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Pasquale Polidori
l’altra Fontana
nuovi risultati sull’orinatoio di Duchamp
2015
le cattive strade edizioni
L’altra fontana: nuovi risultati sull’orinatoio di Marcel Duchamp
C’è un punto che voglio definire molto chiaramente: la scelta
di questi readymade non mi fu mai dettata da un qualche diletto estetico. La scelta era fondata su una reazione d’indifferenza visiva, unita a una totale assenza di buono o cattivo
gusto... dunque un’anestesia completa.
Una caratteristica importante: la breve frase che scrivevo sul
readymade.
Questa frase non descriveva l’oggetto come avrebbe potuto
fare un titolo, ma era destinata a condurre la mente dello spettatore verso altre regioni più verbali.
(Marcel Duchamp)
Gli elementi linguistici che caratterizzano l’orinatoio sono due:
1. la firma con la data, ‘R. Mutt 1917’, apposti con vernice nera in basso a sinistra, una
volta sistemato l’oggetto sul piedistallo, così come si conviene la firma dell’artista a
una scultura; in tal modo, qualora l’oggetto fosse fissato al muro e riportato alla sua
funzione ordinaria, diremmo che la firma si trova sulla fascia superiore dell’oggetto
e in senso inverso allo sguardo di chi, usando l’orinatoio, si trovasse leggerla;
2. il titolo ‘Fountain’, con il quale il readymade venne presentato, nell’aprile del 1917,
alla commissione della prima mostra dell’American Society of Independent Artists,
e fu da essa rifiutato.
Sono queste, dunque, le coordinate della regione verbale verso cui Duchamp intende
condurre lo spettatore. E poiché principalmente da esse discende lo statuto dell’opera/operazione artistica — ossia di un banale oggetto industriale, destinato alle
‘funzioni basse’ del corpo, a cui scandalosamente si sovrappone una funzione intellettuale niente meno che artistica — su quelle coordinate si eserciterà ogni futura interpretazione del conturbante capolavoro concettuale.
La prima spiegazione di quella firma è Duchamp stesso a fornirla, molti anni dopo, in
una celebre conversazione con Arturo Schwarz, che si trova citata in tutti gli articoli
riguardanti il caso, alquanto intricato, dell’origine dell’orinatoio/scultura; nella stessa
conversazione, Duchamp afferma che l’orinatoio venne acquistato, su sua richiesta, da
Walter Arensberg e Joseph Stella, e dunque niente affatto SCELTO dall’artista, facendo
così cadere l’ultimo avamposto di autorialità riguardo al pezzo presentato alla commissione:
“Mutt comes from Mott Works, the name of a large sanitary equipment manufacturer. But Mott was too close so I altered it to Mutt, after the daily cartoon
strip ‘Mutt and Jeff’ which appeared at the time, and with which everyone was
familiar. Thus, from the start, there was an interplay of Mutt: a fat little funny
man, and Jeff: a tall thin man ... I wanted any old name, And I added Richard
[French slang for moneybags]. That’s not a bad name for a pissotière. Get it?
The opposite of poverty. But not even that much, just R. MUTT.”
Questa spiegazione è trovata tutt’altro che convincente dagli studiosi di Duchamp, i
quali evidentemente hanno imparato a diffidare delle dichiarazioni di un artista dedito
alle trappole e ai giochi di parole. In particolare, la scultrice e studiosa americana
Rhonda Roland Shearer, impegnata a dimostrare che tutti i readymade di Duchamp
sono in realtà oggetti creati apposta dall’artista, e insospettita dal fatto che l’orinatoio
Fountain sia misteriosamente scomparso dopo il maggio del 1917, ha condotto una ricerca sui cataloghi della Mott Works scoprendo che nessuno degli orinatoi disponibili
all’epoca corrisponde a quello fotografato da Alfred Stieglitz.
“Any 3-dimensional urinals displayed in museums, and said to be by Duchamp
and signed R.Mutt 1917, are only later versions beginning with a 1941 miniature
for his Boîte-en-Valise portable museum display and includes a 1950 Sidney
Janis version (now in the Philadelphia Museum of Art) and a late 1964 series
done with Arturo Schwarz in an edition of at least 14 copies. To further add to
the confusion, Duchamp states that he purchased his original 1917 urinal at a
Mott plumbing store (at a correct New York City address). Yet the shape of
his urinal does not match any models found in Mott catalogues or, in fact, in
any other plumbing catalogues in 1917, or at any time before or since according
to scholars’ investigations of the historical record.”
