fondazione
forense bolognese, n. 5, 2006.
63. M. Malatesta, I signori della terra. L’organizzazione degli interessi agrari padani (1860-1914), Milano, Franco Angeli, 1989, p.
60-74.
Le professioni e 1a città. Bologna 1860-1914 69
questo desiderio erano la mancanza di spazi e di fondi, fino a che, nel 1885, fu concordato col presidente della corte
d’appello lo stanziamento di libri e periodici e il diritto di usufruire della biblioteca della corte.
Il consiglio dell’ordine svolse un ruolo decisivo nell’interpretare le tendenze dell’avvocatura bolognese. Nei suoi primi
anni di vita, il presidente Giuseppe Ceneri fu il portavoce della componente progressista del ceto forense64. Sotto la sua
guida, il consiglio dell’ordine si pronunciò contro la pena di morte e protestò contro l’arresto dell’avvocato Giuseppe
Barbanti Brodano, ordinato dal pubblico ministero mentre stava difendendo un imputato65. Nel 1898 il clima era
cambiato e la crisi politica nazionale si ripercosse sul foro bolognese smorzando il suo radicalismo. Nel 1898 l’avvocato
Meldola partecipò ai moti di piazza e fu arrestato con l’accusa di incitamento all’odio di classe, rea- to imputato
abitualmente ad anarchici e socialisti. Meldola chiese al consiglio dell’ordine di intervenire presso il ministro di grazia e
giustizia perché fosse messo in libertà provvisoria o fosse accelerata la procedura. Il consiglio si spaccò in due: gli
avvocati Aristide Venturini e Magnani erano favorevoli, il notabile Ettore Nadalini e Pietro Baldini, contrari. Il
consiglio si tolse dalle difficoltà decidendo pilatescamente di non deliberare.
Una delle principali funzioni svolte dall’ordine degli avvocati fu quella di contribuire alla formazione dell’élite della
professione. Mentre la Società me- dica chirurgica raggiunse questo scopo con la cooptazione, l’ente pubblico lo
ottenne attraverso il criterio elettivo. Il consiglio dell’ordine, eletto da tutti gli iscritti all’albo nel distretto della corte
d’appello, rappresentò i vertici dell’avvocatura bolognese che coincidevano in buona parte con l’élite politica e, sia pure
in misura minore, con la Facoltà di giurisprudenza. Il primo consiglio dell’ordine, insediatosi nel 1874 e presieduto da
Giuseppe Ceneri, riproduceva in piccolo il consiglio comunale. Erano consiglieri comunali, oltre a Ceneri. Angelo
Agnoli e Aristide Venturini. Negli anni seguenti la maggioranza degli avvocati che ebbero cariche politiche nel comune
o a livello nazionale furono presidenti o consiglieri dell’ordine, come Giuseppe Bacchelli, Giuseppe Pedrazzi, Ettore
Nadalini, Enrico Golinelli, Enrico Pini.
Il consiglio dell’ordine degli avvocati di Bologna fu caratterizzato dal lega- me con la vita politica cittadina più di
quanto non lo fosse con l’accademia. Mentre nel caso della Società medica chirurgica, che era un sodalizio scientifico,
la relazione con l’Università fu di totale identifìcazione, in quello dell’ordine la presenza dei cattedratici della Facoltà di
Giurisprudenza fu minore. Oltre a Ceneri, il personaggio più emblematico del periodo. altri consiglieri accade- mici
furono: Oreste Regnoli, presidente dell’ordine dal 1883 al 1885, docente di diritto civile, preside della Facoltà, deputato
nella VI1-VII1-X-XlII legislatura; Gustavo Sangiorgi, docente di procedura civile; Luigi D’Apel, Ernesto Die64 Della Peruta. Profilo di Giuseppe Ceneri, cit.. R. Baliani. La democrazia radicale e I ‘impegno parlamentare, in Giuseppe Ceneri.
cit.
65. P. Ruggeri, Per una storia dell‘ordine forense a Bologna tra ottocento e novecento in Giuseppe Ceneri, ivi, p. 161.
70 M. Malatesta
na, Alberto Calda, Gian Alessandro Stoppato, Giacomo Veneziani. Il legame tra l’ordine e la Facoltà di Giurisprudenza
si allentò mano a mano che ci si avvicinava al nuovo secolo e nell’età giolittiana tese a scomparire.
L’ordine accentuò col passare degli anni la sua funzione di rappresentanza professionale e in quanto tale mise in atto
propri meccanismi di selezione e riproduzione delle élites. Abbiamo identificato 33 avvocati con figli avvocati che
furono iscritti all’albo tra il 1874 e il 1910. All’interno di questo gruppo, 21 non erano consiglieri dell’ordine, mentre lo
erano stati in 12. Diversamente, degli 11 avvocati, padri di avvocati. iscritti all’ albo tra il I 925 e il 1940. 7 erano
consiglieri dell’ordine, contro 5 che non ne avevano mai fatto parte. Questi dati indicano che l’appartenenza al consiglio
dell’ordine divenne uno tra i fattori che favorì la trasmissione ereditaria di padre in figlio. Questa tendenza, emersa nel
primo novecento, si accentuò durante il fascismo.
Le associazioni degli ingegneri
L’ingegneria bolognese fu sottoposta nel periodo post-unitario a dure pro- ve. L’Alma mater aveva predisposto dal 1806
speciali curricula per gli ingegneri all’interno della Facoltà fisico-matematica (come si chiamava allora) e durante la
Restaurazione fu introdotto nello Stato pontificio un corpo di ingegneri di acque e strade66: ma l’ambiente economico
nel quale erano calate queste istituzioni non costituì un precedente tale da consentire, dopo l’Unità. che la formazione
superiore tecnica e la professione ingegneristica ricevesse- ro un impulso paragonabile a quello verificatosi a Milano e
Torino. In queste due città, l’impulso dato dagli industriali dalla Camera di commercio e dagli intellettuali fu decisivo
per la nascita della Scuola dì applicazione di Torino (1859) e dell’lstituto tecnico superiore di Milano (1863), da cui
sarebbero successivamente sorti il Politecnico di Milano (1875) e quello di Torino (1906).
La Scuola di applicazione di Bologna nacque nel 1862 e scontò dall’mi- zio la sua collocazione all’interno di un
contesto economico dominato dall’agricoltura e quindi privo di quegli stimoli che avevano portato Milano e a Torino
fin dalla Restaurazione alla costruzione di un tessuto culturale favorevole allo sviluppo dei saperi e delle professioni
tecniche. La Scuola di applicazione per ingegneri era un corso di laurea dentro la Facoltà di scienze matematiche, a cui
si accedeva dopo aver superato il primo triennio di matematica e fisica. Nel 1875 il ministro del lavoro escluse i laureati
bolognesi dal concorso pubblico per ingegneri del genio civile ritenendoli non adeguatamente preparati nelle scienze
app1icate propose quindi di sostituire la Scuola con un istituto per agronomi, più in sintonia con la vocazione agraria
del territorio bolognese.
66. M. Minesso, L’ingegnere dall’età napoleonica al fascismo, in I professionisti, cit.. p. 263-5.
Le professioni e la città. Bologna 1860-1914 71
La Scuola fu salvata grazie a una vasta mobilitazione. La voce dell’Alma mater fu rappresentata da Francesco Magni
che nel maggio 1875, dai banchi del consiglio comunale, denunciò la grave questione. La risoluzione fu trovata grazie
alla sinergia tra il comune, gli istituti Aldini e Valeriani e i collegi Comelli e Bertocchi, i quali diedero vita al consorzio
universitario che per trent’anni si sarebbe accollato il finanziamento della Scuola di applicazione per gli ingegneri67. La
sede fu stabilita nell’ex-convento dei Celestini, in via D’Azeglio. Fu chiamato a dirigerla Cesare Razzaboni, che si
prodigò per farle superare le iniziali difficoltà e la presiedette fino al 189368.
La Scuola di applicazione fu legata in modo indissolubile alla via associativa degli ingegneri bolognesi. La sua
esistenza agì come fattore di impulso e di sostegno nei confronti di una organizzazione professionale che aveva le
medesime fragilità di cui aveva patito, negli anni precedenti, anche la Scuola di applicazione. Nella Bologna postunitaria non esisteva un sodalizio tecnico paragonabile al Collegio degli ingegneri e degli architetti di Milano.
Quest’ultimo non doveva il suo prestigio alla presenza di un’istituzione scolastica superiore, perché a Milano
l’ingegneria arrivò nel 1875 con la nascita del Politecnico, mentre in precedenza gli ingegneri milanesi studiavano
all’Università di Pavia o al Politecnico di Zurigo. Erano le radici teresiane, l’appartenenza di buona parte degli
ingegneri milanesi agli strati alti della borghesia terriera e addirittura alla nobiltà, e le nuove possibilità offerte
dall’economia industriale, a pesare sulla posizione di forza che il collegio aveva nei confronti della professione e della
città69.
A Bologna non esisteva alcuna di queste condizioni, e si deve arrivare al 1 876 perché un gruppo di ingegneri,
capeggiati da Cesare Goretti, decidesse di dar vita al Circolo tecnico, per prendere parte alle iniziative professionali
nazionali. Infatti solo le associazioni potevano partecipare ai congressi di ingegneria che erano iniziati dagli anni
settanta. Fino al 1880 il Circolo tecnico rimase al di fuori del circuito accademico, anche se dalla sua fondazione vi
aderirono i docenti Matteo Fiorini e Luigi Bombicci. Ma le difficoltà economiche del sodalizio (che aveva una
cinquantina di iscritti) e soprattutto la rinascita della Scuola di applicazione fecero sì che il Circolo le si rivolgesse per
trovare la soluzione ai suoi problemi. La scuola rispose affermativamente, offrendo i locali di piazza dei Celestini e la
biblioteca.
Il prezzo pagato dal circolo per questo aiuto fu la sua accademizzazione. Il nuovo sodalizio nato dall’incontro tra la
Scuola di applicazione e il Circolo tecnico fu il Collegio degli ingegneri e degli architetti di Bologna. Il comitato
67. L. Lama, Comune. provincia, università. Le convenzioni a Bologna fra Enti locali e Ateneo (1877-1970), Bologna, Comune di
Bologna-Istituto per la storia di Bologna, 1987, p. 16-25.
68. Sul piano didattico della Scuola v. G. Cocchi, Cento anni di ingegneria a Bologna, in L’Università a Bologna, cit., p. 195-7.
69. M. Malatesta, Gli ingegneri milanesi e il loro Collegio professionale. in Milano fin de siècle e il caso Bagatti Valsecchi.
Memoria e progetto per la metropoli italiana, a cura di C. Moziarelli e R. Pavoni, Milano, Guerini e Associati, 1991.
72 M. Malatesta
direttivo installatosi nel 1881 risultò infatti composto per la maggior parte dai docenti della scuola. Il presidente restò
Gaetano Rubbi, il vicepresidente era il padovano Jacopo Benetti, docente di macchine agricole, idrauliche e termiche;
tra i consiglieri troviamo Francesco Cavani, titolare di geometria pratica e Raffaele Faccioli, specializzato in restauri,
fondatore nel 1885 e direttore della Scuola per le arti decorative, direttore dal 1891 dell’ Ufficio regionale per la
conservazione dei monumenti, docente dal 1849 nella Scuola di applicazione.
Su 103 soci iscritti al Collegio, gli accademici erano solo 13 a fronte di quasi 100 ingegneri liberi professionisti, ma essi
detenevano la rappresentanza del collegio felsineo nei vari congressi nazionali. I nomi ricorrenti erano quelli di Benetti,
Faccioli, Cavani e Attilio Muggia. Segretario del Collegio nel 1888, diplomatosi nella Scuola di applicazione nel 1885,
libero docente nel 1891 e professore incaricato nella Scuola nel 1892, quest’ultimo era un astro nascente dell’ingegneria
bolognese. In quegli stessi anni realizzò la scala della Montagnola; dal 1923 ai 1927 diresse la Scuola di applicazione70.
L’accademizzazione del collegio proseguì negli anni successivi, quando a presiederlo fu chiamato il bolognese Antonio
Silvani, assistente di astronomia di Respighi, perfezionatosi a Liegi in Meccanica pratica e chiamato da Razzaboni a
insegnare Meccanica applicata alle macchine. Fu sostituito nel 1892 da Giulio Stabilini, milanese, arrivato alla scuola
nel 1878 a insegnare Costruzioni stradali e ferroviarie.
La morte di Cesare Razzaboni fece affiorare tensioni nascoste all’interno del collegio. Gli ingegneri della città
designarono come suo successore il bolognese Antonio Silvani, che si era dimesso dalla Scuola di applicazione, e si
rivolsero al Ministero della pubblica istruzione per caldeggiare questa candidatura,. La posizione assunta dalla base
degli ingegneri offese gli accademici. Muggia e Stabilini si dimisero dal collegio e ci volle un’intensa azione
diplomatica dello stesso Silvani per ricucire lo strappo. Alla fine fu chiamato a dirigere la scuola Jacopo Benetti, che
ricopri l’incarico fino al 1903 e la sua nomina rappresentò una vittoria degli accademici. Benetti era un docente con
molti agganci internazionali e nel 1903 fondò la sezione italiana dell’Associazione italiana per la prova di materiali71.
Le tempeste dell’ingegneria bolognese non si erano ancora placate. Il 1897 fu un anno cruciale, perché allora fu firmata
la prima convenzione universitaria tra lo stato e gli enti locali bolognesi72. Si chiudeva così una vicenda trascinatasi per
anni e che aveva visto l’amministrazione centrale disattendere i progetti di ampliamento dell’Ateneo elaborati dai rettori
Giovanni Cappellini, mineranologo, e Augusto Muni. Fu il rettore Puntoni a concludere l’accordo
70. Le informazioni sulla Scuola sono tratte da G. Calcagno. La Scuola per ingegneri dell’Università di Bologna tra Otto e
novecento, in «Anna1i di stona delle università italiane», 1, 1997 e da M. Benassi, Architetti, ingegneri e società a Bologna fra
ottocento e novecento, tesi di laurea (relatore, prof G.C. Calcagno). Università di Bologna, a.a. 1999-2000.
71. Cocchi, Cento anni, cit., p. 197.
72. Lama, Comune, provincia, università, cit.. p. 27-42.
Le professioni e la città.. Bologna 1860-1914 73
avendo davanti come interlocutore il ministro Giovanni Codronchi Argeli, figura di spicco della vita cittadina nonché
antico studente dell’Ateneo. L’accordo prevedeva la statalizzazione della Scuola di applicazione per ingegneri e
importanti interventi edilizi finalizzati soprattutto allo sviluppo della Facoltà di Medicina. Gli enti locali avrebbe
continuato ad accollarsi gli oneri della Scuola per ingegneri per altri quarant’anni. accollandosi così la spesa totale per
la costruzione degli edifici. Le dimissioni di Codronchi consegnate pochi giorni dopo firma della convenzione, ne
misero in seria discussione l’attuazione, In Senato si creò uno schieramento che mirava a riportare la Scuola e il suo
mantenimento sotto il consorzio locale. Affiorarono in quell’occasione le vecchie critiche rivolte alla Scuola, accusata
di essere troppo pratica e di non aver alcuna propensione verso la ricerca scientifica. La lobby parlamentare bolognese,
composta da Carducci, Zanolini, Codronchi, trovò appoggio nel nuovo Ministro dell’istruzione, Guido Baccelli, grazie
al quale la convenzione fu alla fine approvata; la scuola, statalizzata, divenne la Regia Scuola di applicazione di
Bologna.
Il 1897 fu anche l’anno di nascita della Società emiliana degli ingegneri e degli architetti, sorta per iniziativa di un
gruppo di giovani professionisti che le impressero un indirizzo prevalentemente tecnico. Essa si distinse subito per il
suo dinamismo e grazie al suo interessamento fu creata la sezione bolognese dell’Associazione elettrotecnica italiana. In
sei anni ebbe 183 soci, tutti ingegneri liberi professionisti (salvo cinque laureati in altre materie scientifiche). La
componente accademica era pressoché assente. La concorrenza col Collegio era inevitabile e nel 1901 si pose il
problema di trovare un indirizzo comune ai due sodalizi che consentisse di realizzare la loro unificazione.
