Neve, Roccia e Passione

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Neve, Roccia e Passione
Indice
Prologo
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Capitolo I
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Capitolo II
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Capitolo III
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Capitolo IV
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Capitolo 2
Neve, Roccia e Passione
Così vicino al cielo
«Tutto stellato! Il cielo è sereno.» Mi sveglio di colpo e il suono di quelle
parole mi è dolcissimo e s’imprime nel mio cuore, da dove non uscirà più.
Sono le tre di notte e sono nella camerata riservata alle guide al rifugio del
Gouter a 3850 metri di quota sul Monte Bianco. Mi alzo a sedere sul letto e
chiedo conferma di aver capito bene, ma è così: fuori è sereno ed è una bellissima sorpresa. Ieri ero andato a dormire abbacchiato e col morale sotto i
tacchi. Le previsioni meteo non lasciavano spazio a nessun ottimismo: cielo
coperto e precipitazioni fino a trenta centimetri di neve fresca. Stendendomi
sulla branda, imprecavo alla malasorte che sembrava essersi messa tra me e
il mio piccolo sogno di salire in cima al Monte Bianco, la montagna, come
si studiava a scuola, più alta d’Europa. Tanta fatica per nulla, per rimanere
bloccato in questo piccolo e scomodo rifugio, dove l’altitudine fa star male
molti alpinisti e mi provoca un non trascurabile mal di testa e dove respirare
è significativamente più difficile rispetto al livello del mare. Mi ero addormentato triste, arrabbiato e anche preoccupato di non poter scendere l’indomani e rimanere bloccato al rifugio per un altro giorno. Per questi motivi le
parole di quell’alpinista sconosciuto che indicano che si può provare a salire
sono una meravigliosa sorpresa.
Dico a Francesco che dobbiamo sbrigarci prima che il tempo cambi. Francesco sorride, ma non sembra accelerare, o almeno non quanto vorrei, i preparativi. È meticoloso ed è meglio così: la sua tranquillità e precisione diventano le mie e assieme a lui riesco ad affrontare le difficoltà alpinistiche con
maggiore serenità. Facciamo colazione, o meglio, guardo Francesco mangiare mentre mi limito a bere del caffè e a ingurgitare a forza due fette biscottate.
Finalmente, data la mia apprensione, usciamo e constatiamo definitivamente
la fallacia della previsione meteo: sopra di noi solo stelle e le nuvole sono
confinate in basso, ai nostri piedi e per di più in valli lontane. Il tempo po32
trà anche peggiorare, ma prima che l’eventuale maltempo ci raggiunga, sarà
quanto meno pomeriggio e per quell’ora contiamo di essere a Chamonix. Il
mio sospiro di sollievo è definitivo e galvanizzato dall’imprevista occasione
sono ancora più determinato ad arrivare sul punto più alto d’Europa e ora
dipende solo da me e dalle mie capacità.
Calziamo gli sci e partiamo. Siamo, tra gli alpinisti diretti alla cima, gli ultimi a lasciare il rifugio ma Francesco non sembra preoccupato della cosa e
quindi, non lo sono neanche io. Procediamo di buona lena alla luce delle pile
frontali aiutate da una luna a tre quarti che lascia la sua argentea scia sulla
neve: i nostri sono passi incantati in un mondo che pare assolutamente irreale per bellezza e desuetudine. Con il nostro ritmo costante risaliamo la fila
degli alpinisti e già al DÔme du Gouter il numero di persone davanti a noi si
è dimezzato. L’aria è fredda ma pulita e l’intensità dei blu della notte mischiata ai riflessi della luce lunare rende lo spettacolo indimenticabile. Mi sento
bene. La quota rende la nostra marcia più lenta, ma continuiamo a superare
altre persone e questo m’infonde fiducia.
