la violenza sullo schermo

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la violenza sullo schermo
LA VIOLENZA SULLO SCHERMO
Pubblichiamo l'articolo di padre Virgilio Fantuzzi S. I., apparso sulla rivista “La Civiltà Cattolica”, che analizza tre film di argomento criminale giunti contemporaneamente sugli schermi: “La promessa dell’assassino” di David Cronenberg, “American
Gangster” di Ridley Scott, e “Onora il padre e la madre” di Sidney Lumet.
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Nel negozio di un barbiere il vecchio padrone induce il figlio, ragazzo subnormale
impietrito dalla paura, a tagliare con un rasoio la gola di un cliente che indugia sulla poltrona. È la prima sequenza del film La promessa dell’assassino (Eastern Promises) del regista canadese David Cronenberg. A metà film il ragazzo subirà la
stessa sorte, da parte dei «fratelli» dell’assassinato, mentre sta orinando contro una
lapide in un camposanto. In farmacia una quattordicenne chiede aiuto e sviene nel
sangue (è la seconda sequenza). Portata all’ospedale, la ragazza muore dando alla
luce una bambina. «Spesse volte, la morte e la vita vanno a braccetto», commenta
l’ostetrica, che ha nome Anna (Naomi Watts) e decide di prendersi cura della neonata.
«La promessa dell’assassino» di David Cronenberg
La vicenda del film si svolge a Londra nell’ambiente degli immigrati russi. Anna si
impadronisce del diario che la defunta, di nome Tatiana (Sarah Jeanne Labrosse),
aveva nella borsetta. Per decifrare il diario, scritto in caratteri cirillici, Anna si rivolge allo zio Stepan (Jerzy Skolimowski), che dice di aver militato a suo tempo nelle
file del Kgb. Pur essendo nata in una famiglia di origine russa, Anna non conosce la
lingua dei suoi genitori. Di fronte alle rimostranze dello zio, che non vuole occuparsi della faccenda, Anna decide di rivolgersi a un ristorante russo di cui ha trovato la réclame tra le pagine del diario. Nel suo candore non sospetta nemmeno che
sta per cacciarsi in un mare di guai.
Gestore del ristorante è un signore dai modi affabili, di nome Seymon (Armin
Mueller-Stahl), che in realtà è il boss di una spietata organizzazione di malviventi
denominata Vori v’zakone (ladri della legge), la cosiddetta mafia russa, che affonda
le radici nella Russia degli zar, è sopravvissuta allo stalinismo e allo sgretolamento
dell’Urss e ha perduto i connotati atavici entrando a far parte del grande business
della criminalità internazionale, dove la tirannia del denaro ha soppiantato i vecchi
codici d’onore.
Non mancano nel film di Cronenberg, il quale si è avvalso della collaborazione dello sceneggiatore inglese Steve Kniggt, riferimenti all’attualità più scottante, come il
caso Litvinenko, l’arrivo nell’ambito della malavita organizzata di feroci famiglie
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del crimine ceceno, il crocevia di commerci clandestini che vanno dall’oppio afghano alle minorenni, ingannate con false promesse di carriera e ricchezza (quelle alle
quali allude il titolo originale del film «Promesse orientali») e poi vendute sul mercato della prostituzione come è accaduto alla povera Tatiana, la cui voce off si fa
sentire di tanto in tanto nella colonna sonora mentre legge qualche brano del suo
diario.
Tatiana, Anna, sua madre e lo zio appartengono al mondo delle persone normali.
Quando Anna varca imprudentemente la soglia del ristorante gestito da Seymon
non sa che dietro quella porta c’è un altro mondo, che non ha nulla da spartire con
il suo. Seymon, che sotto il sorriso bonario nasconde la personalità di un criminale
feroce, ha un figlio, Kirill (Vincent Cassel), debosciato e ubriacone, che non sa controllarsi. Kirill è spalleggiato da Nikolaï (Viggo Mortensen) che gli fa da guardia del
corpo, oltre che da autista, ed è dotato di una padronanza di sé che gli consente di
non scomporsi nemmeno quando Kirill lo tratta in maniera sprezzante. Nikolaï è il
figlio che Seymon, il quale mal sopporta le intemperanze di Kirill, avrebbe voluto
avere.