Tuttavia, che già esistesse o no un orinatoio siffatto, e che sia stato scelto e acquistato
da Walter Arensberg e Joseph Stella invece che da Duchamp, non cambia la sostanza
dell’operazione artistica, visto che in questi termini si comincia a parlare, e non più nei
termini di opera d’arte: dire di Duchamp che sta mentendo; che è un imbroglione; che
le sue sono solo idee e parole e progetti non corrispondenti ALLA realtà; dirgli che sta
spostando il gioco su un piano di finzione, di trappola e puro pensiero; ebbene, tutto
ciò significa fare esattamente il suo gioco.
Contraddirlo, invece, significherà forse cercare delle spiegazioni lì dove egli tende a
banalizzare, a negare ogni possibile motivo sottostante a un’azione?
Riguardo ai readymade, Duchamp ha sempre negato un significato estetico di tipo
formale. Ciò nonostante e fin dall’inizio, nell’orinatoio si è cercato di scorgere la rappresentazione di una Madonna col velo o di un Budda seduto, come fece per prima
Louise Norton nel suo Buddha of the Bathroom, pubblicato dalla rivista d’avanguardia The Blind Man nel numero del 5 maggio 1917, dedicato per l’appunto a respingere
le accuse di oscenità e di cattivo gusto mosse dalla commissione riguardo al readymade.
Nel fondamentale articolo, scritto da questa amica intima di Duchamp, si evidenziano
le straordinarie qualità formali dell’oggetto-orinatoio, così puro e elegantemente industriale, arrivando a rivendicare per esso uno statuto di bellezza funzionale e ingegneristica, unico contributo americano all’estetica. Dall’articolo della Norton risulta chiaro
che, a quei tempi, la giustificazione dell’orinatoio non poteva che basarsi sui dati formali
dell’oggetto (la bellezza delle linee, l’armonia delle curve,…), essendo la forma materiale
l’unica porta disponibile perché un oggetto fosse ammesso nell’insieme delle ‘cose artistiche’. Sappiamo poi che questo principio sarà scardinato proprio grazie al segno
lasciato dall’orinatoio nell’arte a venire.
Per quanto accantonate da Duchamp, queste considerazioni fiorirono sia fra i suoi sostenitori che fra i suoi oppositori; i quali dal canto loro facevano l’opposto, ossia ribaltavano la questione sul piano della im-moralità e del cattivo gusto. In entrambi i casi,
è disatteso il desiderio di Duchamp che il readymade fosse inteso come oggetto di uno
sguardo anestetico e anestetizzato.
E qui, si direbbe di Duchamp: ma ci faceva o ci era? Come pretendere, prima di Duchamp, che un’operazione simile non generasse reazioni di tipo estetico e morale? Era
tutto calcolato..., anche quell’atteggiato stupore per lo scandalo che oggi, dopo Duchamp appunto, non avrebbe più campo sulle riviste d’arte.
Ma, forma dell’oggetto a parte, l’interpretazione del verbo, della firma e del titolo, quella
non dispiaceva per principio a Duchamp. Anzi, lui la desiderava e la instradava; e che
la strada fosse buona o cattiva, questo non era il punto. Il punto, come egli diceva, era
condurre lo spettatore sulle regioni verbali.
Nelle regioni verbali valgono innanzitutto le leggi della finzione e del ribaltamento: la
stessa apposizione di un nome è un atto di ribaltamento, di un piano concreto in un
piano immateriale, fatto di suoni e lettere e significati, i quali hanno una liquidità e una
capacità di fusione del tutto assente agli oggetti concreti.
Nell’affibbiare un nome a uno stupido orinatoio, il gioco è il seguente: Duchamp, il
battista che officia la nominazione, finge una qualche ingenuità e trasparenza nel fornire
una spiegazione ragionevole, per cui l’orinatoio è firmato Richard Mutt per via della
sua origine industriale (Mott Works), per via di un personaggio dei fumetti (Jeff e
Mutt) e per via di un modo di dire della lingua francese (Richard = portamonete)...
But not even that much, just R. MUTT.
In questo modo Duchamp, il giocatore che apre il gioco, fa la prima mossa indicando quali caratteristiche dovranno avere le future e attese spiegazioni dell’enigmatico nome, che non si chiameranno spiegazioni bensì interpretazioni. Esse
dovranno essere interpretazioni che soddisfano due principi, e cioè:
(i) un aggancio di realtà e
(ii) uno scivolamento di senso delle parole.
Chi vorrà giocare all’esegesi del readymade orinatoio, dovrà basarsi su questi due
principi.
Però, non tutte le interpretazioni che sono state date da vari studiosi rispettano entrambi i principi, e spesso si è insistito molto sul gioco di parole e assai poco, anzi per
niente, sull’aggancio di realtà.
