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PRIGIONIERO DEI SOGNI. di Ramona Corrado Io vivo nei miei sogni. Anche gli altri vivono nei sogni, ma non nei loro, ecco la differenza. (Herman Hesse - Il coraggio di ogni giorno) 2 Il 15 giugno 1973 Emilio Lanza compiva ventitré anni e quel giorno gli si presentò un mare di nuove opportunità. Era libero, poteva cominciare a muovere i primi passi di un'agognata indipendenza. Il 15 giugno 1973 Emilio si apprestò a prendere possesso di quella che avrebbe chiamato casa da lì in avanti: una semplice camera in affitto a S., presso una famiglia che solo in tal modo, dato il periodo di magra, sarebbe riuscita ad arrotondare i modesti introiti. Gli Scopetti vivevano in un imponente palazzo d’epoca che richiedeva spese importanti; un’eredità preziosa e scomoda insieme. Il clima era di ristrettezze, costava anche vivere, figurarsi mantenere una simile sanguisuga. Da ciò il bisogno impellente di condividere le numerose stanze e le altrettanto grasse uscite con estranei in prestito. La facciata del palazzo situato nell'antico centro di S. in piazzetta Garibaldi incuteva soggezione, e ancora di più il suo portone. Quando Emilio vi fu di fronte mancava poco al tramonto, il sole era fermamente deciso a tuffarsi nel mare a gran carriera e la sera faceva del suo meglio per dipingere una cartolina perfetta. Sembrava la scena di un film da Oscar. A fare da colonna sonora i gridi delle rondini, quasi indistinguibili da quelli dei bambini che giocavano nella piazza: cinque o sei maschietti che tiravano calci ad un pallone e tre bambine che saltellavano sulla campana disegnata col gesso sull’asfalto. A guardar bene però non si trattava di un film, non c'era un regista a dirigere con un ciack gli attori, i quali peraltro erano persone comuni chiamate a recitare scene di vita dannatamente reale. Proprio come Emilio, che in quel momento navigava a vista, senza una rotta definita e senza qualcuno al timone a indicare una direzione. Era solo, e gli tremavano le gambe. La maestosità del portone lo intimoriva, una barriera invalicabile che separava l'avvilente conosciuto dall'ignoto possibilista. Esitava, non osava entrare, eppure lo desiderava fino allo spasimo; era da lì, da dentro quelle mura prestigiose che doveva ripartire la sua vita, era lì che sarebbe avvenuto il cambiamento. Quando si decise a fare un timido tentativo trovò aperto: lo prese per un incoraggiamento. Era stato il padre a trovare quella sistemazione. Il gesto avrebbe dovuto rappresentare la prova del suo sincero interesse per l'erede, ma Emilio non si faceva fregare dalle apparenze: un padre come il suo era egoista, interessato per costituzione genetica e impedito da qualche devianza emotiva nell'affetto verso il figlio. Garantito al pistacchio. La famiglia Scopetti, padre, madre e due figli, non aveva avuto niente in contrario ad accogliere il giovane nella propria abitazione. Con tutto quello spazio a disposizione nel palazzo di famiglia 3 non ci sarebbero stati problemi nel far posto a un ospite che apportava una non disprezzabile entrata extra. Certo le precauzioni le avevano prese, i tempi erano all'insegna del pericolo. Con quel che si sentiva dire alla TV essere prudenti era legittimo. Pochissimi anni prima, nel 1969, c’era stata la strage di Piazza Fontana, e che diamine, da allora vivere non era stato più lo stesso. Era stato come risvegliarsi da un felice, grasso e pigro letargo per ritrovarsi di colpo alle prese con bombe e attentati, sequestri e omicidi. Solo un mese prima, a Milano, una bomba era esplosa davanti alla Questura facendo morti e feriti. Non ci si capiva più nulla. In compenso cresceva la paura e la diffidenza e si guardava con apprensione soprattutto ai giovani. Emilio, almeno a naso, non destava preoccupazione. I signori Scopetti avevano reperito accurate informazioni sulla famiglia di provenienza, con discrezione e senza difficoltà. S., città di mare di circa 30.000 