manutenzione conflittuale “CE L`HO FATTA!”

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manutenzione conflittuale “CE L`HO FATTA!”
manutenzione conflittuale
di Paolo Ragusa
“CE L’HO FATTA!”
Cambiare ogni giorno il proprio destino
In questo periodo ci sono due immagini che, tutte le volte che le guardo,
mi colpiscono molto.
Una è una mia foto da bambino, devo
aver avuto circa 8 o 9 anni, e ogni
volta mi intenerisce e commuove al
tempo stesso. Di fronte a quella foto,
penso: “Ce l’ho fatta!” Quel bambino
ce l’ha fatta a portare avanti un sogno che all’epoca ancora non immaginava, a scoprire risorse che non sapeva di possedere, a individuare un
obiettivo all’epoca indefinito ma che
gli interessava. E ogni volta è come
se rinnovassi il patto con me stesso e
con gli altri, in particolare con le persone di cui mi occupo nel mio lavoro,
il patto di aiutarle a creare le condizioni perché possano dire la stessa
cosa, dire: “Ce l’ho fatta!” o forse
anche solo: “Ce la sto facendo”.
La seconda immagine è la foto di Giovanni. Giovanni è un giovane, un adulto che oggi ha 30 anni, che ho incontrato in un progetto che sto seguendo
con ragazzi con disabilità complessa,
con difficoltà anche molto gravi. Io in
realtà mi occupo dei genitori: li aiuto
a vivere questa difficile genitorialità.
Questa foto è stata scattata qualche
mese fa, durante una giornata dedicata alle autonomie, in cui lui e i suoi
compagni si sperimentavano senza i
genitori. A un certo punto Giovanni ha
urlato: “Bravo!”. Io sono rimasto molto colpito: come se Giovanni in quel
momento avesse realizzato che riusciva a fare qualcosa che a noi poteva
apparire banale ma che per lui era
estremamente difficile se non impossibile, e cioè lo stare con altri ragazzi
in gruppo senza la presenza dei suoi
genitori. Il “Bravo!” di Giovanni è un
altro: “Ce l’ho fatta!”.
It always seems impossible
until it’s done.
(Sembra sempre impossibile, finché non viene fatto)
Nelson Mandela
Queste due foto mi suscitano alcune
considerazioni. Intanto il realizzare
che ogni giorno, nella nostra quotidianità, attraversiamo una sottile linea d’ombra che ci porta, in qualche
modo, a misurarci con una scelta,
una responsabilità: rinunciare, lasciar
stare, lasciarsi andare, o mettere
quello sforzo in più per potercela fare. È una linea sottile ma la nostra
scelta fa la differenza. Da un lato
sperimentiamo l’autonomia, la soddisfazione, anche il brivido, la vertigine
dell’essere soli. Dall’altro c’è la dipendenza, la rinuncia, l'assecondare
un certo nostro destino, l'impotenza
nel seguire il nostro sogno.
Ogni giorno decidiamo da che parte
stare e credo che ci siano tre coppie
di termini che possono aiutarci a riflettere sulle dinamica del nostro attraversamento di quella linea per fare un po’ di manutenzione: impotenza/impossibilità; rinuncia/accanimento; fallimento/successo.
Impotenza/impossibilità. Quello dell’impotenza è un gioco sempre a perdere: richiede un continuo confronto
con l’ideale, con aspetti della nostra
visione idealizzata di noi stessi o della
realtà. È un gioco a perdere perché
nell’impotenza, come nella potenza,
perdiamo di vista la realtà, il limite.
L’impossibilità è collegata al limite: ci
fa riconoscere che ci sono aspetti della
nostra vita, delle nostre relazioni, del
nostro desiderare che sono effettivamente limitati, in cui è presente una
misura di possibile e impossibile. Eppure questo gioco a perdere con l’impossibilità lo fa chi effettivamente si
mette a giocare e potrà quindi arrivare
a davvero a dire: “Ce l’ho fatta!”.
Rinuncia/accanimento. Spesso rinunciamo quando scopriamo in qualche modo che ciò che vorremmo non
possiamo raggiungerlo. Allora ci tiriamo indietro. Invece di giocare, di
scommettere fino magari a scoprire
che forse è impossibile, abbandoniamo prima: è come un giocare d’anticipo nel compromettere un risultato
che sappiamo, o ipotizziamo, irraggiungibile. Nell’accanimento c’è in-
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vece il gioco a tutti i costi: pur nell’impossibilità non riconosciamo la
componente del limite. Ma il limite è
un elemento necessario delle azioni
o delle situazioni o delle relazioni che
viviamo: non accettarlo non ci aiuta
a proseguire verso il farcela.
Fallimento e successo. Nel fallimento e nel successo la misura è
sempre esterna. Non siamo soprattutto noi a determinare la possibilità
di uno o dell’altro, ma è sempre un
fattore esterno che ci dice: qualcosa
è andato storto, qualcosa per il verso giusto. Il riscontro di questa coppia di termini è sempre conformistico, c’è una misura che altri stabiliscono come raggiungibile o non raggiungibile. Invece nell’espressione
“Ce l’ho fatta!” c’è una condizione
interna che ciascuno può stabilire e
verificare: la quotidianità ci pone
nella possibilità di misurarci con
questa condizione interna. Significa
non giocare al ribasso, e al tempo
stesso non sopravvalutare le forze
che possiamo mettere in campo.
Sorpassare la linea sottile dal lato
del “Ce l’ho fatta!” significa riconoscere che ciascuno di noi ha delle
forze sue personalissime, delle risorse da mettere in campo, e vanno
giocate nelle condizioni nelle quali
ci si trova a giocare.