Ecco di seguito una breve e succinta rassegna.
a. Secondo Jack Burnham, ‘R. Mutt’ ha una chiara assonanza con il tedesco ‘Armut’
che significa ‘povertà’; in questo Burnham segue la strada indicata da Duchamp
che segnala in ‘Richard’ un gergo francese per ‘ricchezza’.
b. Secondo Ulf Linde, ‘Mutt’ è la parola speculare di ‘Tu m’, cioè ‘tu a me’, che poi sarà
il titolo dell’ultimo dipinto di Duchamp del 1918. Questa intuizione di spostare il
discorso su due pronomi, ‘tu’ e ‘mi’, di cui tuttavia Linde non fornisce ulteriori approfondimenti, è particolarmente utile ai fini della nostra ricerca.
c. Secondo Luca Patella, come si evince dalla sua opera MUT/TUM (uno specchio che
posto accanto alla parola ‘mut’ dà come risultato visivo la parola ‘muttum’), ‘mut’ starebbe per ‘motto’, ‘parola’, dal latino ‘mottum’.
d. Secondo Rudolf Kuenzli, ‘R. Mutt’ è riferito a ‘arte bastarda’, dove ‘r’ sta per il francese ‘art’ (‘arte’) e ‘mutt’ è un gergo americano per ‘cane bastardo’.
e. Secondo Brian Sewell, ‘mutt’ è dovuto al gergo americano per ‘stupido’ e ‘sciocco’.
f. Secondo David Hopkins, autore di un saggio sul maschile e il femminile in Duchamp (Men Before the Mirror: Duchamp, Man Ray and Masculinity. Art History, settembre 1998) ‘R. Mutt’ è da riferirsi a ‘madre’, in tedesco ‘mutter’; l’autore
cita anche gli studi freudiani su Leonardo da Vinci, nei quali il padre della psicoanalisi fa notare che il geroglifico egiziano per ‘madre’ è un avvoltoio, e che la dea
Mut, che ha la testa di un avvoltoio, è spesso raffigurata con un fallo.
Questa ultima interpretazione della firma ‘R. Mutt’, che introduce il tema assai discusso
dell’androginia in Duchamp, della compresenza o dell’assenza correlativa della vagina
e del fallo, in particolare a proposito di Fountain, è una interpretazione dalla lunga storia, e che risale addirittura già all’aprile del 1917, quando il pittore Charles Demuth,
amico di Duchamp, manda una lettera al critico d’arte Henry McBride, sottoponendogli la vicenda del rifiuto di Fountain da parte della commissione della mostra degli
Indipendenti, e chiedendogli di scrivere un articolo sull’argomento. La lettera è citata
da William A. Camfield nel suo saggio sulla genesi dell’orinatoio, Marcel Duchamp’s
Fountain, Its History and Aesthetics in the Context of 1917:
“A piece of scuItor [sic], called: ‘a Fountain’, was entered by one of our friends
for the Independent Exhibition now open at the Grand Central Palace. It was
not exhibited. ‘The Independents’, we are now told have a committee, — or
jury, who can decide, “for the good of the exhibition ....”If you think you could
do anything with this material for your Sunday article we would appreciate it
very much.... P.S. If you wish any more information please phone, Marcel Du-
champ, 4225 Columbus, or, Richard Mutte [sic], 9255 Schuyler.”
Nella lettera di Demuth, ‘Richard Mutt’ è diventato ‘Richard Mutte’, e quella ‘e’ aggiunta alla fine del cognome ha dato l’avvio alle interpretazioni di cui sopra.
Del resto, è Duchamp stesso, in una lettera dell’11 aprile alla sorella Suzanne, che fa riferimento all’identità femminile di chi ha presentato Fountain agli Indipendenti
“Une de mes amies sous un pseudonyme masculin, Richard Mutt, avait envoyé
une pissotière en porcelaine comme sculpture; ce n’était pas du tout indécent
aucune raison pour la refuser.”
William Camfield non capisce come mai Duchamp debba mentire a sua sorella circa
l’identità di R. Mutt, e perché questa identità sia spacciata per femminile. Forse, si
chiede Camfield, è questo l’anticipo del più famoso alter ego femminile di Duchamp,
cioè Rrose Sélavy, che sarebbe arrivato qualche anno più tardi? Ma in questo caso, insiste Camfield, perché mentire a Suzanne? Oppure è effettivamente esistita una donna
che ha fatto da tramite fra Duchamp e il comitato? O infine è Duchamp stesso che si
è appropriato del pezzo-quasi-artistico il cui vero autore è una donna sconosciuta, supposta essere di Philadelphia, come riportato da tutti i giornali a proposito del misterioso R. Mutt?
“How then should we take this statement? As others have observed, it is likely
that Duchamp concealed his identity in order to pose a test for the Independents
that would not be compromised by knowledge that Fountain had been submitted by a director of the organization. But why did he mislead his sister in Paris?
