dietro il fogliame - Progetto Giovani Spilimbergo

Transcript

dietro il fogliame - Progetto Giovani Spilimbergo
L’Amministrazione Comunale ha il piacere di presentare “Dietro il fogliame”, raccolta di racconti
nati durante il Laboratorio di Scrittura Creativa promosso dal Progetto Giovani nel periodo
dicembre 2008 - aprile 2009 .
Dopo il teatro e la fotografia che da anni sono due dei corsi più seguiti tra le iniziative rivolte ai
giovani, anche quello con la scrittura vuole diventare un appuntamento fisso, visto l’entusiasmo e
l’impegno dimostrato da questo piccolo ed eterogeneo gruppo di scrittori in erba che, sotto la guida
di Stefania Buosi (insegnante di lettere formatasi alla Scuola Holden diretta da Alessandro Barrico),
si è messo alla prova sperimentando diversi generi letterari e tecniche narrative, partendo sempre da
uno stimolo comune ed elaborandolo secondo la propria capacità, la propria creatività, il proprio
stile.
Si è deciso, non a caso, di presentare questo lavoro come ultimo appuntamento del ciclo di serate
“Quattro autori al bar”, realizzato all’interno delle attività previste dal Piano Triennale delle
Politiche Giovanili della Provincia di Pordenone, dove il Progetto Giovani questa volta diventa
protagonista, ritagliandosi uno spazio per presentare alla comunità i propri “autori” e il risultato del
loro lavoro.
Buona lettura a tutti!
dott. Renzo Francesconi
Sindaco di Spilimbergo
Marco Dreosto
Assessore alle Politiche Giovanili
DIETRO IL FOGLIAME
Antologia di un laboratorio di scrittura creativa
Questo laboratorio rappresenta un ulteriore tassello del fermento che, da dietro il fogliame – e con
questa espressione vogliamo indicare un movimento sempre più consistente che sta al di fuori dei
circuiti culturali più visibili – raccoglie tutti coloro che, all’impulso della scrittura, proprio non
riescono a resistere…e che sono arcistufi di vivere come dei topini chiusi nelle loro biblioteche! Si
scrive anche per condividere e quindi, perché non farlo da subito? Ecco quindi che i topini iniziano
a incontrarsi in gruppi, a organizzarsi, a scambiarsi pareri e a diventare più grandi. E questo ben
s’intende con tutto il rispetto per i preistorici topini che, anche quando stavano nel chiuso delle loro
biblioteche, di gran lunga erano preferibili a chi neppure il giornale quotidiano leggeva…
Cos’ è un laboratorio di scrittura creativa?
Il laboratorio è un percorso volto ad aiutare gli scrittori e aspiranti tali, gli appassionati di
narrazione, ad entrare in contatto tra loro, a scambiarsi pareri sulla narrazione e suggerimenti.
Come funziona?
Sono incontri della durata di 2h.
La prima ora è dedicata alle teorie (lettura e commento di testi scelti).
La seconda ora è dedicata alle tecniche narrative (laboratorio).
Nei laboratori si scrive, si riscrive, si dibatte.
L’attenzione è principalmente rivolta al PROCESSO della scrittura. Che parte dall’elaborazione di
vissuti, emozioni, sensazioni, esperienze, per arrivare alla scoperta di un nuovo modo di guardare e
di guardarsi, ad un racconto personale e antimanierista. L’obiettivo è quello di mettersi a nudo
senza i filtri della cultura ufficiale, della morale, dell’accademia.
dott.ssa Stefania Buosi
docente del corso
LA MOTO, LA BIONDA E IL CAPRIOLO
(Matteo Cimarosti)
-1,6°.
Che posto di merda! Me ne vado da sto posto, me ne vado …. Ma intanto oggi cosa faccio? Troppo
freddo per la moto, rimango a casa, già assaporo il divano,il tè, la coperta, il tepore … tepore che
poi però diventa torpore, sonnolenza, aria chiusa, mal di testa e altra occasione persa. Però se non
me la sento di andare è meglio stare a casa, ho deciso,mando un sms a Nicola e rimango a casa.
Calzetti coolmax, sottotuta windstopper, sottocasco interno in pile, protezione per la schiena a nido
d’ape, pantaloni e giacca a tre strati, stivali in gore-tex, guanti con inserti in carbonio rinforzati ….
che la vestizione abbia inizio! Anche se motociclista da poco sempre più sono convinto che la
motocicletta sia un rito e come ogni rito che si rispetti i celebranti devono essere adeguatamente
adornati e pronti per il rituale che vanno a celebrare.
Questa volta ho vinto la mia inedia e ho deciso di andare, esco, con passi frenati dall’abbigliamento
mi dirigo verso l’elemento centrale delle cerimonia, l’elemento più importate, il tramite tra
l’officiante e il Fine. Con un gesto che mi fa sempre sobbalzare lo stomaco dall’emozione tolgo il
telo giallo che la ricopre, ecco, adesso è libera e pronta ad esprimersi! Chiave, pulsante
d’accensione, il motorino di avviamento gira e trascina il motore che rimane incerto per alcuni
istanti salvo poi prendere un ritmo rotondo, ipnotico e rassicurante. La celebrazione può avere
inizio.
In mezzo alle strade solitarie riecheggia il rimbombo del motore, un sole poco convinto si sta
alzando, so già che non potrò contare su di lui per mitigare il freddo, ma almeno girare con la luce
riscalda lo sguardo ed i pensieri. Dopo alcuni mesi ancora mi chiedo cosa ci faccio sopra una moto,
ancora non capisco se sta cosa mi piaccia o meno. Tutto ha avuto inizio un anno fa’, quando Nicola
mi ha buttato la una frase del tipo “perché non prendi la moto? Poi andiamo in giro assieme!”
Perché non prendo la moto? Perché non ho mai avuto nemmeno un motorino? Perché mia mamma
ne soffrirebbe? Perché non ne sono capace? Perché ho paura? Capendo che le prime risposte erano
delle scuse con gli occhi bassi mi è uscito un “Perché ho paura”, “Meglio!” dice Nicola, “ti
divertirai di più, adesso hai paura perché non la conosci, ma come tutte le cose sconosciute che ci
fanno paura e che poi riusciamo a dominare ti darà moltissima soddisfazione!”. Fatta la patente e
cominciato a girare ho sempre meno fiducia nell’affermazione di Nicola, devo però dargli atto che
ancora il mezzo non lo conosco bene, per conoscerlo sempre meglio mi trovo oggi ad attraversare
questo paesello friulano addormentato. E’ un paese d’altri tempi, affermazione che di solito
identifica paesi antichi, perle incastonate nel panorama italiano, in questo caso, per me, d’altri tempi
identifica quei paesi ricostruiti nel post terremoto e lasciati tali da 25 anni a questa parte, paesi
dormienti, paesi dove gli anziani guardano da dietro le imposte i forest che passano. Anzi, decido di
fermarmi e di pervadermi in questa mestizia friulana, anche perché il freddo si fa sentire e qualcosa
di caldo è quello che desidero. Hanno fatto bene ad esporre il cartello “Bar aperto”, effettivamente
da fuori non si capiva, non c’erano molte luci colori e allegria a testimoniare la presenza umana.
