Sentenza - Alessandro Salonia Avvocato penalista Milano

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Sentenza - Alessandro Salonia Avvocato penalista Milano
Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 04-12-2015) 05-02-2016, n. 4895
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PAOLONI Giacomo - Presidente Dott. FIDELBO Giorgio - Consigliere Dott. GIORDANO Umberto - rel. Consigliere Dott. CALVANESE Ersilia - Consigliere Dott. DI SALVO Emanuele - Consigliere ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
C.M., n. a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 18/2/2015 del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Cuneo;
visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Emilia Anna Giordano;
lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott. ANGELILLIS
Ciro, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con la sentenza indicata in epigrafe, emessa all'esito di giudizio di applicazione pena, il giudice per le
indagini preliminari applicava a C.M., ritenuta la continuazione fra i reati, concessegli le circostanze
attenuanti generiche e l'attenuante ex art. 62 c.p., n. 6, prevalenti rispetto alle aggravanti contestate,
all'esito della riduzione della scelta del rito, la pena di anni tre e mesi cinque di reclusione. Il C. veniva
condannato al pagamento delle spese del procedimento e di quelle di custodia e veniva, altresì dichiarato
interdetto dai pubblici uffici per la durata di anni cinque. Era disposta la confisca dell'immobile in sequestro
e il rimborso delle spese processuali a favore della parte civile, Negro F.lli Escavazioni, in liquidazione coatta
amministrativa.
2.Il C. è stato ritenuto responsabile dei reati di cui a) agli artt. 81 cpv., 110 e 317 c.p., art. 319 quater c.p.,
comma 1, art. 61 c.p., n. 7; b) artt. 81 cpv., 110 e 317 c.p., art. 319 quater c.p., comma 1, art. 61 c.p., n.
7; c) artt. 81 cpv. e 110 c.p., art. 314 c.p., comma 2, art. 61 c.p., n. 2, perchè quale direttore generale
dell'autostrada (OMISSIS), in concorso con Migliardi Ivan nei cui confronti si è proceduto separatamente,
con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, abusando della loro qualità e dei poteri di
pubblico ufficiale e/o di incaricato di pubblico servizio, in più occasioni inducevano varie imprese,
appaltatrici e/o affidatane, anche con procedura d'urgenza ed a trattativa privata, di lavori o servizi a
promettere ovvero cedere loro, a titolo gratuito, ingenti prestazioni di opera e forniture di materiali
necessarie alla ristrutturazioni di immobili di proprietà e comunque nella disponibilità del C. (reati di cui ai
capi a) e b) commessi in Mondovì, Ceva e Torino nel periodo 2006/2010; e, reato sub e) perchè, nelle
qualità di cui sopra, affidavano ai dipendenti della società La Verdemare s.p.a. il controllo ed il
coordinamento dei lavori di ristrutturazione e la scelta di materiali e arredi per gli immobili di proprietà o,
comunque, nella disponibilità del C. e, in particolare, autorizzavano, per fini meramente privati e in orario di
ufficio, l'impiego dell'archi. D.M.I. e del geom. P. per la redazione delle pratiche di interesse del C. e
l'utilizzo, per detti fini privati, di attrezzature tecniche e di autovetture di servizio appartenenti alla società
La Verdemare, in tal modo distraendo risorse umane e strumentali della detta società concessionaria, per
fini meramente privati; in (OMISSIS), e dintorni dal 2007 e fino al mese di novembre 2012.
