Lo Zen come formazione - Formazione

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Lo Zen come formazione - Formazione
settembre 2008
Lo Zen come formazione esperienziale
di Vittorio Mascherpa
La meditazione vigile
Va in primo luogo chiarito che lo stesso termine “meditazione” è assolutamente generico, in
quanto racchiude in un’unica espressione pratiche diverse tanto nella loro finalità quanto
nelle modalità di esecuzione.
Nelle tradizioni in cui tali pratiche sono nate e sono state codificate, infatti, vengono usati
nomi diversi per definirne le diverse caratteristiche, né esistono categorie che le associno
per affinità o denominatori comuni.
Nell’occidente contemporaneo, al contrario, è sufficiente vedere qualcuno seduto a gambe
incrociate con gli occhi chiusi o socchiusi per affermare con sicurezza che “sta meditando”,
senza peraltro avere alcuna idea di cosa realmente questi stia facendo.
In effetti, dal punto di vista tecnico, sono almeno quattro i filoni che impropriamente
vengono fatti convergere nell’unico ambito della meditazione.
Il primo e più familiare alla nostra esperienza è quello che potremmo definire “logicorazionale”, e coincide con la riflessione su un tema o un problema, allo scopo di
sviscerarne gli aspetti nascosti e suscitare così una comprensione più approfondita.
Il secondo, che può essere assimilato a una “concentrazione a tema”, consiste invece nel
tenere la mente fissa su un oggetto (immagine, simbolo, suono) con l’intenzione di
stabilire un ponte analogico con la realtà e i significati che tale oggetto rappresenta. Ne
sono un esempio le tecniche di visualizzazione, le ripetizioni di mantra e alcune forme di
preghiera proprie della tradizione cristiana orientale.
Il terzo modo di intendere e praticare la meditazione è quello che punta, al contrario, a una
sospensione dell’attività mentale (almeno nella sua componente logico-razionale), allo
scopo di indurre particolari risposte psicofisiche o vari stati di alterazione della coscienza
che vanno dal rilassamento all’estasi. È questo senz’altro l’aspetto più vicino allo stereotipo
mediatico occidentale, anche in virtù della grande diffusione di metodi che si orientano
proprio a questo tipo di risultati, indubbiamente più facili da spendere in un’ottica di
benessere e di qualità della vita.
Il quarto e ultimo aspetto riguarda quella che potremmo definire – per differenziarla dalla
precedente – “meditazione vigile” o “meditazione di consapevolezza” (efficacemente
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indicata come “mindfulness” nella lingua inglese), un approccio tipico di alcune tradizioni –
Zen e Vipassana sono forse le più diffuse in occidente – che enfatizzano il ruolo della
consapevolezza, della lucidità e della “presenza mentale” al punto da considerarle
condizioni indispensabili per il conseguimento del vero stato meditativo.
Lo stato di equilibrio psicofisico indotto dalla pratica, non si accompagna infatti qui a
un’attenuazione della coscienza, ma, al contrario, a uno stato di particolare e intensa
vigilanza sulla realtà esterna e interna, che diventa così il vero “oggetto di meditazione”.
Un oggetto però che non viene indagato analiticamente, bensì osservato nel suo
manifestarsi con il massimo della lucidità, e senza cercare di arrivare a giudizi o
interpretazioni.
Tre infatti sono i presupposti centrali della pratica della meditazione vigile, dal punto di
vista tecnico e metodologico:
- attenzione attiva, o presenza mentale: una costante sorveglianza di tutto ciò che
accade sia all’interno (sensazioni, emozioni, pensieri) che all’esterno, evitando la
distrazione, l’attenuazione della coscienza e l’assopimento
- non giudizio: un’attitudine di accettazione dell’esperienza – di qualsiasi esperienza –
così com’è, senza alcuna valutazione positiva o negativa, e senza alcun tentativo di
modificarla mentre è in atto
- consapevolezza, o meta-coscienza (coscienza dell’essere coscienti): un livello di
coscienza di sé più ampio, che comprende sia l’oggetto percepito che il percettore
stesso, insieme alla qualità del percepire.
