Scarica demo - Casa Editrice Marcelli

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Scarica demo - Casa Editrice Marcelli
PRIGIONIERO DEI SOGNI.
di Ramona Corrado
Io vivo nei miei sogni.
Anche gli altri vivono nei sogni, ma non
nei loro, ecco la differenza.
(Herman Hesse - Il coraggio di ogni giorno)
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Il 15 giugno 1973 Emilio Lanza compiva ventitré anni e quel giorno gli si presentò un mare di
nuove opportunità. Era libero, poteva cominciare a muovere i primi passi di un'agognata
indipendenza.
Il 15 giugno 1973 Emilio si apprestò a prendere possesso di quella che avrebbe chiamato casa da
lì in avanti: una semplice camera in affitto a S., presso una famiglia che solo in tal modo, dato il
periodo di magra, sarebbe riuscita ad arrotondare i modesti introiti. Gli Scopetti vivevano in un
imponente palazzo d’epoca che richiedeva spese importanti; un’eredità preziosa e scomoda insieme.
Il clima era di ristrettezze, costava anche vivere, figurarsi mantenere una simile sanguisuga. Da ciò
il bisogno impellente di condividere le numerose stanze e le altrettanto grasse uscite con estranei in
prestito.
La facciata del palazzo situato nell'antico centro di S. in piazzetta Garibaldi incuteva soggezione,
e ancora di più il suo portone. Quando Emilio vi fu di fronte mancava poco al tramonto, il sole era
fermamente deciso a tuffarsi nel mare a gran carriera e la sera faceva del suo meglio per dipingere
una cartolina perfetta. Sembrava la scena di un film da Oscar. A fare da colonna sonora i gridi delle
rondini, quasi indistinguibili da quelli dei bambini che giocavano nella piazza: cinque o sei
maschietti che tiravano calci ad un pallone e tre bambine che saltellavano sulla campana disegnata
col gesso sull’asfalto. A guardar bene però non si trattava di un film, non c'era un regista a dirigere
con un ciack gli attori, i quali peraltro erano persone comuni chiamate a recitare scene di vita
dannatamente reale. Proprio come Emilio, che in quel momento navigava a vista, senza una rotta
definita e senza qualcuno al timone a indicare una direzione. Era solo, e gli tremavano le gambe.
La maestosità del portone lo intimoriva, una barriera invalicabile che separava l'avvilente
conosciuto dall'ignoto possibilista. Esitava, non osava entrare, eppure lo desiderava fino allo
spasimo; era da lì, da dentro quelle mura prestigiose che doveva ripartire la sua vita, era lì che
sarebbe avvenuto il cambiamento. Quando si decise a fare un timido tentativo trovò aperto: lo prese
per un incoraggiamento.
Era stato il padre a trovare quella sistemazione. Il gesto avrebbe dovuto rappresentare la prova
del suo sincero interesse per l'erede, ma Emilio non si faceva fregare dalle apparenze: un padre
come il suo era egoista, interessato per costituzione genetica e impedito da qualche devianza
emotiva nell'affetto verso il figlio. Garantito al pistacchio.
La famiglia Scopetti, padre, madre e due figli, non aveva avuto niente in contrario ad accogliere
il giovane nella propria abitazione. Con tutto quello spazio a disposizione nel palazzo di famiglia
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non ci sarebbero stati problemi nel far posto a un ospite che apportava una non disprezzabile entrata
extra. Certo le precauzioni le avevano prese, i tempi erano all'insegna del pericolo. Con quel che si
sentiva dire alla TV essere prudenti era legittimo. Pochissimi anni prima, nel 1969, c’era stata la
strage di Piazza Fontana, e che diamine, da allora vivere non era stato più lo stesso. Era stato come
risvegliarsi da un felice, grasso e pigro letargo per ritrovarsi di colpo alle prese con bombe e
attentati, sequestri e omicidi. Solo un mese prima, a Milano, una bomba era esplosa davanti alla
Questura facendo morti e feriti. Non ci si capiva più nulla. In compenso cresceva la paura e la
diffidenza e si guardava con apprensione soprattutto ai giovani.
