1 La 23ª strada, che attraversa quasi tutto il Vedado

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1 La 23ª strada, che attraversa quasi tutto il Vedado
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La 23ª strada, che attraversa quasi tutto il
Vedado dal Malecón al fiume Almendares, all’altezza della 12ª descrive una stretta curva che crea
aree triangolari tra la 16ª e la 20ª con la calle
Zapata, nella parte in cui quest’ultima è chiusa dal
confine che circonda il territorio di Yewá. A partire
dalla 22ª riprende a scorrere in linea quasi retta e
finisce nella 32ª, sul fiume. Attualmente lí ci sono
dei giardini pubblici e prima c’era il Bureau de
Investigaciones, palazzo in cui alla fine degli anni
cinquanta furono commessi atti ignobili. Quindi la
strada nasce vicino al mare, regno di Yemayá, e
finisce nei dominî d’acqua dolce di Ochún. Oltre il
ponte, è già Marianao.
Una di quelle aree triangolari è, o era allora,
occupata da un immondo parco divertimenti chiamato Jalisco Park, se non ricordo male, mentre
l’appezzamento vicino è occupato da un condominio di quattro piani, nei cui locali al piano terra c’erano un bar, uno spaccio di generi alimentari e il
salone da barbiere di Trina, con la sua insegna al
neon con la scritta Salón Colón, non perché avesse
qualcosa a che vedere col cognome di lei, che era
Pozo, né con il navigatore né con il quartiere delle
puttane della zona di Centrohabana, ma per il vicino cimitero omonimo. Mi hanno detto che il locale
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esiste ancora e che si chiama Salón Amancio
Rodríguez (insegna nuova, dipinta a grandi lettere)
in onore di un leader sindacale di origine spagnola
assassinato nel ’49 dalle parti di Camagüey, zona
da cui proveniva il miliziano che rilevò l’attività
nel ’61.
Non era normale, in quella Cuba, una donna barbiere, anche se nulla che avesse a che vedere con la
vecchia Trina era normale. Aveva ereditato l’attività dal suo defunto marito, che aveva tagliato capelli e barbe per tutta la vita. Prima di rimanere vedova si era limitata a fare la manicure a quei pochi
clienti che tenevano alle proprie unghie e a spazzare i ciuffi di capelli da terra. Ma dopo aver seppellito il padre di sua figlia Trinita si era dovuta preoccupare di mantenere lei, suo nipote Crisantico, sua
nipote Trinitica e suo genero Crisanto, che era,
come diceva sempre Trina, uno scansafatiche della
peggior specie. E non aveva tutti i torti.
Un bel – un bellissimo giorno, secondo la Vedova
Madre – il Genero Svogliato se ne andò con una puttanella di La Coronela e non tornò mai più. Una
bocca in meno da sfamare, sentenziò soddisfatta.
Se era possibile trovare una definizione per
Trina Pozo questa sarebbe stata sicuramente “combattente nata”. All’ombra di un marito maschilista
aveva vissuto sottomessa e protetta, dedicandosi in
modo esemplare alla casa e consumando energie
tra pentole e tegami, ma una volta smesso il lutto
canonico si era spogliata del dolore e della veste
nera per realizzarsi come vecchia dama indegna.
Aveva imparato subito il mestiere tagliando i capelli gratis a mezzo vicinato, pienamente soddisfatta
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mentre premeva forte sul pedale della poltrona da
barbiere per portarla all’altezza dei suoi occhi, che
non era poi molta. Era un piacere vederla tosare
chiome e insaponare il pennello a tutto spiano. La
sua diligenza le permise di incrementare la clientela del morto, la cui tomba poteva contemplare dalle
vetrine del salone attraverso le inferriate del cimitero. Le cose andavano cosí bene che, non potendo
contare sull’aiuto di Trinita, che a parte la manicure e spazzare non era in grado di combinare niente
in negozio, si vide obbligata a mettere un annuncio
sul giornale per chiedere l’aiuto di un professionista; ed è a questo punto che entra in scena Quirino
Sandoval, alias “Quiri il castigatore”.
Non che il ragazzo fosse niente di speciale. A
quei tempi di creoli carini come lui ce n’erano a
mucchi. Ma senz’ombra di dubbio il fascino non gli
mancava. Aveva un bel naso dritto, la mascella quadrata e la caratteristica che gli donava di più: un
corpo flessuoso come un giunco al vento. Non era
magro, ma snello e asciutto, con dei fianchi stretti
cui sapeva istintivamente imprimere un dondolio
che in chiunque altro sarebbe sembrato effeminato,
mentre in lui diventava sensuale.