anime, era provinciale e pettegola come un paesetto di campagna, gli affari personali non rimanevano segreti a lungo. Negli armadi di casa Lanza non dimoravano scheletri. Il papà Leonardo era impiegato di alto livello in banca, a garanzia di un certo benessere economico e di onestà. E il parroco in persona aveva garantito per Emilio. «È un bravo ragazzo» aveva detto di lui don Mario. «Ha poco più di vent’anni e un bell’aspetto, che non è certo un peccato, anzi è un marchio di fabbrica celeste, perchè tutte le cose belle vengono da Dio. Poi è di indole mite ed è stato educato in istituti religiosi. Non è un ribelle come i ragazzi di oggi. Vuole un po’ d’indipendenza, si capisce, ma è normale, anche noi alla sua età... Lavoro? No, ancora non lavora, e no, non studia, ma presto troverà un’occupazione, ci sono dei contatti». Quest’ultima affermazione, più delle altre, aveva suscitato un sospiro di sollievo negli Scopetti. Un giovanotto nullafacente era un potenziale anarchico, poteva facilmente finire in mezzo agli schieramenti estremisti tanto rossi che neri e diventare un pericolo. Essendo il giovanotto in questione cresciuto in ambito pio c'era invece da sperare bene. A dirla tutta don Mario, barcamenandosi da equilibrista sul filo spinato delle verità, aveva esposto un ritratto del soggetto rassicurante ma non del tutto veritiero, senza tuttavia venire meno ai doveri della propria divisa, cioè senza mentire. Non troppo, almeno. Emilio era stato effettivamente in collegio, ma aveva cambiato diversi istituti a causa di un carattere, come dire, controverso: da un lato timido all’estremo, dall’altro precoce e vivace. Né il don aveva ritenuto opportuno rivelare le scenate quotidiane che avvenivano in casa Lanza. Non era argomento che doveva interessare gli estranei. La causa era sempre Emilio, dicevano i suoi; Emilio dal canto suo ribadiva indefesso il proprio status di incompreso e il buon prete era d’accordo ora con gli uni ora con l'altro. Quanto ai contatti di lavoro millantati, nulla escludeva che ci sarebbero stati, in futuro, per il momento non ce n’era in giro neanche il sentore. Riuscì a essere sincero e convincente, tanto che alla fine i signori Scopetti furono soddisfatti delle referenze, don Mario era 4 soddisfatto per aver compiuto un’opera buona, il signor Lanza era soddisfatto perché si sgravava di un peso, e il ragazzo era soddisfatto per la libertà acquisita. Ci vuole così poco a soddisfare le pretese della gente. Basta una mezza verità. E così Emilio si ritrovò adulto. Una sensazione nuova, che lo inorgogliva e impauriva. Era entrato. Fermo davanti alle scale che dall’androne lo avrebbero portato al secondo piano avvertì un furioso batticuore e un vuoto allo stomaco. Le mani non si decidevano a starsene immote, erano preda di un tremore incontrollato, come quelle di chi si trova sotto shock per un evento pauroso, o di chi fa i conti in cronico con l'alcool. Era un luogo del tutto sconosciuto quello, che non aveva nemmeno voluto visitare in anteprima, cogliendo al volo la prima occasione che si era presentata. Gli era bastato andarsene da casa, qualsiasi posto sarebbe stato meglio dell’inferno che gli regalava la famiglia. Rimase per un po' a guardarsi attorno, lì nell’ingresso, pervaso da un incrollabile timore reverenziale. Una fetta di tempo che durò più di qualche minuto. Emilio, che non possedeva orologi, si dimenticò del tempo presente, ma nel passato fece un tuffo con salto mortale all'indietro nel momento in cui, a bocca aperta, restò in religiosa contemplazione dell'ambiente come un bimbo davanti al giocattolo dei suoi sogni. Il palazzo si ergeva su due piani. Il giovane non s’intendeva molto di architettura, ma gli era evidente che si trattasse di una costruzione antica, forse sei o settecentesca. Ristrutturata in parte, anche se i lavori parevano già datati, adeguata in qualche modo alla vita moderna, ma con la patina dei secoli dignitosamente addosso e l’aria di languido