Spingo la manigliona ottonata posta su una porta in legno, scrostata, con tre vetri molati, entro tutto
agghindato senza nemmeno togliere il casco e mi dirigo verso un tavolo. Vedo con la coda
dell’occhio che i due anziani clienti hanno smesso di leggere il giornale per capire chi si cela dietro
la maschera, li accontento sfilandomi il casco e appoggiandolo sulla formica verdognola del tavolo,
mi squadrano e dopo avermi catalogato come forest tornano a fiondarsi nella cronaca locale. Tolgo
il resto dell’abbigliamento inutile e mi dirigo verso il bancone deserto, il locale non presenta
sorprese, era come me lo aspettavo, con gli specchi anneriti, i lampadari da 20W e i bicchieri
duralex. Da dietro il bancone marroncino si accende un punto di colore, una chioma bionda si alza
in piedi con alcune bottiglie in mano, seguita da due occhi verdi e un sorriso capace di annientare
tutte le difese. Questa variazione sul tema della denigrazione del posto mi lascia alcuni secondi
interdetto, nello specchio vedo i due “lettori” che ridacchiano per la mia espressione stupida, per la
seconda volta la ragazza mi chiede cosa prendo e mi esce dalle labbra un “cappuccino” poco
meditato.
La ragazza non è bellissima ma ha un atteggiamento e un modo di fare a dir poco disarmanti,
quando sorride si mordicchia le labbra ed abbassa lo sguardo, dalle due parole che ha pronunciato
penso fosse dell’est, ma questo poco importa. Penso, bevo, pago, saluto ed esco seguito dallo
sguardo vigile ed ilare degli altri due, lo stomaco scaldato dal cappuccino e il cuore da un sorriso.
Odio quando le cose non sono come le prevedo (il bar triste doveva essere triste!), se però sono
meglio che ci posso fare? Di nuovo in strada, tutto adesso è più luminoso, affronto le curve con più
decisione, sotto il sottocasco sento le gote dilatate da un ebete sorriso che si appoggiano sui
guanciali del casco, continuo la mia strada verso Nicola. Pennello le curve, mi si presenta una serie
di tornanti che affronto in scioltezza, la moto sembra andare da sola, cosi come i pensieri che però
vanno per un’altra via, anzi a dir la verità questi sono fermi, ancora fermi al bar. Al bar …. al bar
non è successo niente, eppure la giornata è cambiata, la prospettiva è diversa, perché? Mentre mi
pongo questa domanda sono in piega che sto affrontando una curva a destra, sto uscendo dalla
svolta spalancando il gas quando noto qualcosa al centro della carreggiata, tiro con tutta la forza sul
freno, la moto si raddrizza all’istante quasi strattonata da un cavo invisibile,vedo sfilarmi sulla
destra la sagoma, con il freno tirato non ho nessuna direzionalità, invado la corsia opposta e fermo
la mia corsa cozzando con la ruota anteriore contro il guard rail. Arrivo quasi fermo all’impatto,
deglutisco, appoggio i piedi per terra incredulo di essere incolume, purtroppo le gambe non mi
sorreggono, cado da schiappa, quando ormai il più era fatto. Ancora a terra istintivamente dirigo il
mio sguardo verso l’ostacolo, in mezzo a tutta questo stridere di pneumatici e clangore, il capriolo e
rimasto immobile a fissarmi con un’espressione incuriosita, forse si chiede anche lui come ho fatto
a cadere. Se davvero se lo è chiesto si è anche risposto in maniera istantanea, visto che dopo alcune
frazioni di secondo è già che corre saltellando sul prato vicino. Ritorno in me, se penso al capriolo
significa che grossi guai fisici non ho, però devo muovermi, sono steso per strada in contromano,
benedico il Friuli con il suo traffico limitato che non ha fatto passare nessun veicolo. Faccio appello
a tutte le mie forze e dopo un paio di tentativi (di cui la schiena serberà memoria a vita ) raddrizzo
la moto e la posiziono sul ciglio opposto, valutando i danni. A parte la freccia posteriore destra
spezzata, la pedalina del freno piegata e un’ammaccatura alla pompa della benzina non ci sono
danni, le protezioni del motore hanno fatto il loro lavoro. Ancora con le gambe tremanti salgo,
faccio per inserire la prima quando capisco l’avvertimento che mi ha dato la moto. Con un sorriso
mesto mi rivolgo a quest’ultima: “Ok brutta stronza, oggi sei tu la protagonista, ho capito che se
penso ad altro tu me lo fai pesantemente notare, vedrò di non distrarmi e di portare a termine la
cerimonia come si deve. Promesso.“ Accendo e riparto, sono tesissimo, questa volta è andata dritta
ma la prossima? Questi pensieri e tensioni mi accompagnano per tutto il percorso, ogni movimento
che vedo ai lati della strada mi fa sobbalzare, ogni volta che mi fermo e devo appoggiare il piede a
terra cresce l’insicurezza. Arrivo da Nicola, non vedo l’ora di raccontargli tutto, è il mio mentore
motociclista e mi dirà qualcosa, mi rincuorerà, mi dirà che ho sbagliato la manovra, non so cosa ma
qualcosa mi dirà. Ascolta in silenzio il mio concitato racconto, quando ho finito mi guarda con uno
sguardo bonario e mi mette una mano sulla spalla, “Andiamo o facciamo tardi” mi dice, si infila il
casco,i guanti e con la calma e l’aplomb che lo contraddistinguono sale sul suo KTM. Ma come
“Andiamo o facciamo tardi?!?!?!?” penso tra me, potevo rimanerci, altro che tardi, come fai a
liquidarmi cosi! Sono quasi tentato di girare la moto e tornare a casa, eppure decido di seguirlo.
Man mano che tallono Nicola per le dolci salite slovene mi tranquillizzo, la mente si alleggerisce e
si distende, mi accorgo che per la seconda volta nella giornata un gesto ha avuto più effetto di mille
parole, vorrei pensarci su ma non posso, sono nel pieno della cerimonia e non voglio più
commettere l’errore di questa mattina. Anzi, non voglio pensarci, adesso sto bene e il perché non mi
interessa. La giornata prosegue come da ritualistico copione, paesaggi mozzafiato, risate al bar,
passaggi impegnativi e greve pranzo agrituristico. Di quello che è successo nessuno sente l’esigenza
di parlare, perché quindi farlo? E’ ormai sera, Il sole ci regala ancora un po’ di luce e Nicola decide
di accompagnarmi per un pezzo di strada. Siamo circa a metà strada quando ci fermiamo in una
piazza di una cittadina assediata per lo struscio del sabato pomeriggio, parcheggiamo le moto di
fronte ad un bar trendy, tra una porsche 911 4S e un SUV. Entriamo, una schiera di ragazzi ci
giudica da dietro gli occhialoni griffati (mai capito perché li portino anche di sera), le cameriere
tiratissime corrono tra i tavoli a servire cocktail variopinti. Incrocio lo sguardo di Nicola, capisco il
disagio,“Andiamo” gli dico, “ti porto io in un bel posto!” Venti minuti dopo siamo nel bar di questa
mattina, i due lettori di cronaca hanno cambiato posto e stanno giocando a carte con altri due, sono
molto concentrati e non ci degnano di uno sguardo, c’è anche un altro avventore appoggiato al
bancone, della biondina nessuna traccia, me la sarò sognata? “Perché mi hai portato qua?” mi
chiede “Perché ….” Che gli dico adesso? “Perché … Perché fanno una cioccolata buonissima! “
Ordiniamo due cioccolate ad una rassicurante signora di mezza età, ci sediamo e sorseggiamo in
silenzio la fumante bevanda. Il rito è ormai alle battute conclusive, ne rivivo tutti i convulsi
momenti, i miei pensieri sono interrotti da Nicola che mi espone il programma per il prossimo giro.
Questa volta è la mia mano che corre ad appoggiarsi sulla sua spalla, lo vorrei ringraziare di tante
cose, vorrei esternare tanti pensieri, ma dalle inutili parole mi salva il suo commento sull’ottima
cioccolata, che abbiamo fatto davvero bene a fermarci li.
GARE DU NORD
(Francesca Floreani)
La Gare du Nord non è cambiata come mi aspettavo, i binari finiscono nello stesso punto e la
grande galleria di metallo ha ancora lo stesso fascino, ma non la guardo più con lo stupore di
quella mattina di marzo, millenovecentotrentasette, con i miei vent’anni, a oltre mille chilometri da
casa.
