meredith monk
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Meredith Monk: oltre la voce di Luca Buti Meredith Monk è la vocalizzatrice estrema. Considerando la voce come il più impuro tra gli strumenti, quello che meno di tutti asseconda le leggi (perfette) della fisica, con la musica intesa come la più impura tra le arti, Meredith Monk è la “virtuosa impura” per eccellenza. Mezzosoprano con grande estensione è soprattutto una sperimentatrice di vocalità inconsuete, di suoni nasali, richiami tribali e voci infantili. Tecnicamente agilissima, duttile nelle modulazioni melodiche e timbriche, virtuosa nei sovracuti e brava ad utilizzare i colpi di glottide. La sua è potenza espressiva ed allo stesso tempo teatralità. La sua è una voce che va oltre il suo stesso uso. Lei è un’artista unica, unicamente capace di sorprendere. Cantante e ballerina, ma anche strumentista, poetessa ed attrice di teatro, Meredith Monk è una delle figure più importanti ed innovatrici di tutta l’avanguardia contemporanea. L’estrema complessità della sua arte, un'inestricabile compenetrazione multidisciplinare dove convivono etnico ed innovazione, ne ha fatto una delle personalità artistiche meno catalogabili. Una ricerca senza limiti la sua, attraverso le psicosi della mente e l’estetica dell’arte. Una ricerca demolitrice ed indefinibile che attraversa ironia ed angoscia, strutture minimali o massimali interpretazioni corali. Considerata nell’ottica del suo enorme valore, la sua è una produzione artistica notevole (una carriera di quasi quarant'anni, con circa ottanta lavori prodotti tra musica, teatro, balletto e film). Un'opera disciolta ed alimentata dalle proprie, continue ed innumerevoli mutazioni, che assume, ad un’analisi retrospettiva, l’aspetto di una ricerca darwiniana sull’evoluzione della voce stessa, di un trattato di filosofia artistica o di una tesi in psicanalisi musicale. Rifacendosi al metodo di Jaques Dalcroze, mirato a stabilire collegamenti tra corpo, mente e sfera emotiva per una percezione ed un’assimilazione profonda di tutti gli elementi musicali, la Monk è una delle prime cantanti ad esplorare ed integrare nella sua musica tutta quella serie di relazioni tra il movimento della danza ed il canto arrivando ad una vocalità “rappresentativa”, ad una vocalità con una forte componente gestuale. Americana d’adozione, artisticamente figlia del modernismo newyorkese di fine anni '60, Meredith Monk nasce a Lima in Perù il 20 Novembre 1942 da una famiglia con una lunga tradizione artistica. A New York consegue nel 1964 la laurea in danza presso il Sarah Lawrence College. Inizia a lavorare nello spettacolo come ballerina, pianista e cantante di musica folk e rock. Successivamente s’impegna in un'attività a tempo pieno come coreografa teatrale e, nel 1968, fonda la compagnia artistica The House, il suo progetto principale, quello con cui inizia la propria ricerca e che è tutt’oggi (fine 2006) attivo. Nel 1978 dà il via ad un altro progetto, il collettivo Meredith Monk & Vocal Ensemble. Da entrambi scaturisce una visione di "interdisciplinary performance" ovvero l'idea di uno spettacolo multidisciplinare nel quale si mescolano varie arti visive (danza, mimo e teatro), luci ed immagini con canto, recitazione, suoni e musica (Andy Warhol ed i Velvet Underground, sul finire dei sixties, avevano messo in piedi, a qualche chilometro di distanza, un qualcosa di similare con l'Exploding Plastic Inevitable). Attraverso un particolare training vocale, con lo studio delle onomatopee, del linguaggio umano ed animale, elabora la "tecnica vocale estesa" ("extended vocal technique"), una tecnica tesa alla massima dilatazione della prospettiva vocale. Riprendendo i concetti della danza, la voce è considerata lo strumento musicale per eccellenza, uno strumento dalla totale flessibilità di movimento, uno strumento