È proprio in virtù di tale sua caratteristica – unica e peculiare – che la meditazione vigile
appare particolarmente consona al mondo del lavoro, in quanto, a differenza delle
meditazioni “rilassanti”, non induce alcun ottundimento sensoriale né distacco dalla realtà
esterna o rallentamento dei processi mentali. Tutte funzioni, queste, che vengono al
contrario accentuate, come ben dimostra la diffusione di tale tecnica nel mondo delle arti
marziali orientali, dove è considerata parte essenziale del bagaglio tecnico di ogni
praticante.
Lo stato psicofisico indotto da questa forma di tecnica meditativa, d’altra parte, è in grado
di produrre effetti importanti sul benessere e sulla salute, già attestati da numerose
sperimentazioni e ricerche.
E non a caso, proprio la meditazione vigile è alla base del Mindfulness Meditation Based
Stress Reduction System, messo a punto nel 1979 da Jon Kabat Zinn al Medical Center
dell'Università del Massachussetts, e utilizzato ormai da oltre 30.000 pazienti in più di 240
cliniche nel mondo.
Lo Zen
Fra le diverse tradizioni che assegnano un ruolo centrale alla pratica della meditazione
vigile, è forse quella Zen che più di tutte si rivela adatta al mondo del lavoro e al contesto
aziendale.
E questo sostanzialmente per due motivi.
Il primo coincide con la sua radicale laicità, che la pone al riparo da ogni sospetto di
coinvolgimento fideistico o religioso.
Nonostante l’ambito nel quale è nato e si è sviluppato sia quello buddhista, infatti, lo Zen si
discosta radicalmente da ogni visione di tipo religioso in quanto non si propone come
portavoce di una divinità o come detentore di verità rivelate, ma unicamente come una via
per aumentare la conoscenza diretta della realtà.
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Proprio come un binocolo non spiega cosa ci sia sull’altra sponda del fiume, ma offre la
possibilità a ciascuno di constatarlo in prima persona, così lo Zen non si preoccupa di
fornire una spiegazione metafisica della realtà, ma insegna piuttosto come affinare la
propria percezione (fisica, mentale e spirituale) e come rimuovere gli ostacoli che si
oppongono a una chiara visione del reale.
Proprio questa sua peculiarità ha permesso allo Zen di raggiungere una diffusione
trasversale alle ideologie e alle religioni, potendo essere accolto tanto dall’ateo quanto dal
credente, senza alcuna preclusione e senza alcun “adattamento” di contenuto né di pratica.
Il secondo motivo che guida la scelta dello Zen come veicolo elettivo per introdurre la
meditazione vigile nelle organizzazioni è la sua sostanziale affinità con il mondo del lavoro.
Un’affinità, peraltro, che non è solo sostanziale ma anche storica: nel monastero Zen, più
ancora che in quello benedettino, il lavoro non era scisso dalla pratica religiosa ma ne
costituiva parte integrante.
La meditazione seduta (za-Zen) infatti non è che una delle infinite modalità in cui si può
esprimere il medesimo atteggiamento del corpo e della mente che è cuore e sostanza del
metodo. Quasi la pratica seduta fosse un “allenamento”, una “ginnastica dell’essere” volta
a sviluppare un’attitudine generale da trasportare poi in ogni altra attività e in ogni
momento del giorno.
Da questo punto di vista, allora, il lavoro rappresenta da un lato un’estensione della
pratica, e offre perciò le medesime opportunità in termini di costruzione del sé e di
autorealizzazione, e dall’altro costituisce il terreno in cui gli effetti della pratica stessa si
manifestano maggiormente.
Così l’attenzione ai dettagli, la concentrazione assoluta sul compito, la ricerca
dell’eccellenza e della perfezione in ogni gesto – tanto evidenti nelle arti applicate
giapponesi segnate da questa tradizione – sono insieme il mezzo e l’effetto di una prassi
che fonde in modo inscindibile lavoro su se stessi e attività mondana.
Non un ritirarsi dal mondo né un modo per estraniarsi dalla realtà quotidiana, dunque, ma
al contrario una via che sceglie il mondo e il lavoro come luoghi di pratica e territori elettivi
di espressione.
Lo Zen come formazione olistica in azienda
Due i presupposti che sostengono il ruolo della meditazione vigile, e in special modo dello
Zen, quale strumento formativo e ne giustificano – a tutti gli effetti – la presenza nel
contesto aziendale e, più in generale, nel mondo del lavoro.
