La storia di Ivano e di Caterina la sua nonna sciagurata

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La storia di Ivano e di Caterina la sua nonna sciagurata
Siamo qui ed è adesso
Al di la di questo
Tutta l’umana conoscenza
È chiaro di luna.
Lama Yesce
LA STORIA DI IVANO E DI CATERINA LA SUA NONNA SCIAGURATA
Part. 1 Emanuele e le sue paure.
Emanuele sei un coglione. Hai 34 anni, un lavoro, una vita e ancora volti lo sguardo dall’altra parte
quando passi in prossimità di quella lapide.
Lo so, i cimiteri, lapidi e tombe non ti sono mai stati simpatici, sin da quando tua madre a 10 anni ti
portava a Primaporta a trovare il nonno. Avevi una paura fottuta, tanto da sentirti male.
Impallidivi talmente tanto che tua madre si preoccupava per la tua salute, solo dopo qualche anno
capì che cosa avevi, e non ti costrinse più a seguirla al cimitero. Ma ormai il danno era già stato
fatto, e tu sei diventato quello che sei ancora oggi: un cagasotto.
Un metro e settanta per 58 kg. Certo non sei un marcantonio, non lo sei mai stato. Ti guardi nello
specchietto retrovisore e ti scopri un po’ più bianco lì sopra le basette. Di capelli non ne hai persi
molti, beh rispetto a tuo padre sei fortunato! Ma se ripensi a tuo padre ti accorgi che non hai nulla di
lui. Un metro e ottanta di robustezza, 80 kg di peso, non ha mai avuto paura di nulla. Tu invece di
tutto.
Ti ricordi quel giorno in terza elementare quando ti picchiasti con quel ragazzino?, Enzo si
chiamava, ne prendesti tante e non riuscisti neanche a reagire. Sicuramente tuo padre al posto tuo
non si sarebbe fatto ridurre così. Lui non ti disse una parola e tu ti richiudesti in te stesso.
Forse era solo una questione di stazza, non di coraggio.
E poi, se quel giorno Ivano non avesse preso il motorino per andare a scuola, oggi, tu Emanuele
impiegato alla motorizzazione civile, passeresti, come ogni mattina, con la tua auto in via Cina, alle
6 e 22, senza accorgerti di nulla, senza alcuna esitazione.
E come in una delle tante mattine di lavoro, ti sei svegliato presto: 5.30 e alle 6 e 22 sei già in
prossimità di quella lapide. Anche questa mattina ti volterai dall’altra parte, facendo finta di
osservare il giardino di fronte che è stato sistemato dal comune. Solo una scusa, a volte penso che ti
piace prenderti per il culo da solo, non te ne frega un cazzo di quella minchia di giardino, vuoi solo
una scusa per giustificarti con te stesso di esserti voltato dall’altra parte per l’ennesima volta.
Il 12 ottobre del 2001, alle 7 e 45 Ivano uscì di casa per andare a scuola, neanche un mese fa il 18
settembre aveva ricevuto dalla nonna paterna uno scouter.
La madre di Ivano contraria, non aveva potuto che accettare la situazione, una volta messa di fronte
al fatto compiuto. Tutto quello che seppe dire in uno scatto d’ira verso la suocera fu: “Caterina, non
riuscirai comunque a comprarti il suo affetto”.
Quando Ivano tirò dietro di sé la porta di casa sapeva perfettamente che alla fermata dell’autobus in
via Cina ci sarebbe stata Elena.
Quella mattina si sarebbe fatto notare, aprì il bauletto e rimase un attimo a fissare gli occhiali da
sole ed il casco. Pensò che Elena non l’avrebbe neanche riconosciuto con quel coso in testa, così
oltre allo scouter tutto quello che inforcò furono i suoi rayban neri.
I suoi ricci si muovevano al ritmo del vento che gli sbatteva contro, tutto era perfetto.
Arrivato in via Cina nel punto in cui la strada scende leggermente in un falso piano, prima piegare
delicatamente sulla destra; vide Elena ferma alla fermata dell’autobus vicino ad altri 2 ragazzi.
Era il suo momento: colpo di gas e botta di reni ed era impennato su una ruota.
Cadde rovinosamente con la testa sul marciapiede e i suoi riccioli castani divennero subito rossi, il
motorino schizzò impazzito come un proiettile e finì contro i tre ragazzi uccidendo Elena e ferendo
gli altri due.