sovrapposto, imitante ed armonicamente inscindibile dal movimento del corpo. La voce per far questo si allarga su tutti i registri, si moltiplica, si svincola dal tempo, si muove nello spazio. Le parole vengono denaturate del significato e ridotte a suoni. Parallelamente, le performance sono accompagnate da musicazioni scarne, fatte per lo più da ripetuti pattern d'organo e/o da minimali punteggiature ritmiche. Un’operazione in cui il teatro e soprattutto l’insieme musica-canto-suono sono le parti principali. Una musica ed un canto praticamente indefinibili (questa volta è veramente difficile dire ciò che si sente…), una musica con l'energia del rock, la libertà del jazz e la precisione della classica. Se si escludono precedenti lavori ibridi tra teatro e musica, la raccolta “Key” del 1971 può essere considerato il primo album “ufficiale” di Meredith Monk e, allo stesso tempo, una delle sue opere meno musicali e di più difficile interpretazione. L'album (che nonostante la ristampa in cd rimane difficile da trovare) propone, in 46 minuti, dieci brani tratti dalle performance itineranti del suo Invisible Theatre eseguite nei quattro anni precedenti la pubblicazione dell’album stesso. Insieme con un coro di cinque voci, Meredith Monk canta e suona l’organo elettrico. “Key” (come del resto tutta la sua discografia) è una sequenza così particolare e di una complessità artistica tale da rendere arduo il trovare una sua chiave interpretativa. Siamo contemporaneamente vicini al rock astruso di Captain Beefheart, all'hard core di John Zorn e al minimalismo di Steve Reich e Phillip Glass. Autentici frammenti di genialità sono: la ricerca di What Does It Mean?, dove la voce della Monk stridula, allucinata e al limite della demenza è interrotta da un lamento e da rumori industriali; Vision, con lunghissimi droni d’organo contrastati da urla sguaiate e volteggianti nello spazio; Change, un solenne coro a cappella, un’invocazione religiosa; la conclusiva Dungeon, con l’andamento di una marcia d’antichi guerrieri dove, sospese su un ritmo di percussioni, i gorgheggi della Monk ciclano tra il lamento, la pazzia e l’estasi. Nel 1974 arriva “Our Lady Of Late”. Le strutture musicali sono ridottissime, si evoca il tutto ed il niente: filosofia profonda contro il vuoto cosmico, alcuni brani sembrano più lavori destinati ad un’analisi psichiatrica piuttosto che musicologica. Passano cinque anni e nel ’79 arriva “Songs From The Hill – Tablet”. Proprio con i 23 minuti della suite Tablet, la Monk realizza una delle sue migliori composizioni: un'adunanza dell'assurdo fatta di urla ed ossessi, scandita dalla ciclicità autistica dei pianoforti. Dai primi anni ’80, per Meredith Monk nasce un sodalizio artistico molto importante con quella che diventerà la sua principale etichetta: l’ECM di Manfred Eicher. Proprio per l’ECM, nel 1981 esce “Dolmen Music”, uno dei più grandi dischi d’avanguardia di sempre e, nonostante questo, tra i suoi capolavori il più musicale ed accessibile. L’album s’ispira al simbolismo minimale e monumentale dei dolmen bretoni. Vengono registrati cinque brani composti nel periodo tra il ‘72 ed il ’79. Nei primi quattro, Meredith Monk canta e suona il piano accompagnata da percussioni e violino (quest’ultimo appena udibile). Apre la sintesi di Gotham Lullaby: il brano si riduce a tre note di piano contornate da un corollario di gorgheggi astratti, in un’atmosfera di stasi catartica. Nella ballata di Travelling la voce si arrampica su un soprano al limite dell’umano in una diagonale che porta da un formalismo di stampo occidentale al canto dei monaci tibetani. L’opera buffa di The Tale propone il proprio teatro senza immagini con la Monk lanciata in un delirio bambinesco folle e divertito. In Biography il ritmo si fa sonnambulo: un accompagnamento di piano guida un linguaggio fantastico attraverso quella che può