Drammaturgia musicale 3 calendario e argomenti delle lezioni

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Drammaturgia musicale 3 calendario e argomenti delle lezioni
Drammaturgia musicale 3
calendario e argomenti delle lezioni
(aula 1, giovedì 14.30-17.30, venerdì 10.30-13.30)
ottobre 2012
giovedì 4 – 1
INTRODUZIONE AL CORSO
Il campione proposto, fra titoli popolari e desueti; chiarimenti sul concetto di ‘popolarità’, e sul materiale online.
I.
venerdì 5 – 2
«Tiens au Pays, et conserve la foi»: il mito dell’israelita nell’opera dell’Ottocento e La Juive.
Il capolavoro di HALÉVY nel contesto del sistema produttivo del suo tempo. Cenni sulla genesi dell’opera e sul ruolo degli autori (SCRIBE e i fratelli
HALÉVY), ma anche del grande tenore, patriota e rivoluzionario, ADOLPHE
NOURRIT. La tradizione antisemita occidentale, dal Merchant of Venice alla voce «Juifs» del Dictionnaire philosophique, fino a WAGNER e GOBINEAU. Cenni storici sulla condizione dell’israelita nell’Ottocento, e nei secoli precedenti (con qualche richiamo all’attualità). Alcune peculiarità della Juive: a. la costellazione dei personaggi e i ruoli doppi (Eudoxie vs Rachel, Léopold vs Éléazar) b. il ruolo di Éléazar. Il recitativo e aria («Rachel, quand du seigneur») dell’atto quarto: cosa ci dice la musica, a cominciare dal timbro, che qualifica il padre fermo che riflette sul desiderio
di vendetta e sulle sue conseguenze nelle parti estreme (A e A’, due corni
inglesi per terze), e la voce della figlia, che entra nel discorso accompagnata dal flauto. È lecito il paragone con quanto fa MAHLER, grande estimatore della Juive, nel terzo movimento della sua prima sinfonia – canone
all’ottava, distorto e cupo, su «Frère Jacques», con l’improvvisa irruzione
dell’oboe ‘kletzmer’ e poi dei due oboi per terze e seste, che celebrano un
«matrimonio ebraico» (BERNSTEIN), mentre l’orchestra ‘impazzisce’ di lì a
poco...
Dramma e musica nella Juive: la scena iniziale, manifestazione del potere
devastante della chiesa cristiana, e la rappresentazione del lavoro degli ebrei mediante l’incudine, che disturba il banditore. Si tratta di un gesto
importante e imitato: positivamente da VERDI nel Trovatore (1853),
quando mostra il campo dei gitani operosi nell’atto II (altra comunità tenuta ai margini allora), negativamente da WAGNER, che utilizza ben 18 incudini per enfatizzare il ritmo del lavoro dei Nibelunghi nella seconda mutazione del Rheingold (1870), allegoria antisemita piuttosto maligna, anche perche il riferimento all’opera di HALÉVY, che conosceva benissimo e
aveva recensito, è piuttosto chiaro. Si contrappone allo sfarzo magniloquente e minaccioso delle manifestazioni cristiane la celebrazione della
pasqua ebraica in casa di Éléazar, una cerimonia toccante e intima, imita-
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ta con gusto e precisione (piccolo coro a cappella che replica al celebrante
in stile responsoriale). L’atto III come momento centrale della strategia
drammatica di HALÉVY, formalmente una scena-sipario fra le due donne
rivale che preecede un enorme finale centrale, dove s’intreccia il nodo che
porterà alla fine (agnizione di Léopold da parte di Rachel e del padre). Il
cardinal Brogni e la rappresentazione del potere cristiano: clemente
nell’avvio, severo nel seguito, implacabile nel lanciare la maledizione (atto
III), debole di fronte all’ebreo, a cui soccombe nel duetto dell’atto IV, che
precede la grande scena di Éléazar. La strategia messa in atto del compositore trova compimento nel finale, in cui il protagonistarealizza l’atroce
vendetta. Ai piedi della caldaia in cui verrà bollito vivo, incalzato
dall’antagonista, svelerà finalmente la vera identità di Rachel, ma troppo
tardi: proprio nel momento in cui la giovane, dopo aver scelto di morire,
lo precede nel martirio. Questo finale tragico non lascia spazio ad alcuna
conciliazione, ed è modello di vendetta inesorabile che Verdi stesso adotterà, mandando al supplizio Manrico, fratello di sangue del Conte di Luna, nel finale del Trovatore, ugualmente conciso e, come il modello, anche
per questo più terribile. «Tiens à ton pays, et conserve la foi» era il motto
dell’«Israélite français», giornale fondato da Elie Halévy, padre di Fromental, che esprimeva la volontà di servire fedelmente uno stato aconfessionale da parte degli ebrei, da poco giunti (e grazie alla Révolution)
all’integrazione nella società francese di allora. Ma il finale de La juive
contraddice l’ottimismo di questa frase, separando l’ultimo grido vendicatore di Éléazar, un Fa, dall’esplosione delirante della folla feroce in Si minore, che anela al suo supplizio. Un tritono che suona come condanna di
ogni fanatismo ma, al tempo stesso, incrina con un tocco di bruciante pessimismo, la prospettiva di una liberazione dagli odi collettivi. La storia,
purtroppo, ha percorso questa seconda via.
giovedì 11– 3
II.