3. Con i motivi di ricorso - ribaditi nella memoria depositata il 24.11.2015 - il difensore del C. deduce vizi di
violazione di legge e conseguenti vizi di motivazione in relazione alla erronea qualificazione giuridica del
fatto per carenza del requisito oggettivo in ordine ai reati, come ritenuti, non potendosi riconoscere al C. la
qualità di incaricato di pubblico servizio. Deduce, in particolare, che, all'epoca dei fatti, il C. era direttore
generale della soc. La (OMISSIS), società concessionaria di servizi autostradali; che alle società
concessionarie non sono applicabili le norme sui contratti pubblici di cui alD.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163,
che, per espressa previsione di cui all'art. 3, n. 25, del citato decreto si applicano solo "alle amministrazioni
dello Stato; enti pubblici territoriali;
altri enti pubblici non economici; organismi di diritto pubblico;
associazioni, unioni, consorzi, comunque denominati, costituiti da detti soggetti" fra i quali, all'evidenza, non
sono ricomprese le società concessionarie di servizi autostradali che, essendo società privata, non rientrano
tra le amministrazioni aggiudicatrici, tenute al rispetto della normativa sugli appalti e tenute, viceversa, solo
al rispetto delle norme in materia di pubblicità degli appalti. Il C., essendo mero dirigente di un'impresa
privata, finanziata con somme non provenienti da enti territoriali o Stato, non avrebbe comunque potuto
possedere la qualifica di incaricato di pubblico servizio e, comunque, aveva agito per un proprio interesse,
senza coinvolgere la società rappresentata tanto che, nella maggior parte dei casi, le ditte che avevano
eseguito i lavori di ristrutturazione degli immobili neppure erano a conoscenza che gli stessi appartenessero
al C.. Con riferimento al delitto di peculato, rileva, infine, che non solo il C. non può - per le considerazioni
svolte - ritenersi incaricato di pubblico servizio ma, sopratutto, che i beni facenti capo alla società La
Verdemare e i dipendenti della stessa non possono ritenersi patrimonio della pubblica amministrazione
ovvero forza lavoro della Pubblica amministrazione utilizzati per fini privatistici.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è manifestamente infondato.
2. La possibilità di ricorrere per cassazione deducendo l'erronea qualificazione del fatto contenuta contenuta
nella sentenza di patteggiamento, ammessa sulla scorta della decisione delle Sezioni unite (sent. n. 5 del 19
gennaio 2000, Neri) poichè è lo stesso art. 444 c.p.p., comma 2, che impone al giudice di verificare
l'insussistenza di una delle cause di non punibilità indicate nel citato art. 129 cod. proc. pen. è soggetta a
limiti rigorosi in considerazione della natura del patteggiamento e dello scopo del controllo affidato al
giudice. Si è, così, affermato che l'impugnabilità per l'erronea qualificazione del fatto debba essere limitata
ai casi in cui quella prospettata dalle parti sia palesemente erronea. In conclusione, secondo la
giurisprudenza di legittimità, la ricorribilità della sentenza di patteggiamento è ammessa nelle sole ipotesi di
errore manifesto, ossia quando sussiste realmente l'eventualità che l'accordo sulla pena si trasformi in
accordo sui reati, sicchè deve essere esclusa tutte le volte in cui la diversa qualificazione presenti margini di
opinabilita (tra le tante v., Sez. 6, sentenza n. 15009 del 27/11/2012, dep. 2013, Bisignani, Rv. 254865;
Sez. 4^, 11 marzo 2010, n. 10692, P.G. in proc. Hernandez; Sez. 3, 23 ottobre 2007, n. 44278, P.G. in
proc. Benha; Sez. 6^, 20 novembre 2008, n. 45688, P.G. in proc. Bastea;
Sez. 6^, 10 aprile 2003, n. 32004, P.G. in proc. Valetta).
3. Il ricorso proposto dal C. è manifestamente al fuori del campo della denunciata violazione di legge
poichè, nel caso in esame, chiamato a valutare la corretta qualificazione giuridica del fatto in ordine alla
sussistenza della condotta illecita in ragione della qualifica rivestita dall'imputato, che le parti avevano
considerato sussistente nella loro richiesta, il giudice del patteggiamento era tenuto a verificare se si
vertesse in presenza di errore manifesto, sussistendo viceversa una causa di non punibilità che imponesse il
proscioglimento ex art. 129 c.p.p., o, in altre parole, si fosse in presenza di un evidente error in iudicando
che dissimuli un'illegale trattativa sul nomen iuris, escluso in presenza di una qualificazione che presenti
oggettivi margini di opinabilità.
