2.1 Le professioni sanitarie

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2.1 Le professioni sanitarie
Capitolo 2
Le professioni sanitarie: in particolare quella infermieristica
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2.1 Le professioni sanitarie
Le professioni sanitarie, fino agli inizi degli anni Novanta, erano suddivise, secondo la
classificazione sancita dall'art. 99 del testo unico delle leggi sanitarie (TULS), approvato con il R.D.
27 luglio 1934, n. 1265, in tre grandi categorie: le professioni sanitarie principali, le professioni
sanitarie ausiliarie e le arti ausiliarie delle professioni sanitarie. In base a tale normativa le
professioni sanitarie principali erano rappresentate dal medico chirurgo, dal veterinario, dal
farmacista e, dal 1985, dall'odontoiatra; le professioni sanitarie ausiliarie erano rappresentate dalla
levatrice (oggi ostetrica), dall'assistente sanitaria visitatrice (oggi assistente sanitario) e
dall'infermiere diplomato (oggi infermiere) e, fino al febbraio 1999, da tutte le professioni che
avevano avuto la pubblicazione di un profilo professionale; mentre le arti ausiliarie delle professioni
sanitarie erano rappresentate dall'odontotecnico, dall'infermiere generico e dal
massofisioterapista[1].
Questa distinzione è stata oggetto, nel tempo, di profonde critiche, tanto da suggerire al legislatore
una sua riforma sostanziale che ha contribuito a ridare alla seconda categoria, quella ausiliaria, una
nuova connotazione, ma soprattutto una sua maggiore autonomia e dignità professionale[2].
Agli inizi degli anni Novanta, in modo graduale ma univoco, è stato, infatti, avviato il processo di
professionalizzazione di una molteplicità di professioni sanitarie cresciute in modo eccessivamente
parcellizzato, che da quel momento in poi sono state regolamentate da una serie di atti normativi[3].
L'evoluzione normativa ha avuto inizio con l'emanazione di un cospicuo numero di decreti
ministeriali, ognuno dei quali individuante uno specifico profilo professionale nell'ambito del
personale c.d. ausiliario. Con tali interventi normativi, infatti, è stata riconosciuta la possibilità per le
professioni sanitarie non mediche di operare in via autonoma, all'interno del campo di azione
definito dai rispettivi profili professionali.
Alla crescita professionale delle suddette professioni ha contribuito anche l'istituzione dei diplomi
universitari, attuata con la legge 19 novembre 1990, n. 341, e, successivamente, l'attivazione dei
corsi universitari, così come disposto dalla riforma bis (decreto legislativo 502/1992)[4].
L'elevata professionalità raggiunta dal personale sanitario non medico, a seguito degli interventi
normativi segnalati, è stata recepita dalla legge 26 febbraio 1999, n. 42, recante "Disposizioni in
materia di professioni sanitarie". Si è trattato di una legge di riforma molto importante, "che può, a
giusto titolo, essere considerato il provvedimento che riconosce un nuovo status professionale
all'intera categoria del personale sanitario non medico"[5].
All'art. 1 della citata legge viene, in primo luogo, soppressa l'anacronistica suddivisione delle
professioni sanitarie in principali e ausiliarie, proveniente dal Testo unico delle leggi sanitarie del
1934. Ferma rimanendo la categoria delle arti ausiliarie, tutte le figure professionali (ex principali ed
ex ausiliarie) vengono, quindi, inquadrate come professioni sanitarie[6].
Per due delle professioni coinvolte, segnatamente la professione infermieristica e la professione
ostetrica, la forte novità di questa legge è data, inoltre, dall'abolizione dei mansionari, come fonte
privilegiata da un punto di vista normativo dell'esercizio professionale. Per l'esercizio professionale
della professione infermieristica ed ostetrica, così come per tutte le altre professioni ex ausiliarie, si
individuano criteri completamente diversi. A tal proposito, l'ultimo comma dell'art. 1 precisa che "Il
campo proprio di attività e di responsabilità delle professioni sanitarie (...) è determinato dai
contenuti dei decreti ministeriali istitutivi dei relativi profili professionali e degli ordinamenti didattici di
base e post-base, nonchà degli specifici codici deontologici, fatte salve le competenze previste per
le professioni mediche e per le altre professioni del ruolo sanitario per l'accesso alle quali è richiesto
il possesso del diploma di laurea, nel rispetto reciproco delle specifiche competenze
professionali"[7].
Rispetto al passato, quindi, non c'è più un'elencazione precisa delle attribuzioni, ma tre criteri guida.
Essi sono dati dal contenuto dei profili professionali, dalla formazione di base e post-base ricevuta e
dal codice deontologico. Oltre ai tre criteri guida la legge pone anche due criteri limite: il limite delle
competenze previste per i medici e per gli altri professionisti sanitari laureati (farmacista, biologo,
psicologo, chimico, fisico).
La legge 42/1999 sancisce, in sostanza, il superamento del carattere ausiliario delle professioni
sanitarie non mediche, che le aveva confinate in una posizione subalterna e deresponsabilizzata
rispetto al personale medico, individuando, per tali professioni, una maggiore autonomia operativa e
una maggiore responsabilità nel proprio campo di attività. Ciò ha comportato che quelle figure
professionali, un tempo considerate mere esecutrici degli ordini e delle direttive impartiti dal
personale medico, vengano oggi assimilate a quest'ultimo, anche sul piano del diritto[8].
Alla legge 42/1999 ha fatto seguito un altro importante intervento normativo, la legge 10 agosto
2000, n. 251, contenente la "Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche, della
riabilitazione, della prevenzione nonchà della professione ostetrica", che ha istituito la dirigenza e la
laurea specialistica per queste professioni sanitarie, ma che contiene norme inerenti anche
all'esercizio professionale.
All'art. 1 si legge testualmente: "Gli operatori delle professioni sanitarie dell'area delle scienze
infermieristiche e della professione sanitaria ostetrica svolgono con autonomia professionale attività
dirette alla prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e collettiva, espletando le
funzioni individuate dalle norme istitutive dei relativi profili professionali nonchà dagli specifici codici
deontologici e utilizzando metodologie di pianificazione per obiettivi dell'assistenza". Con tale
disposto viene ribadito il concetto di autonomia professionale, che caratterizza, oggi, le professioni
sanitarie non mediche; figure, quindi, non più ausiliarie ma professionisti in senso pieno[9].
La legge in questione, ha, inoltre, configurato una classificazione più ampia rispetto a quella
codificata dall'art. 99 del TULS, inquadrando le professioni sanitarie non mediche in quattro grandi
aree di riferimento: le professioni sanitarie infermieristiche e la professione sanitaria ostetrica; le
professioni sanitarie riabilitative; le professioni tecnico-sanitarie; le professioni tecniche della
prevenzione.
Detta classificazione è stata, successivamente, specificata dal decreto ministeriale del 29 marzo
2001, in base al quale:
1) le professioni sanitarie infermieristiche ed ostetriche includono l'infermiere, l'infermiere pediatrico
e l'ostetrica;
2) le professioni sanitarie riabilitative comprendono il fisioterapista, il logopedista, il podologo,
l'ortottista-assistente di oftalmologia, il terapista della neuro e psicomotricità dell'età evolutiva, il
tecnico dell'educazione e della riabilitazione psichiatrica e psicosociale, il terapista occupazionale e
l'educatore professionale;
3) le professioni tecnico-sanitarie, a loro volta articolate in:
a) area tecnico-diagnostica, comprendente il tecnico audiometrista, il tecnico sanitario di laboratorio
biomedico, il tecnico sanitario di radiologia medica, il tecnico di neurofisiopatologia;
b) area tecnico-assistenziale, che include il tecnico ortopedico, il tecnico audioprotesista, il tecnico
della fisiopatologia cardiocircolatoria e della perfusione cardiovascolare, l'igienista dentale e il
dietista;
4) le professioni tecniche della prevenzione comprendono il tecnico della prevenzione nell'ambiente
e nei luoghi di lavoro e l'assistente sanitario[10].