abbandono tipico di una vecchia diva. Proprio per rispetto alla sua età era inevitabile provare un filo di soggezione. La scalinata in marmo forse aveva visto la discesa di belle signore in crinolina o le arrampicate di intrepidi cavalieri, e girotondi di valzer, appuntamenti galanti e segreti… Forse ci aveva abitato un principe, o un nobile. Ora però le mura erano spoglie e fredde. Se mai avevano contenuto quadri, al momento si ergevano nude e, quasi vergognose del proprio aspetto, regalavano soltanto rispettabili brividi di sgomento. Il lampadario invece era bello e prezioso, realizzato con mille gocce scintillanti, adatto più ad una sala da ballo che ad un ingresso. Dopo l'emozione del primo impatto con la solennità del palazzo e delle sue viscere venne l’ora di riscuotersi. Basta con le fantasie, si disse infatti Emilio, era inutile perdere altro tempo. Gli parve di avere tutto sotto controllo, doveva decidersi ad affrontare questa benedetta, sospirata vita nuova. Salì al secondo piano: al primo non aveva visto nomi sulla porta. In effetti, come gli fu confermato più tardi, non vi abitava ancora nessuno. Doveva prima essere restaurato e prima ancora era da reperire i fondi necessari. Solo in seguito se ne sarebbe deciso il destino. 5 Suonò al campanello di una porta di legno chiaro, uguale a quella del piano sottostante, più innocua del grande portone in legno e ferro che lo aveva accolto da basso. Sulla targhetta era scritto Scopetti. I padroni di casa. Ad aprire fu il capofamiglia in persona. Amilcare Scopetti, militare di Marina in congedo dallo sguardo truce, non si era ancora abituato alla pensione e tutto il suo aspetto denunciava la persona abituata a comandare, con un viscerale e perverso rispetto per leggi e regolamenti. Emilio, d’istinto, cercò di farsi più piccolo di quello che era e parve riuscirci. Lo Scopetti dalla soglia lanciò uno sguardo accigliato a destra e sinistra senza notare nessuno fino a che non scovò, in un cantuccio del pianerottolo, l’essere alieno che osava disturbare. Quello che vide non gli piacque. Cos’era quello? Lineamenti delicati, fini, colorito quasi grigiastro, occhi neri, ciglia lunghissime. Un ragazzo fin troppo normale, altro che alieno, un sovversivo come tanti. Un viso passabile, anzi bello, troppo bello, che a suo parere avrebbe procurato guai a lui e alle femmine della sua specie. Portava i capelli, neri anch’essi, lunghi sul collo e spettinati. Anche le basette erano leggermente fuori misura, come dettava la moda: chiunque non fosse un militare ormai le portava così. E poi quei pantaloni beige, con le gambe scampanate in fondo, poggiati a fatica sui fianchi magrissimi. E la camicia a quadri bianchi e rossi, così in disordine, fuori dai suddetti pantaloni. L'insieme parlava anche troppo bene di un giovane scapestrato. Troppo moderno, ecco. In un solo colpo d’occhio l’ex milite aveva soppesato, giudicato e condannato l’alieno; si apprestò a respingerlo senza troppi complimenti al mittente, qualunque esso fosse, quando si accorse della valigia di cartone lì accanto, tenuta visibilmente insieme da un filo di speranza. Sembrava voler passare inosservata con dignitosa nonchalance, eppure la sua sola presenza era più che eloquente e nel buio del pianerottolo divenne più espressiva di un mimo sotto le luci dei riflettori di un palcoscenico. L’alieno, che aveva l’aria di un timido cucciolo terribilmente giovane e inesperto della vita a quanto pareva doveva stabilirsi lì; senza dubbio si trattava del nuovo affittuario, come tale pagava e quindi non poteva essere fucilato, né arrestato, né si poteva mandarlo via a calci. Emilio percepì chiaramente, in una sorta di sgradevole telepatia, tutti i pensieri dello Scopetti in quei pochi secondi che precedettero il suo poco cortese: «Desidera?». Il sopracciglio destro dell'ex militare, sorprendentemente nero e in contrasto con la corta peluria argentata del cranio, rimase alzato in un grottesco punto di domanda. Facendosi coraggio Emilio si presentò. «Emilio Lanza, piacere. Ho preso una stanza in affitto». 