Iniziava in quegli anni nel paese la discussione sull’assetto legislativo della professione, di cui la presentazione alla
Camera nel 1904 del progetto De Seta fu la prima tappa. In assenza di una normativa nazionale che tutelasse la qualifica
di ingegnere erano sorti, a Firenze e Roma nel 1901, dei consigli degli ordini degli ingegneri, su imitazione di quelli
creati dai sanitari. Anche il Collegio di Bologna progettò di dar vita ad un organo simile, in vista dell’unificazione con
la Società emiliana, e di creare un consiglio dell’ordine custode dell’albo, a cui avrebbero potuto iscriversi solo gli
ingegneri abilitati. 11 consiglio doveva inoltre vigilare nei confronti degli usurpatori del titolo e adoperarsi affinchè le
amministrazioni e gli enti pubblici si servissero solo di ingegneri iscritti all’albo73. La proposta sollevò molte obiezioni,
che rispecchiavano le incertezze e le divisioni del corpo a livello nazionale, e fu respinta74, per essere poi ripresa al
momento della fusione con la Società emiliana.
Nello statuto della Società degli ingegneri di Bologna, sorta nel 1903, era prevista la nascita di un consiglio dell’ordine
«anche in attesa di questo prenda
73. Proposta di statuto dei Consiglio dell‘ordine degli ingegneri e degli architetti di Bologna, in «Atti del Collegio degli ingegneri e
degli architetti di Bologna», 1, 1901, p. 7 1-74.
74. Verbale dell’assemblea dei soci dei 2 marzo 1901, in «Atti del Collegio degli ingegneri e degli architetti di Bologna», cit., p. 4-8.
74 M. Malatesta
assetto legale»75. Sebbene questo pronunciamento restasse ancora una semplice intenzione, la nuova Società segnò la definitiva a
conversione dell’associazionismo tecnico bolognese nella difesa degli interessi professionali. Questo obiettivo divenne sempre più
chiaro negli anni seguenti. quando la legalizzazione del titolo si impose all’attenzione nazionale, in quel frangente Bologna si schierò
a favore del progetto De Seta76 ed entrò a far parte della Federazione tra i sodalizi degli ingegneri e degli architetti italiani, sorta nel
1907 per sostenere l’iter parlamentare del disegno di legge77. Alle soglie della guerra, infine, la Società degli ingegneri riproponeva il
progetto del 1903 per creare un albo per gli ingegneri della provincia, intendendo sperimentare localmente quanto previsto nel
progetto De Seta78.
Mercanti, enti pubblici e reti professionali
Il mercato delle professioni bolognesi si formò all’interno di un ambiente economico condizionato dall’agricoltura. L’industria
nascente dipendeva dal settore primario, il quale funse da volano anche per la finanza locale. I primi segnali di cambiamento
iniziarono negli anni novanta e interessarono dapprima il sistema creditizio locale, che si ampliò in misura considerevole. Più tardivo
lo sviluppo dell’ industria, che iniziò nel corso del primo decennio del novecento a dare i primi segni di crescita soprattutto nel
settore meccanico e in quello della cooperazione79. Il sistema agro-industriale che si affermò nel periodo giolittiano impresse
all’economia bolognese un indubbio dinamismo. Il risparmio cittadino fece un balzo in avanti e si attestò al nono posto nella
graduatoria nazionale, i depositi procapite salirono al settimo posto, e il loro impiego mostrò una netta propensione alla
diversificazione negli investimenti dei capitali80.
Le trasformazioni economiche avviatesi nel primo novecento ebbero degli effetti positivi anche sul mercato delle professioni liberali,
che aveva conservato fino ad allora una struttura piuttosto tradizionale. Esso si articolava attorno a tre istituzioni fondamentali: la
terra, il credito, gli enti pubblici. Era un mercato formato in buona parte dalla domanda proveniente da enti pubblici, o funzionanti
come tali, quali il comune, la provincia, le opere pie, le banche. La sua caratteristica principale era di essere un mercato protetto, che
offriva forti garanzie al piccolo gruppo di professionisti che operava al suo interno, Il basso numero dei professionisti bolognesi fu
un’altra condizione del suo buon
75. Statuto, in «Atti della Società degli ingegneri di Bologna», a. I-V, 1907, p. 1O.
76. Assemblea generale del 15 aprile 1905, ivi, p. 38-39.
77. Assemblea generale del 6 aprile 1908, in «Atti della Società degli ingegneri di Bologna», a. V-VI, 1908.
78. Assemblea generale del 3/ gennaio 1914, ivi, fasc. unico, 1915, p. 7-8.
79. V. Zamagni, L’economia, in Bologna, cit., p. 257-68.
80. Fornasari, Credito ed élites, cit., p. 119-124, 135.
Le professioni e la città.. Bologna 1860-1914
75
funzionamento e compensò le carenze di una domanda di servizi professionali proveniente dall’industria. Infine, lo
sviluppo del sistema creditizio cittadino offrì numerose possibilità di lavoro e rappresentò anche un terreno di
innovazione professionale.
Le professioni liberali bolognesi costituirono un mercato integrato, reso tale grazie al capitale fondiario che circolava
nei vari istituti e creava dei servizi, e alla presenza dell’università che costituiva il tessuto connettivo delle professioni
cittadine, univa trasversalmente i docenti-professiornsti e contribuiva, grazie al suo prestigio. a creare mercati
professionali extra cittadini. Le reti professionali attraversavano il mercato e lo orientavano attraverso i sistemi di
clientela alimentati dalla struttura notabiliare81. La rappresentanza politica condizionava la presenza dei professionisti
negli enti pubblici, ma era anche la clientela costituita dagli enti a decidere del successo professionale e politico di un
individuo.
La terra costituì il primo mercato per le professioni legali e tecniche. Era un mercato tradizionale, sicuro e di lunga
durata, che diede lavoro a una buona parte dei professionisti bolognesi fino alla guerra e che rappresentò anche un
investimento assai ambito. Avvocati. procuratori e ingegneri sovrintendevano all’amministrazione delle aziende
agricole e dei patrimoni terrieri. Ad esempio, l’ingegner Augusto Peli era il manager delle proprietà dei conti Ranuzzi e
Castaldi82, mentre l’avvocato Pompeo Mazzei era il curatore dei beni del marchese Lodovico Marescotti Berselli83. Gli
ingegneri facevano la stima delle aziende agricole al momento della stipulazione e allo scadere dei contratti stilavano
perizie su questioni idrauliche, sugli espropri per pubblica utilità, mentre gli avvocati erano chiamati a esprimere pareri
su questioni di confine84.
I contenziosi relativi ai patrimoni famigliari e alle questioni ereditarie costituivano la principale attività degli avvocati
bolognesi, che incontravano in questa attività le famiglie patrizie della città. Diomede De Simonis, presidente per circa
vent’anni dell’Opera pia dei poveri vergognosi, avvocato cassazionista con una vasta clientela85, era uno di costoro.
Anche il repubblicano Giuseppe Ceneri, difensore di Andrea Costa, si occupò come civilista di questioni testamentarie e
fidejussorie. La fama acquisita a livello nazionale mise in con-
81. Analizza la struttura del clientelismo dei professionisti L. Musella, Amici, parenti, clienti: i professionisti nelle reti
della politica, in I professionisti. cit., in part. p. 593—602.
82. D Attorre. Lo Società agraria di Bologna nel novecento, cit.. p. 251.
53. La documentaiione dell’attività di Mattei come amministratore del patrimonio Marescotti è contenuta nell’archivio
della Opera pia dei poveri vergognosi: L archivio dell’Opero Pio dei Poveri Vergognosi in Bologna. Inventario—
regesto delle serie: istrumenti, verbali di congregazione, sommari e repertori, miscellanea, appendice, a cura di A.
Accarino, L. Aquilano, coordinatori: L. Ferrante. P. Prodi. Bologna, Istituto per la storia di Bologna- Opera pia dei
poeri vergogmsi. 1999. Gg 191.
84. lng. Luigi Neri e avv. Antonio Magnani. L ‘archivio dell‘Opera Pia dei Poveri Vergognosi. cit., Ee 151, Ee 174.
85. Un’ampia documentazione dell‘attività legale svolta dall’avvocato De Simonis è reperibile presso la biblioteca
comunale dell’Archiginnasio.
76 M. Malatesta
tatto un democratico anticonformista come Ceneri, con clienti che appartenevano alle casate degli Hercolani, dei
Caetani di Sermoneta, dei Borghese86.
L’amministrazione del territorio era un altro mercato sicuro per ingegneri e avvocati. La gestione delle acque costituiva
un settore in cui si intrecciavano saperi professionali e poteri cittadini. Molti ingegneri lavoravano per i consorzi di
indice del canale del Reno, di Savena, lo scolo Palata, la chiusa di Casalecchio. Gli avvocati entravano nei consigli di
amministrazione dei consorzi idraulici87 e ne diventavano i presidenti, come Alfonso Aria nell’Assunteria delle acque
del canale del Savena88. Un altro luogo in cui erano presenti avvocati e ingegneri erano le commissioni delle risaie89.
Una parte di questi professionisti aveva un rapporto organico con gli interessi terrieri. Il deputato e senatore avvocato
Enrico Pini, gli avvocati Giuseppe Borragine e Enrico Sturani, l’ingegnere Raffaele Stagni, erano dei proprietari terrieri
che si muovevano nell’ambiente della Società agraria di Bologna. Enrico Sturani e Raffaele Stagni, ingegnere idraulico
e vicepresidente della Società degli ingegneri dal 1904 al 1906, furono gli esponenti di spicco della nuova leadership
agraria e si divisero tra l’attività professionale e la direzione delle associazioni padronali, la Mutua scioperi e la
Federazione delle consociazioni agrarie.
Altri svolsero la loro attività professionale a contatto diretto con le opere pie. Gli istituti di beneficenza e gli ospedali
erano ottimi clienti per avvocati. medici e ingegneri, autentici «professionisti della beneficenza», esperti in tutte le
questioni concernenti la gestione di questi enti pubblici. L’Opera pia dei poveri vergognosi, il Monte di pietà e il Monte
del matrimonio erano un lascito dell’età moderna; la Congregazione di carità e l’Ospedale della vita e della morte
(ribattezzato Ospedale maggiore) videro la luce nel periodo napoleonico; il Regio ricovero di mendicità, i Pii istituti
educativi e l’Opera pia degli ospizi marini sorsero dopo l’Unità90. La Congregazione di carità raggiunse. dopo molte
disavventure, un assetto definitivo nel periodo post-unitario, quando ampliò il suo patrimonio e le sue competenze nel
campo sanitario91. Negli stessi anni iniziò la trasformazione del sistema ospedaliero per adeguano ai nuovi dettami della
medicina clinica. Nel 1868 il Sant’Orsola divenne la sede
86. R. Bonini, Giuseppe Ceneri. Dal diritto romano alla professione forense, R. Poggeschi, Giuseppe Ceneri nel foro. I processi
civili, in Giuseppe Ceneri, cit., p. 97-105. 124-126.
87. Luigi Pancaldi, Ernesto Baravelli. Arrigo Franchi. Achille Muzzi. Lorenzo Reggiani e Domenico Nardi. in «Indicatore della città
di Bologna», I 865.
88. lvi, 1898-9, 1901-2.
89. Cesare Galassi, Augusto Gallassi, Giovanni Pallotti. Angelo Scandellari. Giovaiini Veronesi. in «Indicatore della città di
Bologna», 1865.
90. Sulle opere pie bolognesi v. La città della carità: guida alle istituzioni assistenziali di Bologna dal 12° al 20° secolo, a cura di
M. Carboni, M. Fornasari, M. Poli, Bologna, Costa, 1999; I Chabot, M. Fornasari, 1. economia de/la carità. Le doti dei Monte di
pietà di Bologna (secoli XVI-XX), Bologna, il Mulino, 1997; P. Antonello. Dalla pietà al credito. Il Monte di pietà di Bologna tra
otto e novecento, Bologna, il Mulino, 1997.
Le professioni e la città. Bologna 1860-1914 77
delle cliniche universitarie (già ospitate in via Azzolini) e — come abbiamo visto — fu creato il manicomio provinciale;
infine nel 1896 nacque l’ospedale Rizzoli. Gli ospedali divennero così un mercato in espansione per le professioni e
uno snodo di grande importanza per le élites urbane e per la vita politica ed economica cittadina92.
Le opere pie rappresentavano clienti sicuri per gli avvocati e gli ingegneri che entravano a far parte del loro giro, mentre
per i medici erano i datori di lavoro. All’ attività professionale vera e propria svolta per conto di questi enti, si
aggiungevano le cariche all’interno del consiglio di amministrazione dell’ente. spesso affidate a professionisti che
ricoprivano anche altri incarichi. L’avvocato Paolo Silvani, consigliere comunale, provinciale e deputato, faceva parte
del consiglio di amministrazione del Monte di pietà e dell’Opera pia dei vergognosi: l’avvocato Achille Masi era
presidente del Monte di pietà, consigliere della Congregazione di carità, vicepresidente dell’Opera pia degli ospizi
marini e del Regio istituto di mendicità. Enrico Pini, deputato e senatore, era presidente dei Pii istituti educativi e della
Poliambulanza felsinea, consigliere del Monte del matrimonio e del Monte di pietà. In altri casi, invece, l’incarico
amministrativo non era il completamento della carriera di notabile, ma una vera e propria attività professionale. Ad
esempio l’avvocato Prisco Conti era amministratore del Monte di pietà e dei Pii istituti educativi: l’avvocato Ferdinando
Mazza era amministratore del Monte del matrimonio e della Congregazione consultiva della curia e faceva parte della
commissione legale della Cassa di risparmio. Si trattava, in questi casi. di attività professionale pura, come quella svolta
dai professionisti per conto dell’Opera pia dei poveri vergognosi.
L’Opera pia dei vergognosi raggiunse dopo l’Unità una totale autonomia amministrativa. Essa era un vasto apparato.
che comprendeva, oltre all’antica opera pia, altri sessantuno istituti. Il suo patrimonio immobiliare, stimato nel 1913 in
7.565.541 lire, dava all’anno una rendita lorda di 568.743 lire e forniva numerose occasioni di lavoro per avvocati e
ingegneri, dalle stime di terreni ai contenziosi sui lasciti93, che si trascinavano per anni fino ad arrivare alla Corte di
cassazione94. Gli amministratori e i presidenti erano ovviamente favoriti nello svolgimento di queste attività, come si
vede dai casi seguiti dal presidente Pompeo Mazzei95. La relazione era tuttavia reciproca. perché queste ca91 . G. Farrel-Vinay. Povertà e politica nell‘ottocento.Le opere pie nello stato liberale, Torino, Scriptorium, 1997, p. 192.
92. P. Frascani. Ospedale e società in età liberale, Bologna, il Mulino, 1986, p. 128-29. Ha studiato un’opera pia come un’azienda,
analizzandone l’impatto sull’economia cittadina G. Moricola. L industria della canta. L ‘Albergo dei poveri nell‘economia e nella
società napoletana tra settecento e ottocento, Napoli. Liguori, 1994.
93. Opera pia dei poveri vergognosi in Bologna. Rapporto del presidente Ado1f Legnani per l’anno 1913 e pel primo semestre 1914.
Bologna, 1914.
94. Opera pia dei poveri vergognosi in Bologna, Rapporto del presidente Diomede De Simonis nell‘adunata dell‘8 gennaio 1901,
Bologna, 1901
95. L’archivio dell‘Opera Pia dei Poveri Vergognosi. cit., Ee 171, 174.
78 M. Malatesta
riche onorifiche venivano a loro volta attribuite a avvocati di chiara fama, come De Simonis e Adolfo Legnani.
Le opere pie diedero lavoro e prestigio anche ai ragionieri. Michele Fioresi era capo contabile nell’amministrazione dei
Pii istituti educativi, oltre ad essere curatore fallimentare della camera di commercio. Giacomo Gagliani era impiegato
del Monte dei matrimoni, amministratore dell’Opera pia dei vergognosi e curatore fallimentare della camera di
comrnercio97.
Per i medici che lavoravano già all’interno degli ospedali o nelle cliniche universitarie, la presenza nel consiglio di
amministrazione degli enti ospedalieri arricchiva un cursus honorum prestigioso. E il caso di Pietro Albertoni.
professore di Fisiologia nell’Ateneo bolognese, consigliere comunale e provinciale, assessore all’igiene, deputato e
infine senatore, che nel primo novecento fu anche membro del corpo amministrativo degli ospedali. Un percorso
analogo lo si riscontra nella carriera di Francesco Magni, direttore della Clinica oculistica e senatore, che negli anni
sessanta svolse l’incarico di sovrintendente degli ospedali bolognesi. Faceva infine parte del corpo amministrativo degli
ospedali Giuseppe Ruggi, docente di Chirurgia, consigliere comunale e provinciale (dal 1889 al 1913), deputato98.
Nell’amministrazione ospedaliera entrarono anche medici che non erano né cattedratici, né parlamentari, ma che si
erano distinti nell’amministrazione comunale e provinciale. E il caso del dottor Alfonso Monti, entrato nel corpo degli
ospedali nel primo novecento, dopo essere stato membro della Commissione municipale. Altri medici, che non avevano
cariche politiche, entrarono invece nei consigli delle opere di beneficenza, come Cesare Relluzzi, ostetrico negli anni
sessanta all’Ospizio della maternità, che dirigeva il baliaggio degli esposti ed era membro del Regio istituto di
mendicità.