Non potevo evitare di salutarlo prima di partire, la segheria di famiglia sembrava messa apposta in
cima al paese, subito prima del ponte, un passaggio obbligato che non mi aveva impedito di
indossare, per l’occasione, una faccia perfettamente offesa, resa ancora più credibile da
quell’espressione contratta di chi cerca a fatica di trattenere le lacrime.
Alto, magrissimo, allora come fino alla fine, non aveva fatto niente per farmi restare, non so se per
orgoglio o già per amore, se ne stava lì con i compagni di lavoro ad accompagnarmi con lo sguardo
di là dal fiume.
Per molti di noi già solo passare il ponte si chiamava viaggio ma quello non era il mio primo treno,
anche se aveva tutto un altro sapore rispetto alla littorina che ci portava su e giù da Udine, questo
sì che faceva sul serio, con le cuccette per dormire e il fischio ad ogni stazione, con le lingue che si
mescolavano sempre di più cjarniel, furlan, talian, forest.
Quella volta, la prima, ci misi due giorni per arrivare. Lo zio Silvio, fratello di mia madre, in pochi
anni pareva quasi aver perso quell’alone di disperazione che ogni immigrato si porta dietro; alla
stazione, lui con cappello e cappotto impeccabili, io con il meglio che ero riuscita a recuperare,
non sembravamo nemmeno parenti. gli odori e i suoni mi travolsero subito, era un misto di paura
ed eccitazione, era Parigi.
Strano per una abituata a dividere in due il suo piccolo paese, borc di cà e borc di là, e a chiamare
le case con il nome di chi le abita, trovarsi per la prima volta in una città così grande, in un mondo
così diverso, lontano nel tempo, non solo nello spazio. Lasciare persone riconoscibili dal proprio
albero genealogico, il figlio di questo la sorella di quest’altro, e trovare facce vestiti parole cibo
gesti non riconducibili a niente, nuove, sconosciute.
Ma a sorpresa la lingua non fu un problema, e ancora oggi spesso le parole e gli accenti si
confondono tra loro, specie quando racconto di quei giorni; iniziai quasi subito a lavorare in nero,
come commessa e donna di servizio, soprattutto; non ero clandestina ma per gli stranieri
funzionava così e ci volevano cinque anni per avere il permesso di guadagnare legalmente: a quel
che dice mia nipote, non sembra che sia passato tutto questo tempo. Ad ogni modo, non era una
vita facile, ma non so come, pesava molto meno.
E infatti non mi ci volle niente per amarla da subito, Parigi, con quell’atmosfera così elegante
nonostante la guerra sempre più vicina, come se lì fosse possibile dimenticare tutto il resto, la
miseria, la follia dietro l’angolo, la paura per il futuro, lo zio appena morto in Spagna, fucilato
davanti al Prado, che ancora oggi non riesco a credere che sia solo un museo.
Quella volta, la prima, durò più di due anni e quando la lasciai i tedeschi erano ormai a dodici
chilometri da lei, e tutto era così irreale e tragico e fragile. Nel frattempo lo zio Silvio lo avevano
beccato, a quel tempo era facile buttarsi in politica - e altrettanto difficile nascondersi - e non lo
rividi se non dopo tre anni, un altro viaggio in treno, questa volta verso sud, in un campo di
prigionia in Basilicata, di certo più fortunato di tanti altri, nella sua disgrazia.
Mi ci volle un mese per le pratiche burocratiche - l’Europa non era mai stata così poco unita - e
così arrivai appena in tempo per l’ultimo saluto a mia madre che morì giovanissima passandomi il
testimone e tre sorelle più piccole. Ma lo sapevo che sarei rimasta comunque e non ho mai creduto
che fosse quella la mia strada, e già mentre lo salutavo, in cima al ponte, sapevo che sarei tornata
da lui e che lui sarebbe rimasto ad aspettarmi; di quel periodo non so scegliere una giornata o un
momento in particolare, e i nomi e le facce sono sempre più sbiaditi, i contorni della storia
sfuocati, ma adesso, sotto la grande galleria di metallo, scopro che quei due anni, prima e dopo una
vita fatta di gioie e dolori, di figli nati e morti, di guerre e liberazioni, mi hanno salvata per sempre.
IMBRIGLIATE NELLA RETE
(Fabio Pes)
Ore 07,47. “Ecco Salah! Sempre all’ultimo momento”. Dice tra se e se Lia, scuotendo leggermente
la testa. Ha un sorriso dolcissimo e le sopracciglia leggermente aggrottate.
Lia è la ragazza di Salah, diciassette anni, alta, un po’ in carne, biondissima. Gli amici la chiamano
“La Meteora”. Alla mamma di Salah non piace molto. “Troppo appariscente”, dice.
Salah, con lo zainetto dei libri sulle spalle e un cornetto mordicchiato in mano, è appena uscito da
casa, dopo aver superato cinque “alzati, fai tardi”, due “esci dal bagno, perdi l’autobus”, due “hai
preso tutto?”, una mamma.
L’autobus è in fondo alla via. Impiegherà poco meno di un minuto ad arrivare alla fermata. Giusto
il tempo per raggiungerla - di corsa - ingurgitando ciò che resta del cornetto.
Salah è un compagno di classe di Lia, magrissimo, carnagione scura, peluria nera sulla mandibola
prominente, capelli lunghi e corvini.
E’ cordiale con tutti, ma non con Pieri, che ha in grande antipatia, ricambiato!
Pieri è l’inquilino dell’appartamento del piano terra. Si, proprio quello che sta sopra il garage, dove
Salah e i suoi quattro amici provano i brani duri del loro gruppo rock preferito, John Spencer blues
explosion, sottolineo explosion.
“Non sopporto quello lì - ha confidato un giorno a Lia – non perché mi chiama Ali Babà e i
quattro ladroni, ma perché non ci lascia mai in pace quando suoniamo”.
Pieri risponde alla loro musica battendo ripetutamente il manico della scopa sul pavimento, anche
lui senza tenere il tempo.
Poi, c’è quel fatto. Erano le 23,00 circa, di un lunedì di fine estate, buio e tempestoso … ehm …
pioveva! Dopo aver sentito due forti colpi, Salah ha sollevato il basculante del garage. Sono
apparse per prime le ciabatte, poi via via tutto il resto. E’ stato quando il portone è arrivato
all’altezza della pancia che Salah non ha avuto più dubbi: era lui, Pieri. Stava lì, sulla porta,
incurante della fitta pioggia, canottiera traforata, viso paonazzo, pochi e grigi capelli, labbro
inferiore tremante. Senza salutare, ha chiesto, nella lingua che gli è più familiare e che usa con gli
estranei solo quando è particolarmente arrabbiato: “Alore? Strasìns fil di fiâr, l’aveiso finide?
Trascinatori di filo di ferro? Nessuno aveva mai offeso così tanto la loro musica.
Ore 07,48. Salàh sale con un balzo sull’autobus, proprio mentre le porte si stanno chiudendo, come
ogni giorno. Questo, però, non sarà un giorno come gli altri. Lia e Salah ancora non lo sanno. Non
lo sanno nemmeno i loro compagni di viaggio.
“Ciao Lia”. Urla Salah, bloccato in fondo all’autobus, da un viaggiatore che sta incontrando
grosse difficoltà nella complicata operazione della convalida del biglietto. E’ un signore di una
certa età, occhiali con montatura scura e pesante, abito fumo di Londra, camicia bianca e cravatta
nera.