Arriviamo alla capanna Vallot. Da qui cerchiamo di capire se riusciremo a
scendere con gli sci direttamente dalla cima, ma il buio è ancora il protagonista e non riusciamo a capire le condizioni di innevamento. È fine giugno, la
stagione è molto avanzata, i ghiacciai presentano crepacci impressionanti e
nella discesa diretta dalla cima, vi è un punto critico che presuppone, per superarlo, condizioni di neve ottimali. Nei giorni scorsi nessuno è sceso con gli
sci e anche oggi siamo gli unici a calzarli. Il rischio di non riuscire a passare il
punto critico a causa dei crepacci e quindi la possibilità di rimanere bloccati
e dover risalire per diverse centinaia di metri è troppo elevato e in assenza di
notizie affidabili decidiamo di rinunciare al nostro progetto. Lasceremo gli
sci un po’ sopra capanna Vallot, a circa 4600 metri e li rimetteremo al ritorno
per scendere lungo il ghiacciaio fino alla Jonction e quindi, da lì, proseguiremo fino a dove potremo arrivare a seconda della neve rimasta.
Verso oriente intanto, sta andando in scena uno spettacolo magnifico. Il blu
si va facendo viola che da intenso diviene via via più tenue, fino a tramutarsi in un abbozzo di rosa, mentre striature d’argento si appoggiano alla
neve. Ora l’argento si fa più vivo e chiaro fino a quando non spunta il sole a
incendiare i colori. Il rosa è presto sostituito dall’arancione fino a giungere
a una vera e propria esplosione di giallo e rosso: un nuovo giorno ha inizio
e ho l’incredibile fortuna e privilegio di poterne vivere l’inizio da quassù, a
quota 4600 metri. L’aria rarefatta rende i colori molto nitidi e splendenti e,
incantato a guardare, penso che questo spettacolo vale la levataccia e la fatica.
Ci leviamo gli sci e mettiamo i ramponi, ci leghiamo con la corda e prose33
guiamo di conserva, cioè molto vicini, con la corda tra noi tesa e molto corta.
Francesco davanti ed io dietro, risaliamo la cresta affilata che porta alla cima
e ora la fatica inizia a farsi sentire. Ogni tanto mi devo fermare per cercare di
prendere la maggior quantità di ossigeno possibile.
Quando mi fermo la corda si tende del tutto e così strattono Francesco che
deve fermarsi di colpo: sembra un cavallo imbizzarrito costretto dalle mie
briglie, quindi cerco di avvertirlo prima di fermarmi e di farlo il meno possibile, ma il tratto finale è davvero duro. Passa un’altra mezz’ora e la cresta della montagna non sale più, ma si apre in un pianoro ampio e comodo: sorrido
e chiedo conferma. Francesco in risposta mi allunga la mano e si complimenta. Sono arrivato in cima al Monte Bianco. Dopo sole quattro ore di cammino
dal rifugio, alle ore 8,30 sono sulla cima della montagna più alta delle Alpi.
Mi guardo intorno soddisfatto: siamo soli, anche se molti alpinisti stanno
arrivando e alcuni sono già ridiscesi. Il panorama è davvero magnifico e il
mio sguardo spazia verso il mare, la cui presenza intuisco lì in fondo, alle
vaste pianure della Francia. È bellissimo, non avrei mai pensato di riuscire
ad arrivare fin quassù e mi godo la mia gioia: non sono mai stato coì vicino al
cielo. Il freddo però è intenso e brevi folate di vento ci ricordano che non è il
caso di attardarsi troppo sulla cima e dopo un rapido scambio di pacche sulle
spalle e alcune foto, iniziamo la discesa. Duecento metri sopra la capanna
Vallot mettiamo gli sci: inizia il divertimento. La neve è dura e compatta, le
prime curve sono una delizia, in un amen arriviamo al Gran Plateau dove ci
fermiamo. Le nuvole stanno risalendo la montagna e per brevi momenti ci
oscurano la visuale. Scendere per questi pendii con la nebbia non è certo l’ideale, ma per fortuna dura poco e la visibilità torna buona. Francesco studia
il percorso e ci buttiamo lungo il pendio del Grand Montet.