Le opere pie furono un terreno di conquista anche per gli ingegneri. Alcuni, come Pietro Buratti e Gualtiero Sacchetti,
parlamentari con solide radici cittadine, si dividevano tra il monte di pietà, la camera di commercio, il comune, la
provincia. Altri lavoravano nei consorzi idraulici o erano liberi professionisti senza cariche politiche, per i quali la
presenza negli enti di beneficenza aveva la medesima, ancipite valenza, professionale e sociale.
Un ottimo mercato professionale era costituito dalle amministrazioni pubbliche. Per gli ingegneri, funzionari del
comune o liberi professionisti. lo sviluppo urbanistico post-unitario rappresentò un’occasione formidabile di
affermazione professionale. Aurelio Alaimo ha dimostrato come, all’ elaborazione dei progetti pubblici di
modificazione dell’assetto urbanistico di miglioramento delle condizioni igieniche della città, facessero riscontro la
ristrutturazione e l’ampliamento dell’ufficio tecnico del comune99. Coriolano Monti, Edoardo
96. La documentazione dell’attività legale svolta dall’avvocato Legnani reperibile presso la biblioteca comunale dell’Archiginnasio,
97. Masulli, Crisi e trasformazione, cit., p. 35.
98. Su Ruggi e Albertoni v Sette secoli di Vita ospitaliera, cit.. p. 239-240. 283-286: su Magni v. Primo centenario dei/a Società
medica chirurgica. cit,. p. 544.
99. Alaimo. L ‘organizzazione della città, cit, p. 59-62. 149-158. 233-239.
Le professioni e la città. Bologna 1860-1914 79
Tubertini, Filippo l3uriani, Pompeo Mattioli, Giovanni Brunetti, Antonio Mattioli, Antonio Dall’Olio, sono i nomi più
noti tra gli ingegneri che appartenevano all’ufficio tecnico, affiancati dai colleghi che lavoravano per la provincia (come
Augusto Baulina, Carlo Brunetti, Raffaele Minelli, Ulisse Montanari, Giuseppe Toldi). La domanda di ingegneri da
parte della amministrazione pubblica lievitò nel periodo giolittiano, quando furono banditi vari concorsi. Grazie agli
enti locali si formò un ceto di tecnici competenti, rispettati e dignitosamente retribuiti. Ad esempio, nel 1905
l’ingegnere capo Francesco Buriani, con ventotto anni di servizio, percepiva uno stipendio annuo, comprensivo di
indennità, di 7000 lire più un aumento settennale di 1000 lire. Gli ingegneri-funzionari non erano tuttavia un numero
sufficiente per svolgere tutti i lavori che la città in espansione richiedeva. Crebbe così il numero degli incarichi
straordinari attribuiti ai liberi professionisti che lavoravano come ingegneri esterni dell’ufficio tecnico. Uno di costoro
era Armando Landini, diplomatosi nel 1905, assistente nella Scuola di applicazione del professore Silvio Canevazzi
(che la diresse dal 1910) e collaboratore dello stesso Canevazzi e di Francesco Boriani ai vari progetti edilizi100.
La sensibilità igienista e la specializzazione dei servizi amministrativi fecero sì che da parte delle amministrazioni locali
si creasse un nuovo tipo di domanda di medici e avvocati. I primi furono chiamati a svolgere incarichi ispettivi nel
campo dell’igiene pubblica come Pietro Gamberini, direttore della clinica universitaria dermofilopatica e Luigi Corazza.
Gli avvocati, dal canto loro, svolgevano ruoli da funzionario come Napoleone Masetti, capufficio nel primo novecento
della segreteria degli uffici del Comune, vicepresidente della commissione comunale dei redditi di ricchezza mobile
nonché amministratore del Monte di pietà. Altri facevano invece i consulenti legali del comune il quale si era già dotato
di una rete di assistenza legale per risolvere i problemi di contenzioso che interessavano la pubblica amministrazione.
Uno di costoro era il noto civilista Oreste Regnoli101;un altro era Emilio Rubbi, che affiancava alla libera professione la
carica di amministratore negli istituti di beneficenza.
Il mercato professionale bolognese acquistò maggior dinamismo grazie allo sviluppo urbanistico, all’espansione del
settore creditizio e all’industrializzazione. Il nuovo modello urbanistico improntato alla soddisfazione di quelle esigenze
di salubrità e di igiene che erano proprie della borghesia dell’epoca, a Bologna come nel resto d’Italia, costituì un
mercato rigoglioso per gli ingegneri che furono tra gli attori principali, dal momento che operarono sia come progettisti
che come imprenditori edili. Nel modello della città-giardino. come ha dimostrato Carla Giovannini, si realizzò la «città
dei professionisti»102, ossia quell’incontro tra una domanda di decoro e di visibilità proveniente in primo luogo dai
professionisti — di cui l’esempio più perfetto è la villa Murri. situata appena fuori porta — e un’offerta di competenza
ingegneresti
100. Benassi, Architetti, ingegneri e società a Bologna, cit., p. 123-130.
101 . Alaimo, L ‘organizzazione della città, cit.. p. 83—85.
102. C. Giovannini, La città dei ,rfe.vsion1sti, in I professionisti. cit.. p .398-402.
80 M. Malatesta
ca che aveva lasciato alle spalle i legami con l’agricoltura e il cui interesse, professionale e affaristico, era tutto rivolto
alla città. Paolo e Alberto Sironi, milanesi di origine, Attilio Muggia, Leonida Bertolazzi, Ettore Lambertini, Giulio
Stagni sono alcuni dei liberi professionisti che unirono all’attività di progettista quella di imprenditore edile e fecero
fortuna grazie alla modernizzazione della Bologna primo-novecentesca.. I Sironi realizzarono i villini della via Audinot
(tra via Saragozza e Andrea Costa), mentre Stagni, che aveva acquistato a fine ottocento il terreno che arrivava fino
all’attuale via Turati, diede avvio all’urbanizzazione del quartiere che assunse il volto della città-giardino103.
Il mondo del credito cittadino fu un terreno particolarmente fertile per i professionisti bolognesi che funsero da
mediatori tra capitale agrario, capitale finanziario e la nascente industria locale. La banca fu l’occasione per costruire
una carriera prestigiosa o per fornire prestazioni professionali qualificate e diversificate. Il settore finanziario ebbe così
la duplice funzione dì conservare il modello tradizionale del professionista-notabile e di offrire al tempo stesso
un’occasione per l’emersione di nuove figure professionali.
Il gruppo tradizionale che ruotava attorno agli istituti di credito era costituito da professionisti-notabili, il più delle volte
possidenti e con forti legami con l’ambiente agrario, che ricoprivano incarichi politici locali e nazionali. Appartenevano
a questa categoria l’ingegner Cesare Zucchini, banchiere e possidente, Domenico Casalini, Antonio Filipetti e Antonio
Silvani che furono consiglieri rispettivamente della Banca d’Italia e della Cassa di risparmio. Il modello professionalnotabiliare era molto diffuso tra gli avvocati, per i quali la presenza nei consigli di amministrazione degli istituti di
credito coincideva il più delle volte con la funzione di consulente legale della banca e si intrecciava con le cariche
politiche. Alfonso Aria fu consigliere della Cassa di risparmio, presidente della Camera di commercio e dell’Assunteria
delle acque del Savena, nonché consigliere comunale; Leonida Carpi, uno dei fondatori della Banca popolare di credito,
fu consigliere comunale e provinciale schierato dalla parte dei moderati104;Enrico Golinelli, sindaco dal 1902 al 1904
nell’amministrazione popolare, avvocato con una lunga carriera politica nell’amministrazione locale, era nel primo
novecento consigliere della Banca cooperativa.
Enrico Silvani, per finire, costituisce un caso di notabilato ereditario e di carriera svolta all’interno del mondo bancario
cittadino. Era figlio di Paolo, avvocato morto nel 1884 che accumulò tutte le cariche possibili: consigliere provinciale e
comunale, deputato e amministratore del Monte di pietà e dell’Opera pia dei poveri vergognosi. Enrico ereditò dal
padre, assieme al fratello, l’ingegnere Antonio, la carica all’interno dell’Opera pia dei poveri vergognosi105,
103. G. Bernabei, G. Gresleri, S. Zagnoni, Bologna moderna 1860-1980, Bologna. Patron, 1984; per i profili biografici degli
ingegneri, v. appendice, p. 291-304.
104. Masulli, Crisi e trasformazione, cit., p. 29, 39-40.
105. Antonello, Dalla pietà al credito, cit., p. 220.
Le professioni e la città. Bologna 1860-1914 81
limitò le cariche politiche a quella di consigliere provinciale e si dedicò agli istituti di credito. Fu amministratore della
Banca popolare di credito dal 1884 e del Credito fondiario, consigliere della Cassa di Risparmio dal 1881;
successivamente consigliere delegato fino a giungere nel 1908 a ricoprire la carica di direttore.
Alcuni avvocati funsero da trait-d’union tra il mondo finanziario, agrario e industriale, Luigi D’Apel è uno di costoro.
Uomo della destra, con stretti rapporti con la proprietà terriera locale, docente universitario e consigliere provinciale,
D’Apel fu consigliere di amministrazione della Banca popolare di credito, consigliere legale della Società dei magazzini
generali e presidente dei probiviri nell’industria per la macinazione del riso. Anche Enea Mazzotti fu un avvocato
d’affari con forti legami politici. Consigliere comunale e provinciale, fu sindaco della Banca cooperativa degli operai
della piccola industria e proboviro nell’industria del legno, assieme al già citato Ferdinando Mazza, legale della Cassa
di risparmio.
Anche per i ragionieri la banca rappresentò una delle principali opportunità di lavoro e, al pari delle opere pie,
un’occasione per acquistare visibilità nella vita pubblica cittadina. Il ragionier Vincenzo Sani fu uno dei soci fondatori
della Banca popolare di credito di cui fu il direttore per circa vent’anni e la sua carriera nel mondo del credito si svolse
parallelamente a quella nell’amministrazione comunale.
Ma la banca fu anche il luogo nel quale emersero nuovi profili professionali, in sintonia con le trasformazioni
capitalistiche in atto. Il più importante è quello dell’avvocato d’affari, legale delle banche e delle industrie ad esse
collegate, e generalmente privo di legami con il mondo politico cittadino. Ferdinando Pancaldi (figlio dell’ingegner
Pietro, uno dei soci fondatori nel 1837 della Cassa di risparmio), Annibale Rossi e Ferdinando Mazza (che era anche
amministratore del Monte del matrimonio) facevano parte come liberi professionisti della commissione legale della
Cassa di risparmio, mentre Riccardo Stagni risulta far parte nel 1898 dell’ufficio legale della stessa banca
106
. Altri
legali, come Silvio Penna, lavoravano nella sezione amministrativa della Cassa di risparmio, mentre Giuseppe Tassoni
era consulente legale dei funzionari della Cassa di risparmio e proboviro del Piccolo credito romagnolo. Di questo
gruppo di legali della Cassa di risparmio, solo Annibale Rossi fu consigliere comunale. Furono estranei al mondo
politico cittadino quegli avvocati che nel primo novecento ebbero rapporti con settori industriali autonomi rispetto
all’agricoltura. Giovanni Zanotti era segretario della Società capimastri e costruttori, mentre Carlo Rosa era presidente
del Collegio dei probiviri dell’industria tessile107.
Dal 1861 al 1914 il mercato professionale cittadino più appetibile fu dunque costituito da una domanda che partiva
dagli enti pubblici. Era un mercato collegato a quello fondiario, ma esso agì, in assenza di uno sviluppo industria-
106. «Indicatore della città di Bologna». 1898-99.
107. «Indicatore della città di Bologna». 1901-02.
82 M. Malatesta
le significativo, come fattore di modernizzazione delle professioni e di ascesa di nuove élites. Questo processo si
delineò in modo più chiaro nel periodo giolittiano, in concomitanza con lo sviluppo del credito cittadino.
Le chiavi di accesso
Chi furono gli attori principali che animarono il mercato professionale cittadino e quali furono le chiavi per accedervi?
Dall’analisi della presenza dei professionisti nei consigli di amministrazione e in altre cariche direttive, risulta che la
parte del leone la fecero gli avvocati, seguiti dagli ingegneri [Tab. 4]. Su 561 avvocati, il 15% era presente negli enti di
beneficenza e dì assistenza e il 9,8% nelle banche e nella Camera di commercio; per converso, su 461 ingegneri, il 6,7%
partecipava alla direzione delle opere pie, mentre il 5% era presente nelle banche e nella camera di commercio. I medici
erano i più defilati: su 517 individui, il 4,6% faceva parte della direzione delle opere pie, mentre irrilevante fu la loro
presenza all’interno degli enti economici (0,4%). Non è una novità il fatto che la professione forense facilitasse
l’ingresso negli enti, anche in quelli economici. Più interessanti sono le conclusioni che scaturiscono dall’analisi dei
meccanismi di accesso al mercato professionale locale.
La presenza sulla scena politica, locale e/o nazionale, fu per tutte le professioni liberali dell’epoca una condizione
preferenziale per accedere alle risorse degli enti pubblici. Il 47,5% di tutti i professionisti bolognesi che erano presenti a
vario titolo all’interno delle opere pie avevano delle cariche politiche; la percentuale sale per gli incarichi negli enti
economici, nel qual caso la presenza nel mondo politico incide per il 50%. Il sistema notabiliare governava in sostanza
circa la metà del mercato professionale cittadino, ma con notevoli differenze interne. Ricoprire delle cariche politiche fu
una condizione meno decisiva per il successo degli avvocati di quanto non lo fosse per le altre professioni, e soprattutto
giocò in ugual misura in tutti i settori. Infatti il 47,6% degli avvocati bolognesi che avevano legami con le opere pie e il
47,3% di quelli che li avevano con gli enti economici, avevano anche delle cariche politiche.
La risorsa della politica ebbe un’incidenza maggiore per i medici e gli ingegneri, soprattutto per accedere agli incarichi
negli enti economici. Se il 41,7% dei medici che svolsero funzioni direttive nelle opere pie aveva delle cariche politiche,
la percentuale saliva al 50% per la presenza negli enti economici. Ma è soprattutto per gli ingegneri che la politica
funzionò come chiave di accesso al mercato degli enti: il 51,6% di quelli che erano nei consigli di amministrazione
delle opere pie avevano degli incarichi politici, la percentuale sale al 56,5% per gli enti economico-finanziari. Essere
presente sul mercato politico risultò dunque essere più importante per quelle professioni che non avevano una tradizione
notabiliare, come gli ingegneri.
Le professioni e la città. Bologna 1860-1914 83
La distribuzione della ricchezza
I professionisti bolognesi erano ricchi? La domanda è cruciale. All’epoca come al giorno d’oggi, la dimensione
patrimoniale era essenziale per definire il profilo di un’élite. i suoi confini e i rapporti con altri gruppi sociali. La
ricchezza è una componente che delimita un’élite, anche se non è la sola. E una variabile dipendente da molti fattori e
che produce effetti diversi a seconda del contesto in cui è inserita. Rispetto ad oggi. il rapporto tra la ricchezza e
l’esercizio della professione era più labile e incerto. Molti professionisti appartenevano a famiglie abbienti, a volta di
origine rurale, che avevano lasciato loro beni, generalmente immobiliari, sufficienti a farli vivere con agiatezza anche
esercitando poco, o addirittura per niente, la professione che avevano appreso all’Università108.
I patrimoni lasciati alla morte restano a tutt’oggi una fonte privilegiata, nonostante le critiche che le sono state rivolte,
per ricostruire la ricchezza di un gruppo sociale. Essa è in grado di offrire, se usata con le dovute cautele, una
molteplicità di informazioni: la composizione dei beni, la loro dislocazione, le strategie ereditarie, la mentalità del
defunto. La sua validità dal punto di vista economico, non va ricercata nei valori assoluti che essa fornisce, ma nella
comparazione con altri casi109. Presso l’Archivio di Stato di Bologna è depositata la documentazione contenuta
nell’Ufficio del registro delle successioni dal 1818 al 1970. E il fondo più ricco e completo disponibile oggi in Italia, a
cui abbiamo attinto per ricostruire il profilo patrimoniale dei professionisti bolognesi. A questo scopo abbiamo creato
un campione di 150 individui, composto da 58 avvocati, 47 ingegneri, 45 medici, scelti a caso tra tutti i professionisti
morti dal 1862 al 1914 e compresi nel data-base precedentemente descritto. E un campione altamente rappresentativo,
pari a un decimo dei professionisti bolognesi. che copre un periodo di cinquant’anni. Sono state inoltre analizzate.