Emilio, almeno a naso, non destava preoccupazione. I signori Scopetti avevano reperito accurate
informazioni sulla famiglia di provenienza, con discrezione e senza difficoltà. S., città di mare di
circa 30.000 anime, era provinciale e pettegola come un paesetto di campagna, gli affari personali
non rimanevano segreti a lungo. Negli armadi di casa Lanza non dimoravano scheletri. Il papà
Leonardo era impiegato di alto livello in banca, a garanzia di un certo benessere economico e di
onestà. E il parroco in persona aveva garantito per Emilio.
«È un bravo ragazzo» aveva detto di lui don Mario. «Ha poco più di vent’anni e un bell’aspetto,
che non è certo un peccato, anzi è un marchio di fabbrica celeste, perchè tutte le cose belle vengono
da Dio. Poi è di indole mite ed è stato educato in istituti religiosi. Non è un ribelle come i ragazzi di
oggi. Vuole un po’ d’indipendenza, si capisce, ma è normale, anche noi alla sua età... Lavoro? No,
ancora non lavora, e no, non studia, ma presto troverà un’occupazione, ci sono dei contatti».
Quest’ultima affermazione, più delle altre, aveva suscitato un sospiro di sollievo negli Scopetti.
Un giovanotto nullafacente era un potenziale anarchico, poteva facilmente finire in mezzo agli
schieramenti estremisti tanto rossi che neri e diventare un pericolo. Essendo il giovanotto in
questione cresciuto in ambito pio c'era invece da sperare bene.
A dirla tutta don Mario, barcamenandosi da equilibrista sul filo spinato delle verità, aveva
esposto un ritratto del soggetto rassicurante ma non del tutto veritiero, senza tuttavia venire meno ai
doveri della propria divisa, cioè senza mentire. Non troppo, almeno.
Emilio era stato effettivamente in collegio, ma aveva cambiato diversi istituti a causa di un
carattere, come dire, controverso: da un lato timido all’estremo, dall’altro precoce e vivace. Né il
don aveva ritenuto opportuno rivelare le scenate quotidiane che avvenivano in casa Lanza. Non era
argomento che doveva interessare gli estranei. La causa era sempre Emilio, dicevano i suoi; Emilio
dal canto suo ribadiva indefesso il proprio status di incompreso e il buon prete era d’accordo ora
con gli uni ora con l'altro. Quanto ai contatti di lavoro millantati, nulla escludeva che ci sarebbero
stati, in futuro, per il momento non ce n’era in giro neanche il sentore. Riuscì a essere sincero e
convincente, tanto che alla fine i signori Scopetti furono soddisfatti delle referenze, don Mario era
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soddisfatto per aver compiuto un’opera buona, il signor Lanza era soddisfatto perché si sgravava di
un peso, e il ragazzo era soddisfatto per la libertà acquisita. Ci vuole così poco a soddisfare le
pretese della gente. Basta una mezza verità.
E così Emilio si ritrovò adulto. Una sensazione nuova, che lo inorgogliva e impauriva.
Era entrato. Fermo davanti alle scale che dall’androne lo avrebbero portato al secondo piano
avvertì un furioso batticuore e un vuoto allo stomaco. Le mani non si decidevano a starsene immote,
erano preda di un tremore incontrollato, come quelle di chi si trova sotto shock per un evento
pauroso, o di chi fa i conti in cronico con l'alcool. Era un luogo del tutto sconosciuto quello, che
non aveva nemmeno voluto visitare in anteprima, cogliendo al volo la prima occasione che si era
presentata. Gli era bastato andarsene da casa, qualsiasi posto sarebbe stato meglio dell’inferno che
gli regalava la famiglia.
Rimase per un po' a guardarsi attorno, lì nell’ingresso, pervaso da un incrollabile timore
reverenziale. Una fetta di tempo che durò più di qualche minuto. Emilio, che non possedeva
orologi, si dimenticò del tempo presente, ma nel passato fece un tuffo con salto mortale all'indietro
nel momento in cui, a bocca aperta, restò in religiosa contemplazione dell'ambiente come un bimbo
davanti al giocattolo dei suoi sogni.