Lia è preoccupata, fa capire a Salah, con gesti e con un accentuato movimento delle labbra, di non
essere riuscita a stampare la ricerca che hanno preparato insieme. Il dvd, dove è scritta forse si è
smagnetizzato, non sa bene cosa sia successo. “E’ una tragedia”. Risponde nello stesso modo
Salah.
“Se questa mattina – pensa – non portiamo la ricerca, Corvo Rosso ci farà un … così”. Corvo
Rosso è il loro professore di fisica, Rosso per la chioma, Corvo per …
La signora, che sta in piedi, davanti a Salah - capelli turchini, viso senza età, taglia forte infagottata
in uno stretto vestito blu - vorrebbe tanto sedersi. “Quel vecchio non si sbriga…”. Pensa,
sistemandosi l’orlo d’organzino bianco che incornicia la sua temeraria scollatura, temeraria perché
i vent'anni sono ormai lontani. “Beh! Non è poi così vecchio. Ingannano i capelli bianchi e quegli
orribili occhiali scuri che sostengono quei fondi di bottiglia di champagne … da quanto è che non
vedo una bottiglia di champagne? Anche potendola acquistare, dovrei stapparla da sola, a casa
mia, tanto vale … però, brinderei volentieri con questo imbranato che sta litigando con la
macchinetta”.
“Hai finito? – pensa Salah, mentre guarda, sbuffando, il signore con l’abito fumo di Londra sembri il mio professore di latino, Occhio di Falco. Stessa aria da addormentato, stessi occhietti
prigionieri dei cerchi concentrici delle lenti spesse. Con quel biglietto, vedi di riuscirci prima di
Natale”.
Ore 07,56. Salah riesce, finalmente, a raggiungere Lia.
La radio dell’autista dà cattive notizie. Il volume è basso, però Salah e Lia sono lì, vicinissimi: “…
secondo il professor Allevi la smagnetizzazione dei dvd e cd rom è causata da un virus che gira in
Internet … pare che il fenomeno si stia rapidamente diffondendo in …”.
Attorno a loro scende un preoccupato silenzio. Sembra lontano il chiacchiericcio degli altri ignari
viaggiatori.
“Accidenti! – esclama Lia – Che cosa succederà se diventerà illeggibile ogni supporto
elettronico? BooOOM! Sparita la memoria della nostra epoca. E’ una sciagura. Sarebbe come un
nuovo incendio della Biblioteca di Alessandria d’Egitto”.
Prima di arrivare a scuola giungeranno altre brutte notizie. Si sta propagando in fretta l’incendio
della Biblioteca di Alessandria.
Ore 08,09. Un enorme ingorgo separa l’autobus dal Liceo di Lia e Salah, che è in fondo alla via,
dietro all’angolo. “Il semaforo è in tilt. Dicono che sia causa di quello stramaledetto virus dei
computer”. Riferisce un passante all’autista dell’autobus, che non può andare avanti, ma nemmeno
indietro.
Si aprono le porte e l’autobus si svuota. Lia e Salah, senza fretta, si incamminano verso Corvo
Rosso, che stamattina non potrà non giustificarli. Tagliano attraverso il piccolo parco che confina
con la scuola, fuggendo dai clacson assordanti e dalle inutili urla degli automobilisti. Anche il
signore con il vestito fumo di Londra si incammina lungo il vialetto del parco.
E’ intenso e piacevole il profumo dell’erba appena tagliata.
“Con queste nuove tecnologie – osserva Lia - nulla è scritto per essere conservato”.
“Giusto Lia, i supporti sono sempre più tarocchi..”.
“Hanno ragione questi ragazzi – pensa il signore con il vestito fumo di Londra, che li segue a
qualche passo di distanza – le nuove tecnologie sono efficaci per comunicare le informazioni, ma
non per conservarle. Quando ero giovane, il telefono, aveva di fatto mandato in pensione la
corrispondenza epistolare. Volavano via le parole delle conversazioni.
Poi, un mattino, è arrivata lei, la rete con le sue mail. Abbiamo ricominciato a scriverci, per lo più
rilassati, senza badare molto alla forma e alle regole, una sorta di zona franca della grammatica.
Le mail si confezionano in pochi minuti e si affidano subito alla rete, sono destinate ad una vita
brevissima, effimera, come le farfalle. Giorni fa, però, ho cercato alcune mie vecchie mail.
Credevo, temevo di averle perse. Fortunatamente le ho ritrovate: erano lì, imbrigliate nella rete,
come le farfalle”.
IL PAESE DELLE FARFALLE
(Chiara Cecconi)
C'era una volta un paese tutto colorato, dico tutto: le case, gli alberi, le persone, gli animali. Era
illuminato da una luce particolare, la luce del sole amico. Sì amico delle persone, degli animali, che
scaldava i cuori. Gli animali parlavano, le farfalle, accarezzate dal fischio del vento, danzavano,
creando un'atmosfera dolce e soave. Questo paese era chiamato "PAESE DELLE FARFALLE".
Regnava libertà, felicità, armonia: le bambine danzavano coi loro abiti colorati tra distese praterie
variopinte dove si posavano qua e là farfalle sognatrici. Pettirossi, allodole, colombine, tortorelle...
tra ciclamini, campanelle, papaveri, tulipani, girasoli... Un giorno, in questo paese giunse una
bambina di nome Giada, che faceva la ballerina. Il suo sogno era quello di poter diventare una
farfalla per potersi liberare da quello schema fatto di regole e principi ai quali lei non voleva
sottostare. Da farfalla avrebbe potuto danzare liberamente in quella natura magica. Giada incontrò
un cerbiatto e iniziò a rincorrerlo ma il cerbiatto, impaurito, si nascose dietro una grande quercia.
Era la "Quercia dei desideri", perchè in questo paese tutto aveva un significato, tutto. Così dialogò
con la quercia e, come per incanto, qualche attimo dopo Giada, che sognava di diventare una
farfalla,p er essere colorata e libera di muoversi, poté ammirare la sua straordinaria bellezza nello
specchio d'acqua di uno stagno di ninfee.
Attorno a lei le altre farfalle danzavano creando un cerchio dove tutto era canto e colore. Ma
l'incantesimo aveva un termine perchè Giada sarebbe presto tornata la ballerina che era. Le farfalle
si posavano su campi di papaveri rossi fioriti, su immense distese di spighe di grano ancora verdi,
tappeti colorati di rosso, giallo dove imponenti girasoli alzavano lo sguardo al sole. Le strade strette
di campagna erano animate solo da qualche passante che si perdeva in chiacchiere e pettegolezzi;
un giovane papà sorridente conduceva un passeggino, ragazzini giocavano a calcio nei campi,
sognando di diventare in futuro dei calciatori famosi. In questo paese le macchine non esistevano
perchè avrebbero inquinato l'aria pulita e fresca della campagna. E così le signore più ricche si
spostavano da un luogo all'altro con carrozze trainate da cavalli. Giada si posava sui vetri della
carrozza e si sentiva così piccina. Anche lei un giorno sarebbe salita su una di queste carrozze! Così
volò sul tappeto giallo di girasoli dando un ultimo saluto al sole prima del tramonto.