Thaïs: da puttana ‘felice’ a santa emarginata.
Il capolavoro ‘blasfemo’ di MASSENET nel contesto della sua produzione,
in particolare con riferimenti al suo ‘wagnerismo’ – vedi, in particolare,
Hérodiade, 1881 – a sua volta componente di un mondo popolato da segreti che interagiscono con la proposta drammaturgica del momento – e
qui si pensi a Werther (1892), in cui una drammaturgia di resurrezione
‘pasquale’ si cela dietro al suicidio dell’eroe, inteso come il sacrificio di un
Cristo a favore dell’umanità. In ambo i casi si ascoltino le citazioni del
Tristanakkord, che veicola un supplemento di sgnificato, alludendo al
mancato appagamento di un amore eternamente vivo. Probabilmente questa tendenza di MASSENET si armonizza a una sua convinta adesione alla
Massoneria, che favoriva allora in Francia (e in Belgio) la proclamazione
di ideali laici, a danno di credenze bigotte e superstiziose. Thaïs è una pieta miliare in questo panorama di convinzioni. Nasce dal romanzo di
ANATOLE FRANCE, ma ne muta i tratti, potenziando il carattere blasfemo
del racconto. Del resto la ‘storica’ Taide era di per sé un mistero. Etèra
greca a fianco di ALESSANDRO MAGNO, puttana di un soldato romano in
TERENZIO, poi in CICERONE, puttana in DANTE (Inf. XVIII, 127-135) cristiana pervertitasi, ma recuperata alla virtù dal monaco Paphnuce e fatta
santa dalla Chiesa? Rimane un personaggio di palese attrazione icastica
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(viste le allegorie pittoriche, dai Carracci in su, fino all’illustrazione della
Commedia di GUSTAVE DORÉ), appannagggio di soprani lirico-leggeri,
meglio se fisicamente attraenti e in grado di recitare credibilmente, oltre
che danzare, dalla SANDERSON alla GARDEN ecc... Che cosa si racconta in
Thaïs? È davvero la vicenda di una prostituta che si converte? A dispetto
di un protagonista baritono che nel suo primo assolo rivela il suo turbamento di fronte alla soglia della prêtresse de Vénus? Il contrasto fra sacro
e profano viene rappresentato nello stile musicale fin dal primo quadro
dell’opera, che si sviluppa nella ‘spartana’ Tebaide, fra pan secco e issopo.
MASSENET, che intona un libretto definito come «poema melico»
(GALLET), ricorre al corale per sostenere il recitativo e prepara, con lo stile severo, la svolta del quadro successivo, nell’Alessandria libertina e decadente. Fra i numerosi espedienti di mise en scène, va segnalata la visione
del teatro d’Alessandria con Thaïs seminuda che danza tormentando Athanaël immerso in un incubo. L’irruzione di immagini oniriche nella dranaturgia troverà poi spunti ulteriori.
Esaminando la struttura dell’opera balza agli occhi la relazione con un
momento simbolico di vasta portata, affidato al violino solista e
all’orchestra: la cosiddetta Méditation religeuse che appare in Re maggiore, per la prima volta, come postludio al quadro I dell’atto II, definendo in
apparenza il percorso interiore che la protagonista sta compiendo dopo
l’incontro con Athanaël e le riflessioni sulla sua bellezza effimera davanti
allo specchio all’inizio dell’atto. Ma è questa la sua vera funzione? Certo è
musica dell’interiorità, di concezione elevata e sicura presa, ma in partitura l’aggettivo «religieuse» non compare accanto al sostantivo «méditation», come nel libretto. Segno, questo, che il condizionamento della percezione è rivolto al livello più superficiale del pubblico, mentre chi legge la
musica può e deve recepire questo assolo in maniera meno legata allo sviluppo esteriore della vicenda (cammino della puttana verso la redenzione).