Il palazzo si ergeva su due piani. Il giovane non s’intendeva molto di architettura, ma gli era
evidente che si trattasse di una costruzione antica, forse sei o settecentesca. Ristrutturata in parte,
anche se i lavori parevano già datati, adeguata in qualche modo alla vita moderna, ma con la patina
dei secoli dignitosamente addosso e l’aria di languido abbandono tipico di una vecchia diva. Proprio
per rispetto alla sua età era inevitabile provare un filo di soggezione. La scalinata in marmo forse
aveva visto la discesa di belle signore in crinolina o le arrampicate di intrepidi cavalieri, e girotondi
di valzer, appuntamenti galanti e segreti… Forse ci aveva abitato un principe, o un nobile. Ora però
le mura erano spoglie e fredde. Se mai avevano contenuto quadri, al momento si ergevano nude e,
quasi vergognose del proprio aspetto, regalavano soltanto rispettabili brividi di sgomento. Il
lampadario invece era bello e prezioso, realizzato con mille gocce scintillanti, adatto più ad una sala
da ballo che ad un ingresso.
Dopo l'emozione del primo impatto con la solennità del palazzo e delle sue viscere venne l’ora di
riscuotersi. Basta con le fantasie, si disse infatti Emilio, era inutile perdere altro tempo. Gli parve di
avere tutto sotto controllo, doveva decidersi ad affrontare questa benedetta, sospirata vita nuova.
Salì al secondo piano: al primo non aveva visto nomi sulla porta. In effetti, come gli fu confermato
più tardi, non vi abitava ancora nessuno. Doveva prima essere restaurato e prima ancora era da
reperire i fondi necessari. Solo in seguito se ne sarebbe deciso il destino.
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Suonò al campanello di una porta di legno chiaro, uguale a quella del piano sottostante, più
innocua del grande portone in legno e ferro che lo aveva accolto da basso. Sulla targhetta era scritto
Scopetti. I padroni di casa.
Ad aprire fu il capofamiglia in persona. Amilcare Scopetti, militare di Marina in congedo dallo
sguardo truce, non si era ancora abituato alla pensione e tutto il suo aspetto denunciava la persona
abituata a comandare, con un viscerale e perverso rispetto per leggi e regolamenti. Emilio, d’istinto,
cercò di farsi più piccolo di quello che era e parve riuscirci. Lo Scopetti dalla soglia lanciò uno
sguardo accigliato a destra e sinistra senza notare nessuno fino a che non scovò, in un cantuccio del
pianerottolo, l’essere alieno che osava disturbare. Quello che vide non gli piacque. Cos’era quello?
Lineamenti delicati, fini, colorito quasi grigiastro, occhi neri, ciglia lunghissime. Un ragazzo fin
troppo normale, altro che alieno, un sovversivo come tanti. Un viso passabile, anzi bello, troppo
bello, che a suo parere avrebbe procurato guai a lui e alle femmine della sua specie. Portava i
capelli, neri anch’essi, lunghi sul collo e spettinati. Anche le basette erano leggermente fuori
misura, come dettava la moda: chiunque non fosse un militare ormai le portava così. E poi quei
pantaloni beige, con le gambe scampanate in fondo, poggiati a fatica sui fianchi magrissimi. E la
camicia a quadri bianchi e rossi, così in disordine, fuori dai suddetti pantaloni. L'insieme parlava
anche troppo bene di un giovane scapestrato. Troppo moderno, ecco.
In un solo colpo d’occhio l’ex milite aveva soppesato, giudicato e condannato l’alieno; si
apprestò a respingerlo senza troppi complimenti al mittente, qualunque esso fosse, quando si
accorse della valigia di cartone lì accanto, tenuta visibilmente insieme da un filo di speranza.
Sembrava voler passare inosservata con dignitosa nonchalance, eppure la sua sola presenza era più
che eloquente e nel buio del pianerottolo divenne più espressiva di un mimo sotto le luci dei
riflettori di un palcoscenico. L’alieno, che aveva l’aria di un timido cucciolo terribilmente giovane e
inesperto della vita a quanto pareva doveva stabilirsi lì; senza dubbio si trattava del nuovo
affittuario, come tale pagava e quindi non poteva essere fucilato, né arrestato, né si poteva mandarlo
via a calci.
Emilio percepì chiaramente, in una sorta di sgradevole telepatia, tutti i pensieri dello Scopetti in
quei pochi secondi che precedettero il suo poco cortese:
«Desidera?».
Il sopracciglio destro dell'ex militare, sorprendentemente nero e in contrasto con la corta peluria
argentata del cranio, rimase alzato in un grottesco punto di domanda. Facendosi coraggio Emilio si
presentò.