Il quadro normativo che ha condotto alla definizione di queste nuove professionalità si completa con
l'avvio dei corsi di laurea previsti dalla nuova normativa universitaria e con la legge 1 febbraio 2006,
n. 43 contenente le "Disposizioni in materia di professioni sanitarie infermieristiche, ostetrica,
riabilitative, tecnico-sanitarie e della prevenzione e delega al Governo per le istituzioni dei relativi
Ordini professionali". Con tale intervento normativo, il legislatore ha precisato ulteriormente che
l'esercizio delle professioni sanitarie è subordinato al conseguimento del titolo universitario, valido
sull'intero territorio nazionale nel rispetto della normativa europea in materia di libera circolazione
delle professioni, e rilasciato a seguito di un percorso formativo da svolgersi in tutto o in parte
presso le aziende e le strutture del Servizio sanitario nazionale (art. 2, comma 1). La suddetta legge
dispone anche l'istituzione dei relativi ordini professionali e disciplina l'attivazione delle funzioni di
coordinamento[11].
Nei paragrafi successivi verranno analizzati gli effetti e le ricadute operative degli interventi normativi
di cui si è detto brevemente in rapporto alle professioni sanitarie infermieristiche.
2.2 La professione infermieristica: la formazione universitaria
Fino al 1992 il sistema di formazione degli infermieri era collocato nell'ambito del Servizio sanitario
nazionale e gestito direttamente dalle Regioni e dalle USL sotto il controllo, per le funzioni di
competenza, del Ministero della Sanità. Alle Regioni spettava, in particolare, la programmazione e il
finanziamento dei corsi, mentre la realizzazione della formazione era di spettanza delle scuole per
infermieri professionali, istituite presso ospedali pubblici e privati. Al termine del ciclo formativo gli
studenti sostenevano l'esame di Stato e conseguivano il diploma di infermiere[12].
Il decreto legislativo n. 502/1992, e successive modificazioni, ha posto le premesse normative per
l'inserimento della formazione infermieristica (e di tutte le altre professioni ex ausiliarie) in ambito
universitario. Già con tale decreto, infatti, si era avvertita l'esigenza di modificare l'assetto qualitativo
del percorso formativo degli allora professionisti sanitari ausiliari. All'art. 6, comma 3, infatti, rinviava
alla stipula di specifici protocolli d'intesa tra le Regioni e le Università, l'espletamento dei corsi di
diploma universitario; alla competenza di un decreto del Ministero della Salute l'individuazione delle
figure professionali da formarsi e dei relativi profili professionali[13].
In base alla riforma universitaria, attuata con la legge 19 novembre 1990, n. 341, le Università,
infatti, rilasciavano quattro tipologie di titoli di studio: il diploma universitario, il diploma di laurea, il
diploma di specializzazione, il dottorato di ricerca. Il corso di diploma universitario, in particolare,
aveva il fine di fornire agli studenti adeguata conoscenza di metodi e contenuti culturali e scientifici
orientata al conseguimento del livello formativo richiesto da specifiche aree professionali (art. 2,
comma 1), e aveva una durata non inferiore a due e non superiore a tre anni, limite quest'ultimo
diventato lo standard di riferimento[14].
I requisiti per l'accesso ai corsi di diploma universitario per infermieri venivano uniformati a quelli
previsti per tutta l'istruzione universitaria e, di conseguenza, veniva introdotto l'obbligo di possedere
il diploma di maturità quinquennale.
Questo radicale cambiamento del sistema formativo si è sviluppato, però, gradualmente. Dal 1992
fino al 1995 le Regioni hanno continuato a programmare i corsi presso le scuole per infermieri
professionali e, pertanto, dal 1994 al 1997, erano attivi due percorsi formativi per gli infermieri: uno
presso le tradizionali scuole per infermieri e uno all'interno dell'università. A partire dal 1998 la
formazione infermieristica è diventata di esclusiva competenza delle università ed è attuata sulla
base di specifici protocolli d'intesa, stipulati tra Regione e università stesse[15].
La successiva riforma universitaria, attuata con il decreto ministeriale 3 novembre 1999, n. 509,
"Regolamento recante norme concernenti l'autonomia didattica degli atenei", che ha suddiviso i
tradizionali corsi di studi in due corsi di laurea, ha ulteriormente arricchito il panorama formativo
delle professioni infermieristiche, prevedendo, anche per queste ultime, l'introduzione di due cicli
universitari. Tali cicli si articolano in un primo percorso, di durata triennale, per il conseguimento del
diploma di laurea e successivamente in un ulteriore ed eventuale percorso, di durata biennale, per il
conseguimento del diploma di laurea specialistica. Inoltre, possono essere conseguiti anche il
diploma di specializzazione e il dottorato di ricerca, al termine, rispettivamente, dei corsi di
specializzazione e di dottorato di ricerca istituiti dalle università[16] [17].
Successivamente il decreto ministeriale 509/1999 è stato superato dal decreto ministeriale 22
ottobre 2004, n. 270, "Modifiche al regolamento recante norme concernenti l'autonomia didattica
degli atenei, approvato con decreto del Ministero dell'università e della ricerca scientifica e
tecnologica", che definisce i titoli e i corsi di studio in laurea e laurea magistrale (ex specialistica),
oltre a prevedere il rilascio del diploma di specializzazione e del dottorato di ricerca[18].
Il corso di laurea ha durata triennale ed ha l'obiettivo di assicurare allo studente un'adeguata
padronanza di metodi e contenuti scientifici generali, nonchà l'acquisizione di specifiche conoscenze
professionali. Il corso di laurea, quindi, può essere preordinato al conseguimento di un titolo
professionale.
In particolare, il corso di laurea in infermieristica è attivato dalla Facoltà di Medicina e Chirurgia, al
termine del quale lo studente, superata la prova finale (redazione di un elaborato e dimostrazione di
abilità pratiche), consegue la laurea in infermieristica, che lo abilita all'esercizio della professione. La
laurea triennale è diventata, infatti, il normale titolo per poter esercitare una professione sanitaria
non medica.
L'infermiere laureato può, poi, proseguire la formazione iscrivendosi a un corso di perfezionamento
scientifico e di altra formazione permanente e ricorrente (ovvero master di primo livello) attivato
dall'università, oppure iscrivendosi al corso di laurea magistrale.
Il corso di laurea magistrale ha durata biennale e ha l'obiettivo di fornire allo studente una
formazione di livello avanzato per l'esercizio di attività di elevata qualificazione in ambiti specifici.
Una volta conseguita la laurea magistrale in scienze infermieristiche, l'infermiere può decidere di
intraprendere il dottorato di ricerca oppure iscriversi al master universitario di secondo livello.
Gli attuali ordinamenti didattici dei corsi di laurea per le professioni sanitarie infermieristiche, così
come per le altre professioni sanitarie non mediche, sono stati recepiti per le lauree triennali dal
decreto ministeriale 19 febbraio 2009 (Determinazione delle classi dei corsi di laurea per le
professioni sanitarie, ai sensi del decreto ministeriale 22 ottobre 2004, n. 270); per le lauree
magistrali dal decreto ministeriale 8 gennaio 2009 (Determinazione delle classi delle lauree
magistrali delle professioni sanitarie, ai sensi del decreto ministeriale 22 ottobre 2004, n. 270)[19].
2.2.1 La formazione continua: il sistema ECM
L'iter formativo che l'infermiere è chiamato a percorrere per l'esercizio della professione non si
esaurisce con il conseguimento della laurea (triennale o magistrale), sussistendo, invece, la
necessità che il professionista (non solo l'infermiere, ma qualsiasi operatore sanitario) segua altresì,
nella sua vita lavorativa, un percorso di formazione continua.
La formazione continua è, infatti, uno strumento a garanzia della qualità dell'assistenza, volto a
sviluppare la professionalità degli operatori, condizione, questa, particolarmente rilevante in una
società in cui il rapido e continuo sviluppo delle conoscenze scientifiche, della tecnologia e delle
innovazioni organizzative, comporta la necessità per i professionisti di mantenersi costantemente
aggiornati[20].
Il decreto legislativo 502/1992, come integrato dal decreto legislativo 229/1999, ha introdotto per i
professionisti sanitari l'obbligo di formazione continua, che viene sinteticamente chiamato con
l'acronimo ECM (educazione continua in medicina)[21].
All'art. 16 bis, comma 1, si legge testualmente: "(...) la formazione continua comprende
l'aggiornamento e la formazione permanente. L'aggiornamento professionale è l'attività successiva
al corso di diploma, laurea, specializzazione, formazione complementare, formazione specifica in
medicina generale, diretta ad adeguare per tutto l'arco della vita professionale le conoscenze
professionali. La formazione permanente comprende le attività finalizzate a migliorare le
competenze e le abilità cliniche, tecniche e manageriali e i comportamenti degli operatori sanitari al
progresso scientifico o tecnologico con l'obiettivo di garantire efficacia, appropriatezza, sicurezza ed
efficienza alla assistenza prestata dal Servizio sanitario nazionale". In particolare, la formazione
continua "consiste in attività di qualificazione specifica per i diversi profili professionali, attraverso la
partecipazione a corsi, convegni, seminari, organizzati da istituzioni pubbliche o private accreditate,
nonchà soggiorni di studio e la partecipazione a studi clinici controllati e ad attività di ricerca, di
sperimentazione e di sviluppo" (art 16 bis, comma 2)[22].