Spingeva il pube in avanti quando camminava
dandosi le arie, come se stesse dicendo ai quattro
venti ce l’ho qui per farvelo godere, e il risultato
era selvaggio ed eccitante. Nel suo quartiere le
ragazze se lo litigavano e lui si lasciava amare da
loro quanto ammirare dagli uomini, che erano
ugualmente attratti da lui. Questo non lo turbava
affatto; era troppo vanitoso per sentirsi omofobo e,
anche se non cedette mai alle loro avance, godeva
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nel provocarli quanto nel provocare le donne, che
se lo mangiavano con gli occhi quando passava elegante davanti a loro. In teoria la camminatina piaciona era prerogativa delle mulatte sexy, ma c’era
molto di questo anche in quel suo modo di incedere cosí virile.
Oltre a essere un piacere per gli occhi, il ragazzo aveva delle ambizioni. Non si accontentava di
fare il barbiere, figlio e nipote di barbieri, nel sempiterno salone di famiglia del quartiere. Aspirava a
un futuro migliore e si immaginava ormai maturo
rasando barbe in un negozio di parrucchiere che
aveva adocchiato sul marciapiede del Louvre,
davanti al parco Central e alla statua di Martí,
accanto all’hotel che aveva ospitato Maceo, primo
e unico negro ad aver attraversato quella hall cosí
distinta.
Al Vedado non aveva pensato mai, ma non era
certo da buttar via quell’elegante area costruita da
e per la classe media dell’Avana, caso unico in tutto
il Continente; perciò rispose senza pensarci due
volte a un annuncio sul quotidiano Diario de la
Marina che richiedeva: “giovane barbiere di bella
presenza. Indispensabili ottime referenze. Provata
esperienza”. E non gli sarebbero mancate, perché
suo padre non vedeva l’ora di levarsi il rompiscatole di torno, e il Quiri non aveva rivali nel rifinire
un’acconciatura. Quanto alla bella presenza, ne
aveva da vendere; bastava un’occhiata per rendersi
conto che il ragazzetto sconvolgeva il personale
femminile e spesso anche quello maschile.
D’altro canto, cambiare aria e ambiente era proprio quello che gli ci voleva, visto che la biondina
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Viensay Fonseca giurava che il pancione che aveva
era opera sua – anche se poteva essere benissimo di
suo cugino Tico – e i belligeranti fratelli della gravida cercavano disperatamente qualcuno, uno qualsiasi, che se ne assumesse la paternità. Gli aspiranti
cognati l’avrebbero braccato ricorrendo al coltello se,
quattro mesi dopo il trasloco, Viensay non avesse
partorito un negretto che sollevava il Quiri da ogni
responsabilità generatrice, e non solo per il colore tutt’al più olivastro della sua pelle. Negri niente, ché i
miei nonni erano spagnoli, chiarí subito.
Stando cosí le cose, Quirino Sandoval capitò con
l’annuncio in mano al Salón Colón proprio il giorno
della Festa Nazionale, un “venti di maggio, giorno
glorioso in cui la mia patria libera sorse”, deciso a
forgiare a sua volta la propria indipendenza.
Trina Pozo lo squadrò freddamente dall’alto in
basso, e sicuramente fu una delle poche femmine
che rimase indifferente al sex-appeal del giovane
creolo. Con Trinita e Trinitica le cose andarono
diversamente, ma questa è un’altra storia.
– Lei è il terzo che viene. Gli altri erano un disastro – l’aggredí. – Mi dia una buona ragione, a
parte la raccomandazione di suo padre, per convincermi a perdere tempo con una prova.
– Se non vado bene lascio questi per ripagarla
del tempo perso – replicò lui battendo un biglietto
da venti pesos sulla mensola dei pettini. – Guardi
un po’ se non sono sicuro di essere la cosa migliore che le può capitare.
A Trina piacque la sua fanfaronaggine e senza
pensarci due volte aprí la porta a vetri e chiamò un
giovanotto testone e capelluto che passava di lí.
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– Rigoberto, vieni un po’ qua che ti tagliamo i
capelli gratis, che è anche ora!