«Emilio Lanza, piacere. Ho preso una stanza in affitto».
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Lui strinse la mano che gli veniva porta quasi spezzandola e fece entrare il nuovo inquilino senza
dire una parola. Era fatta, si disse il ragazzo; se non aveva sconfitto il nemico per lo meno ne aveva
espugnato la fortezza. Era penetrato nella sua tana, nel suo castello, nel suo rifugio: era a casa.
Il primo maresciallo Scopetti, nonostante le apparenze, fu abbastanza gentile. O almeno non
molto aggressivo, con particolare sollievo di Emilio, la cui timidezza gli giocava spesso degli strani
tiri. Era già successo che, se qualcuno alzava la voce, lui se la squagliasse. In senso metaforico,
beninteso. Si eclissava, svaniva, calava un sipario mentale e si rifugiava in qualche parte della
coscienza dove non arrivava la furia della gente. A volte prendeva a dondolare, come fanno certi
malati di mente, chiudeva gli occhi e non c'era più per nessuno. Una sorta di autodifesa: non
sopportava la violenza. Lo Scopetti ad ogni modo non aveva interesse a spaventarlo. Rapidamente,
col tono secco del graduato che non ripete mai un ordine o una consegna, gli fece fare un giro
turistico per l’appartamento, lasciando il giovane più confuso e disorientato di prima. Quello infatti
non era un appartamento, ma un labirinto enorme e intricato.
Dall’ingresso si diramavano due corridoi. Quello a destra portava agli alloggi dei residenti, cioè
dei padroni di casa, che vi vivevano in modo quasi indipendente dalla zona a sinistra. Su quello a
sinistra erano disposte le tre stanze messe in affitto. Un appartamento dentro un altro appartamento.
Una delle camere era chiusa, però disponibile anche subito. La seconda era occupata da un’anziana
signorina che lavorava come bidella. L’altra, proprio di fronte a quella della bidella, era stata
destinata a lui. La più bella del mondo, pensò commosso. In realtà, si rese conto una volta svanito il
primo entusiasmo, l’arredamento non sembrava esattamente adatto a duchi o principi. In meno di
venti metri quadrati, tali erano i confini del suo nuovo spazio personale, trovavano posto un lettino
in ferro con accanto lo striminzito comodino, un armadio, un tavolo poggiato ad una parete appena
sotto l’unica finestra e due sedie impagliate. Il tutto con l’aria del materiale recuperato da parenti e
amici che non sapessero come disfarsene. I pezzi non si accompagnavano, a parte le due sedie che
erano uguali, ma di stile e colore diverso dal tavolo, e più che antichi sembravano solo vecchi e mal
tenuti. Però nella stanza c’era un buon odore di pulito e una grossa margherita viola in un vasetto di
vetro sul tavolo ingentiliva e rendeva meno tetra l'atmosfera. Perfino una tenda alla finestra, che
pure sembrava fuori posto, si sforzava di dare un’illusione di abitabilità. E dalla finestra si vedeva il
porto, il mare. Non si poteva chiedere di più. Per essere la sua prima casa Emilio la trovò mica
male.
Scopetti lo piantò in asso, ritenendo di avere assolto al suo incarico. Il giovane, con la gola
stretta dall’emozione, per la seconda volta nell'ultima ora si trasformò in una sorta di palo incapace
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di muoversi, senza sapere che fare, inchiodato con le spalle alla porta che il padrone di casa aveva
fatto sbattere andandosene. Optò allora per la soluzione più semplice: scoppiò a piangere.
La fortuna di essere uomo è che le manifestazioni di debolezza durano poco. Puoi essere
sensibile e delicato quanto ti pare, ma a un certo punto ti asciughi gli occhi e con meravigliosa
leggerezza ti ricordi di cosa hai sotto la cintura e riacquisti la calma. Un vero uomo infatti non si
abbandona a isterismi da femminuccia. Emilio, che si era buttato sul letto vestito com’era, ingoiò un
singhiozzo antipatico e inopportuno. Fissò il soffitto e cominciò a riflettere. Era quello che voleva,
no? Una nuova esistenza, un’avventura da inventare, o quanto meno da organizzare, senza che
niente e nessuno gli rompesse le scatole. Era solo, libero di costruire quel sogno che è la vita,
padrone di se stesso. A forza di riflettere e di fissare il soffitto si addormentò, con ancora una
lacrima fra le ciglia e un sorriso d’incosciente sfida sulle labbra. Nel limbo che non è più coscienza
ma non è ancora sonno, lo sfiorò il pensiero che in fondo si era concesso il più bel regalo, nonché
l’unico, per il suo compleanno.