STROPICCIANDO UN PIANOFORTE
(Sergio Buoro)
Il grande cancello ci venne aperto da un usciere in divisa e la nostra vecchia Giulietta tinta panna
avanzò lentamente lungo la via ghiaiosa all’interno del grande parco. Non tardammo a vedere auto
parcheggiate ai lati in zone predisposte per gli invitati. Pochi passi per giungere ai piedi della
scalinata e ora veniva il bello: la nostra entrata a sorpresa. Infatti a causa del mio esame di terza
media non potemmo presenziare alla cerimonia in chiesa alla mattina e sarebbe stato da folli partire
poi per Torino. Invece partimmo, all’ultimo e a loro insaputa. Salendo i gradini si avvicinava la
musica dell’orchestrina del pomeriggio piemontese. Varcammo la soglia di Villa Bastiani e in
mezzo ai tavoli e al lusso degli addobbi, scòrsi subito la figura dello zio. Per un attimo sembrava
aver visto non quattro parenti, ma quattro fantasmi. Lentamente si alzò, fissandoci senza parlare, e
iniziò a battere le mani. Piano piano tutti i convenuti, assecondando il padrone di casa, si alzarono
ad applaudire. Tutti, alzatisi dai tavoli, guardarono verso di noi, perfetti sconosciuti ai più. Lo zio si
commosse e furono abbracci e festeggiamenti. Gli sposi ovviamente belli per qualche momento
passarono in secondo piano, ma in seguito fu davvero una grande serata in una atmosfera ed uno
scenario indimenticabili. Ambienti e vestiti, tavoli ricolmi d’ogni bene, sorrisi e sguardi di persone:
pareva di stare dentro un serial americano, stile Dallas.
E fu proprio in quella sala intrisa di orpelli, gente e festa, che in un angolo, dietro all’ultimo tavolo,
stava un pianoforte a mezzacoda, di tanto in tanto suonato da un anziano maestro impeccabile in
abito nero e papillon. Ascoltai qualche brano e poi approfittai della sua assenza per sedermi davanti
a quell’attrezzo per me da sempre così misterioso e a tratti inquietante vista la sua imponenza e la
sua particolare architettura meccanica che a scuola ci avevano spiegato.
Per fortuna gli invitati rumoreggiavano abbastanza così che io potei affrontare senza troppa
timidezza lo strumento, confidando che nessuno, o quasi, se ne sarebbe accorto. Il problema era che
non sapevo suonare, se non il flauto imparato a scuola. Così corsi a ricordare alcuni brani cercando
di riportare le note del flauto sui tasti bianchi e neri, suonando solo la melodia. Avevamo imparato
alcuni inni nazionali, tra cui la Marsigliese e il nostro “Fratelli d’Italia”. Non ricordo cosa venne
fuori ma appena riuscivo a mettere insieme due note che somigliassero al motivo che avevo in testa
per me era già un successo. Era un batticuore, lo strumento dava suoni di dolcezza e profondità e
variava l’intensità a seconda del mio tocco. In altre parole mi esprimeva! E io mi esprimevo tramite
lui. Così iniziai a improvvisare qualcosa usando anche la mano sinistra e rimanendo in tonalità di
Do maggiore, premendo cioè solo i tasti bianchi. Non so se rimasi dieci minuti alla tastiera, ma mai
avrei immaginato come avrebbero influenzato la mia esistenza negli anni a venire! Lo strumento
trasmetteva la vibrazione delle corde e del legno. Sentivo questo suo respiro musicale sotto le dita,
e poi sui polsi e ancora più su si propagava in me… Era un volo spiccato al prezzo di un po’ di
fantasia e tanto stupore, mi sentivo come in fuga da quelle pareti settecentesche e dalla masnada che
impegnava l’intero salone. Forse fu anche la magia dell’età che si apre alla vita più intensa e
complessa a rendermi tutto così spaventosamente bello.
Suonavo ancora e senza che me ne accorgessi si avvicinò il vecchio maestro e con elegante
movenza, battè le mani appena smisi di suonare. Io, rinfrancato dall’applauso dell’esperto, mi
convinsi che il mio modo di esprimermi forse aveva toccato il sentimento delle cinque o sei persone
che fruirono, loro malgrado, della mia musica. Fu così che ritornai tra i comuni mortali invitati a
pasteggiare con gli altri, mentre il maestro riprese a suonare. Col disincanto degli anni, però, ho
pensato che il vecchio pianista mi abbia applaudito per dire: “bene, basta così!” e poi riprendersi il
posto sullo sgabello. Chissà.
GLI ESERCIZI DEL LABORATORIO
1. RICORDO CHE…
Lo stimolo iniziale: nel primo esercizio proposto all’inizio del laboratorio, i corsisti hanno stilato
una lista di dieci ricordi (i primi che vengono in mente, come vengono in mente); dalla lista di
ognuno è stato poi scelto un ricordo che sarebbe diventato il punto di partenza per un breve
racconto o per un esercizio (sulla descrizione, sulla trama, sui personaggi).
Mi ricordo…l’estate incandescente sull’autostrada Savona – Ventimiglia. (Stefania Buosi –
breve racconto)
Era un’estate incandescente.
Ginestre gialle spuntavano dallo spartitraffico dell’ autostrada Savona – Ventimiglia.
Il sole rosso sangue aveva ceduto al cielo blu opaco. Con uno spicchio di luna bianco grigia.
Rimasi sveglia, mentre mia madre dormiva.
Papà iniziò a raccontarmi delle partite di poker clandestine all’aerobase.
-
E poi? - feci sgranando gli occhi che sbucavano da sotto la frangia.
E poi?
Eh… Come finisce?
Beh, mentre stavamo tutt’intorno al tavolo verde, avvolti da una nube di fumo denso, sentimmo…
Cosa?
Un rumore. Un rumore provenire dalla piccola finestra alta. Quella sul lato ovest della camerata.
Montavamo sempre di notte, in quel periodo.
Perché?
Per il pericolo di attentati terroristici.
Davvero?
Sì, sì e prova ad immaginare quale effetto ci fecero questi rumori.
Su, papi, dai, racconta…
Ascolta…Morra era il più alto tra noi. Si era raffermato dopo un anno nei VAM.
I VAM? Cosa sono?
Sentinelle.
Ah. E Morra?
Un collega. Un tipo in gamba.
Continua. Poi?
Morra aveva abbracciato il mitra. Che se ci penso adesso, si vedeva che se la faceva sotto pure lui.
Pure lui? Persino Morra?
Sì, tesoro. Pure lui.
Aiuto… - dissi, coprendomi gli occhi con le mani, ma lasciando tra le dita gli spiragli per vedere
dallo specchietto dell’auto gli occhi dolci sopra la barba di mio padre divertito.
Aveva infilato la punta fuori dal pertugio scuro e con tono imperioso urlò: Chi va là?
E chi c’era?
Non ci crederai…
Addirittura?
Sì.
Perché?
Perché era Vanelli. Il Comandante Vanelli in perlustrazione notturna.
E che ora era?
Che ora era? Le tre. Le tre del mattino. Lo ricordo perché tirai giù una buona mano e mi guardai il
polso.
-
Cioè?
Insomma…me lo ricordo. Erano le tre. Le tre e qualcosa.
E … Cosa fece il comandante Vanelli? Scrisse forse il nome di tutti su quel libro,papi…
Quale libro? Il libro nero, vuoi dire?
Sì, sì, proprio quello!
No.
E allora? Cosa fece papi?
Prese un tale spavento a sentirsi il mitra di Morra sulla gola che per un po’ si scordò del libro
nero. Sai, non è piacevole…
- O mamma… E poi? Ma dimmi quel libro papi… Cosa scriveva su questo libro nero il
comandante Vanelli, che non ho capito bene…
- Niente, lascia stare…
- E dai dimmelo, dimmelo!
- Beh…scriveva l’ elenco dei buoni e dei cattivi…
- E lui? Era buono papi?
- Direi proprio di no.
- Era cattivo?
- Sì. Molto cattivo. E ora dormi, tesoro. Siamo quasi arrivati.
Ho scritto, al buio, il racconto su un quaderno, con le righe oblique.
Ho scritto, con una penna roller sulla carta.
A mano.
Mi ricordo … quando indossai la maschera di Cleopatra ad una festa in un castello. (Chiara
Cecconi – esercizio sulla descrizione)
Una serata diversa dalle altre, magica, in un castello, un tuffo nel passato, tra giochi di luci e colori,
oggetti preziosi, Cleopatra vinse il primo premio per la maschera più bella. Direttamente dall'Egitto:
Cleopatra!! Questa fu la frase di un addetto alla giuria che proclamò il primo premio.