Lo scenario nel quale siamo immersi è straordinario per maestosità e bellezza. Siamo in una natura senza tempo, immutabile e che cambia di continuo
ma oggi o diecimila anni fa, qui nulla è cambiato. Scendiamo a fianco di
seracchi giganteschi che incombono su di noi. Palazzi di ghiaccio alti anche
più di cinquanta metri pronti a crollare all’improvviso. Passiamo sopra e a
lato di crepacci profondi centinaia di metri: sono intimorito dalla grandiosità
della natura che mi sta intorno e mi sento minuscolo, capendo che basterebbe
un alito di questa potenza per spazzarmi via. L’unica cosa che posso fare è
ammirare convinto il paesaggio e cercare di esserne all’altezza dipingendo
le mie curve in modo tale che la mia firma sulla neve possa essere se non
apprezzata, almeno tollerata da questa imponente montagna. Non essendoci
tracce di passaggi precedenti, non sempre è facile trovare la via, ma Francesco sembra fiutarla ed è bravissimo a trovare la direzione. La discesa è emo34
zionante, grandiosa e il cuore mi batte forte. Superiamo il rifugio del Grand
Mulet che, abbarbicato su di uno sperone di roccia e attorniato da tutte le
parti dai ghiacci, sembra un faro di un isolotto in mezzo ad un mare bianco e
azzurro, e arriviamo alla Jonction, punto così chiamato perché è l’intersezione tra due grandi lingue di ghiaccio. Qui la via è davvero difficile da trovare
perché siamo in un vero e proprio dedalo di crepacci. Proviamo a inoltrarci
nel labirinto, ma per due volte esso ci respinge e dobbiamo tornare indietro e
ricominciare dal punto di partenza. Ci leviamo gli sci e riproviamo.
Finalmente ci sembra di aver imboccato la strada giusta ma sul più bello un
crepaccio largo un metro ci blocca. Decidiamo di saltarlo, ma dove dovremmo atterrare è una lingua di neve stretta e anch’essa posta tra due altri crepacci. La situazione è delicata, ma l’alternativa sarebbe tornare indietro per la
terza volta per cercare una via che forse non c’è. Saltiamo. Prima Francesco
che compie l’operazione in maniera perfetta e si posiziona per farmi sicura.
Con il giusto timore, salto anch’io e tutto va per il meglio. Questa la potrò
raccontare ai nipotini, penso, ma in realtà tutta la giornata mi appare come
un sogno. Proseguiamo su una strada più tranquilla e raggiungiamo le ultime propaggini del ghiacciaio e da lì, finalmente usciamo dal regno dei ghiacci e troviamo il sentiero sulle rocce. Il peso dello zaino con gli sci supera i
dodici chili e mi è ormai intollerabile, ma ci vogliono ancora oltre due ore per
arrivare alla funivia che ci riporterà a Chamonix. Questo tragitto assomiglia
a un calvario, devo trattenermi dal gettare lo zaino per terra e proseguire
senza, ma finalmente, dapprima come un miraggio e poi pian piano come un
tesoro mi appare la stazione della funivia. Quando ci arriviamo, provo un incredibile sollievo, ero davvero al limite, e finalmente posso togliermi il peso
dalle spalle e rilassarmi. In paese mangiamo, facciamo un breve passeggiata
ma non possiamo darci ai festeggiamenti che vorrei, perché ci aspettano ancora cinque ore d’auto per arrivare a casa. Sono le ventitre quando mi stendo
sul letto a casa mia: sono passate venti ore da quando quell’anonimo alpinista
mi ha annunciato che il cielo era sereno e ora, finalmente nell’intimità della
mia camera, dopo aver abbracciato mia moglie posso lasciarmi andare. Sono
felice. Se solo due o tre anni fa qualcuno mi avesse preannunciato che sarei
salito sul Monte Bianco lo avrei preso per un alieno ubriaco e, invece ora mi
godo la mia piccola impresa. Le stelle che ci facevano compagnia nella salita,
la tranquillità e la forza di Francesco, l’alba, la fatica degli ultimi metri e l’arrivo in vetta. Ripenso alla stretta di mano del mio compagno e alla discesa
in quell’ambiente selvaggio e primordiale, è stata una giornata come me ne
sono capitate poche nella vita. Ripenso alla frase: «Tutto Stellato!», si è tutto
stellato questa notte nel mio cielo, sereno e calmo, posso dormire tranquillo.
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Tingri
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