In un quarto d’ora il Quiri diede un’impressionante dimostrazione di abilità. Dispiegò il telo inamidato in un solo gesto, lo assicurò al collo del
ragazzo con destrezza, diede un paio di colpi di
pedale e si dedicò con grande piacere al suo compito.
– Fatto! – esclamò.
Rigoberto rimirò con uno specchietto il suo
taglio da brivido nel grande specchio appeso al
muro, sorridendo soddisfatto.
– Fico – fu il suo unico ed eloquente commento...
Trina Pozo strinse il labbro superiore ricoperto dai vecchi baffetti con una smorfia di approvazione, ed essendo donna di poche parole tagliò
corto:
– Si riprenda i suoi soldi e si presenti qui
domattina alle sette in punto per cominciare a lavorare. Se siamo d’accordo sullo stipendio, è chiaro.
– Se è quello stabilito dal sindacato non c’è problema.
– Appunto. Buongiorno.
Quirino rifece sobbalzando il percorso VedadoLuyano e scese con la certezza che sarebbe passato
molto tempo, sempre che accadesse, prima di
riprendere l’autobus che lo portava al suo quartiere
natale. Dedicò il resto della giornata a passeggiare
lentamente per le vie in cui erano trascorsi i suoi
ventiquattro anni di vita comoda, accarezzando gli
angoli delle strade, fissando sulla sua retina i posti
amati, le memorie felici, i volti familiari, i luoghi
accoglienti. Assaporò la sicurezza che dava muo-
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versi dentro un utero, in un accorato saluto, simile
a quello che otto anni più tardi avrebbe ripetuto
lasciando per sempre non solo il quartiere, ma il
suolo patrio, incamminandosi verso un esilio che
avrebbe finito la sua esistenza a Miami. Il Vedado
non era certo lontano quanto la Florida, ma allora
gli sembrava che lo fosse altrettanto.
– Non so perché te ne devi andare cosí, tesoro,
scappando quasi come un delinquente, come se
fossi un assassino, come se dovessi dei soldi a qualcuno – aveva recriminato sua madre mentre gli preparava la valigia. – Sarai pure un donnaiolo ma sei
un bravo ragazzo e qui nel quartiere, se togliamo i
fratelli di quella sciacquetta, ti apprezzano tutti, te
lo sei guadagnato comportandoti sempre in modo
onesto.
– Me ne devo andare cosí, vecchia mia, e deve
essere adesso o finirà per non importarmi più niente di niente, come al vecchio. Arriva un momento
nella vita in cui se ti fermi, ti blocchi, e se ti volti
indietro, regredisci. Ma tu sarai sempre la mia
Madre Santissima e verrai a trovarmi spesso e sarai
orgogliosa di tuo figlio quando farà dei progressi,
cosa che succederà presto, te lo giuro.
– Cosí sia. Ricordati, figlio mio, che le donne
possono essere la tua salvezza o la tua perdizione –
predisse quell’oracolo di Luyano. – Non è colpa tua
se sei cosí bello e ti piacciono tutte, in fondo sei
figlio di Ochún, andresti dietro anche a un manico
di scopa, ma devi chiedere a Obatalá di concederti
la saggezza per scegliere quella che fa per te.
Ascolta i consigli di tua madre, tesoro, perché nessuna ti amerà mai quanto ti amo io.
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E cominciò cosí il suo viaggio iniziatico; il suo
viaggio senza ritorno. Quella notte dormí nella
stanza di una pensione tra la calle Zapata e la 12ª,
con vista sull’ingresso del cimitero, proprio dove
risiede Oyá. E il giorno seguente, all’ora pattuita, si
presentò al suo appuntamento col destino.
La vecchia Trina lo stava già aspettando. La
campana della cappella mortuaria centrale suonava
le sette quando lei lo fece entrare, soddisfatta della
sua puntualità, disposta a sfruttare le due ore che
mancavano all’apertura del locale per dare istruzioni al dipendente.
– Comincerò raccontandole i fatti miei non
perché io sia una pettegola ma perché preferisco
che lo venga a sapere da me piuttosto che dalle
chiacchiere dei vicini. Si sieda – gli indicò una
delle due poltrone e lei occupò l’altra facendola
girare per trovarsi di fronte a lui. – Sono vedova. Il
mio defunto sposo mi ha lasciato la gestione degli
affari, di una figlia e di due nipoti. Non le nascondo che sono orgogliosa di come ho saputo amministrare l’eredità. Mi sono spezzata la schiena e ho
fatto la schiava per tirare avanti, e ce l’ho fatta.
