lettere alla rivista - Ordine degli Avvocati di Milano

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LETTERE ALLA RIVISTA
LA MIA PROFESSIONE, OGGI
Tra qualche mese, raggiungerò gli ottant'anni di vita e i cinquanta di professione; senza contare gli
anni passati, come studente universitario e praticante, nello studio legale di mio padre, Avv.
Salvatore Occhipinti.
Nel corso della mia lunga attività professionale (intensa nel campo civilistico, come consulente di
grandi e piccole aziende e privati, meno intensa in sede penale e limitata ai processi per
contravvenzioni ecologiche) ho dovuto amaramente constatare che il legislatore (forse per motivi...
demagogici!) ha proceduto a modificare tantissime norme procedurali, a danno degli attori e a
favore dei convenuti.
Tali modificazioni, spesso non giustificate, sono causa, anche se non esclusiva, delle lungaggini
processuali di cui tanto ci si lamenta.
Mi spiegherò con alcuni esempi.
Prima, le procedure ingiuntive erano piuttosto veloci. Si otteneva il decreto, dal Pretore o dal
Presidente, in 20-30 giorni (oggi, dopo alcuni mesi).
Dalla notifica del decreto al debitore, questi aveva 20 giorni per l'opposizione: un termine
ragionevole e non penalizzante.
Il nuovo Codice di Procedura ha prolungato tale termine a 40 giorni, che possono anche diventare
molti di più, se nel frattempo maturano i 45 giorni delle ferie giudiziarie (che un tempo non erano
previste).
Sono anche stati prolungati i termini per la costituzione in giudizio dei convenuti. E non parliamo
dei ben noti rinvii di mesi (e talvolta di anni!), nonostante l'istituzione del Giudice Unico.
Ma quello che ad un vecchio avvocato come me fa più rabbia, è che dei pilastri giuridici che
sembravano fermi sono invece miseramente crollati per un colpo di penna di un legislatore senza
buon senso.
Ricordo che mio padre (deceduto nel 1954) mi sottolineava, come reati economici più gravi,
l'emissione di assegno a vuoto e la sottrazione di beni pignorati.
Il creditore, che anche a quei tempi aveva dovuto avere tanta pazienza e anticipare del denaro per
le spese giudiziali, aveva almeno la certezza che, in entrambi i suddetti casi, il suo debitore sarebbe
incorso senza alcun dubbio e con una certa sollecitudine, in un'ipotesi di reato, che lo portava
davanti al Giudice Penale: e ciò costituiva un incentivo a saldare il suo debito.
Ebbene, i due reati sono stati depenalizzati o, più precisamente, non sono più procedibili d'ufficio,
ma solo a seguito di denuncia e querela del creditore, il quale, dopo aver dovuto sopportare le spese
di una procedura civile, si trova costretto a rivolgersi anche al penalista!
E con quale risultato?
Mi è capitato, in un paio di casi, di comportarmi anche... da penalista, predisponendo, avanti la
Procura, denuncia e querela per truffa (assegno a vuoto) o per sottrazione (vendita da parte del
debitore-custode!) di beni pignorati. Sono passati un paio d'anni, nel silenzio più completo!
E potrei continuare, parlando, per esempio, dei continui rinvii in materia di sfratti, in base a norme
o comportamenti che tutelano i convenuti e danneggiano gli attori.
Immagino che la stessa aria si respiri anche nel campo penalistico.
In passato, per molti anni, avevo affidato alcuni casi di «penale» al compianto e caro amico Sergio
Ramajoli, che accettava senza discutere l'incarico.
L'ultima volta che gli proposi di rappresentare un mio cliente, mi sentii rispondere: «Se è imputato,
volentieri; se invece è parte offesa, rivolgiti a qualche altro penalista!».
Senza commento!
E potrei continuare...!
Questa professione, che ho amato per decenni, è diventata più difficile e spesso deludente.
Che fare?