Tutto era pronto al castello, per la festa in maschera. Servizio guardaroba superorganizzato; tavoli
apparecchiati con cura; sala da ballo riccamente affrescata e illuminata da luci calde e dorate per
un'atmosfera intima e raccolta; e stanze segrete che conducono a giardini esterni fioriti.
Salivamo la strada bianca di polvere, sotto un cielo stellato; le cicale stridevano; un fresco
venticello estivo faceva ondeggiare la chioma di capelli neri, lucenti. Mi sporsi leggermente al
finestrino della coupè che lentamente avanzava tra i rami di fitti alberi che creavano un parco; vidi
spuntare merli di mattoni, finestre ad arco, un balcone con le colonnine una torre snella svettante
verso il cielo. Intanto la coupè svoltava nell'ombra del parco, imboccava un viale in salita e poco
dopo mi scaricava in un piazzale a mezzaluna tra siepi di ortensie, proprio ai piedi del castello. Il
tutto illuminato da candele.
Si apre la porta della coupè. Eccomi scendere!! Una pennellata di terra scura dipinge un volto
radioso, lucente, che non passa di certo inosservato; sguardo segnato da linee nere marcate, perfette
e sopra le palpebre stelline che brillano d'oro...fecero apparire i miei occhi come due lampioni.
Sangue sulle labbra carnose, dal profumo delicato come una rosa appena sbocciata. I capelli neri
lucenti coprono le spalle sulle quali posa un ampio colletto di stoffa dorata cucito con varie perle
dure colorate. Un abito lungo, nero, tempestato di applicazioni con motivi floreali, dorati; un
mantello anch'esso dorato; un copricapo maestoso rivestito di una carta crespa ricoperta da lustrini
e"paillettes" con la testa di un serpente che fuoriesce anteriormente sulla fronte. Non può mancare il
simbolo del potere,lo scettro,un simbolo che mi farà compagnia per tutta la serata, un bene prezioso
che tenevo con fermezza tra le mie braccia. E chi immagina che da un semplice tubo di gomma,
quelli simili alle pompe per bagnare i giardini delle case, rivestito di carta crespa dorata, si possa
ricavare un oggetto simile. Quanta pazienza, dedizione e amore dedicò la signora Isa alla
preparazione della maschera di Cleopatra!! E quanta cura e attenzione nel truccarmi per presentarmi
in perfetto ordine alla festa al castello!!
Cleopatra, con la sua ancella sotto le spoglie varca la porta principale del castello. Altre maschere
stanno affluendo. Le tavole erano imbandite di datteri, frutta esotica di ogni specie, anfore colme di
vini ricercati. Dopo la cena si aprirono le danze intrattenute da musiche varie e in finale la
premiazione da parte di una giuria selezionata. In una stanza del castello attirò la mia attenzione un
baule di ferro, di quelli che si usavano per mettere via la roba più che per viaggiare. Non era chiuso
a chiave, bastava tirare su il coperchio. Nell'aprirsi fece un cigolio lamentoso. Dentro una miriade di
lettere, indirizzate ai partecipanti. Un po’ gialle di vecchiaia, con l'indirizzo sbiadito. Spiccavano in
confronto i colori dei francobolli, tanto più che c'erano rappresentati uccelli esotici e fiori strani e
altre cose che sui francobolli soliti non si vedevano tanto facilmente. Provenivano da lontano. Aprii
una busta. Le mani mi tremavano. Il messaggio mi conduceva in una stanza appartata con la porta
finestra che immetteva in un giardino fiorito. E' qui che arriverà la persona dei miei sogni che si
presenterà coi biglietti d'aereo e un autista e che ci accompagnerà all'aeroporto dove un aereo
privato ci aspetterà per un viaggio in un paese lontano.
Mi ricordo…che i cessi cinesi facevano davvero schifo. (Francesca Floreani – esercizio sui
personaggi)
Ci siamo trovati in cinque, in mezzo a questi monti, ognuno con la sua motivazione. Io e Greta
sembriamo qui per caso, così cariche di bagagli da sembrare fuori luogo, e invece è da un mese che
seguiamo, con scarsi risultati, le tracce di un maestro tibetano nato da queste parti, prima di ritirarsi
su un’isola del Pacifico con la scusa del feng – shui.
Greta mi ha pure costretto a partire da Cheng Du – la nostra base in pianura – con le due bacinelle
per il bucato, costate qualche misero kuai: le sue braccia corte poco si intonano con i suoi fianchi
larghi. Per non parlare dei due dizionari a testa – identici e voluminosi – che c’è l’esame a
settembre.
Avinoam è israeliano, e a ben pensarci il primo che conosco: è innamorato del Tibet e in qualche
modo cercherà di passare la frontiera. Chissà se gli è mai passato per la testa il paragone con la sua
realtà di ogni giorno, e se crede che le vittime siano uguali in tutto il mondo. Non glielo chiedo.
Romain è nato in montagna e si vede. Ha i capelli lunghi, uno zaino leggero e le spalle sempre
scoperte. E’ bellissimo. Probabilmente ride spesso di noi, lui che viaggia con un ricambio e ricarica
la sua macchina fotografica-lettore mp3-videocamera supertecnologica – mai vista una, al tempo –
con un pannello solare attaccato allo zaino – mai visto uno, al tempo.
Seb è simile a lui, ma non certo fisicamente, se si eccettuano le spalle sempre scoperte. Nel senso
che anche lui sembra nato per viaggiare, nonostante a chilometri da qui sia un giovane impiegato in
banca. Sembrano amici da una vita, si sono conosciuti per caso qualche giorno fa in una altro di
questi monti cinesi, ad una gara di cavalli.
2. ESERCIZI DI STILE
Raymond Queneau, nel libro "Esercizi di stile" (tradotto in italiano da Umberto Eco) racconta la
stessa scena in 99 modi diversi cambiando di volta in volta lo stile o il registro, il punto di vista del
narratore, o il tipo di linguaggio. Il compito dei corsisti è stato quello di scrivere, partendo dalla
stessa scena, il centesimo "esercizio di stile".
Trama comune: verso mezzogiorno, su un autobus, un uomo si lamenta con chi lo spinge di
continuo e, appena trovato un posto libero, lo occupa. il narratore, due ore dopo, lo rivede da
un'altra parte con un amico, che gli dice di far mettere un bottone sulla sciancratura del soprabito.
Il punto di vista di un ragazzo (Adalberto Ambotta)
E' uno di quei mezzodì d'estate dove uno che deve spostarsi in autobus, incrocia le dita e si prepara
psicologicamente.
Eccolo che arriva. Velocemente salgo e vedo tutti imbronciati. Il caldo fa sudare e puzzare, dare di
matto.
Senza pietà, mi ritaglio lo spazio che mi porta ad un finestrino, almeno quello. I posti sono tutti
occupati. Lo apro e vi piazzo la testa fuori,così non sento la puzza delle persone che sclerano. Oh,
aria fresca, benefica come non mai. Il vecchio dietro di me continua a spingermi, magari non
vuole,ma ora mi sono proprio rotto il c***o!
Mi giro, lo guardo come se gli stessi predicendo la sua fine e mi trattengo. In quel mentre davanti a
me un giovane altissimo dal collo lunghissimo si alza e con un po’ di goffaggine si leva dal sedile
arancione e si piazza lì, davanti a tutti, pronto per uscire. Mi siedo sorridente, contento del posto,
con il braccio fuori dal finestrino. Attendo la fermata e mi levo da quel lombricone puzzolente.