108. M. Malatesta, Le aristocrazie terriere nell‘Europa contemporanea. Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 34-36.
109. Le fonti patrimoniali ottocentesche SOflO state valorizzate per lo studio delle borghesi dagli storici francesi ed in particolare da
Adeline Daurnard. di cui ricordiamo La bongeoisie parisienne de 1615 ò 1848, Parigi, Ecole pratique des hautes études. 1963. e Les
fortunes francaises au XIXe siecle. Mouton. Paris—La Haye. 1973. In Italia sotto state utilizzate da A VI. Banti. Ricchezza e potere.
Le dinamiche patrimoniali nella società lucchese del XIX secolo, in «Quaderni storici». n. 64. 1987: Id. Terra e denaro. Una
borghesia padana dell‘ottocento, Marsilio, Venezia 1989: A. D’Argenio, Etude s’or les source successoriales et titolariales:la
distribution patrimoniale à Bénévent entre 1676 et 1905. in «Mélanges de l’Ecole franaise de Rome. Moyen Age-Temps modernes».
97. 1985: DL. Caglioti, La gerarchia del denaro: successioni e patrimoni a Catanzaro nel XIX secolo, in «Studi storici». 1994: Id..
Patrimoni e strategie matrimoniali nella Calabria dell‘ottocento, in «Meridiana», n. 3. 1988: D. L. Cagliati, G. Montroni. L’ascesa
dei ceti dirigenti forlivesi (1860— 1914), in Una borghesia di provincia. Possidenti, imprenditori e amministratori di Forli fra
ottocento e novecento, a cura di R. Baliani. P. Hertner. Bologna, il Mulino — Fondazione Cassa di risparmio di Forlì. 1998: S. Licini.
Guida ai patrimoni milanesi. Le dichiarazioni di successione ottocentesche,Soveria Mannelli. Rubbettino, 1999.
84 M. Malatesta
fuori del campione, altre successioni di personaggi famosi morti dopo il 1914. per avere ulteriori elementi di confronto.
L’Italia otto-novecentesca non era un paese ricco. La ricchezza pro-capite era nel 1895 circa quattro volte inferiore a
quella britannica e tre volte a quella francese1 0, ed era responsabile della ristrettezza del mercato professionale italiano.
Neppure i professionisti erano generalmente molto abbienti. Stando alle stime elaborate da Vera Zamagni, nell’età
giolìttiana gli avvocati erano, assieme ai notai, in cima alla gerarchia dei redditi professionali con un’entrata media
annua di 6.800 lire, seguiti dagli ingegneri, che arrivavano a 6.000 lire. i medici avevano un reddito medio annuo di
3.500 lire e i veterinari di 3.000 lire. Le professioni sanitarie erano quelle che si avvicinavano maggiormente ai redditi
delle professioni minori: ragionieri e contabili guadagnavano in media 2.000 lire l’anno, i geometri 2.200 lire111. Si
tratta tuttavia di medie, che non rendono conto della varietà dei redditi percepiti come libera professione o come
funzionari stipendiati, dai professionisti.
L’ingegnere capo del comune di Bologna nel 1905, percepiva uno stipendio annuo di 7.000 lire, pari a quello riscosso
nel 1913 dal direttore del Banco di Roma (7.200 lire). Né le medie consentono di rilevare i dislivelli di reddito interni
alle singole professioni, determinati dal maggiore o minore numero di professionisti, dall’ampiezza e dall’articolazione
dei mercati e dalla tipologia dei clienti. Alfredo Sartori, un importante avvocato che lavorava per il Banco di Roma,
percepiva per la consulenza svolta solo per questo istituto di credito, 12.000 lire annue, a cui sì aggiungeva il resto della
sua attività libero-professionale112. L’avvocato Pancaldi riceveva nel primo novecento dalla Cassa di risparmio di
Bologna 500 lire al mese per la consulenza legale fatta per conto della banca113. Anche le Opere pie erano ottimi clienti.
Nel 1878 gli avvocati Pompeo Mazzei, Ferdinando Pancaldi e Giuseppe Benacci si spartirono una parcella di 19.521
lire per l’attività di rappresentanza legale svolta in relazione all’eredità giacente presso l’Opera pia dei poveri
vergognosi, presieduta all’epoca da Mazzei114
Le ricerche attualmente disponibili hanno messo in luce l’esistenza di una correlazione non solo tra redditi
professionali, ma anche tra patrimoni e mercati cittadini. Tra il 1871 e il 1879 quelli superiori al milione si trovavano
solo a Milano, città nella quale il 3 dei patrimoni professionali era compre-
11 O. V. Zamagni, The rich in a fate industrializer. The case of Italy, m Wealth and the wealth in the modem world, a cura di W.D.
Rubinstein. Londra. Croom Helm, I 9X0, p. 137.
111. V. Zamagni, 11 calore aggiunto nel settore terziario italiano nel 1911, in I conti economici dell‘Italia. 2. Una Stima del valore
aggiunto nei 1911. a cura di G.M. Rey, Roma-Bari, Latersa, 1992, p. 223-227.
112. Ringrazio Alessandra Cantagalli per avermi fornito i dati relativi agli avvocati del Banco di Roma, tratti dalla ricerca che sta
conducendo sugli avvocati d’affari in Italia, dalla fine dell’ottocento alla seconda guerra mondiale.
113. ASB. Succ, b. 385.
114. L’archivio dell‘Opera Pia dei Poveri Vergognosi, cit., Ee 174.
Le professioni e la città. Bologna 1860—1914 85
so tra 500.000 lire e 1 milione, mentre solo 1’ 1 % era compreso tra 1 e 5.000 lire. A Napoli, afflitta da una pletora di
esercenti e da minori possibilità di mercato, il 68% dei professionisti defunti non aveva lasciato nulla (contro il 29% di
Milano), l’8% dei patrimoni era compreso tra 1 e 5.000 lire e i patrimoni più alti stavano nella fascia tra 100 e 200.000
lire (2%) 115. Nella scala della ricchezza italiana, Bologna occupava una posizione intermedia. Un medesimo andamento
è riscontrabile nei patrimoni dei professionisti liberali, la maggior parte dei quali si concentrò nella fascia compresa tra
O e 100.000 lire (71,3%) [Tab. 2]. E una distribuzione della ricchezza professionale simile a quella registrata in altre
città italiane del Centro-Nord tra otto e novecento, ma vi sono degli elementi che avvicinano maggiormente Bologna al
livello dei professionisti milanesi. La fascia di quelli compresi tra 100.000 e 200.000 era l’11,3% mentre i patrimoni
superiori a 200.000 erano il 17,3%116. Il gruppo delle ricchezze più significative era leggermente superiore a quello
della fascia più bassa, che comprendeva i patrimoni da O a 2.000 lire (pari al 15.3%) [Fig. 1].
I professionisti bolognesi ricchi lasciavano beni compresi tra le 300.000 e le 500.000 (pari al 5,3%); i super-ricchi erano
quelli che avevano accumulato beni tra le 500.000 lire e il milione (pari al 2,7%); due patrimoni superavano il milione
Solo Milano reggeva il confronto con Bologna, I dati forniti per il 1881 da Stefania Licini su 52 successioni di
professionisti milanesi morti nel 1881, danno un valore medio di lire 108.000 (rapportato al 1914), mentre quello degli
imprenditori è di 138.128 lire117. Il livello medio dei patrimoni dei bolognesi, calcolato su cinquantaquattro anni,
ammontava a 95.451 lire. Per rendere più attendibile il confronto con Milano, abbiamo considerato le successioni dei
professionisti morti tra il 1880 e il 1886 (33). La media dei loro beni è pari a 90.796, non molto distante dai valori
milanesi. Ci troviamo di fronte a un gruppo socio-economico piuttosto omogeneo, dotato di una ricchezza media che
tendeva più verso l’alto che verso il basso: i patrimoni minori, compresi tra 2.000 e 20.000 lire, erano il 25,3%, mentre
quelli compresi tra le 20.000 e le 200.000 erano il 34%. Non vi erano disparità drammatiche, pari a quelle che
affliggevano i napoletani. né fra le tre professioni, né all’interno della medesima professione. I patrimoni compresi fino
a 100.000 lire rappresentavano il 72,4% degli avvocati, il 74,5% degli ingegneri e il 66.7% dei medici, mentre quelli
superiori alle 100.000 interessavano il 27,6% degli avvocati, il 25,5% degli ingegneri e il 33,3% dei medici [Tab. 2].
115. A.M. Banti, Italian professionals: markets, incomes, estates and identities. in Society and the professions in Italy, cit., p. 235—
242; Id., Redditi, patrimoni, identità (1860- 1922). in I professionisti, cit., p. 498-505.
116. I valori dei patrimoni dei professionisti bolognesi morti prima e dopo la guerra, sono tutti rapportati al 1914.
117. Licini. Guida ai patrimoni milanesi, cit.. p. 24.
Le ragioni di questo benessere diffuso in modo uniforme vanno ricercate nel numero costante degli esercenti, che non
subì alterazioni significative nel corso degli anni e anzi tese a diminuire; nell’esistenza di un mercato professionale
ristretto, ma sicuro; nella redditività dei loro investimenti immobiliari, prevalentemente rurali, in una provincia dove
l’agricoltura era assai redditizia. Questo non significa che anche a Bologna non vi fossero disparità di posizione
economica. Non erano clamorose, tuttavia esistevano e furono soggette a interessanti variazioni nell’arco di mezzo
secolo.
I medici erano il gruppo più abbiente: il valore medio della loro ricchezza ammontava a 139.746 lire, contro le 95.451
della media complessiva. Non risultano medici morti indebitati e i patrimoni più bassi (da O a 2000 lire) erano solo il
9%. La maggior parte dei patrimoni (40%) era nella fascia compresa tra 20.000 e 200.000 lire, mentre il 20% superava
le 200.000 lire. Tra questi ultimi sono presenti i tre grandi patrimoni rinvenuti nel campione, uno compreso tra 900.000
e un milione, due superiori al milione.
Seguivano gli avvocati, la cui media patrimoniale era di 85.332 lire. Nel loro gruppo sono presenti due patrimoni
superiori al mezzo milione e due compresi tra 400.000 e 500.000; i patrimoni superiori alle 200.000 lire sono il 19%,
all’incirca pari a quelli dei medici. Per converso, gli avvocati furono afflitti dall’indebitamento più severo (il 14% del
campione muore lasciando dei debiti) e muoiono in condizioni più modeste: i patrimoni compresi tra O e 2000 lire sono
il 22%.
Gli ingegneri furono il gruppo meno ricco. La media dei loro patrimoni ammontava a 65.529 lire e la maggior parte dei
beni erano compresi tra le 20.000 e le 200.000 (38%). I patrimoni più consistenti non superavano le 400.000 (8,5%),
mentre il 28,8% delle eredità era compreso tra le 2000 e le 20.000 lire. La maggiore precarietà delle condizioni dei
tecnici emerge dalla propensione all’indebitamento (il 9% dei casi), e da una presenza significativa di lasciti (13%)
compresa tra O e 2000 lire.
Oltre all’ammontare complessivo delle ricchezze, ciò che conta è la loro distribuzione all’interno del gruppo. L’analisi
delle dichiarazioni di successione mostra che la ricchezza dei medici era distribuita in modo più uniforme: al contrario,
la professione forense fu quella caratterizzata dalla maggiore polarizzazione delle ricchezze, seguita a ruota dagli
ingegneri.
Il tempo costituì un ulteriore fattore di differenziazione all’interno delle ricchezze professionali, le quali subirono delle
oscillazioni causate dalle variazioni del ciclo economico. Il cinquantennio post-unitario fu tagliato in due dalla grande
depressione, che durò in Italia dai primi anni ottanta fino a metà degli anni novanta, alla quale fece seguito la ripresa
portata dall’inizio dell’industrializzazione.
Abbiamo individuato tre periodi (1862-1880; 1881-1900; 1901-1914), ipotizzando che i professionisti morti nel
ventennio della grande depressione non ne avessero risentito tutti, e che l’effetto recessivo sia stato registrato in parte
dai patrimoni lasciati da coloro che morirono in età giolittiana. I medici furono il gruppo che si impoverì maggiormente
nell’arco di cinquant’anni e che si assestò alla fine del periodo preso in esame su un modello di polarizzazione delle
ricchezze sconosciuto nel ventennio post-unitario [Tab. 3]. La crisi economica colpì pesantemente i redditi bassi dei
medici, come si evince dalle successioni di quelli morti in età giolittiana. Infatti i patrimoni più bassi (0-2.000 lire), che
nel periodo post-unitario erano assenti, balzarono nel 1901-14 al 20%. mentre quelli compresi tra 2.000 e 20.000 lire,
che nel 1862-1880 erano il 38%, scesero al 20C/c. In compenso crebbe leggermente la percentuale dei patrimoni
compresi tra 20.000 e 200.000 lire (dal 38% nel periodo post-unitario al 40% nel novecento), mentre i grandi patrimoni
registrarono una variazione al ribasso, recuperata nel periodo giolittiano.
La ricchezza degli avvocati era invece in crescita, e grazie ad essa si ridimensionò la polarizzazione delle risorse del gruppo, così
vistosa nel periodo post-unitario. La percentuale dei legali che morirono lasciando un passivo crebbe vertiginosamente (da O al 33%
nell’età giolitiana), ma l’aumento dei patrimoni indebitati fu accompagnato dal crollo di quelli minimi (0-2.000 lire), passato dal
58% al 14% nel 1881-1900 e arrivato all’ 1 1 % nel 1901 -14. La diminuzione dei patrimoni più bassi fu in parte compensata
dall’aumento di quelli medio-bassi, cresciuti spettacolarmente nel ventennio della grande depressione (32%) e ridimensionatisi in età
giolittiana (6%), e soprattutto dall’aumento dei patrimoni medio-alti, passati dal 17% al 22% e di quelli alti, che passarono dal 17%
deI ventennio post-unitario, al 14% degli anni della crisi, fino ad arrivare al 28% in età giolittiana. La tendenza all’arricchimento
degli avvocati proseguì dopo la guerra quando — stando a un campione di 11 succes-
Le professioni e la città. Bologna 1860-1914 89
sioni si assistette all’aumento sostenuto dei patrimoni medio-alti e a una parallela diminuzione di quelli bassi118.
Anche tra gli ingegneri vi fu, al pari degli avvocati, una tendenza alla crescita dei patrimoni più consistenti. Il loro
indebitamento raddoppiò (dal 7% al 15%) tra otto e novecento e, come per gli avvocati, assorbì parte dei patrimoni più
bassi, passati dal 21% dell’ultimo ventennio al 5% dell’età giolittiana. Le ricchezze medio-basse si mantennero in
equilibrio, dopo l’impennata degli anni ottanta-novanta. Invece quelle medio-alte, crollate a fine secolo, raddoppiarono
nel primo novecento, mentre i patrimoni superiori a 200.000 lire raddoppiarono nel corso dell’ottocento e restarono
pressoché identici in età giolittiana.
In complesso, la distribuzione della ricchezza dei professionisti bolognesi non subì alterazioni drammatiche nell’arco di
cinquant’anni, anche se la crisi economica di fine secolo non li lasciò indenni. Il miglioramento delle condizioni
finanziarie avvenuto nel periodo post-unitario, fu parzialmente ridimensionato dalla grande depressione. Un tratto
comune alle tre professioni è l’esistenza di una fascia di benestanti rimasta al riparo da ogni variazione del mercato e
tendente in prospettiva a rafforzarsi. L’età liberale fu in definitiva un buon periodo per i professionisti bolognesi, anche
se attraversato da tendenze opposte: l’arricchimento, da un lato, di avvocati e ingegneri dipeso dalle trasformazioni
urbanistiche e dallo sviluppo del settore creditizio; l’impoverimento, dall’altro, degli strati meno agiati della professione
medica, che rifletteva le cattive condizioni in cui versavano i medici condotti.
Un gruppo di benestanti
I professionisti più ricchi si trovano tra i medici. Guida il drappello Francesco Roncati, morto celibe nel 1906 lasciando
beni per 1.249.000; lo segue Francesco Rizzoli, un altro scapolo, morto nel 1880 lasciando un patrimonio di 1.210.990
lire119. L’illustre clinico è l’esempio perfetto del professionistaaccademico-notabile bolognese. Abile chirurgo e
scienziato di fama europea, Rizzoli occupò tutti gli incarichi possibili all’interno della medicina e nella pubblica
amministrazione bolognese e completò il suo cursus honorum con la nomina a senatore. Il terzo grande patrimonio
appartiene a Pietro Gambe- rulli, direttore della clinica universitaria dermosifilopatica, presidente della Società medica
chirurgica, ispettore di igiene pubblica per il comune di Bologna. Vedovo e senza figli, lasciò nel 1896 un patrimonio di
993.439 lire120. Il quarto super-ricco era l’avvocato Leonida Carpi, che lasciò beni per
118. Si tratta di 11 avvocati morti tra gli anni venti e trenta, le cui ricchezze risultano essere comprese per il 9% tra 0 e 2000 lire, per
il 18% tra 2.000 e 20.000, per il 55% tra 20.000 e 200.000 e per il 18% oltre le 200.000 lire.