E così evidentemente, alla luce della sintetica motivazione sul punto riportata in sentenza, non è, avuto
riguardo non solo allo specifico precedente di legittimità - richiamato anche della difesa nel ricorso - ma
anche al costante orientamento giurisprudenziale che incentra la nozione di pubblico servizio non sul regime
giuridico della società che lo svolge bensì sulla natura dell'attività svolta. La nozione di pubblico servizio,
cioè, abbraccia normalmente quelle attività pubbliche che, pur essendo scevre da potestà di imperio e di
certificazione documentale, hanno, tuttavia, connotazioni di sussidiarietà e di complementarità rispetto a
quelle del pubblico ufficiale, nell'ambito di una determinata organizzazione amministrativa, per cui appare
certa in esse la finalità di espletare un servizio, che, ancora quando non essenziale all'ente pubblico, risulta
assunto nell'interesse dell'intera collettività. Sul punto specifico della natura delle società concessionarie di
servizi autostradali, si è affermato che il soggetto il quale, in forza di una concessione amministrativa
avente ad oggetto la realizzazione di un'opera pubblica, sia investito di poteri e facoltà propri dell'ente
concedente, fra cui quelli concernenti la stipulazione dei contratti di appalto per l'esecuzione materiale di
detta opera, secondo una procedura ispirata a fini di pubblico interesse, acquista, ancorchè trattisi di
soggetto privato, nell'esercizio di detti poteri e facoltà, qualità di pubblico ufficiale, attesa la natura
oggettivamente amministrativa dell'attività a lui demandata sez. 6, sentenza n. 7240 del 16/4/1998,
Civardi, Rv. 210733). Ancora più di recente si è ribadito che i soggetti inseriti nella struttura organizzativa e
lavorativa di una società per azioni possono essere considerati pubblici ufficiali o incaricati di pubblico
servizio, quando l'attività della società medesima sia disciplinata da una normativa pubblicistica e persegua
finalità pubbliche, pur se con gli strumenti privatistici (Sez. 6, Sentenza n. 45908 del 16/10/2013, Orsi, Rv.
257384), strumenti nei quali, sono da ricomprendere anche i contratti di appalto che regolano le procedure
di acquisto di beni e forniture di servizio secondo il regime privatistico, non rientrando le società
concessionarie tra le amministrazioni aggiudicatrici alle quali si applicano le norme sui contratti pubblici
previste dal D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163.
4. Nè la obiettiva rilevanza pubblica dell'attività svolta dalla società La Verdemare s.p.a. viene meno per il
fatto che i titolari di alcune delle ditte incaricate dei lavori non conoscessero la precisa identità del
beneficiario delle prestazioni dal momento che essi erano ben consapevoli del ruolo svolto dal M. - che li
contattava - nella società La Verdemare e accettavano di eseguire gratuitamente i lavori richiesti, temendo
ritorsioni nella gestione dei rapporti in corso ovvero in quelli che avrebbero potuto istituire in prosieguo.
4. Le considerazioni innanzi svolte sono assorbenti anche rispetto alle argomentazioni difensive sulla
sussistenza del delitto di peculato, non senza trascurare che il concetto di appropriazione ricomprende
anche la condotta di distrazione, in quanto idonea ad imprimere alla cosa una destinazione diversa da quella
consentita in ragione del titolo connesso al potere dispositivo, relativamente alla contestata utilizzazione per
fini privati di attrezzature tecniche, personal computer (e relativi programmi licenziati dalla società
autostradale) e di autovetture di servizio appartenenti alla società La Verdemare s.p.a.. La pacifica
configurabilità del reato di peculato riguardo a tali condotte rende evidentemente irrilevante il riferimento
alla arbitraria utilizzazione, a beneficio dell'agente, dell'attività lavorativa prestata dal personale incaricato,
riferimento che appare meramente descrittivo della concreta articolazione della condotta e che non ha
comportato autonomo aumento di pena in sede di continuazione, avendo il giudice proceduto ad un
aumento unitario in relazione alla condotta di peculato.
5 Segue la condanna del ricorrente a pagamento delle spese processai e, a norma dell'art. 616 c.p.p., non
ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost.
sent. n. 186 del 13.6.2000), al pagamento della sanzione pecumana nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente a.
pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.500,00 in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 4 dicembre 2015.
Depositato in Cancelleria il 5 febbraio 2016