L’intreccio del film procede per strati sovrapposti. Al livello più superficiale c’è il
diario di Tatiana, un oggetto «pericoloso» che passa per diverse mani e fornisce alla
vicenda un filo conduttore più fittizio che reale. Nel diario Tatiana accusa Seymon
di averla violentata. È pertanto interesse primario del boss impadronirsi di questo
documento compromettente per distruggerlo. Nel frattempo Kirill ne ha combinata
una delle sue. A insaputa del padre, ha fatto eliminare un «nemico», quello che è
stato sgozzato sulla poltrona del barbiere. Vediamo Nikolaï in azione mentre aiuta
Kirill a sbarazzarsi del cadavere dell’assassinato. Ne sbrina il corpo, congelato, servendosi di un Föhn, elimina ogni elemento (dita e denti) che possa consentirne
l’identificazione, lo getta nottetempo nelle acque limacciose del Tamigi...
I ceceni, giunti di recente a Londra, considerano il morto come aderente alla loro
«famiglia» e vogliono vendicarlo uccidendo Kirill, che non conoscono di persona.
Kirill, come ogni Vori che si rispetti, ha sulla pelle tatuaggi che indicano la sua posizione altolocata nell’ambito della consorteria. Seymon ha un’idea perversa. Decide di cooptare Nikolaï nella setta in modo da far incidere sulla sua pelle, oltre agli
altri tatuaggi che già ci sono, le quattro stelle (due sulle ginocchia e due sul petto)
che indicano il più alto grado di appartenenza all’organizzazione. I ceceni, tratti in
inganno da questo falso indizio, potranno ucciderlo credendo che sia Kirill. Affinché i tatuaggi siano ben visibili, il progettato omicidio avverrà in un bagno turco
frequentato da maschi in costume adamitico.
A questo punto il film, distaccandosi dalle consuete modalità dei racconti a
suspense, raggiunge un grado di espressività piuttosto elevato. C’è, prima di tutto,
la cerimonia per l’iniziazione di Nikolaï, che, mettendo in evidenza i numerosi ta2
tuaggi che ha sul corpo, narra (come in un diario scritto sulla pelle) le sue precedenti peripezie di galeotto nelle carceri russe e la sua volontà di riscatto. Nikolaï, il
perno attorno al quale gira la vicenda narrata nel film, è un agente sotto copertura,
un vero e proprio infiltrato della polizia all’interno dell’organizzazione mafiosa.
Nello scontro cruento che sostiene con i due killer ceceni nel bagno turco, lui nudo,
gli altri vestiti di cuoio nero (scena clou che, secondo le intenzioni degli autori, dovrebbe gareggiare in spettacolarità con la celebre scena della doccia in Psycho, 1960,
di Alfred Hitchcock) Nikolaï conquista a pieno titolo le stelle che gli sono state conferite con l’intenzione di giocargli un brutto tiro.
Il riscatto di Nikolaï avviene nel momento in cui, assieme ad Anna, salva la figlioletta di Tatiana che Kirill, per incarico del padre, sta per gettare nel Tamigi.
Nell’ottica dei criminali, infatti, la bambina, con il suo patrimonio genetico, è una
prova a carico di Seymon, suo padre naturale, che dev’essere eliminata. Con Anna e
con la bambina, Nikolaï potrebbe formare una famiglia «normale», ma non è questo
il ruolo al quale aspira. Assumendo fino in fondo la sua funzione di collaboratore
di giustizia, decide di prendere il posto del boss dopo aver provocato la sua rovina.
Ciò gli consentirà di porre rimedio ai crimini della mafia internazionale operando
dal suo interno, oppure di commettere altri crimini, ancora più gravi, magari con la
complicità, o la connivenza, dei servizi russi e della polizia britannica.
«American Gangster» di Ridley Scott
Mentre Cronenberg, nella scena dell’iniziazione di Nikolaï e in quella del cruento
corpo a corpo nel bagno turco, si affida ai colori della fantasia per suggerire alla
mente dello spettatore un’idea suggestiva circa le origini della violenza, legate alle
condizioni primordiali della psiche umana, Ridley Scott, regista nato in Gran Bretagna e attivo negli Stati Uniti, autore fra altri film del non dimenticato Blade Runner
(1982), affronta con American Gangster una storia vera per proporre un’analisi della società attuale nella quale la criminalità riesce a penetrare sempre più a fondo, fino ad arrivare là dove nessuno immaginerebbe di poterla trovare.