119. ASB, Succ. h. 492 e 117.
120. lvi. h. 325.
90 M. Malatesta
lire121.
871.640
Giovanni
Brugnoli,
L’ultimo
morto
grande
nel
1894
patrimonio
vedovo
appartiene
e
senza
a
tigli,
un
altro
lasciando
clinico,
beni
per
122
668.161 lire .
Quattro sui cinque dei professionisti più ricchi di Bologna furono cattedratici della Facoltà di Medicina, uomini di
successo la cui fama aveva valicato i confini cittadini, tutti e quattro erano senza figli, due addirittura celibi.
Provenivano da famiglie non particolarmente ricche. Anche Pietro Gamberini, che aveva un’origine illustre, non
navigava da giovane in buone acque. Dopo essere stato nominato nel 1835 assistente all’Ospedale Sant’Orsola, dovette
lasciare l’incarico a causa delle cattive condizioni famigliari e andò a fare il medico condotto ad Alfonsine, dove vi
rimase per cinque anni123. Ipotizziamo allora che in questi casi si trattasse di ricchezze accumulate grazie alla
professione e investite in beni immobili che si erano valorizzati nel tempo. Il non avere avuto figli o neppure la moglie,
fu un elemento che facilitò il risparmio dei proventi professionali.
La cattedra universitaria arricchiva solo se grazie ad essa si acquistava una vasta clientela e si raggiungeva lo status di
grande notabile. Uno degli esempi più noti di questo modello di medico-cattedratico-notabile è Romolo Murri. Nato nel
1841 a Fermo da un padre avvocato che fu esiliato per motivi politici, Murri si laureò a Camerino nel 1864 per
specializzarsi poi a Parigi e a Berlino. Nel 1870 fu nominato primo assistente a Roma presso la cattedra di clinica
medica diretta da Guido Baccelli. Nel 1876 fu chiamato a Bologna a ricoprire la cattedra di Clinica medica lasciata
vacante da Luigi Concato, trasferitosi all’università di Padova, sua città natale124.
La carriera svolta da Murri nell’Alma mater fu folgorante e lo portò a ricoprire la carica di rettore. Dagli anni settanta al
primo novecento la sua fama si diffuse per tutto il paese. Veniva chiamato al consulto di pazienti che risiedevano da
Trieste alla Sicilia, dove si recava a curare i Florio. Risale a quel periodo la costruzione della villa situata al numero 2
della via Toscana (ora via Murri): quattro piani e venti stanze, valutata nel 1932 150.000 lire (equivalenti a circa 35.000
dell’anteguerra). Poi, nel 1905, la tragedia che si abbattè sulla sua vita privata e professionale, amplificando e al tempo
stesso soverchiando la sua celebrità scientifica. Nonostante le vicissitudini familiari, Murri morì nel 1932 lasciando un
patrimonio di circa 1.300.000 lire (rivalutato al 1914). ossia dello stesso valore di quello di Rizzoli e Roncati125.
Altri cattedratici della Facoltà di Medicina, che appartenevano a famiglie della Bologna-bene ed erano imparentati con
la vecchia nobiltà cittadina, non erano ricchi. Marco Paolini e Cesare Taruffì non erano dei notabili, e dedicaro
121. lvi, bb. 575, 577, 592, 620, 635.
122. lvi, b.325.
123. Primo centenario della Società medica chirurgica, cit., p. 543.
124. V. P. Babini, 1l caso Murri. Una storia italiana, Bologna, Il Mulino. 2004, p. 105-109.
125. ASB, Succ, bb. 966 e 975.
Le professioni e la città.. Bologna 1860-1914 91
no la loro vita alla medicina e all’insegnamento. Marco Paolini fu professore di Fisiologia nell’ateneo bolognese dal
1846 al 1865: il padre era laureato in legge, la madre era una Minghetti, zia di Marco. Non ebbe incarichi politici, fu
solo presidente della Società medica chirurgica e direttore per vent’anni, fino alla morte, delle terme di Porretta. Lasciò
nel 1873 cinque figli e beni per l68.552. Cesare Taruffi proveniva da una famiglia nobile bolognese. La madre era una
marchesa Bevilacqua, il padre era un avvocato. Patriota, prese parte come chirurgo alle campagne del Veneto e alla
difesa di Venezia. Nel ‘49 era a Roma, a curare i feriti. Assistente di Rizzoli all’Ospedale del ricovero, e poi viceprimario, entrò all’Università dapprima come direttore anatomico, poi nel 1859 fu nominato titolare della cattedra di
Anatomia patologica, che tenne fino al 1893. Morì, vedovo e senza figli, nel 1902 lasciando beni per 119.213 lire127.
Non riscontriamo tra gli avvocati e gli ingegneri quella coincidenza tra ricchezza e potere accademico che contrassegna
la generazione dei medici bolognesi post-unitari. Il più ricco dei giuristi era Leonida Carpi, uomo legato al mondo
bancario, mentre il secondo maggior patrimonio del gruppo, pari a 524.298 lire, apparteneva a un proprietario terriero
laureato in giurisprudenza, il marchese Francesco Rusconi, morto nel 1888. Costui era imparentato con la migliore
aristocratica bolognese. Il padre aveva sposato in prime nozze la contessa Maria Pallavicini, mentre Francesco aveva
sposato la contessa Ippolita Bentivoglio128.
Gli altri avvocati che lasciano beni degni di nota sono dei notabili legati alla proprietà fondiaria e alle banche notabili, o
si limitano ad appartenere al circuito delle opere pie. Paolo Silvani fa parte del primo gruppo. Avvocato- banchiere, tra i
fondatori della Banca delle quattro legazioni e suo direttore, Silvani era un grande notabile. Vice-presidente della
camera di commercio, amministratore dell’Opera pia dei vergognosi, fu consigliere comunale e provinciale e concluse il
suo cursus honorum col seggio alla camera dei deputati dall’Villi all’XI legislatura. Nipote di Antonio Zanolini, morì
nel 1883 lasciando sei figli e un patrimonio pari a 416.634 lire129. Rodolfo Marchesini, consigliere di stato, domiciliato
a Roma, consigliere comunale e provinciale a Bologna, morì nel 1901 lasciando un figlio e un patrimonio di 310.318
lire130.
Il mondo del grande notabilato produceva ricchezza. Un esempio eloquente è rappresentato da Enrico Pini, una delle
fìgure più importanti della Bologna primo-novecentesca. Iscritto all’albo degli avvocati nel 1876, Pini ricoprì tutte le
cariche cittadine possibili, oltre ad assurgere alla politica nazionale, come deputato e poi come senatore. In quanto
legale. fu membro del Consiglio del-
126. Ivi, h. 72; Primo centenario della Società medica chirurgica. cit.. p. 541
127. ASB. Succ, h. 422: Primo centenario della Società medica chirurgica, cit., p. 548.
128. ASB, Succ, b. 190.
129. Ivi, h. 37.
130. Ivi. h. 221.
92 M. Malatesta
l’ordine degli avvocati (nel 1895). amministratore del Monte di pietà, del Monte del matrimonio e della Camera di
commercio, consulente della R. accademia filarmonica; come uomo degli agrari. fu anche presidente del comizio
agrario. Ricoprì inoltre molteplici incarichi onorifici nei circoli sociali e culturali cittadini. Morì nel 1928 lasciando un
attivo di 431 000 lire circa (rapportato al l9l4)131.
I rapporti professionali con gli enti assicuravano un’esistenza da benestanti. Raimondo Ambrosini, morto nel 1914 con
un patrimonio di 258.000 lire, era stato amministratore del Monte del matrimonio, proboviro del Piccolo credito
agricolo e membro della congregazione consultiva della Curia arcivescovile132. L’avvocato Pompeo Mazzei, presidente
dell’Opera pia dei vergognosi, morì celibe nel 1884 lasciando beni per 150.000 lire133. Andrea Facchini era un avvocato
legato al mondo degli affari, che faceva parte della commissione ordinaria della camera di commercio. Lasciò nel 1914
un patrimonio di 470.120 lire134.
I patrimoni degli ingegneri compresi nel nostro campione sono più modesti, perché nessuno di essi sfora il tetto delle
400.000 lire. Anche nel loro caso, il modello notabiliare coincide in linea di massima con le ricchezze più consistenti.
Alfredo Santi, membro del consiglio di amministrazione del Regio ricovero di mendicità, lasciò nel 1911 395.862 lire;
seguono Luigi Rivani, consigliere provinciale, morto nel 1872 (344.756 lire)135 e Pietro Buratti. Costui era un ingegnere
possidente, consigliere della camera di commercio, membro del consiglio di amministrazione del Monte di pietà e della
Banca nazionale, socio della Filatura di canapa (sorta nel 1851 per iniziativa sua. di Minghetti, Gaetano Zucchini e
durata fino al 1883). Di tendenze democratiche, Buratti fu più volte consigliere comunale e provinciale e deputato al
parlamento nel 1870, in sostituzione di Ceneri (quando rinunciò al primo mandato). Morì nel 1886 lasciando 304.607
lire136.
Fra coloro che lasciarono beni il cui valore era compreso tra le 200.000 e le 300.000, vi era Cesare Goretti, un altro
ingegnere possidente, membro della Società agraria e promotore, nel 1872, della nascita del circolo tecnico137. Pietro
Pancaldi era un valente studioso, membro della Società agraria, alla cui attività scientifica diede un importante
contributo grazie alle sue memorie sulle condizioni economiche della provincia. Era uno dei soci — assieme a
Minghetti — della Società bolognese per la progettazione della linea ferrata Casteifran131. lvi, b. 893.
132. Ivi, b. 627.
133. lvi, b. 139.
134. Ivi, b. 620. 631.
135. Ivi, bh. 572, 65.
136. Ivi, b. 157; L. Dal Pane, Economia e società a Bologna nell’età del Risorgimento. Bologna. Zanichelli, 1969, p. 215-216; E.
Bottrigari, Cronaca di Bologna, a cura di A.Berselli, vol, IV, cit., p. 99, 134-137.
137. ASB, Succ, b. 279.
Le professioni e la città. Bologna 1860-1914 93
co-Ancona. Morì nel 1862 lasciando beni per 154.000 lire da dividere tra i due nipoti e i due figli superstiti138.
Le informazioni in nostro possesso sull’origine e l’andamento della ricchezza dei professionisti nel corso della loro
esistenza si limitano a quanto rinvenuto nelle denunce di successione. Su 14 casi nei quali è possibile risalire all’origine
dei beni del defunto, 9 documentano l’importanza dell’eredità familiare per la costruzione del patrimonio o per la sua
sopravvivenza. La famiglia Bordoni139 è un esempio illuminante di conservazione e trasmissione dei beni all’interno
della famiglia, rispetto ai quali gli incrementi derivati dall’esercizio professionale risultano essere insignificanti, se non
addirittura inesistenti. Il medico Odoardo Bordoni, membro del consiglio di amministrazione dell’Istituto di mendicità e
dell’Opera pia dei vergognosi, aveva ereditato dal padre Gaetano uno stabile e delle botteghe dietro via Orefici per un
valore di 116.000 lire, mentre Odoardo si era limitato ad acquistare una bottega del valore di 2.300 lire. Alla sua morte,
avvenuta nel 1886 all’età di 78 anni, il medico lasciò un’eredità del valore di 136.051 da dividere tra i suoi tre figli. Uno
di questi, Gaetano, ingegnere, morì nel 1891 lasciando ai fratelli l’intera quota dell’eredità paterna.
L’avvocato Antonio Maioli, morto nel 1890, lasciò beni rustici per 26.000 ereditati interamente dalla famiglia, su un
patrimonio di circa 33.000 lire140. L’avvocato Ferdinando Pancaldi era figlio dell’ingegner Pietro, dal quale aveva
ereditato beni per circa 50.000 lire nel 1862, e fu consulente legale di vari enti bolognesi. Sposato con la marchesa Anna
Rusconi, morì nel 1900 lasciando un patrimonio di 18.142 lire consistente nella casa di via Guido Reni, acquistata
trentacinque anni prima con metà dell’eredità paterna, che per il resto fu spesa assieme ai redditi professionali141. Anche
per Luigi Franceschini l’eredità paterna (terreni e fabbricati nel comune di Bologna per un valore di 110.000 lire)
rappresentò la parte maggiore del suo patrimonio. Ingegnere del genio civile, si deve a lui l’introduzione nel bolognese
della fornace da mattoni costruita col sistema Bremond, che faceva risparmiare il combustibile. Morì nel 1910,
lasciando beni per 159.314 lire142.
Nel caso del ricco e potente Cesare Zucchini, l’eredità famigliare fu una componente essenziale del suo patrimonio. Il
padre, Giovanni, medico, gli aveva lasciato nel 1870 beni pari a 210.316 lire, Il figlio Cesare, ingegnere, apparteneva a
quel modello di notabile affarista dall’incerta collocazione professionale. Cesare Zucchini era un banchiere, possidente,
legato al mondo della terra e degli affari. Direttore della Cassa di risparmio, presidente della Camera
138. lvi, b. 2: Dai Pane. Economia e società a Bologna nell‘età del Risorgimento, cit.. p. 363. 604-05.
139. ASB, Succ. hh. 157. 221.
140. lvi. b. 209.
141. lvi, h. 385.
142. lvi. b. 542: Bottrigari. Cronaca di Bologna, a cura di A. Berselli. voi. IV. cit.. p. 110.
94 M. Malatesta
di commercio, membro del R. Istituto di mendicità e della Congregazione di carità, consigliere comunale e provinciale,
morì nel 1919, dopo aver avuto tre mogli e quattro tigli. Lasciò un patrimonio di poco superiore a quello ereditato pari a
246.000 lire circa (rivalutato al l9l4)143.
In altri casi, l’eredità paterna o materna rappresentò una delle componenti che aiutarono la formazione di patrimoni,
grandi o piccoli, messi assieme grazie ai redditi professionali e agli investimenti. Per l’avvocato Gaetano Berti che fu
consigliere comunale e provinciale, morto nel 1884, l’eredità della famiglia incise per circa la metà sulla formazione del
suo modesto patrimonio. Dal padre e dalla sorella aveva ereditato una parte della casa in via Solferino n. 11, dove
abitava, mentre il grosso dei beni era costituito dai ftndi paterni, situati a Monzuno e stimati per lire 7.500. Di suo,
Gaetano aveva acquistato — assieme col fratello Paolo, medico — un’altra abitazione al 13 di via Solferino (la sua
parte fu valutata 6.275 lire) e un terreno prativo a Sala Bolognese, del valore di 3.000 lire144.
L’avvocato Angelo Agnoli, secondo presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati (dal 1880 al 1883), consigliere
comunale dal 1871 al 1875, morì nel 1884 a 61 anni lasciando beni per 41.000 lire circa. Di questi, due poderi del
valore di 8.000 lire erano stati ereditati dal padre, mentre un altro podere del valore di 15.000 lire era stato acquistato
nel 1872 a metà con la moglie145. Pio Berti Ceroni, avvocato morto nel 1909, che ricoprì la carica di consigliere
provinciale, è un ottimo esempio di intreccio tra accumulazione professionale e eredità. Ereditò dal padre nel 1881 un
podere a Imola stimato 32.500 e ricevette nel 1883 in donazione dalla madre un altro podere, nel comune di
Castelguelfo, del valore di 50.000 lire. Nel 1877 Pio aveva acquistato la casa di via Saragozza n. 41, dove morì, del
valore di 45.000 lire e un podere del valore di lire 30.000. Infine nel 1901 aveva acquistato anche una casa in via
Nosadella del valore di 33.000 lire146. Anche per Leonida Carpi, l’eredità della madre Giuditta Foà consistente in
numerosi beni fondiari, tutti venduti tra il 1902 e il 1905, fu solo una delle componenti di un vasto patrimonio
147
.
Ma i beni della famiglia erano anche un’ancora di salvezza per i casi disperati, come dimostra la storia dell’avvocato
Alberto Pondrelli. Costui aveva ereditato la casa di via Mascarella, in cui viveva e aveva lo studio, i poderi a Castel San
Pietro e Mongardino, con annessa la casa di villeggiatura, anche il palco al teatro del Corso era stato acquistato dal
nonno. Di suo, aveva acquistato nel 1871 due poderi, per il valore complessivo di 30.000 lire. Morì nel 1901 lasciando
un patrimonio immobiliare di 78.000 lire e debiti con le banche pari a 88.000, costituiti da mutui ipotecari stipulati tra il
1878 e il 1899.