Was the account given to Suzanne merely a “white lie” to conceal his authorship,
or might we have here an early appearance of Duchamp’s female alter ego, Rrose
Selavy, or might he have been telling the truth? Was Fountain actually submitted
by a female friend? And if, indeed, a female friend sent Fountain to the Independents, must that mean that she and not Duchamp was the artist who conceived,
selected and altered the urinal-or might she have acted merely as the shipping
agent whose participation kept Duchamp out of sight? The last possibility seems
most plausible, but this point remains a mystery. Even if Duchamp simply had a
female “shipping agent,” who was she? Did she live in Philadelphia, since newspaper reports consistently identified Mutt as a Philadelphian?”
Morti tutti i testimoni e gli attori del dramma, il mistero sembra ormai non potersi risolvere; e più se ne parla, più si cade nella rete di Duchamp. E più si affida la soluzione
al semplice gioco di parole, allo scivoloso gioco delle parole, e più quella rete s’infittisce
intorno a noi.
In questi casi occorre scegliere la porta, forse banale, della realtà e del buon senso. Occorre cioè tornare ai due principi posti in gioco da Duchamp nella primitiva spiega-
zione, ovvero lo scivolamento del senso e l’aggancio di realtà.
A quale gancio del reale appendere la propria argomentazione?
Io credo che l’appiglio sia Charles Demuth, il pittore precisionista americano, amico
di Duchamp, che compare tra i tanti attori di questa storia intricata, proprio lui che
scrive al critico d’arte femminilizzando in Mutte il nome dell’autore/autrice di Fountain,
lui che aveva studiato a Philadelphia e dal quale presumibilmente scaturisce l’idea che
l’autore del readymade provenisse da quella città.
Marcel e Charles erano amici, e quando nel 1950 il Museo d’Arte Moderna di New
York dedicherà una mostra a Demuth, già scomparso da quindici anni, Marcel scriverà
un’affettuosa e commovente nota in catalogo, una delle rare volte che Duchamp usa la
lingua con una certa trasparenza semantica, senza giochi e allusioni di nessun tipo. Si
capisce che parla di cose vissute e a cui si sente legato. Lo scritto comincia così:
Tributo all’artista.
Lo Hell Hole [Buco d’Inferno] (il Golden Swan [Cigno d’oro] di Greenwich
Village`), il Barone Wilkins (caffè di Harlem), un ballo in maschera a Webster
Hall, i caffè del Brévoort e del Lafayette erano i luoghi prediletti di Demuth
verso il 1915-1916 e mi ci portava.
Aveva uno strano sorriso, testimoniante una curiosità incessante per tutte le
manifestazioni che la vita gli offriva.
Charles, dunque, portava Marcel nei bar del Lafayette. Il Lafayette è un quartiere
dell’East Village popolare e vivace, a quei tempi frequentato dai bohemien e dai marginali, diciamo dagli outsider della città. Il Lafayette era anche il nome di un bagno
turco — Lafayette Baths 403–405 Lafayette Street, fra l’altro gestito dalla famiglia di
George e Ira Gershwin, allora giovanissimi e dal padre messi lì a lavorare — all’epoca
uno dei rari ritrovi per omosessuali in una città puritana come era New York in quegli
anni, non certamente Parigi. Un famoso dipinto di Demuth restituisce l’atmosfera di
quel bagno, con tre uomini in piedi intenti a una conversazione (uno dei tre è Charles)
e sullo sfondo due figurine maschili occupate da giochi di altra natura che quelli discorsivi, uno dei due con la testa curva sul pube dell’altro. Charles era apertamente
gay, e sulla sua figura si incentra un saggio di Kermit Champa che indaga le questioni
della sessualità e dell’omosessualità nell’ambiente delle avanguardie americane (Charlie
Was Like That, Artforum 12, n. 6 Marzo 1974). A Charles Demuth si deve anche una
produzione a matita e ad acquerello di marinai che pisciano in gruppo, con i cazzi quasi
in erezione.
Sarebbe logico supporre che Charles avesse condotto Marcel al Lafayette Baths, dove
Charles rimorchiava non solo i marinai (e magari anche George Gershwin...), e che
Marcel facesse lo stesso, sia nella sauna che agli orinatoi.
Sarebbe logico pensare che l’orinatoio, tutt’altro che un pezzo banale fatto oggetto di
una scelta dettata dall’indifferenza, fosse in realtà un oggetto di fissazione, e la scultura
Fountain sia perciò il readymade di un feticcio.
Per altro, questa supposizione, in perfetto stile dadaista, consiste nel rimandare alla
realtà tutto quel che fino ad ora è stato puro linguaggio e manovra di simboli.