Con tale disposto normativo vengono istituzionalizzati i programmi di educazione continua in
medicina, ossia l'insieme organizzato e controllato di tutte le attività formative sia teoriche che
pratiche, promosse da provider accreditati a livello nazionale o a livello regionale, aventi lo scopo di
mantenere elevata e al passo con i tempi la professionalità degli operatori della sanità in termini di
competenze, comportamenti e abilità cliniche, tecniche e manageriali; il tutto al fine di garantire
maggiore efficacia, appropriatezza, sicurezza ed efficienza all'assistenza prestata[23].
Organo centrale di vigilanza e controllo del sistema di educazione continua in medicina è la
Commissione nazionale per la formazione continua (art. 16 ter). Questo organismo ha la funzione,
innanzitutto, di individuare gli obiettivi formativi di interesse nazionale, e quindi di abilitare o meno gli
eventi formativi (congressi, seminari, conferenze, corsi di formazione e aggiornamento, ecc), che le
vengono sottoposte via via dai provider, legittimati a richiedere i relativi accreditamenti.
L'accreditamento consiste, sostanzialmente, nell'assegnazione all'evento formativo di interesse per
l'ECM, sulla base di alcuni indicatori di qualità, di un certo numero di crediti, che verranno poi
formalmente riconosciuti a coloro che vi parteciperanno. Tra i soggetti che possono essere
accreditati vi sono le Università, le aziende sanitarie ospedaliere o territoriali, le fondazioni a
carattere scientifico, gli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, gli ordini e i collegi
professionali, le società scientifiche, le strutture dedicate alla formazione in campo sanitario,
ecc.[24]
La partecipazione alle attività di formazione continua costituisce un dovere per tutti gli operatori
sanitari, in quanto "requisito indispensabile per svolgere l'attività professionale, in qualità di
dipendenti o liberi professionisti, per conto delle aziende ospedaliere, delle Università, delle unità
sanitarie locali e delle strutture sanitarie private" (art. 16 quater, comma 1). La partecipazione a tali
attività consente al professionista di acquisire un numero di crediti formativi prefissati dalla
Commissione nazionale per la formazione continua. Il mancato raggiungimento del numero di crediti
nell'arco di tempo definito (3 anni per una media di 15 crediti), comporta specifiche penalizzazioni,
anche di natura economica, che dovranno essere decise dai contratti collettivi nazionali di
lavoro[25].
2.3 L'esercizio della professione infermieristica
In passato l'esercizio della professione infermieristica era regolato dal c.d. ...mansionario', approvato
con il D.P.R. 14 marzo 1974, n. 225. Il mansionario consisteva in un elenco che indicava, in modo
rigido e tassativo, una serie di attività e mansioni che l'infermiere era autorizzato a compiere. Ne
conseguiva che tutto ciò che non era specificatamente compreso era da considerarsi di competenza
medica[26].
Il mansionario, in altre parole, specificava in maniera dettagliata quali fossero gli interventi che il
medico poteva delegare all'infermiere, nonchà quali, tra questi, l'infermiere potesse svolgere
autonomamente e quali, invece, dovessero essere dallo stesso svolti sotto il controllo del medico
delegante[27].
Tradizionalmente, infatti, la funzione del personale infermieristico consisteva nel fornire ausilio al
medico, su sua richiesta e indicazione, nella cura del paziente. In particolare, si sostanziava in due
fondamentali tipi di attività: le une di carattere amministrativo e organizzativo come, per esempio,
l'annotazione nella cartella dei dati clinici dei degenti (polso, temperature, pressione, ecc.), la
conservazione della documentazione clinica, la richiesta anche urgente di interventi medici, la
custodia dei farmaci; le altre di carattere più propriamente assistenziale come la somministrazione
dei farmaci e degli alimenti, l'esecuzione di prelievi di sangue, il monitoraggio delle condizioni del
paziente, l'assistenza al medico in reparto e in sala operatoria, la disinfezione delle attrezzature,
ecc.
Nell'ultimo decennio, come già accennato nei precedenti paragrafi, si è assistito ad un mutamento
profondo della figura dell'infermiere (così come delle altre professioni sanitarie non mediche). In
seguito a innovazioni normative di grande portata, tale figura si è arricchita di nuove responsabilità
decisionali, che si sono aggiunte a quelle derivanti dall'esecuzione delle mansioni sopra
sommariamente elencate.
Il rinnovamento e l'evoluzione della figura dell'infermiere, hanno inizio con l'emanazione del relativo
profilo professionale, approvato con decreto ministeriale 14 settembre 1994, n. 739 (Regolamento
concernente l'individuazione della figura e del relativo profilo professionale dell'infermiere). L'art. 1,
comma 1, enuncia: "È individuata la figura professionale dell'infermiere con il seguente profilo:
l'infermiere è l'operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante e
dell'iscrizione all'albo professionale, è responsabile dell'assistenza generale infermieristica". Di
particolare importanza è l'affermazione di responsabilità relativa all'infermiere, responsabile
dell'assistenza generale infermieristica, che rappresenta un passo importante verso il
riconoscimento di una professione autonoma[28].
Dopo aver definito la figura dell'infermiere, il citato art. 1, al comma 2, precisa quali siano gli ambiti
dell'assistenza infermieristica e quale ne sia la natura: "L'assistenza infermieristica preventiva,
curativa, palliativa e riabilitativa è di natura tecnica, relazionale, educativa. Le principali funzioni
sono la prevenzione delle malattie, l'assistenza dei malati e dei disabili di tutte l'età e l'educazione
sanitaria". Le aree in cui si può svolgere l'assistenza infermieristica, dunque, vanno dalla
prevenzione alla riabilitazione, comprendendo la palliazione quando la guarigione non è possibile.
L'aspetto tecnico, l'aspetto relazionale e l'aspetto educativo, poi, sono i tre elementi che devono
essere presenti in ogni azione di assistenza infermieristica[29].
Sempre all'art. 1, al comma 3, sono elencate una serie di funzioni dell'infermiere, che si riportano
testualmente:
"L'infermiere:
a) partecipa all'identificazione dei bisogni di salute della persona e della collettività;
b) identifica i bisogni di assistenza infermieristica della persona e della collettività e formula i relativi
obiettivi;
c) pianifica, gestisce e valuta l'intervento assistenziale infermieristico;
d) garantisce la corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche;
e) agisce sia individualmente sia in collaborazione con gli altri operatori sanitari e sociali;
f) per l'espletamento delle funzioni si avvale, ove necessario, dell'opera del personale di supporto;
g) svolge la sua attività professionale in strutture sanitarie pubbliche o private, nel territorio e
nell'assistenza domiciliare, in regime di dipendenza o libero-professionale".
Dalla lettura di questo comma si evince che l'infermiere esercita la propria professione a due livelli:
un livello autonomo e uno collaborante. Il livello autonomo è sottolineato, in particolare, ai punti b) e
c), dove si specifica che l'infermiere identifica i bisogni di assistenza infermieristica e pianifica e
gestisce l'intervento assistenziale. L'attività collaborante viene invece specificata al punto a), dove
viene sottolineata la funzione integrante medico-infermiere, precisando che l'infermiere partecipa
all'identificazione dei bisogni di salute . Inoltre il punto d) stabilisce che l'infermiere garantisce la
corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche poste in essere dal medico. Ancora,
il punto e) ha modo di precisare che l'infermiere agisce sia individualmente sia in collaborazione con
gli altri operatori sanitari e sociali, con la possibilità di avvalersi , ove necessario, del personale di
supporto, come precisato al punto f).[30]
Con l'emanazione del decreto ministeriale 739/1994 l'infermiere si trova a dover "assumere
autonomamente la responsabilità del processo assistenziale, superando quella responsabilità semiautonoma determinata dal mansionario e limitata alla corretta esecuzione delle tecniche. La
responsabilità del processo assistenziale è da intendersi come responsabilità di natura civile, penale
e disciplinare riferita ad ogni fase del processo: dal momento decisionale a quello attuativo,
valutativo e di confronto"[31].