Tra il 1968 e il 1974, durante e dopo la guerra del Vietnam, la corruzione della polizia era in ascesa nella città di New York. La guerra stava costando un prezzo altissimo sia nel Sud-Est asiatico, sia sul fronte interno degli Stati Uniti. I soldati tornavano a casa nei sacchi di plastica oppure con i corpi devastati e i nervi a pezzi in seguito all’esperienza traumatica della guerra. Tra le conseguenze più diffuse e pericolose c’era la dipendenza da un oppiaceo chiamato eroina, condizione condivisa
dai reduci con altri coetanei che, pur non essendo stati in guerra, erano entrati nel
giro della tossicodipendenza.
Con la complicità delle forze dell’ordine, la mafia agiva in stato di relativa impunità
in questo mercato non competitivo, vendendo migliaia di chili di droga ai disperati
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in cerca di una dose. Una classe privilegiata e intoccabile di uomini bianchi passava
sottobanco centinaia di milioni a giudici, avvocati e poliziotti newyorkesi affinché
tenessero la bocca chiusa su questa relazione reciprocamente vantaggiosa. Cosa
Nostra e i suoi aderenti erano ritenuti imbattibili fino a quando non si affacciò sulla
scena del crimine un imprenditore che, pur essendo un uomo di colore, era più abile e spregiudicato di loro.
Si chiamava Frank Lucas (interpretato da D. Washington). Nessuno si era accorto di
lui quando, in qualità di oscuro guardaspalle, si muoveva nell’ombra di Ellsworth
«Bumpy» Johnson, boss del crimine «nero» nella Harlem degli anni Cinquanta e
Sessanta. Quando il suo capo muore improvvisamente, Frank sfrutta la situazione
per costruirsi un impero personale e proporre la sua versione privata di uno stereotipo americano: l’uomo, venuto dal nulla, che si è fatto da solo.
Senza mettere piede in una scuola, Frank aveva imparato molte cose dalla strada.
Se ne servì per governare il traffico di droga interno alla città inondando il mercato
con un prodotto più puro a un prezzo più conveniente rispetto a quello della concorrenza. Riusciva a procurarsi la materia prima direttamente nei campi di papavero del «triangolo d’oro» all’intersezione tra Birmania, Thailandia e Laos, una zona
controllata da frange dell’esercito del Kuomintang dello sconfitto Chiang Kai-shek.
Di quali mezzi Frank si servisse per trasportare la droga dalla fonte a New York il
film lo dice soltanto alla fine.
Al criminale Frank si oppone il poliziotto Richie Roberts (Russel Crowe), uomo
scaltro e duro che, come Frank, proviene dalla strada. È un ebreo che, oltre a lavorare sodo, frequenta i corsi serali per conseguire una laurea in giurisprudenza. Nel
suo ambiente inquinato, come si diceva, dalla corruzione, ha fama di essere incorruttibile. Aveva guadagnato questa reputazione all’inizio della carriera quando, avendo trovato nel bagagliaio di un’automobile 987.000 dollari non registrati, frutto
di traffici disonesti, aveva deciso di consegnarli alle autorità superiori fino
all’ultimo biglietto invece di metterseli in tasca come avrebbe fatto qualunque altro
al suo posto.
Nell’opporsi a Frank, Richie, deve guardarsi le spalle dai colleghi che fanno il doppio gioco come il detective Trupo (Josh Brolin), il quale lascia che tutti spaccino nella sua zona purché gli passino una fetta del ricavato. A Richie viene affidato
l’incarico di formare una squadra speciale di poliziotti che siano in grado di combattere i criminali scendendo sul loro stesso terreno. Frank e Richie si confrontano
nel film tenendosi reciprocamente a distanza. Nessuno dei due sa dell’altro. Il montaggio alternato consente di soppesare somiglianze e differenze tra eroe e antieroe.