La madre di Ivano non perdonò mai a sua suocera quello che aveva fatto, era lei la responsabile. Era
lei la nonna sciagurata. Le proibì di andare al cimitero a trovare il figlio e per essere sicura che ciò
avvenisse non le disse mai dove Ivano fu sepolto.
La nonna, privata del suo unico nipote, fece apporre una targa di marmo esattamente nel punto in
cui Ivano venne trovato. La targa diceva semplicemente: “Ad Ivano la nonna”.
Fu un pellegrinaggio continuo, ogni giovedì Caterina prendeva la sua bicicletta e gli portava dei
fiori, li metteva in una piccola vaschetta appoggiata vicino al muro a fianco della lapide, si faceva il
segno della croce, recitava un Ave Maria e due Padre Nostro e se ne andava.
Tutti i venerdì, invece, i genitori di Elena passavano di lì e il padre non poteva fare a meno di
prendere a calci quella vaschetta con i fiori.
Lo odiava, lo odiava con tutto il suo essere, con tutte le sue viscere, lo odiava ancora di più perché
sorrideva, Ivano non faceva altro che sorridere in quella stramaledetta foto.
Lui non aveva voluto una targa a ricordare Elena, il ricordo gli faceva troppo male. Tutto quello che
voleva era dimenticare. Non sapeva neanche il senso di quella lapide con quella scritta così
ermetica, perché solo la nonna?
L’unica cosa che sapeva e che si era portato via la sua bambina, bastardo, bastardo di un fottuto
riccioluto.
Poi un giorno dopo innumerevoli pedate ai fiori sempre freschi, il padre di Elena fu trasferito per
lavoro in un'altra città, fu da quel giorno che provò per davvero a dimenticare. I fiori di Ivano non
furono più toccati.
Ma un giovedì come tanti alle 6 e 22 accadde qualcosa di inaspettato: una vecchietta in bici cadde
proprio a 100 metri dalla tua macchina. Ancora assonnato tu non realizzasti subito bene cosa era
successo, fermasti l’auto, e ricordo chiaramente che pensasti: “Ma chi cazzo me lo fa fare?, ora farò
anche tardi al lavoro.”
“Ormai mi sono fermato, e per strada a quest’ora non c’è nessuno, tantovale sentire se si è fatta
male”
“Tutto bene signora?”
“Si bene, che Dio la benedica, mi aiuta a rialzarmi?”
Solo una volta sceso dalla macchina realizzasti che eri a 30 metri dalla lapide, ne hai distolto subito
lo sguardo, d'altronde avevi altro di cui occuparti, la vecchietta aveva bisogno di te.
Aiutasti la signora a rialzarsi, ma quando lei ti chiese se saresti stato così gentile da mettere i fiori al
suo nipotino tu diventasti pallido, proprio come quando avevi dieci anni.
Eri impietrito e non sapevi cosa rispondere, poi chissà come, dicesti: “Venga signora l’accompagno
io così potrà farlo lei personalmente”.
Quella signora di più o meno una settant’anni, aveva i capelli biondi, curati come se fosse appena
stata dal parrucchiere, indossava una gonna ampia a fiori e una camicetta color panna. Ma quello
che più ti colpì fu il suo sorriso, nonostante le escoriazioni, emanava un’aria di positività e di dolore
allo stesso tempo. Un dolore profondo che non aveva nulla a che fare con un ginocchio sbucciato.
Con l’indice sinistro alzato ti indicò la lapide e disse: “vede quello è Ivano il mio nipotino e il mio
angelo custode”. Tu con un leggero sorriso sulla bocca rispondesti che sarebbe piaciuto molto anche
a te avere un angelo custode, magari, pensavi, ti avrebbe aiutato a non avere più paura.
Quella signora anziana aveva la capacità di tranquillizarti, forse perché sembrava ferita come te, più
di te, caricasti la bici in macchina e la accompagnasti a casa.
Lei ti raccontò la sua storia, e tu quel giorno non andasti più in ufficio.
Da quel giorno non avesti più paura di Ivano. Quando passavi in via Cina lo salutavi con un piccolo
cenno della mano.
Passò molto tempo prima di accorgerti che eri guarito del tutto, che non avevi più paura.