Il profilo professionale, così come delineato dal suddetto decreto "consegna agli infermieri la
responsabilità del processo assistenziale, riconosce l'autonomia decisionale, richiede competenza e
capacità di lavoro interdisciplinare"[32].
L'affermazione della responsabilità dell'assistenza generale, riconosciuta agli infermieri, deve essere
letta congiuntamente con le successive evoluzioni normative di cui si è già accennato, in particolare
alle statuizioni della legge 42/1999. Tale legge ha, infatti, soppresso l'anacronistica definizione
attribuita al personale infermieristico (e non solo) di professione sanitaria ausiliaria, sostituita dalla
denominazione di professione sanitaria, e ha espressamente abrogato il mansionario (D.P.R.
225/1974).
L'art. 1 della citata legge stabilisce che, a seguito dell'abrogazione del mansionario, "il campo
proprio di attività e di responsabilità delle professioni sanitarie (...) è determinato dai contenuti dei
decreti ministeriali istitutivi dei relativi profili professionali e degli ordinamenti didattici dei rispettivi
corsi di diploma universitario e di formazione post-base, nonchà degli specifici codici deontologici,
fatte salve le competenze previste per le professioni mediche e per le altre professioni del ruolo
sanitario per l'accesso alle quali è richiesto il possesso del diploma di laurea, nel rispetto reciproco
delle specifiche competenze professionali"[33].
Il mansionario viene, dunque, sostituito da tre criteri guida: il contenuto del profilo professionale, la
formazione ricevuta attraverso i corsi di base e post-base e il codice deontologico.
Il campo proprio di attività e di responsabilità, in primo luogo, corrisponde al combinato disposto dei
contenuti del profilo professionale, che appare come una guida ampia non destinata ad entrare nel
dettaglio. Le espressioni utilizzate, in parte già viste, del seguente tenore: "l'infermiere è
responsabile dell'assistenza generale infermieristica"; "pianifica, gestisce e valuta l'intervento
assistenziale infermieristico"; "garantisce la corretta applicazione delle prescrizioni diagnosticoterapeutiche", ecc., sono destinate ad essere di volta in volta interpretate in relazione alle singole
questioni poste[34].
L'altro criterio guida è dato dal contenuto degli ordinamenti didattici dei corsi di laurea e di laurea
magistrale, di cui si è già parlato al precedente paragrafo. In particolare, per quanto riguarda la
formazione post-base, si precisa che già con la pubblicazione del profilo professionale del 1994 si
era aperta la strada a percorsi maggiormente specialistici, allo scopo di fornire agli infermieri
conoscenze cliniche più avanzate. A tal proposito venivano individuate cinque aree di
specializzazione: 1) sanità pubblica; 2) pediatria; 3) salute mentale-psichiatria; 4) geriatria; 5) area
critica (art. 1, comma 5).
Oggi, la formazione post-base si è notevolmente sviluppata, in seguito alle riforme universitarie,
attraverso il conseguimento dei master di primo e secondo livello, e anche notevolmente arricchita
di articolati percorsi formativi (tutoraggio clinico, risk management, infermieristica legale, ecc.) ben
oltre le previsioni del profilo professionale. In particolare, con la legge 43/2006 si sancisce il pieno
riconoscimento della formazione post-base delle professioni sanitarie attraverso la qualifica di
specialista a coloro che hanno conseguito un master[35].
Infine, l'ultimo criterio guida è dato dal codice deontologico di categoria che è stato emanato dalla
Federazione Nazionale dei Collegi IPASVI. Per un commento approfondito si rimanda al paragrafo
2.5, sottolineando, in questa sede, come la legge abbia voluto demandare a una normativa posta in
essere dagli ordini professionali la codificazione di questioni etiche. Tra l'altro, il rimando ad una
normativa deontologica costituisce un riconoscimento forte di autonomia per la professione
infermieristica[36].
Oltre ai tre criteri guida la legge pone due criteri limite: il limite delle competenze previste per i
medici e per gli altri professionisti sanitari laureati[37].
In sostanza, con la promulgazione della legge 42/1999, l'infermiere ha definitivamente abbandonato
il ruolo di sanitario ausiliario, che lo aveva confinato in una posizione subalterna e
deresponsabilizzata, e viene liberato dai vincoli restrittivi e riduttivi indicati dal mansionario[38]. Ad
essa ha fatto seguito la fondamentale legge 251/2000 che, oltre a prevedere l'istituzione della
dirigenza infermieristica, contiene norme relative all'esercizio professionale. In base a tale legge gli
operatori della professione infermieristica "svolgono con autonomia professionale attività dirette alla
prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e collettiva, espletando le funzioni
individuate dalle norme istitutive dei relativi profili professionali nonchà dagli specifici codici
deontologici e utilizzando metodologie di pianificazione per obiettivi dell'assistenza" (art. 1, comma
1)[39].
In linea con il disposto normativo della legge 42/1999, viene ribadito, ancora una volta, il concetto di
autonomia professionale, e, quindi, l'espansione della dimensione della figura dell'infermiere. Viene
previsto, inoltre, l'espresso riconoscimento alla categoria infermieristica della funzione della
pianificazione in ordine agli obiettivi di assistenza, e dunque l'organizzazione della propria attività,
che rappresenta per tale categoria una conquista di non scarso rilievo[40].
L'evoluzione normativa che ha caratterizzato il processo di professionalizzazione in tutti i suoi
passaggi essenziali - pubblicazione del profilo professionale, abolizione del mansionario, formazione
universitaria - ha segnato un mutamento profondo, arrivando a toccare l'essenza stessa della figura
dell'operatore infermieristico.
All'epoca del mansionario, l'infermiere era essenzialmente un esecutore materiale: eseguiva i
compiti che dal medico gli venivano delegati, senza alcuna (o quasi) autonomia decisionale. Come è
stato notato, egli era "un operatore di supporto per altre professionalità: un esecutore di compiti
affidatigli da altri e inseriti in un processo non suo, basato su conoscenze trasmesse da altri e per la
sola parte da questi ritenuta necessaria"[41].
Oggi, invece, l'infermiere si trova a dover assumere autonomamente la responsabilità del processo
assistenziale. L'infermiere è, infatti, responsabile dell'assistenza generale infermieristica che lui
stesso decide di assicurare di volta in volta alla persona, attivando quegli interventi assistenziali che
la situazione concreta richiede: in altri termini, la tipologia degli interventi assistenziali non è imposta
da una fonte esterna (com'era il mansionario), ma è decisa in via autonoma dall'infermiere.
Dunque, la nuova responsabilità richiesta all'infermiere è connotata da competenza e da autonomia
decisionale: la competenza è espressione del processo di formazione, addestramento e continuo
aggiornamento dell'infermiere; l'autonomia decisionale è in rapporto proporzionale con la prima: ad
una maggiore competenza e preparazione tecnica corrisponde un ampliamento dell'autonomia ed
indipendenza nelle scelte assistenziali. Responsabilità, competenza ed autonomia sono, perciò, le
tre caratteristiche fondamentali dell'attuale professione infermieristica: venuta meno la subalternità
rispetto alla figura del medico e abbandonate le vesti di ausiliario, ovvero del ruolo di mero
esecutore degli ordini del medico, l'infermiere è diventato il professionista che agisce in piena
autonomia nell'ambito delle proprie competenze, collaborando con gli altri operatori sanitari alla cura
del paziente[42].
2.4 Gli ambiti di sviluppo professionale: l'infermiere coordinatore e
l'infermiere dirigente
La funzione di coordinamento e la funzione dirigenziale sono le due storiche e tradizionali funzioni
gestionali e di sviluppo di carriera dell'infermiere. Entrambe possono avere diversi livelli di
operatività: di dipartimento, di unità operativa, trasversale, ecc.
La figura dell'infermiere coordinatore (o caposala) trova un primo riconoscimento con il D.P.R. 27
marzo 1969, n. 129, il quale attribuiva al caposala funzioni di direzione e controllo del personale
infermieristico e ausiliario, ponendolo alle dirette dipendenze del primario[43].
A partire dagli anni Settanta viene riconosciuto al caposala il compito di programmazione di piani di
lavoro (D.P.R. 225/1974) e, più in generale, in base a quanto previsto dai contratti sindacali
dell'epoca, gli vengono attribuite funzioni di indirizzo, guida, coordinamento e controllo nei confronti
delle unità operative cui era preposto. Tuttavia il ruolo manageriale e gestionale del caposala era
ancora lontano da venire[44].