Ipotizzare che l’orinatoio sia un ventre materno, una forma femminile posta di fronte
a una forma maschile in assenza? E perché non pensare invece che l’orinatoio è semplicemente un orinatoio, sbarazzato di tutta la simbologia, e che l’assenza del pene sia
solo momentanea e dovuta al rovesciamento dell’orinatoio sul piedistallo, al fatto cioè
che esso sia stato trattato come un oggetto d’arte e non, come doveva essere, piazzato
al muro del Lafayette Bath, con Marcel e Charles di fronte ad esso a riflettersi nella
fredda porcellana?
Se il gancio del reale funziona, ancor più funziona il gancio linguistico, tanto che sembra davvero strano che l’ipotesi non sia stata pronunciata.
Il nome stesso del readymade, ‘Mutt’s Fountain’ (la fontana di Mutt), ha un’assonanza
evidente con l’altra frase, ‘Demuth’s fountain’ (la fontana di Demuth), soprattutto se si
pensa alla traduzione francese:
Mutt’s Fountain ÷ la fontaine de Mutt ÷ la fontaine Demuth ÷ Demuth’s fountain
Là dove la fontana è ovviamente il pene di Charles Demuth, o Demuth stesso.
Fountain nient’altro sarebbe che un pegno d’amore di Marcel a Charles. O di Charles
a Marcel. In ricordo di un pomeriggio passato insieme al Lafayette Baths.
Nota sul nome.
Il nome non appartiene all’oggetto, bensì a chi sta di fronte all’oggetto. Fountain non designa l’oggetto-orinatoio, ma ciò che nell’oggetto si riflette, l’impronta/immagine depositata sull’oggetto. Fountain è il pene di Charles
Demuth riflesso nell’orinatoio. In tal modo, la realtà concreta dell’orinatoio ha
assorbito il linguaggio, ha assunto il nome, ma solo perché il linguaggio ha
scelto l’oggetto a suo specchio. Nel massimo ribaltamento di Duchamp, non
è la lingua che riflette il mondo: è il contrario.
L’oggetto sta in attesa del linguaggio e il readymade è l’oggetto a cui manca il
nome. Per questo battesimo dell’oggetto si costruisce un rito: il cartellino, il
piedistallo, la partecipazione a una mostra. In Fountain, la reale alterazione sta
nel nome; la radicale trasformazione in altro che fa sì che il nome non sia proprio
dell’oggetto ma del soggetto che gli si rivolge, ossia, ancora, Demuth.
In fondo a chi appartiene il nome? Il verbo riflessivo ‘chiamarsi’ è ingannevole.
Come ingannevole è l’inglese ‘its name is’. Entrambe le locuzioni presuppongono l’appartenenza del nome all’oggetto designato dal nome. Più onesta e trasparente è la forma passiva: ‘così è chiamato’. Perciò si dovrà dire che l’orinatoio
È CHIAMATO ‘fontana’ da Duchamp, sottolineando così l’atto di nominazione
come unico atto artistico.
L’artista Duchamp: il battista dell’orinatoio su cui si riflesse la ‘fontana’ di Demuth.
Bibliografia essenziale
William A. Camfield, Marcel Duchamp: Fountain, Houston 1989
Kermit Champa, Charlie Was Like That, Artforum 12 n. 6 Marzo 1974
Marcel Duchamp, Scritti, Milano 2005
Louise Norton, Buddha of the Bathroom, in The Blind Man n. 2 del 5 maggio 1917
Rhonda Roland Shearer, Marcel Duchamp: A readymade case for collecting objects of our cultural heritage
along with works of art; tout-fait.com, dicembre 2000
Arturo Schwarz, The Complete Works of Marcel Duchamp, New York 1979
theory | théorie | teoria
marcel duchamp did not make the sculpture, he simply chose the object.
marcel duchamp n’a pas fait la sculpture, il a seulement choisi l’objet
marcel duchamp non ha fatto la scultura, ha solamente scelto l’oggetto
marcel duchamp simply chose mutt’s fountain
marcel duchamp a seulement choisi la fontaine de mutt
marcel duchamp ha solamente scelto la fontana di mutt
marcel duchamp simply chose demuth’s fountain
marcel duchamp a seulement choisi la fontaine de demuth
marcel duchamp ha solamente scelto la fontana di demuth
marcel duchamp simply picked demuth’s fountain
marcel duchamp a seulement pris la fontaine de demuth
marcel duchamp ha solamente preso la fontana di demuth
marcel duchamp simply picked up demuth’s fountain
marcel duchamp a seulement enlevé la fontaine de demuth
marcel duchamp ha solamente alzato la fontana di demuth
marcel duchamp simply picked up demuth
marcel duchamp a seulement dragué demuth
marcel duchamp ha solamente rimorchiato demuth
ma che cos’è?