Il primo fa riferimento al concetto stesso di “FORMAZIONE” nel suo significato pedagogico più
ampio, che la intende come un insieme di operazioni svolte a carico di un essere umano
allo scopo di elevare il suo livello intellettuale, culturale ed etico-spirituale. Come risvolto
pratico, tale insieme di operazioni è poi in grado di produrre un incremento delle abilità e
delle competenze, che potranno essere così spese in contesti differenti.
Il secondo presupposto, più specifico, precisa quale sia il reale destinatario dell’azione
formativa, e si identifica con il concetto di “FORMAZIONE UMANA”.
Precisa cioè che la persona – e non il semplice ruolo rivestito in azienda – deve
rappresentare il focus di ogni intervento che aspiri a qualificarsi come realmente formativo,
al di là del semplice trasferimento di informazioni e conoscenze.
Definitivamente tramontata l’era dell’uomo-macchina, e ormai sempre più in crisi anche il
concetto di “risorsa umana”, che riduce l’uomo a un elenco di competenze spendibili
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relativamente a un obiettivo, emerge in modo sempre più chiaro e deciso l’esigenza di
un’azienda fatta di persone.
Ogni essere umano è molto più che un ruolo o un profilo professionale, né la qualità unica e
irripetibile dell’intero, frutto del suo specifico modo di essere, della sua storia e delle sue
esperienze, può essere esaurita in un titolo, una voce di organigramma o una lista di “saper
fare”.
“Imprenditore”, “manager”, “dirigente”, “venditore”, “segretaria”, “addetto”... termini che
indicano il ruolo occupato, la funzione svolta, la mansione ricoperta, la posizione rispetto a
una gerarchia. Definizioni che dicono cosa viene fatto, ma nulla dicono di chi lo fa.
Chi dirige? Chi vende o acquista? Chi collabora o coordina? Chi organizza, gestisce,
programma? Cioè, in sintesi: chi occupa un ruolo, svolge una funzione o ricopre una
mansione?
La risposta è banale, ma insieme determinante.
È una persona. Un essere umano diverso da ogni altro, con una propria storia e proprie
caratteristiche di personalità e carattere. Dinamico, mutevole e in continua evoluzione.
Incostante, emotivo (a dispetto della sua pretesa razionalità!), soggetto a continue
influenze da parte dell’ambiente esterno e interno.
D’altra parte, è proprio in queste sue peculiarità, squisitamente intangibili e imponderabili,
che risiedono caratteristiche preziose e irrinunciabili quali la creatività, il carisma, l’empatia,
la sensibilità, la comunicativa, la positività, l’intraprendenza e tante altre in grado di
caratterizzare poi un ottimo dirigente, un valido collaboratore, un vero leader o un
eccellente esecutore, al di là di ogni specifico know-how.
Ecco perché l’intervento formativo deve essere in primo luogo rivolto alla persona, così da
strutturare e potenziare quelle capacità umane che rappresentano la base stessa e la
struttura portante di ogni abilità legata al ruolo ricoperto nell’ambito organizzativo.
Prima l’attore, poi il personaggio.
Prima l’uomo, la donna, poi il manager.
Prima la persona, poi la tecnica.
Ignorare questo basilare principio, e fingere che un efficace trasferimento di conoscenze sia
sufficiente a garantire una corrispondente efficacia operativa, porta inevitabilmente a quel
gap fra teoria e pratica, fra aula e azienda reale, che rappresenta forse la più diffusa
patologia dell’azione formativa tradizionale.
Da qui la necessità di interventi che, da un lato, recuperino la centralità della persona in
quanto soggetto organizzativo e soggetto di apprendimento, e che riescano, dall’altro, a
interagire con l’intera struttura umana, includendo nell’azione formativa anche quei
“distretti” (fisico-energetico, psicologico-emotivo-sentimentale, etico-valoriale-spirituale)
prima ignorati o scarsamente valutati nell’ambito aziendale.
La formazione umana, così, si qualifica necessariamente come formazione integrale, in
quanto rivolta all’intera persona – e non solo all’area cognitiva – ma anche come
formazione olistica, poiché nel suo rivolgersi alla globalità dell’essere umano non può che
riconoscerne l’unità essenziale e funzionale.