Nel 1979 viene approvato lo "Stato giuridico del personale delle USL" con il D.P.R. n. 761 che
inquadra il caposala come operatore professionale coordinatore, e, successivamente, nel 1984
viene approvata una sorta di profilo professionale con il D.P.R. 7 settembre n. 821, il quale prevede,
tra le funzioni svolte dal caposala, attività di assistenza diretta, di coordinamento del personale, di
predisposizione dei piani di lavoro e di formazione.
Negli anni Novanta tutto il personale sanitario viene riclassificato in seguito alle riforme
aziendalistiche e di privatizzazione del rapporto di lavoro e la figura del caposala viene rinominata
come collaboratore professionale sanitario. Per le funzioni assegnate a tale figura si può fare
riferimento al Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro del 1999, il quale precisa che "il collaboratore
professionale sanitario programma, nell'ambito dell'attività di organizzazione dei servizi sanitari la
migliore utilizzazione delle risorse umane in relazione agli obiettivi assegnati e verifica
l'espletamento delle attività del personale medesimo. Collabora alla formulazione dei piani operativi
e dei sistemi di verifica della qualità ai fini dell'ottimizzazione dei servizi sanitari. Coordina le attività
didattiche tecnico-pratiche e di tirocinio, di formazione (quali, ad esempio, diploma universitario,
formazione complementare, formazione continua) del personale appartenente ai profili sanitari a lui
assegnati. Assume responsabilità diretta per le attività professionali cui è preposto e formula
proposte operative per l'organizzazione del lavoro nell'ambito delle attività affidategli"[45].
In epoca recente, è intervenuta a disciplinare la funzione di coordinamento la legge 43/2006,
stabilendo, in particolare, quali requisiti per l'esercizio di tale funzione, l'obbligatorietà di un titolo
post-base (master di primo livello in management o per le funzioni di coordinamento) e
un'esperienza almeno triennale nel profilo di appartenenza.
Per quanto riguarda la figura dell'infermiere dirigente, invece, essa nasce con il D.P.R. 27 marzo
1969, n. 128 il quale istituiva la figura di capo dei servizi sanitari ausiliari. Egli aveva compiti
organizzativi e disciplinari nei confronti del personale sanitario ausiliario, ma rimaneva una figura di
scarsa autonomia professionale e alle dirette dipendenze di una figura medica, il direttore
sanitario[46].
A seguito dell'istituzione del Servizio sanitario nazionale, alla fine degli anni Settanta, viene
approvato il nuovo stato giuridico del personale e con le regolamentazioni successive viene prevista
la figura dell'operatore professionale dirigente, a cui sono assegnate funzioni didatticoorganizzative.
Con l'aziendalizzazione delle strutture del Servizio sanitario nazionale e con la privatizzazione del
rapporto di lavoro negli anni Novanta si pongono anche le premesse per la formazione universitaria
di alto livello fino ad arrivare all'approvazione della legge 251/2000 che sancisce la svolta per
l'istituzione di una reale dirigenza infermieristica. Tale legge, infatti, stabilisce che "al fine di
migliorare l'assistenza e per la qualificazione delle risorse le aziende sanitarie possono istituire il
servizio dell'assistenza infermieristica ed ostetrica e il servizio sociale professionale e possono
attribuire l'incarico di dirigente del medesimo servizio" (art. 7, comma 1)[47].
Per quanto riguarda le funzioni, l'infermiere dirigente si occupa, nell'ambito dell'attività di
organizzazione dei servizi sanitari, di programmare l'utilizzo delle risorse umane sulla base delle
richieste e delle indicazioni fornite dai responsabili dei servizi e dei presidi. Egli verifica inoltre che il
personale svolga accuratamente e adeguatamente le proprie attività, predisponendo, a tal fine,
anche i turni di lavoro e collaborando alla formulazione dei piani operativi e dei sistemi di
valutazione dei medesimi. Nell'ambito della formazione, l'infermiere dirigente coordina le attività
didattiche tecniche e pratiche e di tirocinio del personale appartenente ai profili sanitari a lui
assegnati.
Per l'accesso alla carica di dirigente del ruolo sanitario è necessario avere acquisito la laurea
magistrale, cinque anni di servizio effettivo e l'iscrizione all'albo professionale; la modalità di
accesso è un concorso pubblico per titoli ed esami[48].
2.5 Il codice deontologico
Il codice deontologico viene posto dalla legge 42/1999 come uno dei tre criteri guida per l'esercizio
professionale.
La deontologia può essere definita come l'insieme dei principi e delle norme di comportamento che
regolano l'esercizio di una determinata categoria professionale. Il codice deontologico contiene quei
principi e quelle norme deontologiche che gli organi rappresentativi di una professione ritengono
importante proporre a tutti i loro iscritti[49].
Il codice deontologico rappresenta, quindi, un atto di autodisciplina delle varie categorie
professionali, a cui viene generalmente riconosciuto "il duplice ruolo di fonte di orientamento
professionale e di paradigma per la valutazione di condotte articolato su regole fondamentali di
comportamento"[50]. Sebbene non abbia il rango di fonte del diritto, il codice deontologico ha,
dunque, un ruolo fondamentale nel disciplinare i comportamenti professionali, rappresentando uno
strumento utile per valutare gli ambiti di competenza e responsabilità di ciascuna professione.
Per le professioni sanitarie i codici deontologici, dato il richiamo operato dalla legge, si presentano
come una delle condizioni per l'esercizio professionale, la cui violazione può essere punita con
sanzioni di natura disciplinare da parte dell'ordine o del collegio professionale[51].
Gli infermieri, in particolare, si sono dati, nella loro storia, quattro codici deontologici: il primo è stato
scritto nel 1960, il secondo nel 1977, il terzo nel 1999, mentre il quarto, l'attuale, nel 2009.
Senza entrare nella analisi approfondita dei singoli articoli del codice del 2009, si vogliono però
sottolineare alcuni passi fondamentali, soprattutto alla luce della individuazione del campo di attività
dell'infermiere, delle sua autonomia e della sua responsabilità.
Nei primi tre articoli, che si riportano per esteso, vengono definite la figura dell'infermiere e la sua
attività: "L'infermiere è il professionista sanitario responsabile dell'assistenza infermieristica" (art. 1);
"L'assistenza infermieristica è servizio alla persona, alla famiglia e alla collettività. Si realizza
attraverso interventi specifici, autonomi e complementari di natura intellettuale, tecnico-scientifica,
gestionale, relazionale ed educativa" (art. 2); "La responsabilità dell'infermiere consiste
nell'assistere, nel curare e nel prendersi cura della persona nel rispetto della vita, della salute, della
libertà e della dignità dell'individuo" (art. 3)[52].
Si sottolinea, poi, come l'assistenza debba essere prestata senza alcuna discriminazione (art. 4) e
come l'adesione al rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo e dei principi etici della professione
rappresenti la condizione essenziale per l'esercizio della professione stessa (art. 5).
In ogni caso, devono essere tenuti in considerazione anche i valori personali dell'assistito, i quali
possono portare a bisogni e, di conseguenza, a soluzioni e risposte differenti. Queste vanno
ricercate attraverso il dialogo e la collaborazione senza che in alcun modo vengano lesi il bene e
l'autonomia del paziente (artt. 7 e 9).
Se dal dialogo emergono soluzioni in contrasto con i principi etici della professione o con i propri
valori, l'infermiere può avvalersi della clausola di coscienza (art. 8). La clausola di coscienza, o
obiezione di coscienza, può essere definita come "la volontaria non esecuzione di un'attività
richiesta da altri, contraria sia ai principi etici della professione sia ai valori dell'infermiere (che non la
vuole porre in essere)"[53]. È tuttavia da considerarsi "un'opzione estrema da attuarsi solo in caso di
posizioni altrui assolutamente inconciliabili attraverso il dialogo"[54].
Negli articoli successivi viene ribadita l'importanza della formazione, dell'aggiornamento continuo,
della ricerca e dell'esperienza, mirati al miglioramento delle proprie conoscenze, perchà è da queste
che si determina il livello di responsabilità dell'infermiere. Se necessario, egli ricorre all'intervento o
alla consulenza di infermieri esperti o specialisti, oltre a richiedere formazione e supervisione per
pratiche nuove o sulle quali non ha esperienza (artt. 11, 12, 13 e 15). Ciò in quanto l'interazione fra
professionisti, così come l'integrazione interprofessionale, sono modalità fondamentali per far fronte
ai bisogni dell'assistito (art. 14).