Dopo, verso le quattro, sono con Piero seduto sull'erba del prato che fumo spensierato. Mi fa notare
che mi manca un bottone laterale della giacca e io ripenso a quel vecchio bavoso che avevo graziato
da insulti, meritava uno sclero.
“Vabbè” dissi, “ce lo farò mettere da nonna”.
Il 19 (Matteo Cimarosti)
Il 19. Già sapevo che il numero 19 era il solito maledetto carnaio, gente con facce di seconda mano,
stipendio e veleno per trent’anni almeno, come diceva quella canzone. Tipo questo omuncolo
sbiadito dietro a me che continua a spingermi, ma per andare dove? Continuo ad avere le sue punte
di vitello giovane sui miei talloni, che mi tocchi ancora una volta e mi giro! Per fortuna si è liberato
un posto, pace, pace per me e per i miei talloni … Scendo al parcheggio dove ho l’auto e …. no!
Ancora lui! Ed ecco il motivo del tanto spingere! Valeva la pena spingere tanto per farsi attaccare
un bottone dalla sartoria di fronte?
Il punto di vista di un cieco (Francesca Floreani)
Tanta gente sull'autobus stamattina, il solito cattivo odore. Due uomini, adulti direi, iniziano a
disquisire su chi ha pestato i piedi a chi; un gran vociare, poi di nuovo la calma. Lo stesso giorno,
mi pare di sentirla ancora quella voce sgraziata, parla con un tizio di una storia di bulloni, credo.
3. BATMAN NEL TRAFFICO
Come funziona l’immaginazione? Come possiamo stimolarla e metterla al lavoro? Questo esercizio
serve proprio a questo… immaginate Batman nella sua Batmobile, bloccato nel traffico dell’ora di
punta: la maschera e il costume ancora addosso, il gomito appoggiato sul finestrino aperto e il
mento rassegnato sul palmo della mano…
Esercizio di Fabio Pes
Oggi c’è un gran traffico sul Raccordo Anulare. Si viaggia a passo d’uomo.
Non ci badano i ragazzi sulla Yaris rossa. Una scatola di metallo rovente, zeppa di bagagli e di
musica sparata ad altissimo volume. Invivibile per i più, ma non per loro: sono giovani, sono in
vacanza e vanno a Roma.
“Ma,quella non è la Batmobile?! - urla Anna - Mamma mia, si è proprio la Batmobile, li dentro c’è
Batman, accelera, dai, dai, Carlo avvicinati”.
“E’ una parola, con questo traffico”, risponde Carlo, che osserva: “ogni volta che sono venuto a
Roma, quelle poche volte, ho sempre incontrato almeno un personaggio famoso”.
“E’ vero – conferma Sonia – la scorsa estate ho visto “Pia del Grande Fratello 3”.
“Beata te – interviene Anna, un po’ melanconica – invece io, tre anni fa, quando sono venuta a
Roma con la scuola, ho incontrato il Presidente della Repubblica”.
Batman è sudatissimo. Quarantenne, alto, fisico da atleta, un passato nei corpi speciali dei
Carabinieri (Bosnia, Kossovo, Afganistan, Iraq).
La Batmobile è infuocata ed è prigioniera del traffico della partita di Coppa Uefa, Roma - Bayern
Monaco. Il guaio è che non funziona il condizionatore dell’aria. “E’ un vecchio modello, non si può
più accomodare”, gli ha detto l’altro giorno, Nando, il meccanico che sta alla Garbatella, vicino
agli uffici della Batman Italia spa.
Batman vorrebbe tanto mettere in azione il sistema di ascensione verticale della Batmobile, ma non
può farlo, il protocollo permette questa operazione solo per ragioni di servizio. Non può, nemmeno,
togliersi la divisa, il regolamento lo vieta. Per la verità, Romolo Proietti, uno dei ventidue Batman
in servizio in Italia, ha già terminato il suo orario di lavoro. Sta, infatti, rientrando nella sede
dell’azienda. Lì potrà finalmente togliersi quella tortura, vestirsi da cristiano e prendere l’autobus
per tornare a casa da Flora, sua moglie. Poco più giovane di lui, capelli lunghi biondi, jeans e
maglietta, d'estate, jeans e maglionaccio, d'inverno. Lavora in un bar dalle parti di Ponte Sisto. Non
è soddisfatta del suo lavoro, vorrebbe smettere e dedicarsi di più ai loro tre figli. Potrà farlo, però,
fra sette anni, quando saranno finite le rate del mutuo.
Hanno da poco festeggiato il loro decimo anniversario di matrimonio. Dieci anni di difficoltà
economiche, dei soliti problemi familiari, ma anche di vita matrimoniale serena.
L’amore nella coppia – se funziona, la coppia – muta e cresce negli anni, si trasforma, alimentato
dalle prove e dalle esperienze condivise, grandi e piccole. Dal provocare l’accelerazione dei battiti
cardiaci e l’aumento della sudorazione alla vista della “morosa” o della giovane sposa, dilaga
sempre più, con il passare del tempo, invadendo ogni cellula e ogni pensiero.
Romolo Proietti è l’unico iscritto alla CGIL tra i dipendenti della Batman Italia spa, forse per questo
si becca spesso il turno di notte, quello dalle 22,00 alle 6,00 del mattino seguente, il peggiore. E’
proprio di notte che arrivano la maggior parte delle richieste di intervento per Batman.
Si lamenta della misera paga e del fatto che sia precipitato negli ultimi anni il prestigio di Batman.
E vero. l’altro giorno, ad esempio, mentre Romolo usciva in divisa dal bagno del distributore sulla
Tuscolana, quello convenzionato con l’azienda, un giovinastro – orecchino sul naso, cranio rasato,
jeans scoloriti sulle ginocchia e lì – gli ha detto in tono canzonatorio: “a Mandrake, facce ride”.
SBOoohm !!! Tutto si spegne di colpo. Buio!
La bimba con i boccoli biondi sta ancora puntando il telecomando contro il televisore spento,
quando sente una voce familiare provenire dalla cucina: “Samantha, non guardi più la
televisione?”
“No, mamma. E’ noiosa, molto noiosa, la puntata di oggi. Batman sembra papà quando ritorniamo
da Ostia la domenica sera”.
“Si, noiosa – le risponde distrattamente la mamma, senza staccare gli occhi e la testa dal
televisorino della cucina, dalla 142° puntata di quella bella telenovela brasiliana, quella dove c’è lui,
Raul – molto noiosa … Batman … Ostia … il papà … si è noioso, molto noioso papà”.
4. EMMA BOVARY AL SUPERMERCATO
Scegli alcuni personaggi letterari o cinematografici e falli interagire in un supermercato; il gioco
narrativo consiste nel far muovere questi personaggi coerentemente con le loro caratteristiche,
quelle che troviamo nei libri o nei film da cui li abbiamo rubati. Se poi la scena del supermercato, o
qualsiasi altra situazione narrativa tu abbia inventato, è venuta bene, nessuno ti impedisce di
cambiare i nomi e tenere il racconto.
Esercizio di Adalberto Ambotta
E' sabato, ore 19.25; squilla la campanella di chiusura del supermercato. La cameriera va di fretta,
respirando già la pace finesettimanale e invita i clienti a seguirla nel farlo, a spicciarsi insomma.
John era l'ultimo della coda e aveva un carrello pieno di soli alcolici: due casse di birra, una dozzina
di bottiglie di whiskey e qualcuna di rum. John era uno colla scorza, che da anni si minava e sempre
rimaneva in piedi. Girava sempre con una pistola dicevano, ma nessuno sapeva se l’avesse mai
usata. Uno come lui non lasciava tracce. Al banco c'era Rudy coi suoi due carrelli di siringhe e
cotone, pazzesco! Tra i due c’erano anche Charlie e Betty. L'uno, afflitto da tutti i mali, l'altra,
sempre depressa, compativa le sue sfortune.