È su queste basi che lo Zen si qualifica a tutti gli effetti come uno strumento di formazione
umana tra i più semplici, diretti e completi.
La sua azione, infatti, esplicandosi sul livello più “basico” ed essenziale – quello dell’essere,
appunto – produce effetti sulla globalità del soggetto piuttosto che su un singolo distretto,
un singolo tratto di personalità o una specifica abilità comportamentale o relazionale.
Con una metafora relativa all’ambito sportivo, potremmo paragonare la meditazione Zen a
un sistema di allenamento aspecifico, il cui scopo non è tanto l’eccellenza in una
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qualche disciplina, quanto lo sviluppo di forza, resistenza, velocità e concentrazione, risorse
che poi ciascun atleta potrà spendere in uno specifico ambito.
Allo stesso modo, anche la meditazione può essere intesa come un allenamento. Una
“ginnastica esistenziale” attiva sui “muscoli dell’essere”, e pertanto capace di interagire con
l’intera struttura umana e di produrre effetti diversi e molteplici, che spaziano dalla sfera
fisica e psicofisica a quella sociale e comportamentale, fino a quella transpersonale e
spirituale.
Lo Zen come formazione esperienziale “estrema”
Ben pochi approcci potrebbero meritare la definizione di “formazione esperienziale” più di
quello Zen, con la sua radicale, estrema, vocazione pratica.
Una vocazione che si esprime da un lato con l’assoluta centralità della pratica, e
dall’altro con un rifiuto ostinato e violento di ogni concettualizzazione che possa anche solo
in parte sostituirsi a questa o influenzarne lo svolgimento.
Nient’altro è richiesto se non la pratica.
Non una metafora da comprendere in termini logici o analogici e da applicare poi in
situazioni reali, quanto piuttosto un apprendimento diretto, esperienziale puro, nonmediato dalla ragione: quasi più fisico che subliminale.
A dispetto delle decine di migliaia di testi che ne hanno trattato da ogni punto di vista,
infatti, nello Zen non c’è niente da capire. O meglio, niente che sia necessario capire
perché lo Zen “funzioni”.
Così ad esempio la capacità di auto-distanziamento – presupposto essenziale per
l’applicazione di una qualsiasi tecnica comportamentale in condizioni di forte
coinvolgimento emotivo – non è ricercata attraverso un qualche approccio di tipo cognitivo
(né tantomeno esortativo!) bensì scoperta, esercitata e progressivamente acquisita come
un “effetto collaterale” della pratica. Ma lo stesso si potrebbe dire anche per altre abilità e
competenze complesse, quali l’autorevolezza, la creatività, la visione di sintesi, la pazienza,
la sensibilità, l’equilibrio emotivo, l’attenzione e la concentrazione.
L’esperienza diretta, dunque, come unica vera chiave per la comprensione e l’efficacia del
metodo. Non il parlarne, non il possesso di un “come si fa”, non il riconoscimento della
validità delle premesse né tantomeno l’adesione a un sistema di credenze.
Proprio in questo sta, anzi, un ulteriore punto di forza del metodo, che si caratterizza per la
sua radicale ed essenziale universalità, in quanto del tutto svincolato dalla necessità di ogni
prerequisito culturale o intellettuale.
È un esercizio, e come tale va trattato, anche se i muscoli che interessa ed esercita non
sono quelli del corpo, bensì quelli dell’essere.
Benefici ed “effetti collaterali” dello Zen
Se è vero che lo scopo ultimo e principale dello Zen è di tipo esistenziale – coincidendo il
suo obiettivo con la fondazione e lo sviluppo dell’essere – è altrettanto vero che la sua
pratica comporta alcuni non trascurabili benefici concreti e immediati i quali – pur se
trattati come “effetti collaterali” nell’economia generale del metodo – potrebbero costituire
già di per sé altrettanti validi motivi per consigliarne l’adozione.