Un numero cospicuo di articoli tratta del rapporto che l'infermiere instaura con l'assistito, e, dunque,
dei doveri nei confronti di quest'ultimo. La comunicazione e l'informazione sono al centro del
rapporto, in tutte le loro forme e in tutti gli ambiti operativi. L'infermiere deve ascoltare, informare,
coinvolgere l'assistito e valutare con lui i bisogni assistenziali (art. 20); deve conoscere le preferenze
dell'assistito e tenerle in considerazione (art. 21).
L'infermiere deve, inoltre, conoscere il progetto diagnostico-terapeutico per le influenze che questo
ha sul percorso assistenziale e sulla relazione con l'assistito (art. 22) e si adopera affinchà il
paziente disponga di tutte le informazioni necessarie ai suoi bisogni di vita.
L'assistito ha, infatti, il diritto (ma non il dovere) di essere informato sul proprio stato di salute e sulle
cure e l'assistenza necessarie. A tal proposito, si fa riferimento all'apporto congiunto
dell'informazione (art. 23), con la convinzione che una informazione globale al paziente lo possa
orientare in modo più consapevole sulle scelte terapeutiche-assistenziali più idonee[55].
Vengono, poi, richiamati e rafforzati i doveri giuridici sulla riservatezza nel trattamento dei dati
relativi all'assistito e sul segreto professionale (artt. 26 e 28).
Importante è il dovere dell'infermiere di assistere globalmente la persona, indipendentemente dalle
condizioni cliniche, fino al termine della vita. Si precisa che nel prestare l'assistenza, egli deve
tenere in considerazione l'importanza della palliazione e del conforto ambientale, fisico, psicologico,
relazionale e spirituale (art. 35). L'infermiere rispetta e tutela la volontà dell'assistito di porre dei limiti
agli interventi che non siano proporzionati alla sua condizione clinica e coerenti con la concezione
da lui espressa della qualità della vita (art. 36). Affermazione, questa, che evoca la dibattuta
questione del c.d. accanimento terapeutico[56]. Per quanto riguarda un altro delicato argomento,
quello dell'eutanasia[57], è posto il divieto per l'infermiere di attuare e partecipare a interventi
finalizzati a provocare la morte, anche nel caso in cui la richiesta provenga dall'assistito (art. 38).
Vengono trattati anche i rapporti professionali con i colleghi e gli altri operatori, e i rapporti con le
istituzioni. Riguardo al primo aspetto, l'infermiere collabora con i colleghi e gli altri operatori sanitari,
di cui riconosce lo specifico apporto all'interno dell'à quipe (art. 41). Egli deve agire con lealtà nei
confronti dei colleghi e tutelare la loro dignità, oltre che la propria, con comportamenti ispirati al
rispetto e alla solidarietà (artt. 42 e 45). Ogni abuso o comportamento dei colleghi contrario alla
deontologia, deve essere segnalato dall'infermiere al proprio Collegio professionale (art. 43).
Riguardo al secondo aspetto, l'infermiere, rispetto all'organizzazione sanitaria in cui opera ha il
dovere di contribuire al buon funzionamento del servizio, segnalando anche eventuali carenze o
disservizi (art. 47 e 48). Egli, inoltre ha l'obbligo di segnalare al proprio Collegio professionale le
situazioni che possono configurare l'esercizio abusivo della professione infermieristica, nonchà tutte
le situazioni in cui sussistono circostanze che limitano la qualità delle cure e dell'assistenza o che
siano lesive del decoro dell'esercizio professionale (artt. 50 e 51).
2.6 Qualifiche giuridiche dell'infermiere
L'esercizio della professione infermieristica (al pari di quella medica) determina, sotto l'aspetto della
rilevanza penale, l'attribuzione di diverse qualifiche giuridiche, distinte, sostanzialmente, sulla base
della modalità di svolgimento dell'attività lavorativa: pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio
per i dipendenti pubblici, ovvero esercente un servizio di pubblica necessità per i liberi
professionisti[58].
Tali qualifiche sono così definite nel codice penale:
- art. 357 c.p.: "Pubblico ufficiale - Agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali coloro i quali
esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa.
Agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da
atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e manifestazione della volontà della pubblica
amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi";
- art. 358 c.p.: "Incaricato di pubblico servizio - Agli effetti della legge penale, sono incaricati di un
pubblico servizio coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio. Per pubblico
servizio deve intendersi un'attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma
caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest'ultima, e con esclusione dello svolgimento di
semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale";
- art. 359 c.p.: "Esercente un servizio di pubblica necessità - Agli effetti della legge penale, sono
persone che esercitano un servizio di pubblica necessità:
1) i privati che esercitano professioni forensi o sanitarie, o altre professioni il cui esercizio sia per
legge vietato senza una speciale abilitazione dello Stato, quando dell'opera di essi il pubblico sia per
legge obbligato a valersi;
2) i privati che, non esercitando una pubblica funzione, nà prestando un pubblico servizio,
adempiono un servizio dichiarato di pubblica necessità mediante un atto della pubblica
amministrazione"[59].
La diversa qualifica giuridica comporta effetti rilevanti sotto l'aspetto penale poichà taluni reati sono
puniti più severamente se commessi in veste di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio,
oltre al fatto che alcuni reati possono essere commessi solo da chi riveste tali qualifiche pubbliche,
come, ad esempio, il rifiuto di atti d'ufficio, il falso in atto pubblico, la rivelazione del segreto d'ufficio
e l'omissione di denuncia[60]. Allo stesso tempo, colui che opera in forma pubblica è tutelato
maggiormente dallo Stato, poichà le pene per i reati commessi a suo danno (es. minacce, lesioni)
sono più elevate.
Tradizionalmente, in ambito sanitario, la qualificazione di pubblico ufficiale viene fatta risalire al
medico, in quanto "egli opera per conto e nell'interesse della pubblica amministrazione; forma e
manifesta la volontà dell'ente pubblico in materia di pubblica assistenza sanitaria (...), esercitando in
sua vece poteri autoritativi e certificativi"[61]. In particolare, il medico dirigente del Servizio sanitario
nazionale o convenzionato con esso, attraverso alcuni momenti certificativi, realizza senza dubbio
attività da pubblico ufficiale (si pensi ad es. alle ricette, alle attestazioni di malattia, ai certificati di
morte, ecc.).
All'infermiere che svolge la sua attività quale dipendente di una struttura pubblica, invece, è
tradizionalmente riconosciuta la qualifica di incaricato di pubblico servizio, piuttosto che di pubblico
ufficiale, poichà egli non dispone di poteri autoritativi e certificativi. Tuttavia, non mancano casi in cui
la giurisprudenza ha attribuito all'infermiere la qualifica di pubblico ufficiale[62].
In ogni caso, al di là delle diverse interpretazioni giurisprudenziali, "la differenza tra le qualifiche di
pubblico ufficiale od incaricato di pubblico servizio, in pratica, non è particolarmente rilevante perchà
le ipotesi di reato sono sostanzialmente analoghe per le due categorie"[63].
Importante, invece, è la distinzione rispetto alla qualifica di esercente un servizio di pubblica
necessità, categoria nella quale rientrano i medici e gli infermieri che esercitano la libera
professione. Il concetto di pubblica necessità deriva dal fatto che lo svolgimento della professione è
subordinato al conseguimento dell'abilitazione da parte dello Stato e che il cittadino che intende
usufruire di determinati servizi è obbligato, per legge, a rivolgersi solo ai professionisti abilitati.
Occorre precisare che la qualifica giuridica non è un'attribuzione che deriva dalla situazione
lavorativa ordinaria del soggetto, ma dipende esclusivamente dal contesto della specifica
prestazione al momento in cui si è verificato il reato[64].
Infatti, le qualifiche di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio "non presuppongono
necessariamente un rapporto di impiego fra la persona e l'ente pubblico: non esigono, in altri
termini, quel rapporto che sorge quando una persona mette volontariamente la propria attività a
servizio di altri a fine professionale, e cioè in modo continuativo contro una determinata retribuzione.
Tanto la pubblica funzione quanto il pubblico servizio, quindi, possono essere esercitati sia da
dipendenti pubblici che da semplici privati"[65].
Così, anche nella categoria di professionisti esercenti un servizio di pubblica necessità si può
verificare l'esercizio di pubbliche funzioni e, quindi, la qualifica di pubblico ufficiale quando ne
ricorrano le caratteristiche.