Adesso ho bisogno del suo aiuto, no, della sua
cooperazione, per tenere la situazione a galla.
Desidera sapere altro?
– Anche sua figlia è vedova? – decise di investigare.
– È come se lo fosse. Quel parassita di suo
marito l’ha abbandonata, fortunatamente. Perché le
interessa la questione?
– Perché mi sembrava strano che non avesse
chiesto cooperazione a lui.
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– Quello fa lo scaricatore al mercato di Cuatro
Caminos giusto ogni tanto. No, mento. Ogni morte
di Papa. Il resto del tempo lo passava a sfruttarci e
a tirare di boxe. Per questo le dico che questa vecchia che vede qui non è più disposta a che si approfittino della sua buona fede. Perciò lei dovrà faticare tanto quanto me, né più né meno, e si godrà i
profitti tanto quanto me. Né più né meno. Ok?
– Ok. Solo un’altra cosa per togliermi un dubbio. Sua figlia e i suoi nipoti non l’aiutano negli
affari?
– A casa mia, visto che comando io, che sono
quella che paga i conti, ho affidato a ciascuno il suo
compito. Il mio è tagliare capelli otto ore al giorno;
mia figlia Trinita si occupa della manicure e della
casa perché la poverina non è buona a fare altro, è
inutile prendersi in giro; il compito di mio nipote
Cris è finire il liceo e studiare ingegneria; e il dovere della ragazzina è di far fruttare ogni centesimo
che spendo per la sua scuola. Va dalle domenicane
francesi, mica in una squallida scuola pubblica di
quartiere, e frequenta ambienti da cui può saltar
fuori un buon partito, per non fare la fine di sua
nonna. I miei nipoti saranno persone di classe a
costo della mia vita o di quella di chi prova a impedirlo, ché certo non mi manca il fegato di ammazzarlo se è necessario.
– Perché mi racconta queste cose? Non mi sembra che mi riguardino.
– È meglio prevenire che curare, e si dice via il
dente via il dolore, perciò glielo dico chiaro e
tondo: con quel bel faccino e quella camminata
deve fare strage di cuori, ma le donne della mia
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famiglia non si toccano. Lei è qui per un motivo e
loro per un altro. Insieme, ma separati. Chiaro il
concetto?
– Chiarissimo. Io mi preoccupo di lasciarle in
pace e lei si preoccupa che loro lascino in pace me.
– Perfetto. Vada a cambiarsi – disse indicando
la porta del minuscolo bagno e porgendogli un
camice bianco da barbiere perfettamente inamidato, simile al suo, con ricamate le iniziali del defunto, – le spiego come funziona il locale e parliamo
del suo contratto.
Quella stessa mattina il Quiri poté verificare che
la clientela era numerosa e lasciava buone mance. La
cosa promette bene, pensò. Lavorarono insieme e i
clienti videro con soddisfazione che le loro chiome
erano in buone mani, e in più ora potevano commentare la partita con un tifoso, perché Trina era
sempre stata negata per il baseball. Era proprio quello che mancava al Salón Colón: un cronista sportivo
con la parlantina sciolta, erede di Manolo de
Reguera. La cosa promette bene, pensò a sua volta la
vecchia, e fu l’inizio di un proficuo rapporto.
Intorno a mezzogiorno apparve Trinita, perché i
clienti che desideravano un taglio di pellicine e
un’aggiustatina alle unghie sapevano che l’ora
della manicure era verso la fine della mattinata. Il
Quiri, che dopotutto era figlio di Ochún, non poté
evitare di soppesarla dalla testa ai piedi non appena
entrò in negozio, ma solo con la coda dell’occhio,
stando bene attento a mostrarsi impassibile.
Quarant’anni portati molto bene, un po’ sovrappeso ma con i chili di troppo distribuiti in modo armonioso, per niente brutta, belle tette, splendido culo-
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ne, le caviglie un po’ troppo sottili ma le cosce carnose, fianchi generosi, molto pulita e profumata di
colonia. Una ripassata se la meritava. Senza dubbio, ma niente scherzi, ché non si sputa nel piatto in
cui si mangia, pensò.
– Le ho detto che questa è mia figlia Trinita. È
sordo? – ripeté la vecchia risvegliandolo dalle sue
meditazioni, interrompendo il moto della macchinetta nell’intrico di ricci di un grosso mulatto, nonché il filo delle sue elucubrazioni. – Tesoro, questo
è Sandoval, il nuovo aiutante.