143. Ivi, bb. 741 e 744.
144. lvi, bb. 171 e 175.
145. lvi, h. 141.
146. Ivi, b. 536.
147. lvi, b. 577.
Le professioni e la città. Bologna 1860-1914 95
Pondrelli non si era disfatto dei beni di famiglia, che aveva usato come mezzo per ottenere dei crediti, sui quali era
campato
negli
ultimi
vent’anni
della
sua
vita,
in
parte
coincidenti
con
la
grande
depressione148.
Al termine dell’analisi condotta sui patrimoni di 150 professionisti bolognesi morti tra il 1862 e il 1914. possiamo
chiederci in quale misura l’appartenenza di questi professionisti al sistema notabiliare, ossia l’essere inseriti a vario
modo nei circuiti accademici, politici, economici, sociali cittadini e nazionali, abbia influito sulla loro ricchezza. Dal
momento che abbiamo constatato solo per un numero esiguo l’origine di questi patrimoni, non è possibile dare una
risposta esaustiva a questo interrogativo. Infatti, potrebbe essere vero anche il contrario, ossia che la famiglia di origine
del professionisti, i beni e le relazioni ereditate fossero la fonte principale della sua posizione di notabile, e che perciò
quest’ultima non fosse intrecciata all’attività professionale, ma fosse piuttosto una delle componenti dell’eredità
familiare.
Sulla base dei dati in nostro possesso abbiamo classificato i 150 professionisti in due gruppi: coloro che ebbero almeno
una carica, accademica, politica. economica o sociale, e quelli che non ne ebbero neppure una. I risultati confermano le
analisi precedentemente fatte sulla distribuzione delle ricchezze tra i vari gruppi professionali. Il nesso tra i maggiori
patrimoni e la presenza nella vita cittadina e nazionale è comprovato per le tre professioni, ma le differenze interne sono
notevoli.
I medici ricchi (i cui patrimoni superano le 200.000) sono quelli che appartengono al modello accademico-notabiliare
(47%), il quale funziona anche per i patrimoni compresi tra le 20.000 e le 200.000 lire (40%). Per gli ingegneri e gli
avvocati, le cui ricchezze sono più polarizzate di quelle dei medici, l’appartenenza al sistema notabiliare funziona
secondo una logica differente. Per i medici il possesso delle cariche accademiche e politiche era indispensabile per
diventare molto ricchi; per gli avvocati e per gli ingegneri, l’essere esclusi dal sistema notabiliare coincideva con una
condizione patrimoniale modestissima. Superata questa soglia, tuttavia, non vi erano grandi dislivelli di ricchezza tra gli
avvocati-notabili e gli altri; per gli ingegneri, invece, le cariche politiche ed economiche contavano maggiormente al
livello medio-basso e per i grossi patrimoni [Fig. 2].
L’appartenenza ai «giri» cittadini non era solo fonte di reddito. Poteva anche produrre dei debiti. La coincidenza tra
indebitamento degli avvocati e la loro presenza nella vita cittadina che contava, è assai eloquente. Abbiamo visto quanto
fosse cresciuto l’indebitamento del ceto forense in conseguenza della grande depressione. I debiti lasciati dagli avvocati
e dagli ingegneri nei confronti delle banche e degli istituti di beneficenza, erano un modo per mantenere un livello di
vita adeguato alla loro posizione sociale.
148. Ivi, b. 419.
Le professioni e la città. Bologna 1860-1914 97
La mentalità economica
I professionisti bolognesi restarono per tutto il periodo liberale un gruppo ristretto, che condivideva i medesimi spazi
politici, economici e sociali e traeva prestigio e influenza dal legame con l’università. Questa condizione favorì
l’emergere di una cultura professionale o si limitò a veicolare una cultura borghese priva dei connotati specifici del
gruppo di appartenenza? Il primo comportamento che prenderemo in esame per rispondere a questo interrogativo è
quello relativo al denaro e al suo investimento. Come tutti i borghesi dell’epoca, anche i professionisti bolognesi si
fidavano soprattutto dei beni immobili. Ereditata dalla famiglia o acquistata con i propri guadagni, la ricchezza
immobiliare costituiva il 66,5% dei patrimoni, mentre i beni mobiliari erano il 33,5%. Vera Zamagni ha calcolato che
nel 1911-1914 la ricchezza privata nazionale fosse composta per il 64,8% di beni immobili (di cui il 40,8%
rappresentato dalla terra e il 18,9% dalle abitazioni), contro il 35,2% dei mobili149. I professionisti bolognesi rientravano
dunque nella media nazionale e probabilmente ebbero una propensione a investire in beni mobiliari superiore a quella
degli altri colleghi. I dati che si riferiscono alle ricchezze di Benevento, Catanzaro e Forlì150 mostrano una propensione
all’investimento in beni fondiari assai superiore. Il confronto può essere semmai fatto con Milano nel 1881 e Lucca nel
1902-1905, dove gli investimenti immobiliari erano scesi al 55% circa151.
Non vi sono differenze degne di nota fra i tre gruppi professionali. Gli immobili rappresentano il 64,2% del portafoglio
degli avvocati bolognesi, il 67,7% di quello dei medici e il 68,7% di quello degli ingegneri. Vi sono però delle
sfumature circa la natura degli immobili. Gli avvocati ne possedevano in misura inferiore, ma questi erano formati per il
76,5% da beni rurali; gli ingegneri ne avevano più di tutti, ma il 30% era formato da immobili urbani [Fig. 3]. La terra e
gli immobili agricoli restarono un bene privilegiato, spesso ereditato dalla famiglia e custodito fino alla morte. La
campagna era una fonte di reddito sicura e su di essa venne dirottata una parte degli investimenti, come dimostra il
valore del bestiame presente nei fondi, soprattutto in quelli posseduti dagli ingegneri. La città fu un luogo di
investimento soprattutto per gli ingegneri, che avevano lavorato al suo ampliamento; per i medici, che avevano il 27,1%
dei loro immobili dislocati in Bologna, fu piuttosto un segno di affermazione delle proprie radici urbane.
149. Zarnagni. The rich in a late industrializer, cit., p. 136.
150. Un quadro riassuntivo della distribuzione della ricchezza in queste città è in Caglioti — Montroni, L’ascesa dei ceti dirigenti
forlivesi. cit.. p. 235. Il confronto con Bologna è solo indicativo, perché i dati sulle altre città riguardano tutte le categorie di
possidenti e sono costruiti su campioni di anni.
151 . Banti. Ricche’a e potere. Le dinamiche patrimoniali nella societò lucchese del XIX secolo,cit.; Licini. Guida ai patrimoni
milanesi. Le dichiarazioni di successione ottocentesche, cit.
Le professioni e la città. Bologna 1860— 1914 99
I professionisti bolognesi erano attaccati alla campagna, ma la scelta dei loro investimenti non si esauriva nel possesso
fondiario. I beni mobiliari costituivano infatti più di un terzo dei loro portafogli (il 35,80% per gli avvocati, il 32,3% per
i medici e il 31,3% per gli ingegneri). La loro propensione verso i beni mobiliari era in buona parte determinata
dall’esercizio della professione, che consentiva di intrecciare relazioni con ambienti economici e finanziari, offriva
occasioni di investimento e favoriva il flusso delle informazioni. Gli avvocati e gli ingegneri, ossia coloro che avevano
le relazioni più intense con il mondo del credito locale, avevano il maggior numero di azioni e di titoli bancari (il 9,8%
dei beni mobiliari degli avvocati e il 9,2% di quelli degli ingegneri, contro il 4,7% dei mobili in possesso dei medici). I
titoli bancari erano una forma di investimento diffusa tra le élites italiane ed europee dell’epoca, ma a Bologna
costituivano un fattore di identificazione particolarmente forte per le élites locali, data l’importanza rivestita nel
contesto cittadino dalla Cassa di risparmio, seguita dalla Banca popolare di credito. Questi erano infatti i due istituti i
cui titoli venivano acquistati dai professionisti bolognesi. Seguivano, a notevole distanza, le azioni della Banca d’Italia.
La propensione a investire in modo sicuro è visibile anche dalla preferenza accordata ai titoli di stato e del debito
pubblico. Le cartelle obbligazionarie dello stato, del comune e della provincia di Bologna sono molto richieste dagli
avvocati (11%) e dai medici (53,9%), mentre sono meno ambite dagli ingegneri (1%). La percentuale riferita ai medici è
fuorviante perché in essa è compresa per la quasi totalità il patrimonio di Francesco Roncati152. Il celebre psichiatra si
distinse per la sua ricchezza e per le scelte economiche poco usuali. Gli immobili erano una parte secondaria e
consistevano nel palazzo in via San Felice (valutato 60.000 lire) e in due possedimenti rurali, del valore di circa 200.000
lire. La quota maggiore, pari a 953.274 lire, era investita in titoli: 292.000 lire nella rendita austriaca (forse in ricordo
del periodo di studio trascorso in Austria)153, 310.000 lire in cartelle del prestito della provincia di Bologna, 54.000 lire
nelle azioni della Banca d’Italia e il resto nella rendita italiana.
Gli investimenti a rischio, ossia le azioni industriali, sono pressoché assenti nei patrimoni dei nostri professionisti. Non
deve trarci in inganno quel 10,2% che troviamo tra i beni mobiliari degli avvocati154, dato che esso rap-
152. Se invece della percentuale sul totale si calcola la media della percentuale di ogni singola successione, i risultati vengono
ridimensionati: per i titoli di stato posseduti dai medici, essa si abbassa dal 53,9% alI’8.49%. Anche la media percentuale dei titoli di
stato dei medici risulta comunque essere superiore a quella degli avvocati (3,86%) e degli ingegneri (3,48%).
153. A. Tagliavini. Francesco Roncati. direttore del manicomio, in «Società, scienza e storia», 1. 19S5. p. 88.
154. Se calcoliamo anche in questo caso la media, vediamo che le azioni industriali degli avvocati sono pari al 2,23% (invece che al
10.2%). quelle degli ingegneri sono il 3,48% (mentre la percentuale sul totale ammonta all’ I ‘/) e quelle dei medici l’ 1.54% (invece
dello 0,54% calcolato sul totale).
100 M. Malatesta
presenta quasi esclusivamente il patrimonio di Amilcare Zamorani. l’avvocato che nel 1885 acquistò, per 210.000 lire,
2100 azioni dello Stabilimento poligrafico, divenne l’unico proprietario de «Il Resto del carlino», sorto per iniziativa di
un gruppo di esponenti dell’Associazione democratica bolognese che lo diresse dal 1886 trasformandolo nel maggior
quotidiano locale155. Zamorani era avvocato e giornalista, ma era animato da uno spirito imprenditoriale che traspare
anche dalla composizione del patrimonio attivo lasciato nel 1907. Ammontava a 321.674 lire ed era composto di beni
mobiliari consistenti, oltre alle azioni del Poligrafico, da 2500 lire in azioni industriali, in azioni della Banca d’Italia per
5068 lire e in quelle della Banca popolare di credito per 1606 lire; infine vi erano 90.000 lire depositate presso il Banco
Sanguinetti, appartenente alla famiglia della moglie Emma156. Altri investimenti in azioni industriali di una qualche
entità sono presenti nei patrimoni dell’avvocato Raimondo Ambrosini (8000 lire in azioni della ceramica faentina)157 e
in quello di Leonida Carpi (16.000 lire tra azioni delle Officine reggiane, cooperative edilizie e di consumo e altre
ditte)158.
Presi nel loro complesso, i professionisti bolognesi furono condizionati dalla cultura economica dell’epoca, che li
spingeva soprattutto verso gli investimenti rurali, ma furono anche pronti a cogliere le opportunità offerte dalla loro
professione e a fare scelte molto individualizzate. Espressero, in definitiva, una mentalità economica «professionale»,
che si apriva al nuovo e conservava al tempo stesso antiche usanze, quali il prestare denaro, consuetudine diffusa tra le
professioni liberali dall’età moderna. I crediti rappresentavano la voce più consistente nel portafoglio degli avvocati
(47,3%) e degli ingegneri (42%), mentre avevano un’importanza minore per i medici (18,4%). In essi sono comprese le
parcelle che dovevano ancora riscuotere dai clienti e gli affitti degli immobili locati; ma le somme più grosse sono
costituite dai prestiti erogati soprattutto dagli avvocati. Il credito privato erogato dai professionisti bolognesi non diede
segni di flessione fino alla prima guerra mondiale, nonostante lo sviluppo delle banche locali. Quest’ultime non
soppiantarono completamente le antiche reti del credito, che poggiavano sulla fiducia accordata ai professionisti dai
loro clienti.
Dobbiamo ritenere che i professionisti bolognesi fossero degli usurai? Il dibattito sul tema è aperto, perché alcuni storici
ritengono che il prestito ai privati costituisse una pratica usuraia che frenava la modernizzazione del sistema creditizio
159
, mentre altri lo considerano solo un mezzo per ottenere finanziamenti, ampiamente utilizzato dalle imprese
industriali e commerciali ottocentesche160. Per dare una risposta esaustiva, bisognerebbe ricostruire l’identità
155. Malatesta, Il Resto del carlino, cit., p. 22-33.
156. ASB, Succ, b. 495.
157. Ivi, b. 627.
158. lvi, b. 577.
159. Daumard, Les frirtunes franaises au XIXe siècle, cit, p. 238; Macry, Ottocento. cit, p. 65.
160. Licini, Guida ai patrimoni milanesi, cit., p. 37-38.
Le professioni e la città. Bologna 1860-1914 101
dei debitori. Alcuni di costoro appartenevano all’aristocrazia cittadina, mentre l’avvocato Leonida Carpi prestò soldi
anche a alcune ditte. In assenza di altri elementi, ci limiteremo a sottolineare il fatto che a Bologna funzionarono fino
alla guerra due sistemi creditizi, quello bancario e quello privato, il cui punto di contatto era rappresentato da
personaggi che appartenevano ad entrambi. L’avvocato Carpi che, come abbiamo visto, era parte integrante del mondo
bancario cittadino, gestiva contemporaneamente una vasta rete di prestiti valutata nel 1912 attorno alle 200.000 lire.
Anche l’avvocato Achille Muzzi, membro del consigliere dell’ordine degli avvocati, consigliere comunale e di un
consorzio idraulico, era anche consigliere della Cassa di risparmio. Morì nel 1920 lasciando un patrimonio di 169.524
lire, di cui 15.000 per mutui fatti a privati 161.
La famiglia
La famiglia è un osservatorio privilegiato per leggere i comportamenti di un gruppo sociale. Conoscere le relazioni di
genere che vigevano all’interno della borghesia colta bolognese consente di capire se essa esprimesse una cultura
moderna oppure rimanesse legata a modelli familiari tradizionali. I professionisti bolognesi compresi nel campione di
150 successioni erano piuttosto longevi e con una tendenza al celibato. Gli scapoli sono il 17%, per la maggior parte si
tratta di medici, seguiti dagli ingegneri; gli avvocati mostrano invece una decisa vocazione per il matrimonio (i celibi
sono 4 su 58). Le strategie successorie rivelano che i professionisti bolognesi condividevano un modello di famiglia
affettiva162, che tutelava i figli e le mogli ed aveva un’attenLione particolare per i nipoti; era lo stesso modello familiare
diffuso all’interno della borghesia colta163, improntato a un’eguaglianza tra i sessi, maggiore di quanto non si
riscontrasse all’epoca all’interno di altri strati sociali.
Generalmente furono seguite le disposizioni del codice civile, in base alle quali i figli ereditavano in parti uguali e la
vedova era l’usufruttuaria di una quota della legittima pari a quella spettante a ogni figlio, la quale per legge non doveva
essere superiore a un quarto dell’eredità164. Quando il defunto era vedovo, i beni erano divisi in ugual misura tra i figli
o, in loro assenza, tra i
161. ACS. Succ.. b. 763.
162. M.J. Maynes, Culture di classe e modelli di vita familiare. in Storia della famiglia ii Europa. a cura di M. Barbagli e DI. Kertzer. RomaBari. Lateria, 2003. p. 304-311.
163. M. Barhagli. Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia da! XV a! XX secolo, Bologna, il Mulino, 1984. p. 486 sgg.
164. R. Romanelli. Individuo. famiglia e collettività nel codice civile della borghesia italiana, in .Saperi della borghesia e storia dei concetti fra
otto e novecento, a cura di R. Ghepardi, G. Gozzi. in «Annali dell’Istituto Storico Italo—Germanico». 42. Bologna, il Mulino, 1995: Id..