6 Lui strinse la mano che gli veniva porta quasi spezzandola e fece entrare il nuovo inquilino senza dire una parola. Era fatta, si disse il ragazzo; se non aveva sconfitto il nemico per lo meno ne aveva espugnato la fortezza. Era penetrato nella sua tana, nel suo castello, nel suo rifugio: era a casa. Il primo maresciallo Scopetti, nonostante le apparenze, fu abbastanza gentile. O almeno non molto aggressivo, con particolare sollievo di Emilio, la cui timidezza gli giocava spesso degli strani tiri. Era già successo che, se qualcuno alzava la voce, lui se la squagliasse. In senso metaforico, beninteso. Si eclissava, svaniva, calava un sipario mentale e si rifugiava in qualche parte della coscienza dove non arrivava la furia della gente. A volte prendeva a dondolare, come fanno certi malati di mente, chiudeva gli occhi e non c'era più per nessuno. Una sorta di autodifesa: non sopportava la violenza. Lo Scopetti ad ogni modo non aveva interesse a spaventarlo. Rapidamente, col tono secco del graduato che non ripete mai un ordine o una consegna, gli fece fare un giro turistico per l’appartamento, lasciando il giovane più confuso e disorientato di prima. Quello infatti non era un appartamento, ma un labirinto enorme e intricato. Dall’ingresso si diramavano due corridoi. Quello a destra portava agli alloggi dei residenti, cioè dei padroni di casa, che vi vivevano in modo quasi indipendente dalla zona a sinistra. Su quello a sinistra erano disposte le tre stanze messe in affitto. Un appartamento dentro un altro appartamento. Una delle camere era chiusa, però disponibile anche subito. La seconda era occupata da un’anziana signorina che lavorava come bidella. L’altra, proprio di fronte a quella della bidella, era stata destinata a lui. La più bella del mondo, pensò commosso. In realtà, si rese conto una volta svanito il primo entusiasmo, l’arredamento non sembrava esattamente adatto a duchi o principi. In meno di venti metri quadrati, tali erano i confini del suo nuovo spazio personale, trovavano posto un lettino in ferro con accanto lo striminzito comodino, un armadio, un tavolo poggiato ad una parete appena sotto l’unica finestra e due sedie impagliate. Il tutto con l’aria del materiale recuperato da parenti e amici che non sapessero come disfarsene. I pezzi non si accompagnavano, a parte le due sedie che erano uguali, ma di stile e colore diverso dal tavolo, e più che antichi sembravano solo vecchi e mal tenuti. Però nella stanza c’era un buon odore di pulito e una grossa margherita viola in un vasetto di vetro sul tavolo ingentiliva e rendeva meno tetra l'atmosfera. Perfino una tenda alla finestra, che pure sembrava fuori posto, si sforzava di dare un’illusione di abitabilità. E dalla finestra si vedeva il porto, il mare. Non si poteva chiedere di più. Per essere la sua prima casa Emilio la trovò mica male. Scopetti lo piantò in asso, ritenendo di avere assolto al suo incarico. Il giovane, con la gola stretta dall’emozione, per la seconda volta nell'ultima ora si trasformò in una sorta di palo incapace 7 di muoversi, senza sapere che fare, inchiodato con le spalle alla porta che il padrone di casa aveva fatto sbattere andandosene. Optò allora per la soluzione più semplice: scoppiò a piangere. La fortuna di essere uomo è che le manifestazioni di debolezza durano poco. Puoi essere sensibile e delicato quanto ti pare, ma a un certo punto ti asciughi gli occhi e con meravigliosa leggerezza ti ricordi di cosa hai sotto la cintura e riacquisti la calma. Un vero uomo infatti non si abbandona a isterismi da femminuccia. Emilio, che si era buttato sul letto vestito com’era, ingoiò un singhiozzo antipatico e inopportuno. Fissò il soffitto e cominciò a riflettere. Era quello che voleva, no? Una nuova esistenza, un’avventura da inventare, o quanto meno da organizzare, senza che niente e nessuno gli rompesse le