(è la stessa cosa)
è un orinatoio
è un pisciatoio
è la stessa cosa
è della fabbrica di sanitari mott
è di richard mutt
è di jeff mutt
è di un’amica di duchamp
è di un amico di demuth
è di duchamp
è di demuth
è di nessuno
è la stessa cosa
è un prodotto industriale
è un’opera d’arte
è un sanitario
è un capolavoro
è la stessa cosa
è un insieme di linee
è una forma
è un profilo
è un disegno
è un’ombra
è la stessa cosa
è una parte di materia
è una parte di discorso
è un peso nella testa
è un pugno nello stomaco
è la stessa cosa
è un oggetto
è un concetto
è la stessa cosa
è un oggetto mentale
è un oggetto estetico
è un oggetto ordinario
è un oggetto d’uso
è un oggetto mai visto
è la stessa cosa
è un’offerta
è un pensiero
è una merce
è la stessa cosa
è un pezzo da museo
è un pezzo da latrina
è la stessa cosa
è una parete liscia
è una superficie
è una superficie scivolosa
è una superficie curva
è una trappola
è un’apertura
è una gola
è una bocca
è un buco nero
è la stessa cosa
è la riva del mare
è la riva di un fiume
è la stessa cosa
è un territorio
è un terreno
è un terreno d’analisi
è un terreno fertile
è un letamaio
è una sabbia mobile
è un deserto
è un universo
è la stessa cosa
è utile
è inutile
è la stessa cosa
è pesante
è umido
è freddo
è duro
è fragile
è la stessa cosa
è concavo
è convesso
è la stessa cosa
è bello
è carino
è funzionale
è scandaloso
è volgare
è indecente
è offensivo
è raffinato
è potente
è dirompente
è geniale
è rivoluzionario
è storico
è classico
è scontato
è la stessa cosa
è anonimo
è firmato
è marchiato
è la stessa cosa
è dimostrato
è ricercato
è fissato
è guardato
è difeso
è accusato
è accennato
è approfondito
è la stessa cosa
è impensabile
è indicibile
è ripetibile
è irripetibile
è la stessa cosa
è unico
è seriale
è la stessa cosa
è un simbolo di ricchezza
è il contrario della povertà
è l’essenza della povertà
è l’emblema del precipizio
è la sintesi dell’altezza
è la goccia del pensiero
è la stessa cosa
è stato progettato
è stato ideato
è stato creato
è stato fabbricato
è stato acquistato
è stato alterato
è stato firmato
è stato nominato
è stato rovesciato
è stato sistemato
è stato presentato
è stato rifiutato
è stato rimosso
è stato descritto
è stato raccontato
è stato perso
è stato rotto
è stato rubato
è stato ritrovato
è stato inquadrato
è stato fotografato
è stato immortalato
è stato esposto
è stato acquisito
è stato immaginato
è stato paragonato
è stato replicato
è stato amato
è stato odiato
è stato discusso
è stato pubblicizzato
è la stessa cosa
è un punto di vista
è un punto di osservazione
è la stessa cosa
è uno scherzo
è una bravata
è la stessa cosa
è tragico
è comico
è buffo
è statico
è la stessa cosa
è l’origine
è lo scarico
è una vasca di raccolta
è la stessa cosa
è una fontana
è una madonna
è un budda seduto
è una madre
è un cane bastardo
è un poveraccio
è un cretino
è la stessa cosa
è l’arte
è la fine dell’arte
è il futuro dell’arte
è il riflesso dell’arte
è la stessa cosa
è un ventre
è una vagina
è un pene in assenza
è un pene di fronte
è l’idea di un pene
è l’idea di un cazzo
è la stessa cosa
è un cazzo che piscia
è una fica che piscia
è la stessa cosa
è l’attesa di qualcosa
è il ritorno di qualcosa
è la stessa cosa
è un nome qualunque
è un nome speciale
è un nome proprio
è il nome di un altro
è uno scambio di nomi
è la stessa cosa
è una descrizione
è un riassunto
è un assunto
è un giudizio
è un principio
è una frase
è la stessa cosa
è una frase compiuta
è una frase finita
è la stessa cosa
è un significato
è un motivo
è un bisogno
è una necessità
è la stessa cosa
è un fine da raggiungere
è una meta provvisoria
è un punto di non ritorno
è un punto delicato
è un punto di domanda
è un punto
è un punto
è un punto
è la stessa cosa
Une lettre de Colette à Jean Cocteau
Una lettera di Colette a Jean Cocteau
St Tropez, le 7 novembre 1925
Mon cher et tendre Jean,
C’est seulement maintenant que je trouve le temps de t’écrire après des journées passées
à vagabonder avec Maurice de par les routes et campagnes de ce lieu enchanteur dont
la lumière parfumée et végétale a emberlificoté mon cœur. Le désordre familier des potagers en bord de mer, l’ombre humide et âpre des vignes, la blancheur aveuglante d’un
muret qui tranche sur le vert foncé des plantes grimpantes, les bateaux ancrés à deux
pas du seuil des maisons… tout, tout me captive et m’enivre. Et cela alors que je me retrouve amoureuse comme une gamine, avec un sentiment profond et envoûtant. Et c’est
pour ce nouvel amour que j’ai un besoin absolu de paysage tout frais, d’une demeure ne
me rappelant rien, et pouvoir prendre l’automne pour le printemps. Tu comprends que
Paris pour l’instant ne me manque pas. Mais nos discours me manquent, je souffre parce
que je te sais perdu dans ton deuil qui semble ne jamais finir et je voudrais être auprès
de toi, te faire sentir mon amitié.