Tanti auguri, Emilio.
Poi fu il nulla.
II
La nuova vita di Emilio prese l’avvio effettivo circa tre giorni dopo la presa di possesso delle
quattro mura perimetrali dietro le quali si sarebbe rifugiato d’ora in poi. In quell’intervallo non fece
altro che dormire. Dormiva di giorno fino all’ora di pranzo quando Luciana o Alberto, i figli dei
padroni di casa, lo chiamavano a tavola. Il vitto era compreso, almeno una volta al giorno, nelle
25.000 lire mensili che suo padre aveva, e avrebbe anche in futuro sborsato per liberarsi di lui.
Frastornato, sottosopra, pranzava con la famiglia Scopetti al completo senza essere in grado di
proferire verbo. Poi tornava a dormire e dormiva anche tutta la notte. Non conosceva insonnia. La
parola d'ordine era dormire, dormire, dormire.
La visione più chiara che gli rimase di quei giorni onirici era il particolare delle grosse
sopracciglia scure di papà Amilcare poggiate su un manifesto sguardo di disapprovazione. Riusciva
a non curarsene solo perché aveva sonno. Tutto il sonno del mondo gli gravava sulle palpebre. La
libertà appena conquistata si manifestò così, con il diritto di dormire ventiquattro ore al giorno se lo
desiderava. E per i primi tre giorni lo desiderò.
La quarta mattina aprì gli occhi e si sorprese sveglio, sveglissimo, con sulla pelle e nell'ugola
un’irrefrenabile voglia di cantare. Aprì la tenda. Il limpido cielo estivo e il sole già caldo
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confermarono che valeva davvero la pena di cantare. Intonò Nel blu dipinto di blu a mezza voce,
salendo via via di tono e volume, volando alto con lo spirito come suggeriva la canzone. Il mare
luccicava calmo ed Emilio si scoprì felice e pieno di buona volontà. Il mondo non aspettava che lui.
Si liberò del peso vescicale notturno nel piccolo gabinetto adiacente alla camera e ciò contribuì a
farlo stare ancora meglio, più leggero e del tutto in pace. Sedette al tavolo, guardò le navi in
lontananza e considerò con il necessario distacco la situazione in cui si era cacciato.
Non ricordava un solo giorno in cui si fosse sentito a proprio agio in casa con la famiglia. La
madre era morta dandolo alla luce, dunque già al primo respiro terrestre Emilio aveva dimostrato
una particolare abilità nel procurare disastri. Quel guaio in particolare gli aveva sempre gravato la
coscienza di sensi di colpa insopportabili grazie all’interessamento del padre che, temendo che
qualcuno se ne dimenticasse, non faceva che raccontare a tutti quello che il figlio aveva combinato
solo nascendo. Gli occhi del mondo perbene non potevano che disapprovare la condotta riprovevole
del neonato.
Leonardo Lanza si era risposato appena sei mesi dopo essere rimasto vedovo con la vicina di
casa, anch’essa vedova, giovane, per fortuna senza figli, che non aveva mai voluto essere chiamata
mamma. Tutto sommato tra di loro un matrimonio d’amore piuttosto ristretto che non prevedeva di
estendersi agli estranei. L’estraneo in questione era un infante di nome Emilio. Gracile, malaticcio,
piangeva sempre e non si capiva cosa avesse. Faceva perdere la pazienza ai due sposini. A nessuno
venne in mente che il piccolo forse avvertiva, in maniera del tutto animale, la mancanza del seno
materno, del profumo del latte, della pelle di una mamma e di un capezzolo da cui succhiare la vita.
I sensi percepivano solo la distanza incolmabile da quell'amore esclusivo che non lo includeva. I
suoi lo nutrirono, lo crebbero in qualche modo, ma lui continuava ad essere un piagnone. Spesso lo
punivano rinchiudendolo in stanze buie o privandolo della cena. Talvolta gli adulti uscivano di casa
da soli lasciandolo a piangere disperato, confidando di sfinirlo. Ma rientravano diverse ore più tardi
e lo trovavano che ancora piangeva, senza più voce, terrorizzato dai fantasmi della solitudine,
cianotico e traumatizzato.