Dirò che sono contento di avere quasi ottant'anni!
Luigi Occhipinti
PEDANTERIE DI UN VECCHIO AVVOCATO
Amici, almeno voi, soprattutto voi: non lo fate più! È orribile; mi getta in violentissime crisi di
sconforto dalle quali mi risollevo faticosamente per ripiombarvi subito, alla prima immancabile
occasione.
Io ho stato, ormai non lo dice più nessuno. Non mi dà fastidio: è difetto di scolarizzazione.
Di questo errore, invece, ne abbiamo continue esemplificazioni. Ma non è questo: ormai pare che
tutti abbiano dimenticato che di questa comitiva ne fanno parte non si può dire. Ma sono proprio
quelli che vogliono parlare difficile che abusano sempre delle epressioni più in auge quali «al
limite» «nella misura in cui» «voglio dire» «un attimino» o addirittura «i sensi di colpa». Edipo e
Clitennestra erano afflitti da un senso di colpa. Costoro invece sono sopraffatti da un senso di colpa
plurimo se non hanno ancora portato la bambina a Gardaland.
Ma anche su questo passo.
Quello che invece interrompe la mia percezione di qualunque discorso, anche il più elegante e
seducente è questo, il quasi innominabile, l'efferato «a me preoccupa» (l'ho sentito dire a ministri e
vicepresidenti del consiglio, a ex presidenti del consiglio, giornalisti cattedratici di lingua italiana,
presentatori di rubriche culturali, intrattenitori, giudici, avvocati. La misura è colma!); il caso è
semplice: almeno per chi ha fatto il primo anno di latino: MI CI VI in italiano stanno sia per A ME
A NOI A VOI (dativo) sia per ME NOI VOI (accusativo). Quindi MI preoccupa sta per preoccupa
ME, mi diverte sta per diverte ME. Dunque a me piace sta bene ma a me diverte non si può: è
corretto solo mi diverte o mi preoccupa.
Insomma tutto questo mi preoccupa e non mi diverte.
Adamo Musicco
NON PER CAUZIONE
Quando la notizia che stavano per arrivare bombe dal cielo si diffuse in giro per la città, quelli che
si trovavano nella zona verso l'Idroscalo, presi dal panico, presero la direzione del centro.
Era stato un giovane, dal nome greco antico, a dire «in Tribunale, almeno lì ci si salva».
Così, nei piani bassi del Palazzone di Porta Vittoria, si erano ammassati in tanti, lì c'era spazio,
sufficiente spazio da non doversi buttare gli uni sugli altri. Il luogo dava abbastanza sicurezza, nel
frangente, più di un rifugio indicato con la scritta a carboncino verso la cantina di qualche casa,
mèta occasionale di un bombardamento notturno per chi non se la sentisse di stare nel proprio letto.
L'ho sentita raccontare diverse volte questa storia, che non ha targhe sui muri della città, perchè
testimonia di un tumulto passivo e di paura, poco onorevole per il corrente sentimento civico.
Come fu per l'incendio della Scala, un fatto che non si scuce di dosso a chi c'era.
Solo, negli anni, quando mi sentivo chiedere se lavoravo in Tribunale, io che lì ci vado solo
fortuitamente, ho sempre tenuto a puntualizzare che no, che quello non è mio luogo di lavoro,
soltanto si incontrano persone, si celebrano processi, succede anche di peggio come incontrare
gente in manette, ma non si lavora.
E mi par proprio, ancora oggi, che sia così.
Ce ne sarà che pensa di andare in Tribunale a lavorare, ma io dico che non è così, che è un'altra
cosa.
Sarà il fatto di pensare ad un'epoca prenatale _ il periodo di guerra _ a farmi escludere che sia solo
una storia di politica o inventata da uno storico di professione, per il mio modo di sentire, come
avvocato che dai clienti ne ha sempre ottenute tante, salvo la loro disponibilità.
Milano, 5 marzo 2002
Gabriella Pontevia