Entrambi, come si è visto, si sono fatti da soli. Hanno un senso rigoroso di ciò che è
giusto e di ciò che è sbagliato secondo i rispettivi punti di vista.
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Queste le somiglianze. Quanto alle differenze, abbiamo nella persona di Frank un
impeccabile uomo di famiglia, ligio alle tradizioni religiose e alle convenzioni sociali del suo ambiente; Richie al contrario, inguaribile donnaiolo, ha in corso una causa
di divorzio e affidamento del figlio minorenne mentre, preso da un raptus di irrefrenabile autolesionismo, non tralascia occasione per trasformare la propria vita
privata in autentico inferno. Nel giorno del Ringraziamento, mentre il gangster taglia il tacchino arrosto a una tavolata familiare guarnita di raffinati cristalli e preziose porcellane, il poliziotto mangia da solo un sandwich al tonno.
Impeccabile in tutto, Frank commette un errore fatale quando indossa un vistoso
cappotto di cincillà (dono della moglie, della quale è innamoratissimo) per recarsi
al Madison Square Garden in occasione di uno «storico» incontro di pugilato tra Alì
e Frazier. Dopo uno spettacolare blitz, girato con la camera a mano secondo le regole di questo genere di film, Richie arresta Frank all’uscita dalla chiesa, dove è andato ad accompagnare la madre, sulle note di un solenne inno religioso. Condannato
a 70 anni di carcere, Frank riesce a scontarne soltanto 15. Gli altri gli vengono condonati grazie alla sua collaborazione nello smascherare i poliziotti corrotti. Richie,
smessi i panni del poliziotto, diventa suo avvocato.
La sorpresa che il film riserva allo spettatore, seguendo il libro omonimo di Mark
Jacobson (pubblicato in Italia da Einaudi), consiste nel documentare il modo con il
quale Frank riusciva a far giungere in America l’eroina pura direttamente
dall’Estremo Oriente. Fece arrivare laggiù un bravo falegname americano e lo mise
a costruire bare simili a quelle usate dal governo per rispedire a casa i ragazzi ammazzati dai Vietcong. Simili in tutto eccetto che in un particolare: un doppio fondo
nel quale stipare un bel po’ di eroina. Con questo stratagemma Frank riusciva a
guadagnare un milione di dollari al giorno. Per ottenere un risultato di questo genere ci vogliono una certa inventiva, una buona dose di cinismo e molti soldi per
ungere le ruote giuste. Non è una cosa facile, ma si può fare.
«Onora il padre e la madre» di Sidney Lumet
45° film del maestro del cinema americano Sidney Lumet, 83 anni, del quale si ricordano, tra altri titoli di prestigio, L’uomo del banco dei pegni (1965), Serpico
(1973), Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975), Quinto potere (1976), e che ha
al suo attivo una carriera dedicata al cinema impegnato sul fronte dei problemi razziali, sul rischio di conflitti nucleari e sulla corruzione di chi controlla
l’informazione di massa, Onora il padre e la madre è stato distribuito in Italia con
un titolo che non corrisponde a quello originale, Before the Devil Knows You’re
Dead (traduzione letterale: Prima che il diavolo sappia che sei morto), un vecchio
detto irlandese che corrisponde più o meno al nostro «il diavolo fa le pentole ma
non i coperchi», e, a differenza del titolo italiano, contiene due parole, diavolo e
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morte, che costituiscono la chiave mediante la quale l’autore intende segnalare in
maniera esplicita allo spettatore il significato dell’opera.
Il film può essere visto come una tragedia greca dell’età classica ambientata nella
New York di oggi. I fatti che vi si narrano sembrano inverosimili; ma chi avrebbe
mai potuto immaginare che Edipo sarebbe giunto davvero a uccidere il padre e a
sposare la madre, come diceva l’infausto oracolo che accompagnò la sua nascita? I
due fratelli Andy e Hank (Philip Seymour Hoffman ed Ethan Hawke) non si amano
reciprocamente. Sono molto diversi l’uno dall’altro. Andy è un uomo d’affari, che
appartiene alla middle class. Hank, con alle spalle un matrimonio andato male e
una figlia minorenne da mantenere, è un fallito. Entrambi hanno una doppia vita.