– Molto piacere – concesse Trinita freddamente senza dargli la mano perché a lei, flessuosi o no,
quelli magri non piacevano. Aveva dato la sua verginità e i migliori anni della sua vita a un pugile
dilettante tutto muscoli che l’unica cosa che sapeva
fare bene (e che faceva spesso) era scoparsela da
vero esperto. A Quirino, veramente, non piacque la
sua indifferenza. Era abituato a impressionare le
femmine col suo corpo seducente, e avrebbe preferito che lei se lo mangiasse con gli occhi per poterla punire col suo sdegno, e appagare cosí il dio del
suo ego e il diavolo che ci metteva lo zampino.
Dopotutto meglio cosí, si consolò, perlomeno questa non mi darà problemi e belle ragazze del quartiere non mi mancheranno di certo.
Trina osservò con soddisfazione che le sue
preoccupazioni, per quanto riguardava quei due,
erano infondate. Non si sono piaciuti, rifletté sospirando sollevata, una volta esorcizzato il pericolo di
un colpo di fulmine. Ed era talmente sollevata che
all’una e poco più, quando chiusero, si concesse un
raro gesto magnanimo.
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– Mi dica Sandoval, ha già impegni per il pranzo?
– Veramente no... – rispose, tanto colpito quanto
sorpreso.
– Oggi è lunedí. Pasticcio di maiale, vero
Trinita? – e voltandosi verso di lui: – le piace?
Evidentemente si riferiva al cibo, non a Trinita,
e lui assentí, ancora confuso.
– Allora si consideri invitato. Cosí conoscerà
Crisantico e Trinitica – decise senza consultare la
figlia, mettendo cosí in chiaro che le decisioni le
prendeva lei.
Trinita, senza fare commenti, si dedicò a pulire
e a mettere scrupolosamente in ordine i suoi strumenti da manicure.
– Alle due e mezza lí, al numero 2.022, piano
terra – lo informò indicandogli un palazzo dall’altra parte della strada. – Vada a fare un giro mentre
noi chiudiamo.
Quirino pensò che fosse il caso di tornare alla
pensione, a cinque isolati di distanza, per cambiarsi la camicia e fare qualcosa che mai nella sua vita
avrebbe pensato di fare, ma che si vedeva spesso al
cinema. Si diresse verso una delle bancarelle di
fiori che stavano sui marciapiedi della 12ª, vicino
all’ingresso del cimitero, e comprò un mazzo di
gladioli rossi per i quali spese le mance di tutta la
mattinata. Quando arrivò nella sua stanza si lavò le
ascelle, si rimise il deodorante e si pettinò con cura,
dopo essersi profumato il ciuffo e i lisci capelli
scuri con acqua di colonia Agustín Reyes. Scelse la
più inamidata delle sue camicie e prese la calle
Zapata, costeggiando il cimitero di Colón, verso il
numero 2.022 della 23ª strada.
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Era un semplice edificio in stile funzionale anni
cinquanta dipinto di azzurro coloniale, ben integrato
con le case vicine, per cui l’unità architettonica dell’isolato, pur non essendo notevole, era quantomeno
rispettata. Un’aiuola lo separava dal marciapiede, e
si entrava percorrendo un sentierino di mattonelle
poste sul prato che conduceva al piccolo ingresso, in
cui si trovavano le scale per i tre piani superiori e la
porta corrispondente all’abitazione di Trina Pozo.
Questa occupava tutto il piano terra. Un portico
circondato da un muretto arrivava fino alla strada,
creando uno spazio rettangolare formato dalla via
d’accesso alla casa e da un posto auto coperto, da
cui si accedeva al garage chiuso. Questo sembrava
appartenere alla casa stessa, e anche se in quel
momento non c’era nessuna macchina parcheggiata le tracce di pneumatici e alcune gocce d’olio sul
lastricato provavano che veniva usato. Quirino salí
due scalini, giunse all’ingresso e suonò il campanello dell’appartamento 1.
Gli aprí la porta l’adolescente che avrebbe cambiato la sua vita. Non era né bello né brutto, né alto
né basso, sgraziato ma ben fatto, e rimase a guardare incuriosito il mazzo di fiori che spuntava fra
loro. Quirino si sentí a disagio perché i gladioli
erano destinati a mani femminili, e fece fatica a
spiccicare parola.