Donne e patrimoni, in Il lavoro del/e donne, a cura di A. Groppi, Roma— Bari. Laterza. 1996: M. Palaiti, Donne so/e. Storia dell‘altra faccia
dell‘Italia tra antico regime e società contemporanea. Milano. Bruno Mondadori. 1997. p. 63—77.
102 M. Malatesta
fratelli165, tra la sorella e la madre166, oppure tra i fratelli e i nipoti167. Se il defunto lasciava solo la vedova, la legge
imponeva che costei ricevesse una parte dell’asse ereditario, la cui entità dipendeva dal grado di parentela degli altri
eredi. Così fece il conte Gian Battista Ercolani, che lasciò un terzo del suo modesto patrimonio (36.000 lire circa)
corrispondente al valore della sua abitazione in via Castagnoli. alla moglie Carlotta Sarti e due terzi ai quattro nipoti168,
il conte Francesco Rusconi divise l’eredità in parti uguali tra la moglie e i nipoti, In altri casi le vedove godettero di una
attenzione speciale da parte dei mariti: l’avvocato Giuseppe Samoggia, morto nel 1929, lasciò un patrimonio di circa
167.000 con la volontà che i figli corrispondessero alla madre una somma maggiore di quella prevista dalla legge169;
mentre
il
dottor
Gulli,
morto
nel
1876,
divideva
i
beni
a
metà
tra
la
moglie
e
i
figli170.
Non sempre vennero rispettati questi criteri di equità. La discriminazione più frequente veniva applicata per favorire
l’erede maschio. Secondo una cultura ancora radicata nelle élites otto-novecentesche, anche tra i professionisti
bolognesi la divisione ereditaria era un’occasione per riaffermare la centralità del maschio all’interno della famiglia. La
regola non era assoluta; ad esempio. la figlia di secondo letto dell’avvocato Giuseppe Roncagli fu privilegiata rispetto
agli altri fratelli
171
, Ma nel resto dei casi l’asimmetria di genere favorì l’erede maschio, figlio, fratello o nipote che
fosse, perpetuando la tradizione di antico regime secondo la quale il patrimonio era trasmesso per linea maschile.
Le tecniche applicate dai professionisti bolognesi per favorire un erede maschio, figlio, fratello o nipote che fosse, erano
quelle usate normalmente dalle élites aristocratiche e borghesi. Si trattava di giostrarsi all’interno di una legislazione
che si basava sul principio di eguaglianza tra gli eredi, aveva bandito i fedecommessi, ma che consentiva molti spazi di
manovra attraverso l’istituto della quota legittima e dei legati. Uno dei dispositivi consisteva nel dichiarare il figlio
maschio erede universale e le sorelle legittimarie172. ma si poteva raggiungere il medesimo obiettivo dichiarando la
moglie erede universale, come fece l’ingegner Nocelli-Zama nel 1912, e il figlio legittimario, a cui era già stata
assegnata una donazione, tale per cui alla fine la sua quota superava la metà del patrimonio173. Il grande clinico
Marcello Putti, morto nel 1910, lasciò i suoi pochi averi ai quattro figli, nominando il maschio erede universale e
stabilendo che a lui andassero i due poderi che costituivano la parte immobiliare, assieme alle suppellettili della casa.
Ma, come avveniva nelle famiglie aristo
165. Dott. Gaetano Margotti, morto nel 1866. ASB, Succ. b. 25.
166. lng. Fontanini, morto nel 1875, ivi, b. 79
167. Dott. Enrico Marchesini, morto nel 1886, ivi. h. 156.
168. Prof. G. B. Ercolani, morto nel 1883. ivi, b. 137.
169. lvi. b. 903.
170. lvi. h. 85.
171. lvi, b. 130.
172. Dott. Marco Paolini. morto nel 1873, ivi. h. 72; dott. Domenico Felletti, morto nel 1911, b. 572; dott. Giacomo Maddaleni,
morto nel I 890, h. 209.
173. lvi, b. 579.
Le professioni e la città. Bologna 1860- 1914 103
cratiche di antico regime. l’erede maschio doveva accollarsi il mantenimento della madre e delle sorelle fino a quando
queste ultime non fossero sistemate. In questo caso le sorelle rinunciarono alFeredità174.
L’asimmetria di genere colpiva anche quando non c’erano figli. L’avvocato Poggi lasciò nel 1876 beni per più di
259.000 lire al fratello ingegnere, escludendo le tre sorelle l’ingegner Ulisse Micheli, morto nel 1912, applicò una
duplice asimmetria di genere: lasciò a tre nipoti maschi il suo patrimonio di 316.555 lire, escludendo la nipote, alla
moglie assegnò un vitalizio, dei contanti e l’usufrutto della casa, pari a 26.000 lire175. La passione del ricco conservatore
di ipoteche, l’avv. Rodolfo Bertoli, defunto nel 1881, per la progenie maschile lo spinse a lasciare la parte più
consistente del suo patrimonio ai figli maschi, nati e nascituri, del nipote, suo unico parente maschio, a cui andò il resto
dell’eredità176. Per finire, il dottor Clò lasciò nel 1910 la nuda proprietà dei suoi beni ai due pronipoti maschi
(equivalente a 13.500 lire) e l’usufrutto, pari 4.598 lire, alle due nipoti femmine177.
Le logiche successorie seguite dai professionisti bolognesi rientrano così nel novero dei comportamenti condivisi da
buona parte della borghesia italiana, contrassegnati per un verso dall’emancipazione da criteri discriminatori e, dall’
altro, dalla perdurante affezione verso modelli tradizionali, che affidavano alla discendenza maschile il patrimonio
familiare.
Identità professionali
I professionisti bolognesi appartenevano alla borghesia e i loro comportamenti non potevano essere diversi da quelli
condivisi dal resto degli italiani colti. Sono tuttavia rinvenibili all’interno del gruppo alcuni comportamenti — quali
l’appartenenza di corpo, l’identificazione con le istituzioni professionali, l’esaltazione della cultura scientifica, il gusto
per le onorificenze — che concorrono a formare una vera e propria antropologia professionale. I lasciti destinati ad
istituzioni scientifiche e assistenziali bolognesi, sono un rivelatore importante degli atteggiamenti culturali dei
professionisti bolognesi, che devolsero spesso parti o addirittura tutto il patrimonio a quegli enti che a vario titolo
avevano fatto parte della loro vita. I loro lasciti seguirono due logiche, complementari ma al tempo stesso distinte tra
loro. Vi fu chi espresse, donando le sue ricchezze, una cultura delle élites che si identificava con la città e con le sue
istituzioni caritatevoli. A questo gruppo appartengono ingegneri e avvocati, I medici sono invece assenti, ad eccezione
del cattedratico Pietro Gamberini, che nel 1896 lasciò 871.000 lire (quasi tutto il patrimonio) all’istituto dei ciechi e
all’Opera pia dei vergognosi178
174. lvi, b. 547.
175. lvi. b. 85.
176. Ivi. b. 486.
177. lvi.. b. 542.
178. lvi. b. 325: Archivio dell‘Opera pia dei poveri vergognosi, cit., EE. 176. 5.
104 M. Malatesta
L’ingegner Antonio Gallerani lasciò la metà dei suoi beni (che ammontavano a circa 20.000 lire) al Ricovero di
mendicità e agli Asili marini. L’ingegner Cesare Goretti, che aveva cinque figli, lasciò 30.000 lire alla Congregazione di
carità e 35.000 ai Pii istituti educativi (su 220.000 di patrimonio). Più cospicui furono i lasciti degli avvocatì. Ulisse
Cavazzonì Zanotti donò quasi tutto il patrimonio alla Congregazione di carità (120.000 lire), assegnando alla mog1ie un
legato di 32.000 lire e altri legati di minore entità ai nipoti. L’avvocato Egidio Conti, morto vedovo e senza eredi diretti
nel 1926, lasciò all’istituto Rizzoli la nuda proprietà della sua casa situata in via Guerrazzi. Infine l’avvocato Enrico
Pini nominò erede universale la moglie a condizione che alla morte di costei, tutti i beni andassero alla Fondazione
Augusta Pini, un sanatorio che il senatore Pini aveva creato in una delle sue ville per ospitarvi bambini bolognesi
bisognosi di cure e di educazione. La Fondazione era intestata alla figlia morta e la sua amministrazione era affidata ai
Pii istituti educativi, di cui Pini era stato a lungo presidente179.
I lasciti dei medici seguirono la logica dell’appartenenza professionale. Lo spirito di corpo e la fedeltà alle istituzioni
sanitarie si intrecciavano con la fede nella scienza medica. L’élite medica bolognese espresse un’identità professionale
fortissima che faceva tutt’uno con le sue istituzioni: l’università, l’ospedale, la Società medica chirurgica. I lasciti
rappresentano il 20% del nostro campione e i più consistenti coincidono con i patrimoni più grossi, detenuti da celibi o
da vedovi senza figli. L’esempio più clamoroso è il lascito che Francesco Rizzoli, celibe, fece alla Provincia di
Bologna. L’illustre chirurgo aveva acquistato per 55.000 lire la Villa reale situata nella collina di San Giovanni in
Bosco e nel 1879 si impegnò a fondarvi un istituto e a dare i fondi necessari per l’impianto e il mantenimento
dell’ospedale, nonché per il restauro e la conservazione della parte monumentale. L’ammìnistrazìone dell’ospedale e del
patrimonio era affidata a una commissione provinciale. Rizzoli aveva già speso 30.000 lire per i primi lavori di
riparazione, a cui fecero seguito gli stanziamenti di 100.000 e 509.900 lire assegnati alla Deputazione provinciale180.
Francesco Roncati nominò erede delle sue sostanze la Provincia di Bologna, lasciandone però l’usufrutto ai fratelli e ai
nipoti, «con l’intendimento di giovare ai pazzi poveri ricoverati in questo manicomio, detto di Sant’Isaia, dove dal
settembre 1867 ho soprattutto occupato la mia mente e operosità»181.
Un altro caso di identificazione totale con le istituzioni mediche è rappresentato da Giovanni Brugnoti, morto vedovo e
senza figli, che lasciò 430.000 lire circa (due terzi del suo patrimonio) suddivise tra l’Ospedale maggiore, dove aveva
esercitato dal 1837 e di cui era stato il direttore dal 1889 al 1 894 e la Facoltà di Medicina, dove era stato docente
supplente dal 1841, professore ordinario dal 1852 e rettore nel 1889-90. Completava il rito dell’appartenenza pro-
179. ASB, Succ, bb. 65, 279, b. 169, 171, 893.
180. Testamento di E. Rizzoli, redatto nel 1880, ivi, b. 117; cit., p. 288-291.
181 Testamento di Francesco Roncati, redatto nel 1901, ivi, b. 492.
Le professioni e la città.. Bologna 1860-1914 105
fessionale il legato di lire 20.000 che Brugnoli intestò alla Società medica chirurgica e all’Accademia delle scienze di
Bologna182.
La Società medica chirurgica fu, significativamente, l’altra istituzione, oltre a quelle ospedaliere e universitarie, che i
medici ricordavano come una delle componenti fondamentali della loro vita professionale. Ad essa il professor Taruffi,
morto vedovo, lasciò nel 1902 tutti i suoi averi ( pari a 120.000 circa)183. La Società beneficiò di molti altri legati, di
minore entità, tra cui il lascito fatto nel 1881 dal dottor Gioacchino Malaguti e quello di Faustino Malaguti.184 Il dottor
Giuseppe Franzoni, infine, celibe, morto nel 1894, lasciava 800 lire (su un patrimonio di 6.500 lire) al Pio istituto dei
medici chirurghi185.
L’altra componente dell’antropologia dei medici bolognesi fu la cultura scientifica, nella quale si riconosceva
soprattutto l’identità dei cattedratici. L’élite della Facoltà di Medicina finalizzò i suoi lasciti a sostegno delle istituzioni
assistenziali cittadine e della diffusione della cultura medica. Giovan Battista Ercolani lasciò nel 1883 al Comune di
Bologna la sua biblioteca scientifica del valore di 8.898 lire186: Giovanni Brugnoli lasciò la sua collezione libraria alla
Biblioteca dell’Archiginnasio, così come aveva fatto il professore di Fisiologia Michele Medici, nel 1859187. Cesare
Taruffi divise i suoi libri tra la Biblioteca universitaria, il professor Augusto Corradi, figlio di un amico, e la Società
medica chirurgica. Ed è oltremodo significativo che vincolasse l’eredità lasciata all’associazione, all’obbligo di
impiegarne la rendita per «migliorare le pubblicazioni scientifiche in corso di stampa, comprese le Memorie, e per
corredarle di tavole»188.
La rappresentazione che i medici bolognesi diedero di se stessi attraverso i lasciti e le donazioni, coincide con quella
elaborata nelle loro memorie. E la rappresentazione di esistenze che si identificarono totalmente con la professione, da
cui trassero onori e gloria, e che per molti coincise anche con l’attività di docente. Le memorie di Giuseppe Ruggi,
pubblicate nel 1924, un anno prima di morire, sono una sorta di autoglorificazione della sua attività di chirurgo e
scienziato assai stimato in Italia e all’estero, e del percorso che lo fece arrivare alla fama189. Di tono opposto, ma
ugualmente trasudante orgoglio professionale, è il testamento di Vittorio Putti che dichiara: «muoio povero perché
interpretai la mia missione come un nobile sacerdozio, non mai come un mestiere esercitato a scopo di lucro o a
soddisfazione di ambizioni».
Gli avvocati e gli ingegneri non avevano istituzioni in cui identificarsi paragonabili a quelle ospedaliere o alla tradizione
della Società medica chirurgica.
182. lvi, b. 282; Sette secoli di vita ospedaliera, cit., 222-223; Primo centenario, cit., p. ‘310-311.
183. ASB, Succ, b. 422; Primo centenario, cit., p. 315-3 17.
184. lvi, b. 117; Primo centenario, cit., p. 317.
185. lvi, b. 279.
186. Ivi, b. 137.
187. Si veda su questo punto quanto scrive M.G. Tavoni, Tipografi, editori, lettura, infra.
188. ASB, Succ, b. 422, Testamento redatto nel 1896.
106 M. Malatesta
L’ordine degli avvocati era troppo recente, né la sua natura obbligatoria faceva supporre che col passare del tempo
avrebbe suscitato nei suoi iscritti un vero sentimento di affezione. Nel nostro campione. c’è solo il caso dell’avvocato
Conti, che lasciò la sua biblioteca al Consiglio dell’ordine degli avvocati e procuratori di Bologna190, mentre non vi
sono indizi relativi agli ingegneri. Gli avvocati bolognesi espressero un senso di appartenenza professionale di tipo
squisitamente individuale, che si esprimeva nell’identificazione tra la professione e la famiglia, piuttosto che in quella
con un’istituzione. L’ereditarietà diventava parte della professione forense e la condizione della sua memoria.
L’avvocato Regnoli, morto nel 1896 vedovo e senza figli, aveva diviso prima della morte il suo piccolo patrimonio tra i
tre figliastri, assegnando la quota minore al primo maschio (6000 lire), 16000 lire alla femmina e ad Attilio Loero, che
faceva l’avvocato, 25000 lire. A quest’ultimo Regnoli donò anche la sua biblioteca e tutto ciò che era contenuto nel suo
studio191.
Il testamento spirituale dell’avvocato Ambrosini è un documento eloquente di quella tendenza «privatistica» comune
all’avvocatura, secondo la quale l’appartenenza professionale era racchiusa nello spazio compreso tra la discendenza e
la colleganza. Nel 1914 l’avvocato Raimondo Ambrosini divideva il suo cospicuo patrimonio in parti uguali tra le
quattro femmine e il maschio; ma a quest’ultimo lasciava in più l’eredità della professione: «Al mio caro figliolo
Lorenzo lascio a titolo di prelegato tutte le carte e le cose di studio, e spero sappia esercitare con scienza e coscienza,
ricordando sempre gli onorati esempi del suo avo, l’amatissimo mio padre avv. Ambrogio che della professione fu
decoro»192 .
I segni distintivi della professione stabilivano simbolicamente il collegamento generazionale tra nonno, padre e figlio,
tutti avvocati e rinserravano i legami della famiglia nel nome della professione. Ma il testamento non si fermava qui.
Consegnava al figlio un’altra eredità immateriale, quella della cameraderie professionale: «Se avrà bisogno di aiuti e di
consigli si rivolga, io lo prego, agli egregi amici e colleghi avvocati Annibale Rossi, Domenico Nardi, Alberto Cugini,
Adolfo
Legnani
ed
Emilio
Rubbi,
ai
quali
rendo
grazie
per
quanto
faranno
per
lui».