scatole. Era solo, libero di costruire quel sogno che è la vita, padrone di se stesso. A forza di riflettere e di fissare il soffitto si addormentò, con ancora una lacrima fra le ciglia e un sorriso d’incosciente sfida sulle labbra. Nel limbo che non è più coscienza ma non è ancora sonno, lo sfiorò il pensiero che in fondo si era concesso il più bel regalo, nonché l’unico, per il suo compleanno. Tanti auguri, Emilio. Poi fu il nulla. II La nuova vita di Emilio prese l’avvio effettivo circa tre giorni dopo la presa di possesso delle quattro mura perimetrali dietro le quali si sarebbe rifugiato d’ora in poi. In quell’intervallo non fece altro che dormire. Dormiva di giorno fino all’ora di pranzo quando Luciana o Alberto, i figli dei padroni di casa, lo chiamavano a tavola. Il vitto era compreso, almeno una volta al giorno, nelle 25.000 lire mensili che suo padre aveva, e avrebbe anche in futuro sborsato per liberarsi di lui. Frastornato, sottosopra, pranzava con la famiglia Scopetti al completo senza essere in grado di proferire verbo. Poi tornava a dormire e dormiva anche tutta la notte. Non conosceva insonnia. La parola d'ordine era dormire, dormire, dormire. La visione più chiara che gli rimase di quei giorni onirici era il particolare delle grosse sopracciglia scure di papà Amilcare poggiate su un manifesto sguardo di disapprovazione. Riusciva a non curarsene solo perché aveva sonno. Tutto il sonno del mondo gli gravava sulle palpebre. La libertà appena conquistata si manifestò così, con il diritto di dormire ventiquattro ore al giorno se lo desiderava. E per i primi tre giorni lo desiderò. La quarta mattina aprì gli occhi e si sorprese sveglio, sveglissimo, con sulla pelle e nell'ugola un’irrefrenabile voglia di cantare. Aprì la tenda. Il limpido cielo estivo e il sole già caldo 8 confermarono che valeva davvero la pena di cantare. Intonò Nel blu dipinto di blu a mezza voce, salendo via via di tono e volume, volando alto con lo spirito come suggeriva la canzone. Il mare luccicava calmo ed Emilio si scoprì felice e pieno di buona volontà. Il mondo non aspettava che lui. Si liberò del peso vescicale notturno nel piccolo gabinetto adiacente alla camera e ciò contribuì a farlo stare ancora meglio, più leggero e del tutto in pace. Sedette al tavolo, guardò le navi in lontananza e considerò con il necessario distacco la situazione in cui si era cacciato. Non ricordava un solo giorno in cui si fosse sentito a proprio agio in casa con la famiglia. La madre era morta dandolo alla luce, dunque già al primo respiro terrestre Emilio aveva dimostrato una particolare abilità nel procurare disastri. Quel guaio in particolare gli aveva sempre gravato la coscienza di sensi di colpa insopportabili grazie all’interessamento del padre che, temendo che qualcuno se ne dimenticasse, non faceva che raccontare a tutti quello che il figlio aveva combinato solo nascendo. Gli occhi del mondo perbene non potevano che disapprovare la condotta riprovevole del neonato. Leonardo Lanza si era risposato appena sei mesi dopo essere rimasto vedovo con la vicina di casa, anch’essa vedova, giovane, per fortuna senza figli, che non aveva mai voluto essere chiamata mamma. Tutto sommato tra di loro un matrimonio d’amore piuttosto ristretto che non prevedeva di estendersi agli estranei. L’estraneo in questione era un infante di nome Emilio. Gracile, malaticcio, piangeva sempre e non si capiva cosa avesse. Faceva perdere la pazienza ai due sposini. A nessuno venne in mente che il piccolo forse avvertiva, in maniera del tutto animale, la mancanza del seno materno, del profumo del latte, della pelle di una mamma e di un capezzolo da cui succhiare la vita. I sensi percepivano solo la distanza incolmabile da quell'amore esclusivo che non lo includeva. I suoi lo nutrirono, lo crebbero in qualche modo, ma lui continuava ad essere un piagnone. Spesso lo punivano rinchiudendolo in stanze buie o privandolo della cena. Talvolta gli adulti uscivano