La sequela delle citazioni della melodia per violino e ocrhestra in termini
di reminiscenza, dunque invariata salvo quando compare in Si, abbreviata
e mescolata ad altri elementi minacciosi nel postludio di III.6, non consente di determinarne una funzione del tutto univoca. Il ciclo viene connotato
per la prima volta quando scorre sotto le parole di Athanaël, che confessa
a se stesso l’attrazione che la donna gli suscita (nel finale di III.5), e assolve
il suo compito magnificamente nel finale, mettendo sotto i riflettori, con
effetto teatralmente efficacissimmo, la figura del monaco invasato che si
dispera, mentre la protagonista muore serenamente. La Méditation che,
udita nella versione da concerto, lacerante, di JOSEPH HASSID, 1940, dispiega tutto il suo fascino, in realtà ha poco di religioso, mentre la perfezione della sua quadratura, il lucente andamento diatonico appena insaporito da modulazioni repentine, le ampie discese a risalite, possono suscitare un sentimento di elevazione, ma non necessariamente spirituale, piuttosto sensuale. Il ruolo ambiguo della melodia del violino, strumento in
grado di affrontare meglio il legato nel registro acutissimo, ottimo timbro
per mimare il ripiegamento nell’interiorità ma anche strumento di tentazione (si ricordi il Trillo del diavolo di TARTINI), contribuisce in maniera
decisiva a suggerire un’interpretazione più profonda della vicenda della
peccatrice divenuta santa. Ciò che interessa a MASSENET, che lo comunica
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con un sistema di riferimenti intertestuali come sempre raffinatissimi, è
piuttosto il cammino inverso dell’uomo di fede, che precipita nei meandri
dei tormenti passionali, fino a negare qualsivoglia trascendenza, in nome
della verità dell’amore. Thaïs ci fa dunque pervenire un messaggio laico,
aderente ai valori della sensualità e dell’esperienza, ma messo al riparo
dalle ingiurie bigotte grazie a una puttana che sacrifica la sua felicità terrena per conquistare le sfere celesti.
novembre 2012
III.
lunedì 12 – 7
Seminari aula 1
1. Alzira, GABRIELE RIZZOTTO. ore 10.30
2. Parsifal, DANIELE PALMA. ore 14.30
mercoledì 14 – 9
3. L’Africaine, ALESSANDRO MARCHIORI. ore 11.30-14.00
giovedì 15 – 10
4. Carmen, ROSANNA PUCCI. ore 10.30
venerdì 16 – 10
5. Aleko, GIULIO GIANÌ. ore10.30
6. Samson et Dalila, GIOVANNI CESTINO. ore14.30
Tutta l’opera parrebbe imperniarsi su un’antitesi manichea tra ‘noi’ e ‘loro’ (Occidente vs Oriente), tra ‘bene‘ e ‘male’, tanto solida quanto pericolosamente reversibile non appena si stabiliscano i criteri di lettura di questa o quella sua caratteristica. Basterebbe ad una interpretazione politica
dell’opera analizzare il contesto socio-culturale in cui Samson et Dalila
(1876) nasce, comparare il plot coi precedenti testuali (il racconto veterotestamentario e l’omonima tragedia voltairiana) e semantizzare la dicotomia di linguaggio musicale caratterizzante i due popoli: tradizionale e
‘dogmatico’ quello degli Ebrei, ‘orientale’ ma di grande fattura (come mostra il Bacchanale dell’atto III, modellato sulla forma sonata) quello dei
Filistei. Tuttavia un quesito non secondario rimarrebbe aperto: chi si rivolta contro chi? L’intero atto II (rovesciamento del referente rossiniano,
il decimo numero di Otello), solleva poi ulteriori domande: sul rapporto
tra i due ‘eroi’, in cui la musica va ben oltre le reticenze verbali ed evoca
quanto può solo essere immaginato, e sulla posizione dell’autore nella
scena di seduzione di Dalila, orientale eppure ‘estranea’ al suo mondo sociale, i cui echi musicali giungono fino alla Maria di West Side Story.
Come conciliare dunque l’immagine debole e peccatrice di Samson che ne
deriva con il Samson-eroe o, anche, con una praticabile lettura cristologica del personaggio, la cui pregnante evidenza, già chiara nel racconto biblico, è palese nell’ultimo atto? E ancora, la peculiare figura dell’autore,
ateo organista omosessuale dell’Eglise de la Madleine, nella sua passione
per un Oriente tutt’altro che stereotipato e nelle sue assidue frequentazioni dell’Intelligentsia ebraica parigina, cui tanto dovette anche al successo
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dell’opera nella capitale, non può che aggiungere ulteriori spunti di riflessione. Se una attenta analisi di Samson et Dalila, per la compresenza e la
particolare declinazione delle tematiche oggetto del corso, non può che risultare multipla, e per giunta vessata (o impreziosita?) da ‘angoli ciechi’ di
non innocua ambiguità, la sua complessità deve ad ogni costo essere sfruttata per accrescere il numero di sollecitazioni che quest’opera, la cui indagine critica non è stata ancora totale, riesce a produrre. (GC)