Il padre affidava il figlio alla tutela di alcuni amici avvocati, perché lo aiutassero in nome dello spirito di fratellanza e
della solidarietà tra uomini all’interno di una corporazione professionale ancora rigidamente maschile. La vera eredità
non erano tanto le ricchezze lasciate da Ambrosiani, ma la professione forense che continuava ad essere tramandata di
padre in figlio e per linea maschile. L’asimmetria di genere negata sul piano concreto dei beni, era così riaf-
189.
A.
Forti
Messina,
Quando
i
medici
scrivono
di
sé:
i
ricordi
di
Giuseppe
Ruggi
(1844-1925), in Scritture di desiderio e di ricordo. Autobiografie, diari, memorie tra settecento e novecento, a cura di M.L. Betri, D.
Maldini Chiarito, Milano, Franco Angeli, 2002, p. 137-159.
190. ASB, Succ, b. 864.
191. ASB, Succ. b. 314.
192. ASB, Succ, b. 627.
Le professioni e la città.. Bologna 1860-1914 107
fermata simbolicamente sul terreno culturale, ad indicare che nelle società contemporanee il possesso e la trasmissione
del capitale culturale erano importanti quanto i beni materiali, se non di più.
I professionisti bolognesi, come tutti i borghesi dell’epoca, amavano i riconoscimenti. Le onorificenze facevano parte di
quel «sistema della distinzione», che attraverso i titoli simboleggiavano forme laiche di «nobiltà». Nella caccia agli
onori, gli avvocati risultarono i primi. Sui 1539 nominativi che compongono il data-base, abbiamo riscontrato 133
avvocati cavalieri (pari al 23,71%) e 33 commendatori (pari al 5.88%); seguivano gli ingegneri (col 13.45% di cavalieri
e il 3,04% di commendatori); gli ultimi erano i medici, tra i quali i cavalieri erano il l3,l% e i commendatori il 2,32%).
Quanto più era forte l’identificazione tra istituzioni e professione, come per i medici, tanto meno ambito era il
riconoscimento del titolo onorifico; il quale. per converso, era ricercato soprattutto là dove l’identificazione era più
labile e i profili professionali più confusi.
La città dei professionisti
La borghesia colta che visse a Bologna dall’Unità fino allo scoppio della prima guerra mondiale fu profondamente
radicata nella città. Il gruppo composto da professionisti e accademici partecipò attivamente al governo politico locale e
animò la sociabilità cittadina. Aurelio Alaimo ha documentato la crescita dei professionisti e dei professori universitari
all’interno del consiglio comunale, verificatasi soprattutto dai anni primi settanta. Il moderatismo postunitario aveva
privilegiato la rappresentanza della possidenza terriera e infatti i professionisti erano il 25% dei consiglieri nel 1866.
mentre gli universitari si attestavano sul 5,3%. La svolta avvenne con la prima giunta progressista. Da allora in poi la
borghesia colta divenne protagonista della vita politica cittadina. Dal 1872 al 1889. i professionisti rappresentarono il
37,6% del consiglio comunale, mentre i professori universitari salirono al 9,6%193.
Il fenomeno è di portata nazionale e si verificò anche in altre città emiliano-romagnole, ancora legate a un’economia
prevalentemente agricola194. Leggere una simile partecipazione come una rappresentazione degli interessi terrieri. che
restavano più defilati e eleggevano come loro portavoce i professionisti, appare tuttavia riduttivo. E indubbio che una
parte degli avvocati e degli ingegneri fosse legata al mondo degli agrari e ne rappresentasse gli interessi. ma in essa non
si esaurivano tutte le professioili bolognesi e le loro molteplici funzioni. L’aumento della complessità sul piano
economico, sociale. urbanistico portò alla ribalta le professioni liberali le quali acquistarono, grazie alla
193. Alairno, L’organizzazione della città, 13, 15, p. 335-336.
194. S. Magagnoli. Elites e municipi. Dirigenze, culture politiche e governo della città nell’Emilia del primo novecento (Modena,
Reggio Emilia e Parma), Roma, Bulzoni, 1999; Caglioti, Montoni, L’ascesadei ceti dirigenti forlivesi, cit., p. 503 sgg.
108 M. Malatesta
nuova congiuntura, visibilità e affidabilità collettiva non solo in virtù delle loro funzioni tradizionali di mediazione, ma
grazie al possesso della loro conoscenza specializzata.
Nella seconda metà dell’ottocento una parte importante della borghesia colta andò a ingrossare le fila della democrazia
bolognese. In quella fase della storia cittadina, professionista e progressista furono due termini coincidenti. Non è
casuale che la borghesia colta entrasse in comune con la giunta progressista (1868-1872) presieduta dall’avvocato
Camillo Casarini, che segnò il passaggio da una rappresentanza esclusivamente terriera a un governo locale espressione
di nuove borghesie urbane che trovavano il loro punto di raccordo nel mondo delle professioni e dell’università195.
Domenico Mantovani Orsetti, preside di Giurisprudenza e fondatore della Lega bolognese per l’istruzione del popolo,
Giuseppe Ceneri, Oreste Regnoli, Francesco Magri, Ferdinando Berti, Augusto Murri, Giuseppe Golinelli sono i nomi
più noti di quella democrazia locale che ebbe il suo periodo aureo negli anni settanta e ottanta e che riprese fiato negli
anni del popolarismo. Altri, come Pini, Ettore Nadalini, Carpi, facevano invece parte dell’Associazione liberale
bolognese ed erano a stretto contatto con gli agrari.
Alcuni di questi personaggi furono accomunati dalla fede massonica. Ceneri, Murri e Golinelli196 condivisero in
momenti differenti, quella cultura e quell’impegno civile che aveva avuto in Carducci uno dei modelli cittadini. Ma
l’appartenenza massonica non connotava solo la cultura progressista. Erano massoni anche moderati come Enrico Pini,
ai tempi nei quali era un deputato liberale filo-crispino e sostenitore della sua politica africana197. Nel suo testamento
Pini rinnegò la fede massonica, dichiarando di voler morire cattolico.
Gli avvocati bolognesi, in linea con le tendenze nazionali e europee del periodo, furono i professionisti maggiormente
presenti nella vita politica e sociale cittadina. La struttura polivalente della professione forense era alla base di quel
modello notabiliare che anche a Bologna si identificò in buona parte con gli avvocati. Nell’arco di quarantacinque anni,
il 26,9% di costoro fu senatore, deputato, consigliere comunale o provinciale, contro il 18,2% degli ingegneri e il 9,9%
dei medici. La presenza degli avvocati negli organi rappresentativi locali fu particolarmente significativa. In consiglio
comunale ne sedettero 107, contro 61 ingegneri e 39 medici; in consiglio provinciale gli avvocati furono 84, contro 40
ingegneri e 19 medici.
Se le professioni maggiori detennero il primato della rappresentanza politica, non va sottovalutata la presenza nei
consigli cittadini delle professioni minori, quali i ragionieri e i farmacisti, I ragionieri bolognesi parteciparono
attivamente alla vita bolognese in una misura superiore a quanto accadeva in altre
195. Alaimo. L’organizzazione della città,. cit., p. 144.
196. Della Peruta, Profilo di Giuseppe Ceneri, cit., p. 19 F. Conti. Storia De//a massoneria italiana. Dal Risorgimento al fascismo,
Bologna, il Mulino. 2003. p. 7 1, . 170, 236—237.
realtà emiliane. Dal 1860 al 1914 abbiamo identificato 9 ragionieri che sedettero in consiglio comunale, la maggior
parte dei quali vi restò per molti anni. Alcuni di costoro rappresentavano gli istituti in cui operavano, come Vincenzo
Sani, presidente della Banca popolare di credito, o Fioresi e Gaiani, che lavoravano per le Opere pie; infine sedettero in
comune i due presidenti dell’Associazione dei ragionieri, Augusto Bordoni e Enrico Forlai, assieme a Pietro Santi,
Amilcare Bortolotti e Filippo Tugnoli. Anche i farmacisti ebbero una loro rappresentanza in consiglio comunale. Si
tratta di un piccolo, ma illustre drappello, capeggiato da Diomede Vitali, uno dei padri della farmacopea bolognese, che
divenne consigliere nel 1889; segue Lionello Grossi, che stazionò in consiglio comunale, con intervalli, dal 1895 al
1914, e per finire Francesco Zanardi, che vi entrò nel 1904.
Proporzionalmente inferiore fu la partecipazione dei professionisti alle cariche direttive delle istituzioni politiche minori
quali i consigli di sanità, i consigli provinciali, educativi, la presidenza dei circoli politici, i consigli scolastici. Qui gli
avvocati furono presenti in misura del 6,2% contro il 3% degli ingegneri e il 2,3% dei medici. All’incirca della stessa
portata è la presenza nella vita sociale cittadina. La sociabilità dei circoli, delle associazioni culturali e del tempo libero
non fu dominata dai professionisti. Gli avvocati vi erano presenti per il 6.2% e gli ingegneri per 1’ 1,3%. Massiccia è
invece la partecipazione dei medici, che si identifica però con l’iscrizione alla Società medica chirurgica (36,9%) [Tab.
4]. La presenza più significativa, sia dal punto di vista qualitativo che da quello quantitativo. dei professionisti in città si
concentrò in definitiva sul terreno economico e politico.
Quali furono le chiavi usate dai professionisti bolognesi per entrare nel mondo della politica? Abbiamo visto che
l’accesso al mercato formato dagli enti assistenziali, economici e dallo amministrazioni locali, fu condizionato per metà
dalla presenza dei professionisti nella vita politica cittadina. Le cariche politiche rappresentative che essi ricoprirono
furono per converso legate
110 M. Malatesta
per circa il 50% dei casi alla loro presenza negli enti pubblici. Ma l’accesso alla politica non avveniva soltanto grazie
all’appartenenza a quelle reti notabiliari tipiche delle società otto-novecentesche.
A Bologna vi era una rete squisitamente professionale che garantiva come, e anche più della rete degli enti economicoassistenziali, l’aggancio con la politica. Essa era formata dall’università, dagli ordini e dalle associazioni professionali.
Per gli avvocati, l’appartenenza al Consiglio dell’ordine fu il trait- d’union più forte con il mondo della politica. Infatti
il 54.2% dei consiglieri dell’ordine degli avvocati ricoprì nell’arco di quarantacinque anni delle cariche politiche.
L’appartenenza ad un’associazione professionale, in mancanza di un ordine, rivestì un’importanza analoga. Il 40.5%
degli ingegneri che ricoprirono delle cariche direttive nelle loro associazioni, ebbero anche delle cariche politiche. Per i
medici, la coincidenza è ancora più forte, dal momento che il 20,3% di tutti gli iscritti alla Società Medica chirurgica
ricoprì una carica politica.
L’altro canale di accesso alla politica fu l’Università. Alessandro Albertazzi è stato il primo studioso a cogliere questo
aspetto decisivo della vita cittadina bolognese, costituito dalla presenza nel comune di numerosi docenti dell’Alma
mater198. Prima delle elezioni parziali del 1867, che furono la vera cesura tra la Bologna post-risorgimentale e la
«Bologna dei professionisti», i pochi docenti universitari presenti in consiglio comunale appartenevano, ad eccezione di
Giuseppe Ceneri, alla compagine moderata e vi erano entrati grazie al prestigio guadagnato nei decenni pre-unitari e
alle loro opinioni politiche. Dal 1867-68 entrarono, assieme ai professionisti, anche gli accademici, per la maggior parte
democratici.
La giunta Casarini significò in particolar modo l’ingresso nel comune della Facoltà di medicina con Francesco Magni,
Pietro Loreta e Francesco Rizzoli, a cui seguirono negli anni, Giovanni Brugnoli. Augusto Murri, Francesco Roncati, e
altri membri illustri dell’Ateneo e della Società medico-chirurgica. Il Consorzio università-città di Bologna nacque agli
inizi degli anni ottanta e si realizzò compiutamente soprattutto grazie all’operato di due consiglieri medici che furono
anche rettori, Francesco Magni e Augusto Murri. La cattedra universitaria fu per tutte le professioni un canale
privilegiato per accedere alla politica. Il 44,9% degli avvocati e il 41,9% degli ingegneri con incarichi politici erano
anche docenti universitari, mentre solo il 24,6% dei docenti della Facoltà di Medicina furono impegnati in politica. Ma
questa percentuale non deve trarci in inganno. L’incidenza del titolo accademico fu assai superiore. perché i medici
bolognesi furono meno presenti nella vita pubblica rispetto alle altre professioni.
Gli avvocati e gli ingegneri furono quelli che stesero la rete più fitta sulla città e ebbero rapporti con tutti i settori e gli
ambienti della città. Per gli avvocati la coincidenza tra professione, politica e università fu la più forte e la po-
9. A. A Albertazzi, I professori dell’Università di Bologna nella vita pubblica cittadina (1859-1889). in «Strenna storica bolognese».
1987. p. 29-60.
Le professioni e la città.. Bologna 1860-1914
111
litica giocò la parte del leone nella delineazione dell’élite forense. Un ragionamento analogo può essere fatto per gli
ingegneri, esponenti di un nuovo notabilato di tecnici in cerca di legittimità nell’ambito cittadino. Gli avvocati e gli
ingegneri misero a frutto anche i nuovi strumenti a loro disposizione per accedere al mercato politico, ossia
l’associazionismo professionale. Per entrambi, infine, la docenza universitaria ebbe un ruolo decisivo per entrare in
politica. Il nuovo notabilato professionale, che si identificava con gli avvocati e gli ingegneri, fu la risultante della linea
che congiungeva la sfera politica, gli enti pubblici, gli ordini e le associazioni professionali, l’università. La medicina
bolognese rientrò solo in parte in questo modello. I medici restarono più distanti dalla politica e dalla vita cittadina. La
loro presenza nella città si concentrò soprattutto nell’università, negli ospedali, nella Società medica chirurgica, quelle
istituzioni che furono la ragione della loro forte identità professionale.
Un ultimo canale di accesso alla vita pubblica fu di natura simbolica e fu costituito dai titoli nobiliari e dalle
onorificenze. L’82,6% degli avvocati, l’87,7% dei medici e il 59,7% degli ingegneri che erano provvisti di un titolo
nobiliare o onorifico, ebbero delle cariche pubbliche. La città borghese riconobbe così il bisogno di distinzione dei
professionisti e recuperò i segni di antiche aristocrazie e di onori più recenti nella selezione delle moderne élites
professionali.
I professionisti bolognesi dell’età liberale furono radicati profondamente nella città, la governarono, la costruirono, la
modernizzarono. La città assunse il volto delle professioni e sedimentò la loro immagine. Ma la memoria dei
professionisti nella città non seguì la filiera della politica, degli affari, o dell’urbanistica, bensì si legò indissolubilmente
al trionfo ottocentesco della scienza medica e a quell’intreccio virtuoso tra medicina e Risorgimento, che a Bologna fu
particolarmente visibile. L’immaginario professionale che la città di Bologna ha conservato è stato quello dei cinici,
esponenti di un’élite composta da scienziati patrioti, ricchi, famosi e benefattori, nella quale si è concentrata a lungo la
rappresentazione dell’Alma mater. La toponomastica bolognese documenta in modo eloquente la forza di questo
immaginario199. Le vie dedicate agli avvocati dell’epoca sono poche: c’è via Regnoli, via Nadalini, ma non c’è una via
Giuseppe Ceneri, mentre le strade dedicate ai medici sono un condensato della Facoltà di medicina e della Società
medica chirurgica. Le date di attribuzione dei loro nomi sono il segno della tangibile durata di quell’immaginario, che
ha accompagnato la città nella sua crescita urbanistica e i vari regimi politici che si succedettero. Le vie Alessandrini,
Rizzoli e Roncati furono intitolate ai tre cattedratici negli anni settanta e ottanta, dopo la loro morte; e così avvenne
anche per Luigi Carlo Farmi, statista e medico, Il viale Ercolani fu intestato nel 1909 aI medico patriota, morto nel
1883, mentre a
199. Le informazioni sulle vie sono tratte da M. Fanti. Le vie di Bologna. Saggio di toponomastica storia, 2 volI., Bologna. Comune
di Bologna — Istituto per la storia di Bologna. 2000.
1 12
M. Malatesta
Pietro Loreta, anch’esso medico risorgimentista, morto nel 1889, la via fu intestata nel 1915. Anche il fascismo decretò
il suo tributo all’élite medica, intestandole via Calori, via Putti, via Codivilla. Le amministrazioni comuniste del
secondo dopoguerra non furono da meno: il primo tratto della via Toscana fu ribattezzato via Murri nel 1948; via
Magni, via Cesare Taruffi, via Brugnoli, via Dagnini, furono così denominate negli anni cinquanta; via Giuseppe Ruggi
nel 1963.