di casa da soli lasciandolo a piangere disperato, confidando di sfinirlo. Ma rientravano diverse ore più tardi e lo trovavano che ancora piangeva, senza più voce, terrorizzato dai fantasmi della solitudine, cianotico e traumatizzato. Appena ne ebbe avuta l’età il bimbo terribile era finito in un istituto gestito dai preti. Anche lì non si scherzava quanto a severità. Ma il piccolo almeno ai preti prese a ribellarsi, presto smise di piangere e cominciò l'ora della vendetta. Non ci mise molto a capire che il suo aspetto di bambino timido lo agevolava. Un viso così angelico e tirabaci non poteva di certo essere quello di un bimbo cattivo. Invece lui, nel suo piccolo, creava dispetti a non finire. Si procurava topi morti da infilare nei cassetti degli insegnanti, nascondeva oggetti sacri e breviari e altre amenità del genere. Se lo scoprivano negava tutto, era bugiardo da fare schifo. E del 9 resto nemmeno se veniva colto in fragrante si riusciva a credere che fosse lui il responsabile. Gli occhioni neri sgranati con innocenza in faccia ai grandi, il facile colorarsi delle guance e la lacrimuccia silenziosa che compariva ad arte stringevano il cuore. Un così caro bambino. Ma le bugie hanno le gambe corte e nonostante tutto, quando la pazienza dei preti si esauriva, anche se a malincuore gli comminavano talvolta delle punizioni corporali. Fino a che, per non infierire troppo, s’invitava caldamente la famiglia del ragazzo a fargli cambiare istituto. Per il suo bene. Erano soprattutto le bugie ad essere mal tollerate. Gli si chiedeva almeno l'onore dell'onestà, se altro non si poteva ottenere. In realtà non è che Emilio mentisse in senso letterale. Lui adorava inventare. Fabbricava storielle fantastiche e inverosimili che in quegli anni gli consentirono la sopravvivenza alle vessazioni e alle punizioni che da solo si attirava, in un circolo vizioso senza fine. Fu in quel periodo che cominciò a sognare di fare lo scrittore, l’inventore di storie per antonomasia. Aveva infatti una fantasia tale che quello che leggeva sui libri gli sembrava ancora poco. In effetti di romanzi non ne aveva affrontati moltissimi, giusto quanto bastava per capire cosa volesse dire raccontare una storia e convincersi di poter fare altrettanto. Anzi, meglio. Un collegio dietro l'altro si esaurì l’offerta dei dintorni. L’ultimo istituto riuscì a sopportarlo fino all’età massima consentita. Conquistò il diploma di ragioniere. Non gli piaceva l’idea di fare conti su conti per fare quadrare gli stessi, ma era stato suo padre a scegliere. In alternativa, lo spettro di una vacanza studio in seminario. No, grazie, ne aveva abbastanza di preti. Gli ultimi tempi trascorsi in casa con la matrigna aspettando i ventun anni per diventare maggiorenne erano stati un'ecatombe. Insofferente agli ordini quanto più lei pretendeva che obbedisse, che si tagliasse i capelli, che andasse a lavorare o all’università, che facesse qualcosa insomma. Che si togliesse dalle scatole e non rovinasse il paradiso perfetto che aveva costruito intorno al marito in tutto quel tempo che erano stati, praticamente, da soli. Emilio, che era rimasto timido anche crescendo, non alzava mai la voce, e del resto lo faceva già lei; aveva imparato a mettere in campo una ribellione passiva che consisteva nel non ascoltare quella donna e fare ugualmente di testa propria. Cioè non fare assolutamente nulla. Urla, scenate e incomprensioni regnavano in casa da troppo tempo, in una guerra dei nervi spietata e logorante. Fino a che il padre disse basta. Scesero a patti: gli avrebbe pagato l’affitto di un alloggio per affrancarsi dalla famiglia e il figlio, in cambio, avrebbe dovuto trovare un lavoro per mantenersi. OK, detto e fatto. Da qui l’intervento come garante di don Mario, l'unico sacerdote tra quelli conosciuti da Emilio nella sua breve esperienza a sfondo religioso a comprendere i problemi del ragazzo e a schierarsi, più o meno, dalla sua parte. Finiva un incubo. 10