Appena ne ebbe avuta l’età il bimbo terribile era finito in un istituto gestito dai preti. Anche lì
non si scherzava quanto a severità. Ma il piccolo almeno ai preti prese a ribellarsi, presto smise di
piangere e cominciò l'ora della vendetta. Non ci mise molto a capire che il suo aspetto di bambino
timido lo agevolava. Un viso così angelico e tirabaci non poteva di certo essere quello di un bimbo
cattivo. Invece lui, nel suo piccolo, creava dispetti a non finire.
Si procurava topi morti da infilare nei cassetti degli insegnanti, nascondeva oggetti sacri e
breviari e altre amenità del genere. Se lo scoprivano negava tutto, era bugiardo da fare schifo. E del
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resto nemmeno se veniva colto in fragrante si riusciva a credere che fosse lui il responsabile. Gli
occhioni neri sgranati con innocenza in faccia ai grandi, il facile colorarsi delle guance e la
lacrimuccia silenziosa che compariva ad arte stringevano il cuore. Un così caro bambino. Ma le
bugie hanno le gambe corte e nonostante tutto, quando la pazienza dei preti si esauriva, anche se a
malincuore gli comminavano talvolta delle punizioni corporali. Fino a che, per non infierire troppo,
s’invitava caldamente la famiglia del ragazzo a fargli cambiare istituto. Per il suo bene.
Erano soprattutto le bugie ad essere mal tollerate. Gli si chiedeva almeno l'onore dell'onestà, se
altro non si poteva ottenere. In realtà non è che Emilio mentisse in senso letterale. Lui adorava
inventare. Fabbricava storielle fantastiche e inverosimili che in quegli anni gli consentirono la
sopravvivenza alle vessazioni e alle punizioni che da solo si attirava, in un circolo vizioso senza
fine. Fu in quel periodo che cominciò a sognare di fare lo scrittore, l’inventore di storie per
antonomasia. Aveva infatti una fantasia tale che quello che leggeva sui libri gli sembrava ancora
poco. In effetti di romanzi non ne aveva affrontati moltissimi, giusto quanto bastava per capire cosa
volesse dire raccontare una storia e convincersi di poter fare altrettanto. Anzi, meglio.
Un collegio dietro l'altro si esaurì l’offerta dei dintorni. L’ultimo istituto riuscì a sopportarlo fino
all’età massima consentita. Conquistò il diploma di ragioniere. Non gli piaceva l’idea di fare conti
su conti per fare quadrare gli stessi, ma era stato suo padre a scegliere. In alternativa, lo spettro di
una vacanza studio in seminario. No, grazie, ne aveva abbastanza di preti.
Gli ultimi tempi trascorsi in casa con la matrigna aspettando i ventun anni per diventare
maggiorenne erano stati un'ecatombe. Insofferente agli ordini quanto più lei pretendeva che
obbedisse, che si tagliasse i capelli, che andasse a lavorare o all’università, che facesse qualcosa
insomma. Che si togliesse dalle scatole e non rovinasse il paradiso perfetto che aveva costruito
intorno al marito in tutto quel tempo che erano stati, praticamente, da soli. Emilio, che era rimasto
timido anche crescendo, non alzava mai la voce, e del resto lo faceva già lei; aveva imparato a
mettere in campo una ribellione passiva che consisteva nel non ascoltare quella donna e fare
ugualmente di testa propria. Cioè non fare assolutamente nulla.
Urla, scenate e incomprensioni regnavano in casa da troppo tempo, in una guerra dei nervi
spietata e logorante. Fino a che il padre disse basta. Scesero a patti: gli avrebbe pagato l’affitto di un
alloggio per affrancarsi dalla famiglia e il figlio, in cambio, avrebbe dovuto trovare un lavoro per
mantenersi. OK, detto e fatto. Da qui l’intervento come garante di don Mario, l'unico sacerdote tra
quelli conosciuti da Emilio nella sua breve esperienza a sfondo religioso a comprendere i problemi
del ragazzo e a schierarsi, più o meno, dalla sua parte.
Finiva un incubo.
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