– C’è Doña Trina? – il “Doña”, per niente comune a Cuba, gli era venuto, come l’idea dei fiori, da
qualche film spagnolo, ma si addiceva alla vecchia.
– Nonna, ti cercano! – gridò girando un po’ la
testa e poi tornò a ipnotizzarsi sul mazzetto ricolmo
di mirto mentre Trina si avvicinava arrancando.
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– Lascia, è per me – disse scansandolo. – Prego,
entri.
Quirino entrò porgendo il suo omaggio, che lei
accettò con la goffaggine di chi non è abituato a
ricevere fiori.
– Non si doveva disturbare, ma grazie del pensiero. Mio nipote Crisanto – presentò, ma il ragazzo era già svanito.
Lo fece entrare nel portico che dava al salone e
si accomodarono sui grandi dondoli creoli.
– Trinitica, tesoro! – chiamò.
Rimasero a guardarsi senza parlare finché non
comparve una gracile studentessa con l’acne, in
uniforme monacale con la gonna blu plissettata che
nemmeno salutò, lo sguardo fisso al suolo.
– Mia nipote. Metti questi in un vaso – presentò
e ordinò.
– Molto piacere – balbettò Quirino alzandosi.
Ma rimase con la mano a mezz’aria perché la
ragazzina non c’era già più.
Sfuggenti i nipotini, pensò Quirino.
– La scusi; è timida come un uccellino – si giustificò. – È venuto a vivere da queste parti?
– In una pensione tra la 12ª e Zapata. Per
ora.
– Perché? Non la soddisfa?
– Almeno è pulita, ma mi piacerebbe trovare
qualcosa di meglio.
– Certo – e di nuovo ammutolirono. Era evidente che a casa dei Pozo non era consueto ricevere visite. Per fortuna Trinita fece capolino e annunciò seccamente:
– Il pranzo.
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I cinque presero posto in assoluto silenzio.
Trinita si limitava a servire tutti senza fare caso a
nessuno e Trinitica sembrava sprofondata nel piatto. Toccò a Crisantico aggiustare la situazione.
– Nonna mi ha detto che ti piace il baseball – gli
disse dandogli del tu perché in fondo, a quell’età,
sette anni di differenza non bastano a stabilire categorie. – Dell’Almendares, no?
– Di quelli veri, da tutta la vita.
– Anch’io – affermò mostrando una certa confidenza. – Conosci il lanciatore?
– Parlare di sport e di politica a tavola non è
educato – interruppe Trina. – Ci sono tanti altri
argomenti interessanti.
Ma non ne propose nessuno in alternativa e si
concentrarono sul pasticcio di maiale, che era buonissimo, e sui platanitos maturi, da leccarsi i baffi,
come assicurò il convitato di pietra per fare un
complimento a Trinita, che non batté ciglio.
– Mia figlia sarà pure un’incapace in negozio,
ma in cucina non ha rivali – concesse il capo della
famiglia.
Trinita non pronunciò una sola parola finché
non ebbero finito il dolce.
– Sparecchiamo Trinitica e io, voi andate nel
portico e vi porto il caffè.
– Prima vieni con me, voglio farti vedere una cosa
– propose Crisanto, facendogli segno di seguirlo.
– Ma non fate tardi che bisogna aprire alle quattro! – aggiunse la vecchia, che doveva sempre
avere l’ultima parola.
Quirino lo seguí fino in cucina. Il ragazzo aprí
una porta ed entrarono in un ampio cortile di servi-
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zio con un lavatoio, vasi seminati di gelsomini e
cactus, e le pareti ricoperte di vasetti di rampicanti.
Di lí passarono nel suo studio, che occupava tutto
lo spazio del doppio garage ed era la tipica tana di
uno studente americanizzato del Vedado negli anni
cinquanta. Una branda, un tavolo da disegno, un
paio di poltrone e un bagnetto, tutto scrupolosamente pulito e molto bene illuminato dalla porta
del cortile, che permetteva all’aria di circolare
attraverso delle persiane poste sopra la porta del
garage.
– Che ne pensi del mio tugurio personale? Ho
convinto la nonna ad affittare il posto auto e a
lasciarmi mettere su uno studiolo. Guarda chi c’è
lí – indicò una parete con una riproduzione del
Guernica, vari poster di pittori cubani contemporanei, gruppi musicali americani di moda e, al
centro, due bandierine blu a incorniciare la foto
autografata di un giocatore di baseball, insieme a
un guantone da lanciatore, anch’esso autografato. Più in basso, un’immagine di Lina Salomé
appena coperta da un vestito da ballerina di
rumba.