Un’elencazione, generica e per sommi capi, potrebbe distinguerli in:
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effetti fisici, riconducibili ad alcune modificazioni di tipo neuro-fisiologico con
importanti riflessi sulla salute e sul benessere psicofisico
effetti psicologici e comportamentali, conseguenti da un lato alla diminuzione
dello stress negativo, e dall’altro a un maggiore equilibrio emotivo e al rafforzamento
del sé psicologico ed esistenziale
effetti sociali, prevalentemente collegati al miglioramento del clima umano indotto
dagli effetti dei punti precedenti
A questi si devono poi aggiungere quelli che potremmo definire “effetti organizzativi”, in
quanto direttamente collegati a temi di più specifica pertinenza della sfera lavorativa e
aziendale, e che riguardano prevalentemente gli ambiti della leadership, della creatività,
della gestione del tempo e dello stress, della comunicazione e del clima umano, e infine –
ultimo nell’elencazione ma non certo per importanza – quello della qualità e del
miglioramento continuo, vera e propria fedele traduzione dei principi e dello spirito Zen
nella realtà aziendale.
Uno studio
Concludiamo questa breve rassegna sugli effetti della pratica Zen riportando alcuni dei
risultati emersi da uno studio condotto fra il 2002 e il 2003 sui 16 partecipanti ad un
seminario intensivo di meditazione della durata di due giorni, organizzato da Fòrema, ente
di formazione dell'Unione Industriali di Padova.
Lo studio, condotto in collaborazione con il Dipartimento di Sociologia dell'Università di
Padova, prevedeva fra l'altro un'intervista ai partecipanti a distanza di 1-2 mesi dal
seminario per valutare i cambiamenti soggettivamente percepiti nella vita privata e in
quella professionale.
Ecco una sintesi di tali cambiamenti, così come descritti dagli intervistati.
1. Sintesi dei cambiamenti percepiti nella vita privata:
• un'intensa sensazione di rilassamento, di calma interiore, pace, tranquillità "come e
più che di ritorno da una vacanza"
• capacità di affrontare gli eventi con più riflessività e distacco, di riuscire a
"rallentare"
• una migliore gestione dello stress, grazie alla tecnica della respirazione
diaframmatica, della meditazione o attraverso l'attenzione al qui-e-ora
• maggiore consapevolezza della propria vita
• più attenzione al presente, evitando di proiettarsi costantemente in avanti e senza
riuscire a vivere pienamente il qui-e-ora
• riscoperta di una propria interiorità
• scoperta della capacità di ri-tornare dentro di sé, del bisogno di fermarsi, guardare
chi si è, dove si è arrivati, dove si sta andando
• una ridefinizione dei valori della vita
• l'attenzione ai rapporti umani, agli affetti, alla famiglia, al "tempo buono" da dedicare
anche a se stessi.
2. Sintesi dei cambiamenti percepiti nella vita professionale:
• una maggiore lucidità della mente e una migliore capacità decisionale
• più concentrazione, attenzione, efficacia nell'attività lavorativa
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una maggiore capacità di mettere a fuoco il pensiero e di aderire a ciò che si sta
svolgendo, anche rispetto a compiti considerati meno importanti (guidare la
macchina, leggere, parlare agli altri)
meno disponibilità a farsi coinvolgere troppo da situazioni di conflitto o di incertezza
nell’ambito del lavoro e più equilibrio e controllo, cercando di essere, per quanto
possibile se stessi
maggiore attenzione ai rapporti umani, anche con i colleghi e con i dipendenti, un
ascolto più concentrato alle esigenze degli altri, o all’espressione della loro opinione.
Note sull’autore
Vittorio Mascherpa formatore e consulente nell'area della comunicazione, del
benessere organizzativo e della gestione delle Risorse Umane, opera dal 1990
presso aziende e organizzazioni secondo i principi della "Formazione Umana
Globale" ®, un orientamento che lui stesso ha sviluppato e che si propone attraverso una metodologia insieme tecnica e umanistica - di potenziare le abilità
individuali e professionali intervenendo direttamente sulla persona e sulle
competenze umane di base. Con un'esperienza di oltre venticinque anni nella
pratica e nell'insegnamento delle tecniche di meditazione, dal 2002 porta lo Zen
nell'ambito
aziendale,
attraverso
seminari
in
cui
l'approccio
tecnico
e
comportamentale di questa disciplina incontra le esigenze del management e del
mondo del lavoro.
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