Ad Ivano ormai nessuno portava più fiori da almeno un anno, tu ti sostituisti a Caterina la nonna
sciagurata ed Ivano diventò il tuo angelo custode.
Part.2 Emanuele e i morti.
La vita di Emanuele cambiò subito: all’età di 10 anni. Era sempre stato un ragazzino sensibile, ma
si accorse subito che la sensibilità doveva essere messa da parte, per lasciar posto al coraggio.
Se ne accorse una mattina a scuola. Il suo amico Enzo lo gonfiò di botte e lui non seppe reagire.
Quando tornò a casa ne parlò con il padre, che lo rassicurò, gli disse che doveva e poteva reagire e
che doveva e poteva farlo solo lui. Questa era solo una delle tante prove che si sarebbero presentate
e che l’avrebbero aiutato a crescere e a diventare grande e forte.
Emanuele ne fu rassicurato. Il giorno dopo quando vide Enzo, senza neanche parlare gli andò vicino
e lo spintonò facendolo cadere a terra. Lo guardò negli occhi e non abbassò neanche per un attimo
lo sguardo, gli angoli della sua bocca si piegarono verso il basso e le labbra si serrarono, rimase lì
immobile per qualche secondo, con i pugni ancora chiusi. “Avanti alzati”. Poi la maestra che aveva
assistito alla scena intervenne e lo mise in punizione, ma ad Emanuele non importava, aveva
imparato a tirare fuori tutta quella rabbia che aveva dentro, quella punizione era motivo d’orgoglio.
Tante altre prove avrebbe dovuto affrontare. La paura dei cimiteri per esempio. Ma Emanuele più
era spaventato da una cosa più cercava di fare in modo che quella cosa accadesse.
Ci tornava e ritornava. Spesso da solo, con il cuore in gola camminava lungo i suoi viali alberati,
tanto che alla fine il campo santo era diventato per lui un luogo di conforto, dove andava quando
voleva stare un po’ in disparte. E, tutte le volte, tornava più sereno e rilassato, come se tutte quelle
tombe avessero su lui l’effetto di renderlo migliore.
Parlava con loro, non solo con i nonni. Emanuele conversava con tutti i morti che incontrava lungo i
viali alberati di Primaporta e loro in cambio gli davano continue dimostrazioni d’affetto. Piccoli
segni che ormai Emanuele aveva imparato ad interpretare: la notizia di un matrimonio, una
dimostrazione di stima sul lavoro, una telefonata di un amico che non sentiva più da tempo, un email dalla ragazza dei suoi sogni.
Era entrato in amicizia in particolare con uno, un ragazzo di circa 15 anni di nome Ivano. Emanuele
era rimasto colpito dal sorriso di quel ragazzo nella foto sulla lapide. Dopo un po’ di ricerche era
riuscito a scoprire che era morto in un incidente stradale, e questo gli e lo aveva reso ancor più
simpatico, perché gli ricordava la storia di suo padre. Anche lui aveva avuto un grave incidente con
la lambretta ed era stato in coma per diverse settimane. Poi si era ripreso ed era guarito
completamente. Emanuele non riusciva a non pensare che la storia di Ivano avrebbe potuto essere
anche quella di suo padre, e, lui, in quel caso, nemmeno sarebbe esistito.
Lo vedeva tutte le volte che andava al cimitero a trovare i nonni, era sepolto proprio accanto a loro.
Quando arrivava, Emanuele si faceva il segno della croce, salutava tutti, e chiacchierava un po’ con
quel gruppetto lapidi di loquaci.
Gli raccontava cosa gli era successo il giorno prima, i suoi timori, le sue speranze e loro lo
ricambiavano sempre con un sorriso.
Sistemava loro i fiori: girasoli e margherite e se ne andava un po’ più sereno.
Ivano non aveva mai molti fiori, solo nelle ricorrenze principali, come per il 2 novembre, per il suo
compleanno o per l’anniversario della morte. Emanuele pensava che doveva essere difficile per la
famiglia andare in quel posto dove il ricordo era ancora così forte.
Così un giorno decise che l’avrebbe adottato, in fondo quello avrebbe potuto anche essere suo
figlio. Da quel giorno Emanuele, ovunque andasse, sentiva sempre vicino Ivano e si convinse che
era diventato il suo angelo custode.