Perciò, se un infermiere svolge abitualmente la sua attività presso una struttura pubblica ma
esegue, al di fuori del servizio, anche prestazioni in regime libero-professionale, egli, a seconda del
contesto, può assumere alternativamente le qualifiche di incaricato di pubblico servizio o di
esercente un servizio di pubblica necessità. Così, un libero professionista che svolga attività di
consulente o di perito nominato dall'autorità giudiziaria assume, per gli atti commessi in tale
specifico contesto, la qualifica di pubblico ufficiale, con i doveri ed i poteri connessi a tale
esercizio[66].
2.7 Gli organi di tutela professionale: i collegi IPASVI
I collegi e gli ordini professionali sono organi di autogoverno di una categoria professionale, istituiti
con legge dello Stato, cui è riconosciuta natura giuridica di enti pubblici[67].
Occorre precisare che non vi è ormai alcuna sostanziale differenza fra il concetto di ordine e il
concetto di collegio professionale. Infatti, mentre fino a pochi anni fa con il termine ...ordine
professionale' ci si riferiva a un organo di rappresentanza dei professionisti laureati e con il termine
...collegio professionale' ci si riferiva ad un organo di rappresentanza dei professionisti diplomati,
oggi tale distinzione è puramente terminologica e non ha alcun significato pratico[68].
Gli ordini e i collegi professionali hanno il compito di disciplinare l'esercizio della professione
attraverso una serie di interventi finalizzati a:
- tutelare i propri iscritti, quale categoria professionale con proprie specificità;
- assicurare il corretto esercizio dell'attività professionale sotto il profilo normativo e deontologico;
- tutelare l'immagine e il prestigio della professione;
- favorire lo sviluppo professionale sia tecnico, sia formativo;
- sostenere le iniziative necessarie o utili per la soppressione dell'esercizio abusivo della
professione;
- garantire, attraverso l'attività dei professionisti, i diritti del cittadino a una prestazione corretta e
adeguata.
A tutela dell'esercizio delle professioni sanitarie infermieristiche sono stati costituiti i Collegi
professionali IPASVI[69] (infermieri professionali, assistenti sanitari, vigilatrici d'infanzia). I collegi
sono costituiti in ogni provincia e sono riuniti nella Federazione nazionale dei Collegi IPASVI, la
quale opera a livello nazionale, con compiti di coordinamento e di integrazione delle politiche
relative alla professione infermieristica, affinchà sia garantita una corretta e coerente tutela, oltre
che dei professionisti, anche della qualità delle prestazioni assistenziali assicurata dagli iscritti ai
collegi[70]. Ogni collegio ha personalità giuridica e opera attraverso i propri organi che sono:
l'assemblea degli iscritti, il consiglio direttivo, il presidente, il segretario, il tesoriere e il collegio dei
revisori dei conti.
Per quanto riguarda i fini istituzionali e le attribuzioni, i Collegi IPASVI svolgono funzioni di indirizzo,
vigilanza e supervisione, a garanzia della piena espressione delle attività degli operatori sanitari, i
quali devono operare con il riconoscimento della necessaria autonomia e indipendenza
professionale[71]. In particolare, il collegio, attraverso il consiglio direttivo, si occupa di:
- accertare che i richiedenti risultino in possesso dei requisiti necessari per l'iscrizione al
collegio[72];
- redigere e tenere aggiornato l'albo del collegio e pubblicarlo ogni anno;
- rilasciare il nulla osta e le autorizzazioni per la pubblicità a mezzo di targhe e inserzioni
pubblicitarie per l'attività libero-professionale;
- vigilare sul decoro e l'indipendenza del collegio;
- designare i rappresentanti del collegio che andranno a far parte di commissioni, enti, gruppi di
lavoro;
- promuovere e favorire tutte le iniziative volte a facilitare il progresso culturale degli iscritti;
- dare il proprio contributo alle autorità istituzionali nello studio e nell'attuazione dei provvedimenti
che possono interessare il collegio;
- esercitare il potere disciplinare nei confronti degli iscritti che si rendano responsabili di abusi o
violazioni nell'esercizio della professione o, comunque, di fatti disdicevoli al decoro professionale;
- intervenire, se richiesto, nelle controversie fra iscritti, fra iscritti e terzi o enti, per questioni attinenti
alle spese, agli onorari o ad altri aspetti relativi all'esercizio della professione, procurando la
conciliazione sulla vertenza e, in caso di non riuscito accordo, dando pareri sulle controversie
stesse[73].
2.8 La professione medica
La professione medica è la più antica e storica delle professioni sanitarie ed è, verosimilmente, la
professione con cui si rapporta maggiormente la professione infermieristica.
In questa sede ci si limita a esaminare l'evoluzione dell'inquadramento della figura medica in ambito
ospedaliero e la sua suddivisione, rinviando, per un'analisi più completa, all'ampia letteratura
bibliografica in materia.
Sinteticamente, gli interventi normativi che hanno segnato l'evoluzione della professione possono
essere così suddivisi:
- il D.P.R. 27 marzo 1969, n. 128, recante le norme sull'ordinamento interno dei servizi ospedalieri;
- il D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, recante le norme sullo stato giuridico del personale delle unità
sanitarie locali;
- il decreto legislativo n. 502/1992, recante il riordino della disciplina in materia sanitaria;
- il decreto legislativo n. 229/1999, recante le norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario
nazionale.
Le figure mediche venivano regolamentate per la prima volta, in maniera compiuta, dal D.P.R. 27
marzo 1969, n. 128, che suddivideva tali figure in primari, aiuti e assistenti, delineandone le
rispettive funzioni.
In particolare, il primario vigilava sull'attività e sulla disciplina del personale sanitario, tecnico,
sanitario ausiliario ed esecutivo assegnato alla sua divisione o servizio, aveva la responsabilità dei
malati, definiva i criteri diagnostici e terapeutici che dovevano essere seguiti dagli aiuti e dagli
assistenti, praticava direttamente sui malati gli interventi diagnostici e curativi che riteneva di non
affidare ai suoi collaboratori, formulava la diagnosi definitiva, provvedeva a che le degenze non si
prolungassero oltre il tempo strettamente necessario agli accertamenti diagnostici e alle cure e
disponeva la dimissione degli infermi, era responsabile della regolare compilazione delle cartelle
cliniche, dei registri nosologici e della loro conservazione, fino alla consegna all'archivio centrale;
inoltrava, tramite la direzione sanitaria, le denunce di legge; praticava le visite di consulenza
richieste dai sanitari di altre divisioni o servizi; dirigeva il servizio di ambulatorio, adeguandosi alle
disposizioni e ai turni stabiliti dal direttore sanitario, curava la preparazione e il perfezionamento
tecnico-professionale del personale da lui dipendente e promuoveva iniziative di ricerca scientifica;
esercitava le funzioni didattiche a lui affidate (art. 7, D.P.R. 128/1969)[74].
L'aiuto, invece, collaborava direttamente con il primario nell'espletamento dei compiti a questo
attribuiti; aveva la responsabilità delle sezioni affidategli e coordinava l'attività degli assistenti. Data
la natura gerarchica dell'organizzazione, l'aiuto rispondeva del suo operato al primario. L'aiuto,
inoltre, sostituiva il primario in caso di assenza, impedimento o nei casi di urgenza. Tra più aiuti
della stessa divisione o dello stesso servizio la sostituzione del primario spettava all'aiuto con
maggiori titoli.
L'assistente, infine, collaborava con il primario e con l'aiuto nei loro compiti; aveva la responsabilità
dei malati a lui affidati; rispondeva del suo operato all'aiuto e al primario; provvedeva direttamente
nei casi di urgenza. In caso di assenza o di impedimento dell'aiuto, le sue funzioni erano esercitate
dall'assistente con maggiori titoli o dall'assistente di turno[75].
A seguito dell'istituzione del Servizio sanitario nazionale, lo stato giuridico del personale dipendente
viene fissato con il D.P.R. 761/1979. In particolare, all'art. 63, sono definite le funzioni
dell'assistente, dell'aiuto e del primario, che assumono, rispettivamente, la denominazione di medico
in posizione iniziale, medico in posizione intermedia e medico in posizione apicale.
In base a tale normativa, il medico appartenente alla posizione iniziale (c.d. assistente) "svolge
funzioni medico-chirurgiche di supporto e funzioni di studio, di didattica e di ricerca, nonchà attività
finalizzate alla sua formazione, all'interno dell'area dei servizi alla quale è assegnato, secondo le
direttive dei medici appartenenti alle posizioni funzionali superiori. Ha la responsabilità per le attività
professionali a lui direttamente affidate e per le istruzioni e direttive impartite nonchà per i risultati
conseguiti. La sua attività è soggetta a controllo e gode di autonomia vincolata alle direttive ricevute"
(comma 2).