Léo m’a tout raconté de la manière dont les choses se sont passées avec Breton et
de ce qu’il est en train de dire de toi en profitant de ton désarroi. Ne t’en fais pas,
Jean, mon tendre ami : Breton est un infâme gribouilleur. Il a le cerveau vulgaire et
fallacieux des maîtresses de bordel qui savent comment sucer le sang de la beauté
des autres et toi, jean, tu dois seulement te satisfaire de ne pas être une des victimes
qu’il exploite dans ses écrits dérobés aux autres. Il n’est pas digne de ton art et tu
ne sais pas la peine que j’éprouve à l’idée que Paris offre sa scène à ce trafiquant
d’idées d’autrui. Tu verras, c’est lui qui fera l’enterrement des avant-gardes : Breton
le fossoyeur. Et certains artistes ne l’auront pas volé, cet enterrement, car de personnages tels que Breton il faut prendre les distances avant qu’il ne soit trop tard.
Comme a fait Duchamp, à qui va tout au moins le mérite d’avoir compris à temps
ce qu’il y avait dans l’air et est parti à New York. Mais a-t-il vraiment cessé de faire
l’artiste ? Quel drôle de personnage ce Duchamp ! La preuve que l’infaillibilité d’une
froide intelligence peut détruire l’art quand elle n’est pas tempérée par les erreurs
de la vie et qu’on a peur du monde. Mais peut-être qu’après, une fois l’art détruit,
ces esprits avares de matière se remettront à vivre et alors, tant mieux, ça voudra
dire que cela valait la peine de se débarrasser de l’art. Mais on m’a dit qu’il est rentré
d’Amérique et traîne dans Paris.
Savais-tu que Darius l’a rencontré ? Tu n’imagineras jamais où : rien moins que
dans les latrines de la gare d’Austerlitz ! Le bon Darius s’y était rendu à la recherche
d’une nouvelle flamme, un jeune connu récemment, élève de Nozal, qui se croit
Monet ressuscité et va dans les gares faire l’impressionniste avec couleurs et chevalet. Et en attendant il drague. Le pauvre Darius a perdu la tête, il lui a même donné
de l’argent en cachette, mais le gars refuse de lui dire où il habite, fait faux bond aux
St Tropez, 7 novembre 1925
Mio caro dolce Jean,
solo adesso trovo il tempo di scriverti dopo giorni passati con Maurice a vagabondare per strade e campagne di questo luogo incantevole, nella cui luce profumata
e vegetale il mio cuore è rimasto impigliato. Il domestico disordine degli orti in riva
al mare, l’ombra umida e aspra delle vigne, il biancore abbacinante di un muretto
che taglia il verde scuro dei rampicanti, le barche ormeggiate a due passi dagli usci
delle case... tutto, tutto mi cattura e mi inebria. E questo avviene mentre torno a
innamorarmi come una ragazzina, di un sentimento forte e trascinante. Ed è per
questo nuovo primo amore che ho l’assoluto bisogno di un paesaggio tutto fresco,
una dimora che nulla mi ricordi, sì che io possa scambiare l’autunno per una primavera. Capisci che per ora Parigi non mi manca. Mi mancano però i nostri discorsi,
soffro perché ti so perduto nel tuo lutto che sembra non finire e vorrei starti vicina,
farti sentire tutta la mia amicizia.
Leo mi ha raccontato tutto di come sono andate le cose con Breton e di quello che
va dicendo di te approfittando del tuo smarrimento. Non prendertela Jean, mio
dolce amico: Breton è un infame scribacchino. Ha il cervello, volgare e capzioso,
delle tenutarie dei bordelli, che sanno come si succhia il sangue alla bellezza degli
altri, e tu, Jean, tu devi solo dirti soddisfatto di non essere una delle vittime che egli
sfrutta su quei fogli non suoi. Egli non è degno della tua arte e non sai la pena che
provo all’idea che Parigi offra il suo palcoscenico a questo spacciatore di idee altrui.