– Bel pezzo di ragazza – fu il commento di
Quirino.
– Ma no, io dicevo Tata Marsicano. Non sai chi è?
– Come no! Il miglior lanciatore che l’Almendares abbia mai avuto. Lo conosci?
– Be’, non tanto quanto avrebbe voluto lui –
commentò con aria misteriosa, dandogli una gomitata complice. – Ambiguo il soggetto, ma il suo
posto d’onore lí se lo merita tutto.
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– E il guantone è suo davvero? – chiese indicandolo con deferenza.
– Autentico al cento per cento – affermò tutto
tronfio. – Con quello ha battuto l’Habana in finale
per due volte.
– Gli devi piacere un bel po’ se ti fa regali del
genere.
– Sí, ma non pensare male. Il tipo è entrato un bel
giorno dal barbiere per puro caso, gli sono stato simpatico ed è tornato un paio di volte per una ripulita.
Quirino rimase a guardarlo incuriosito e il
ragazzo si vide obbligato a fornire un chiarimento.
– Quando mio nonno era vivo mi comprò una
scatola da lustrascarpe e ogni tanto andavo al salone quando uscivo da scuola per guadagnare qualche spicciolo. Nonno insisteva sul fatto che bisogna
abituarsi da piccoli a lavorare, ma poi nonna buttò
via la scatola, perché ha sempre detto che lei vuole
un nipote ingegnere, non lustrascarpe.
– E la storia col lanciatore com’è finita? – indagò il Quiri morbosamente.
– Figurati. Si era fissato con me e mi aspettava
dietro l’angolo, ma, a dirla tutta, quando gli ho dato
picche non ha nemmeno insistito, e mi ha regalato
il guantone per dimostrare che non se l’era presa.
– Me l’avevano già detto che stava sull’altra
sponda. Guarda un po’, una carriera cosí gloriosa e
poi finire a sputtanarsi cosí.
– Fatti suoi. Basta che non attacchi briga con
me e può fare come cazzo gli pare. Chissene.
– Su questo sono d’accordo. Se non ti rompono
le scatole, ognuno faccia quello che gli pare... ecco,
il cazzo che gli pare – filosofò Quiri, e si gettarono
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cosí le basi di un’amicizia in cui la tolleranza
sarebbe stata la norma indiscussa.
– Crisantico, facciamo tardi! – gridò una voce
off, in perfetta megafonia per tutta la casa.
Presero il caffè cullandosi sui dondoli del portico, e in orario perfetto tornarono al salone da barbiere. Anche se avevano solo attraversato una strada il sole incandescente li fece squagliare e nemmeno i ventilatori al massimo riuscivano ad alleviare il caldo.
– Stavo pensando, Doña Trina... che ne direbbe
di fare installare l’aria condizionata? Mio padre
l’ha fatto in negozio, e abbiamo recuperato subito
le spese – buttò lí come per caso.
– Ma non sono carissimi? – chiese scettica.
– Non creda, ho un amico del quartiere che
lavora alla Westinghouse e riesce a trovare apparecchi con difetti sul telaio praticamente invisibili
venduti a prezzo di fabbrica. E a rate.
Lei strinse le labbra accentuando le rughe su
quello superiore e lo guardò titubante, ma emise un
grugnito di approvazione.
– E già che ci siamo, – azzardò, – che ne direbbe di mettere anche un televisore? Saremmo tra i
primi ad averlo e attrarrebbe clienti a valanghe.
– Non mi dica che ha un amico anche nel ramo
televisori.
– Be’, ora che mi ci fa pensare, sí. Un vicino di
casa che sta alla CMQ e rimedia apparecchi di
seconda mano quasi regalati.
Trina non disse nulla mentre indossava il camice, e quando il primo cliente del pomeriggio fece il
suo ingresso emise il suo verdetto.
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UN PO’ PIÙ D’AZZURRO A CUBA
– Quando mio marito era in vita, provare a fargli dare una mano di pittura era peggio che spostare una montagna. Magari lei ha ragione ed è ora di
pensare a rinnovarsi, – e con ampio gesto aggiunse,
– questo posto è ridotto uno schifo.
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