Il medico appartenete alla posizione intermedia (c.d. aiuto), invece, "svolge funzioni autonome
nell'area dei servizi a lui affidata, relativamente ad attività e prestazioni medico-chirurgiche, nonchà
ad attività di studio, di didattica, di ricerca e di partecipazione dipartimentale, anche sotto il profilo
della diagnosi e cura, nel rispetto delle necessità del lavoro di gruppo e sulla base delle direttive
ricevute dal medico appartenete alla posizione apicale" (comma 3).
Il medico appartenete alla posizione apicale (c.d. primario), infine, "svolge attività e prestazioni
medico-chirurgiche, attività di studio, di didattica e di ricerca, di programmazione e di direzione
dell'unità operativa o dipartimentale, servizio multizonale o ufficio complesso affidatogli. A tale fine
cura la preparazione dei piani di lavoro e la loro attuazione ed esercita funzioni di indirizzo e verifica
sulle prestazioni di diagnosi e cura, nel rispetto dell'autonomia professionale operativa del personale
dell'unità assegnatagli, impartendo all'uopo, istruzioni e direttive ed esercitando la verifica inerente
all'attuazione di esse (comma 4).
In particolare, per quanto concerne le attività in ambito ospedaliero, "il primario assegna a sà e agli
altri medici i pazienti ricoverati e può avocare casi alla sua diretta responsabilità, fermo restando
l'obbligo di collaborazione da parte del personale appartenente alle altre posizioni funzionali"
(comma 5).
Le modalità di assegnazione in cura dei pazienti "devono rispettare criteri oggettivi di competenza,
di equa distribuzione del lavoro, di rotazione nei vari settori di pertinenza" (comma 6).
Le attività svolte dal primario "sono soggette esclusivamente a controlli intesi ad accertare la
rispondenza dei provvedimenti adottati alle leggi e ai regolamenti; egli redige, altresì, una relazione
annuale sull'attività svolta" (comma 7)[76].
Oggi, il D.P.R. 761/1979, per quanto non abrogato, risulta superato dal decreto legislativo 502/1992,
e successive modificazioni, il cui art. 15 ha in sostanza ridisegnato i profili della dirigenza medica e
delle professioni sanitarie. Tale riforma ha, innanzitutto, riconosciuto a tutti i medici lo status di
...dirigenti sanitari', distinti, in un primo momento, in dirigenti di primo livello e di secondo livello, e
poi collocati, a seguito delle modifiche introdotte con il decreto legislativo 229/1999, in un unico
ruolo, distinto per profili professionali, e in un unico livello, articolato in relazione alle diverse
responsabilità professionali e gestionali.
Si riporta, all'uopo, la parte più significativa dell'attuale testo dell'art. 15:
"3. L'attività dei dirigenti sanitari è caratterizzata, nello svolgimento delle proprie mansioni e funzioni,
dall'autonomia tecnico-professionale i cui ambiti di esercizio, attraverso obiettivi momenti di
valutazione e verifica, sono progressivamente ampliati. L'autonomia tecnico-professionale, con le
connesse responsabilità, si esercita nel rispetto della collaborazione multiprofessionale, nell'ambito
di indirizzi operativi e programmi di attività promossi, valutati e verificati a livello dipartimentale e
aziendale, finalizzati all'efficace utilizzo delle risorse e all'erogazione di prestazioni appropriate e di
qualità. Il dirigente, in relazione all'attività svolta, ai programmi concordati da realizzare e alle
specifiche funzioni allo stesso attribuite, è responsabile del risultato anche se richiedente un
impegno orario superiore a quello contrattualmente definito.
4. All'atto della prima assunzione, al dirigente sanitario sono affidati compiti professionali con precisi
ambiti di autonomia da esercitare nel rispetto degli indirizzi del dirigente responsabile della struttura
e sono attribuite funzioni di collaborazione e corresponsabilità nella gestione delle attività. A tali fini il
dirigente responsabile della struttura predispone e assegna al dirigente un programma di attività
finalizzato al raggiungimento degli obiettivi prefissati e al perfezionamento delle competenze tecnico
professionali e gestionali riferite alla struttura di appartenenza. In relazione alla natura e alle
caratteristiche dei programmi da realizzare, alle attitudini e capacità professionali del singolo
dirigente, accertate con le procedure valutative di verifica di cui al comma 5, al dirigente, con cinque
anni di attività con valutazione positiva sono attribuite funzioni di natura professionale anche di alta
specializzazione, di consulenza, studio e ricerca, ispettive, di verifica e di controllo, nonchà possono
essere attribuiti incarichi di direzione di strutture semplici.
5. Il dirigente è sottoposto a verifica triennale; quello con incarico di struttura semplice o complessa,
è sottoposto a verifica anche al termine dell'incarico. Le verifiche concernono le attività professionali
svolte ed i risultati raggiunti, e il livello di partecipazione, con esito positivo, ai programmi di
formazione continua di cui all'articolo 16 bis, e sono effettuate da un collegio tecnico, nominato dal
direttore generale e presieduto dal direttore del dipartimento. L'esito positivo delle verifiche
costituisce condizione per la conferma nell'incarico o per il conferimento di altro incarico,
professionale o gestionale, anche di maggior rilievo.
6. Ai dirigenti con incarico di direzione di struttura complessa sono attribuite, oltre a quelle derivanti
dalle specifiche competenze professionali, funzioni di direzione e organizzazione della struttura, da
attuarsi, nell'ambito degli indirizzi operativi e gestionali del dipartimento di appartenenza, anche
mediante direttive a tutto il personale operante nella stessa, e l'adozione delle relative decisioni
necessarie per il corretto espletamento del servizio e per realizzare l’appropriatezza degli interventi
con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche e riabilitative, attuati nella struttura loro affidata. Il
dirigente è responsabile dell'efficace ed efficiente gestione delle risorse attribuite. I risultati della
gestione sono sottoposti a verifica annuale tramite il nucleo di valutazione (...)"[77].
Colui che nel gergo comune continua ad essere chiamato ...primario' è, secondo la terminologia
legale, un dirigente con incarico di direzione di struttura complessa. Egli mantiene la prerogativa di
direzione della struttura, ma ne viene accentuata la funzione di organizzazione della stessa, da
attuarsi anche mediante direttive a tutto il personale. Il primario, inoltre, è competente ad adottare
"le decisioni necessarie per il corretto espletamento del servizio e per realizzare l'appropriatezza
degli interventi con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche e riabilitative", attuati nella
struttura ad esso affidata.
Per contro, si delinea una maggiore autonomia rispetto al passato (e dunque una maggiore
responsabilizzazione) degli altri medici-dirigenti, in proporzioni diverse a seconda che questi
ricoprano o meno un incarico di struttura semplice. Fin dall'atto della prima assunzione, infatti, al
dirigente sanitario, ancorchà privo di incarichi di struttura, "sono affidati compiti professionali con
precisi ambiti di autonomia e sono attribuite funzioni di collaborazione e corresponsabilità nella
gestione delle attività"[78].
L'evoluzione delle competenze delle figure apicali si connota, dunque, per la maggiore estensione di
funzioni di carattere gestionale e organizzativo più che per le competenze cliniche, attribuite, invece,
a tutti i dirigenti medici, che, rispetto al passato, svolgono le loro funzioni con una maggiore
autonomia.
La figura apicale medica (il c.d. primario) vede attenuarsi il potere gerarchico in ambito più
strettamente clinico, in favore dell'acquisizione di poteri dirigenziali. D'altra parte, il riconoscimento
dell'autonomia delle altre figure mediche e della professionalizzazione delle professioni sanitarie, tra
cui quella infermieristica, rendeva obbligatorio questo percorso[79].
[1] JORIO E., Diritto sanitario, Giuffrè, Milano, 2006. Cfr. anche NARDI E., Le professioni sanitarie,
Giuffrè, Milano, 1980; PAPPALARDO S., Commento al T.U. leggi sanitarie 1934, Utet, Torino, 1935;
PRIMICERIO B., Lineamenti di diritto sanitario, Edizioni Luigi Pozzi, Roma, 1974; SANGIULIANO
R., Diritto sanitario, Edizioni giuridiche Simone, Napoli, 2003; VIANI G. - TIBERIO A., Manuale di
legislazione sanitaria, FrancoAngeli, Milano, 2002.
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