Vedrai che farà lui il funerale alle avanguardie: Breton, il becchino. E se lo saranno
meritato, certi artisti, il funerale, poiché da personaggi come Breton occorre prendere le distanze prima che sia troppo tardi.
Come ha fatto Duchamp, a cui va se non altro il merito di aver capito in tempo
l’aria che tira e se n’è andato a New York. Ma è vero che ha smesso di fare l’artista? Che strana persona, quel Duchamp! La prova che l’infallibilità di una fredda
intelligenza può distruggere l’arte, quando non è temperata dagli errori della
vita e si ha paura del mondo. Ma forse poi, distrutta l’arte, questi spiriti avari di
materia torneranno alla vita, e allora tanto meglio, vorrà dire che ne è valsa la
pena sbarazzarsi dell’arte. Mi hanno detto però che è tornato dall’America e gira
per Parigi.
Sai che Darius l’ha incontrato? Non immagini dove: nientemeno che nei cessi della
gare d’Austerlitz! Il buon Darius ci si era recato alla ricerca di una sua nuova
fiamma, un giovane conosciuto di recente, un allievo di Nozal che si crede Monet
resuscitato e va in stazione con colori e cavalletto a far l’impressionista. E intanto
rimorchia. Il povero Darius ha perso la testa, gli ha dato anche dei soldi di nascosto,
ma quello si rifiuta di dirgli dove abita, e si sottrae agli appuntamenti, e scompare
rendez-vous, disparaît pendant des jours, bref, les trucs habituels de Darius. Tant
et si bien qu’un jour Darius va le chercher à la gare et le trouve, son petit amoureux
peintre, qui avait posé sa toile encore fraîche d’huile contre la porte entr’ouverte
d’une latrine et se trouvait dans l’ombre, les pantalons baissés et sa belle ‘‘matière’’
dehors, tandis qu’agenouillé, Duchamp lui donnait la bouche et n’arrêtait pas de
sucer. Mais la vie n’est-elle pas absurde ? Qu’après avoir dit tant de mal des peintres
et de la térébenthine, on finisse par sucer la queue d’un postimpressionniste !
Jean, crois-moi, le monde vaut beaucoup mieux que les paradis artificiels. E toi,
mon ami, soigne-toi, et quand tu seras désintoxiqué, viens avec moi, ici dans le
Midi, m’aider à remettre le jardin en état.
Ta Colette
per giorni e insomma le solite cose di Darius. Sicché un giorno Darius lo cerca alla
stazione e lo trova, il suo amoretto pittore, che aveva appoggiato la tela ancora fresca d’olio sulla porta di un cesso semiaperta, e con le braghe calate stava nell’ombra,
con la sua bella ‘materia’ di fuori, mentre Duchamp inginocchiato gli dava la bocca
e non se la smetteva proprio di succhiare.
Ma non è assurda la vita? Che dopo tanto parlar male dei pittori e della trementina,
uno finisce a pompare l’uccello di un postimpressionista!
Jean, credimi, il mondo è assai meglio dei paradisi artificiali. E tu curati, amico mio,
e quando ti sarai disintossicato verrai con me, qui nel Midì, ad aiutarmi a rimettere
in sesto il giardino.
La tua Colette.
Illustrazioni
ALFRED STIEGLITZ, Marcel Duchamp, Fontana, porcellana,1917
CHARLES DEMUTH, Autoritratto, olio su tela, 1907
CHARLES DEMUTH, Bagno turco con autoritratto, acquerello, 1918
CHARLES DEMUTH, Due marinai che pisciano, matita su carta, 1930
MAN RAY, Marcel Duchamp nei panni di Rrose Sélavy, 1921
Pasquale Polidori
L’altra Fontana
Nuovi risultati sull’orinatoio di Duchamp
Ringraziamenti:
Madeleine Carbonnier
Francesco Proia
Irene Ranzato
Michael Senno
la performance
l’altra fontana
nuovi risultati sull’orinatoio di duchamp
con giada benesperi e pasquale polidori
si è svolta a roma il 18 giugno 2015 al teatro tor di nona
all’interno della serata
naked lights
performance dal palco e autocombustioni
a cura di gianni piacentini e ludovica palmieri
Pasquale Polidori, 2014
proposta di una targa per la sala di Duchamp alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma
Duchamp
a New York ci stava bene
poiché diversamente che a Parigi
lì nessuno sapeva chi fosse
e quando la sera andava a battere al molo
i marinai
non lo chiamavano ‘il pittore’
né lo annoiavano con discorsi sull’arte
bensì era noto come ‘la francese’
e gli parlavano d’amore
venendogli
in bocca
2015
le cattive strade edizioni
Via Faà di Bruno, 67 Roma 00195