sembrare indifferentemente una ninna nanna o un’evocazione dell’oltretomba. Nell’ultimo dei cinque brani, Dolmen Music, Meredith Monk fa parte di un coro di cinque voci accompagnate da violoncello e percussioni: 23 minuti in sei movimenti, pura accademia per suoni vocali e dentro c’è di nuovo tutto: si passa da un coro gregoriano fatto di frasi essenziali e monotoniche, una solennità a tratti meditativa altre volte ossessiva, contorsioni di voci piegate dalla forza dell’istinto, urla da mercato e schiamazzi. Nel 1983 esce “Turtle Dreams”, un altro suo capolavoro. È una raccolta di composizioni per film e teatro degli anni che vanno dal ’75 all’83. Turtle Dreams (Waltz) e View 1 & 2 sono le cellule principali dell’album. In Turtle Dreams (Waltz) un coro di quattro voci si scontra con la polifonia da messa cristiana di quattro organi (la Monk fa parte sia del coro, sia dei suonatori d'organo). Il brano è un tunnel gotico e decadente nel quale le voci intonano lampi infinitamente lunghi di cruda pazzia confinata dalla liturgica serialità dell’accompagnamento. View 1 è una mini suite per piano romantico inframmezzata dalle cantilene bambinesche della Monk, View 2 è un duetto tra voce ed organetto elettrico con la voce ancora sintesi del linguaggio universale: un’espressione ancestrale dell’istinto che by-passa la forma del linguaggio. Con le medioevali e magiche atmosfere di “Book Of Days” del 1990 (colonna sonora del film omonimo), Meredith Monk sembra per un attimo abbandonare le drammatiche e spigolose teatralità dei lavori precedenti per qualcosa di più standardizzato (fa eccezione il brano Madwoman’s Vision). “Facing North” del 1992 s’ispira all’estremo Nord ed ai suoi elementi: dalle Montagne Rocciose alla calotta artica, dalla Siberia alla Lapponia. Il cd, contiene anche parti di due precedenti opere teatrali: “Vessel” e “Recent Ruins”. Nell’album la voce di Meredith Monk duetta con quella di Robert Een (entrambi si accompagnano all’organo). Algidi stridolii (Northern Lights 1) fanno da contrappunto ad atmosfere “ambient” soffici, rilassate ed immobili (Chinook e Long Shadows 2) evocando versi di balene distorti da gelide profondità marine (Hocket). Il gigante–minimalista doppio cd “Atlas (An Opera In Three Parts)” del 1992 è la parte sonora del lavoro commissionatole due anni prima dalla Houston Grand Opera (probabilmente, nella discografia monkiana, l’album di più ostica assimilazione). Le ricerche coristiche di “Volcano Songs” (1997) precedono “Mercy” (2002), un altro suo capolavoro discografico. È l'album con gli arrangiamenti e la struttura armonica più complessa: sette voci, fiati, archi, percussioni, sintetizzatori e piano. “Mercy” è una rassegna sconfinata di ambientazioni materializzata da dondolii paranoici, esternazioni di pazzia, esercizi di poliglottologia babelica e (addirittura!) un clarinetto jazz. Libere espressioni di pensiero sono lo himm... tetro e surreale di Braid 2, l’ipnosi di Urban March (Shadow), i mutamenti vocali di Doctor / Patient, i distorti echi contrapposti ad urla di souk tunisini di Line 3 And Prisoner e l’infinita litania cantilenata della conclusiva Core Chant. Quanto detto evidenzia come l’ascolto di Meredith Monk sia un’esperienza mai scontata, sempre sorprendente. Lei ha viaggiato sia fisicamente sia metaforicamente i luoghi fisici ed i non luoghi mentali delle civiltà ricostruendo con la sua voce le loro gesta. Ne esce un nuovo concetto di voce teatrale-musicale. Ne escono disegnati i tratti di un'artista unica, un vero cordone ombelicale tra due mondi distantissimi come quello dei grandi sperimentatori contemporanei: Luciano Berio (particolare riferimento a “Laborintus”), Karlheinz Stockhausen, Arnold Schönberg e Klaus Shulze; con la schiera delle rock-ladies più estreme: Nico, Lisa Germano, Shannon Wright, Laurie Anderson, Joan La Barbara e Kate Bush.