John, vedendo la sceneggiata che quel tossicomane sta menando per non pagare la merce presa, con
sguardo d'intesa gli allunga due bigliettoni. Rudy lo fissa un po’, tanto da stamparsi nel cervello
quella faccia amica.
Esercizio di Francesca Floreani
I miei personaggi: il giovane Holden (narratore), Benjamin Malaussene, Aureliano Buendia, dottor
Eugenio Bortuzzi (il Prefetto di Montelusa, da "Il birraio di Preston" di Andrea Camilleri)
Sono in questo supermercato a comprarmi un panino, una birra o vattelapesca, qualcosa da mettere
sotto i denti, insomma e ti vedo questi tre personaggi che per la prima volta mi sono sentito uno a
posto. Allora c'è questo tizio che gira con un cane pieno di bave; un signore vestito di tutto punto, e
con tanto di monocolo nel taschino, gli fa notare che lì non ci può stare o meglio dice qualcosa
come "questo posto è riservato a bipedi senzienti", ma il senso era quello, credo.
Il tizio col cane se ne va, sembra uno abituato a fare quello che la gente gli dice. In quello ti entra un
omone irsuto con i capelli lunghi e la faccia segnata, sembra uscito da una foresta o da vattelapesca
quale altro posto strano. Il signore elegante, credo sia il padrone a questo punto, gli si fa incontro un
po' tremolante, alza il cilindro in segno di saluto. Credo voglia buttare fuori l'uomo della jungla.
Non fa in tempo a dire "messere" che quello gli pianta un pugnale sul petto. Ha l'aria tranquilla di
chi l'ha fatto un sacco di volte.
5. IL BINOMIO FANTASTICO
Questo esercizio è tratto da “La grammatica della fantasia” di Gianni Rodari: si prendono due
parole a caso dal vocabolario e si scrive un breve racconto a partire da quelle due parole. Non
sempre il risultato potrà essere originale: ma nel caso di due termini che si possono associare in
modo “scontato” (ad esempio “casa” e “luna”), lo sforzo sarà quello di rendere il binomio il più
originale possibile (una casa mannare che divora i suoi abitanti nelle notti di luna piena; un
astronomo che scopre sulla luna una casa con il comignolo fumante,…).
Esercizio di Fabio Pes
Il binomio: foglio – telefonata
“Ma, arriva o no questo autobus?”.
Si lamenta l’avvocato Salvatore Fioremisto, mentre si asciuga la fronte con un moccichino bianco,
su cui sono ricamate, con filo dorato, le lettere “SF”. Dopo ogni operazione, lo ripiega con cura e lo
ripone nel taschino del vestito color panna. Anche le scarpe sono chiare. Per questo si notano quei
brutti segni grigiastri, tracce dei numerosi e fugaci incontri con sconosciuti nel lungo viaggio verso
nord.
Salvatore Fioremisto è un avvocato napoletano. Una lunga vita spesa a difendere ladri e truffatori.
Ogni volta che si reca nel Carcere di Opera, è costretto a viaggiare su tutti i mezzi pubblici su ruota
conosciuti dall’umanità: il treno, la metropolitana, il tram e, infine, il mezzo che si fa di più
attendere, l’autobus.
“Aspetta … l’ho perso – esclama preoccupato - no, ecco il foglio! Meno male”.
Quello di Opera è il più grande carcere d’Europa. Molto, molto mal frequentato, ospita i più
pericolosi mafiosi e serial killer italiani, ma anche brave persone, come Ciro.
Ciro, quarantenne, tracagnotto, ha avuto un’infanzia e un’adolescenza difficili: una mamma che non
c’era e un papà che, purtroppo, c’era.
Anni fa, prima che Ciro si mettesse in guai più grossi, Salvatore lo ha difeso per alcune piccole
truffe. Vendeva macchine fotografiche che facevano due sole foto: quella che scattava Ciro al
malcapitato, quella che a volte il malcapitato diffidente scattava per conto suo. Poi, niente più.
Anni fa, Ciro, da Napoli è giunto a Pasian di Prato, dove si è stabilito perché lì c’era molta meno
concorrenza nel suo campo.
Dopo aver appreso, al telefono, dall'avvocato Salvatore Fioremisto che di lì a pochi giorni si
sarebbero presentati a casa sua i carabinieri per portarlo in prigione, Ciro gli rispondeva che avrebbe
preferito scontare la pena in un piccolo carcere veneto che conosceva bene e che considerava il
migliore tra quelli che in passato lo avevano accolto.
A nulla sono valsi i tentativi dell'avvocato di spiegargli che bisognava, almeno, attendere la notifica
dell’ordine di carcerazione. Dopo qualche ora il difensore riceveva una telefonata dal carcere
preferito da Ciro. Si era presentato da loro, con tanto di bagaglio. Non sapevano cosa fare di lui e
non se ne voleva andare!
Un’accorata telefonata dell’avvocato Salvatore Fioremisto risolveva il problema. Uno sbalordito
sostituto procuratore della Repubblica - uomo dai modi sbrigativi, con una ruvida e spessa corteccia
che non riusciva a celare del tutto un grande cuore – accoglieva l’insolita richiesta di Ciro e gli
concedeva di trascorrere il previsto periodo di reclusione presso il carcere da lui scelto. Il cliente ha
più volte manifestato al solerte difensore la sua riconoscenza, nel corso del periodo, poco più di un
anno, che ha trascorso lì.
“Il foglio è ancora qui. Bene! Mi viene un colpo ogni volta che lo cerco”.
Dopo l’autobus, di nuovo il tram e la metropolitana. Finalmente, Salvatore è ritornato dalle parti
della Stazione Centrale.
Sta girovagando senza una meta apparente. No, un momento. Sta estraendo dalla borsa una mappa
della città. Alza la testa, per leggere la targa della via. Chiede informazioni ad un passante che,
però, risponde scuotendo la testa e allargando le braccia.
“Dovrebbe essere da queste parti. Eccola – quasi urla, contento - Si! È proprio questa”.
Sulla precaria insegna, che sta sopra la porta d’ingresso della trattoria, c’è lo stesso nome che
Salvatore ha appuntato sul foglio spiegazzato che tiene in tasca.
Il “risotto giallo della siura Lina” è in testa alla lista che l’oste – grembiule blù, grosso naso
butterato e paonazzo, - ha appoggiato sul tavolo. È proprio questo il secondo e ultimo nome
annotato nel prezioso foglio.
Stefania Buosi, docente di lettere, si è formata alla Scuola “Holden” di Torino ed ha condotto
diversi laboratori di scrittura creativa presso alcuni circoli culturali della regione; inoltre organizza
serate di lettura all’interno dei locali e delle librerie udinesi, e nella sua attività utilizza anche altri
canali di comunicazione come la cinematografia (recitazione in cortometraggi), la radio
(collaborazione con Radio Onde Furlane) e il giornalismo.
blog: http://acchiappa-sogni.blogspot.com
Il Progetto Giovani è l'ufficio comunale che promuove interventi ed iniziative rivolti alla
popolazione giovanile del territorio. Sostiene il protagonismo dei giovani e la loro partecipazione
alla vita cittadina attraverso le attività aggregative e la realizzazione di laboratori (fotografia, teatro,
scrittura, videoripresa, …).
E’ suddiviso in due Servizi: Informagiovani, in Villa Businello a Spilimbergo e Spaziogiovani,
presso le Scuole Medie di San Giorgio della Richinvelda.
Per informazioni:
PROGETTO GIOVANI c/o Villa Businello – via Mazzini 17
tel.0427 419049 - [email protected]
web site: http://www.progettogiovani-spilimbergo.it
orario: da martedì a venerdì 16.00 – 19.00; sabato 10.30 – 12.30