Andy, il primogenito, sottrae ingenti somme di denaro alla contabilità della società
dove lavora per dedicarsi all’uso sempre più massiccio di droghe pesanti. Hank,
più giovane e prestante, intrattiene a insaputa dei familiari una relazione con la
moglie di Andy (Marisa Tomei). Siccome versano entrambi in serie difficoltà economiche, ecco che il «cervello» dei due, cioè il flaccido Andy, propone all’altro un
colpo che dovrebbe toglierli dai guai. Si tratta di rapinare una gioielleria a gestione
familiare: quella di mamma e papà. Bottino previsto: una sessantina di migliaia di
dollari da dividere in due. Una pistola giocattolo dovrebbe bastare a spaventare
l’anziana commessa che sostituisce la mamma in negozio nelle prime ore del mattino. Per la polizia si tratterà di una delle tante rapine senza importanza che avvengono ogni giorno nella megalopoli. La compagnia di assicurazioni rifonderà i danni
ai genitori.
Si può immaginare un piano più assurdo di questo? Niente paura. «Si tratta soltanto di un film», come diceva Hitchcock a Ingrid Bergman durante le riprese de Il
peccato di Lady Considine (Under Capricorn, 1949). La vita, d’altra parte, ci insegna ogni giorno che nella realtà possono accadere cose ancora più assurde. È ovvio
che il progetto non potrà andare in porto così come è stato concepito. Hank è un
codardo e un incapace. Manda un balordo a fare il colpo mentre lui aspetta fuori.
Ma il balordo, che invece della pistola giocattolo ha portato con sé un’arma vera,
spara e ferisce a morte la madre dei due (Rosemary Harris), che non avrebbe dovuto trovarsi lì. È solo l’inizio di una vicenda intricata e sanguinosa, che non risparmia nessuno: mogli, amanti, complici, fratelli e genitori.
Il film, la cui sceneggiatura è dovuta alla penna di Kelly Masterson, commediografo
al suo esordio nel cinema, è strutturato per frammenti collocati gli uni accanto agli
altri in una successione che non rispetta lo sviluppo cronologico degli eventi. Si
parte dal fatto (la rapina) per risalire all’antefatto. Il gioco di va-e-vieni si ripropone
più volte in un continuo rinvio dai presupposti alle conseguenze e viceversa.
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Le stesse situazioni tornano sullo schermo inquadrate di volta in volta sotto angolazioni diverse. Sono punti di vista che si fronteggiano e si contrappongono senza
completarsi reciprocamente. Più che tessere di un mosaico, sembrano schegge impazzite di una realtà esplosa in frantumi. Il punto di vista di Andy non incontra
mai quello di Hank. In questo modo la tecnica del cinema, che tende all’ubiquità,
rende conto della disgregazione che insidia dall’interno il microcosmo familiare che
viene osservato. Si tratta di un approccio analitico che non ha lo scopo di illustrare i
meccanismi della storia e gli intoppi che la fanno deragliare, come avviene normalmente nei film che appartengono al genere thriller, ma quello di svelare la pochezza umana e l’abiezione morale che contraddistingue i diversi personaggi, compresi quelli secondari o marginali.
Dopo essere rimbalzato a lungo dall’uno all’altro dei due fratelli il «punto di vista»
si identifica, nella parte finale del film, con quello distaccato e implacabile del vecchio padre (Albert Finney). Di fronte alla inefficienza della polizia, l’uomo si mette
a indagare per conto proprio sulla morte della moglie. Scoprirà così a poco a poco
in quale abisso di squallore sono precipitati i suoi rampolli, prigionieri di un mondo nel quale l’avidità di denaro, la dipendenza dalla droga e la frenesia del sesso
hanno preso il posto di quei valori che lui non ha saputo trasmettere.
Qui la tragedia si colora di tinte sofoclee, ma quello che siamo invitati a vedere non
è uno scontro di titani o di eroi che si svolge sotto lo sguardo di divinità malvagie,
bensì qualcosa di più meschino: la tragedia della mediocrità imperante, dove tutto
trascina verso il basso senza possibilità di riscatto. Andy confessa di aver provocato
la morte della madre prima che il padre lo mandi al Creatore con un delitto questa
volta «perfetto», che resterà impunito almeno... «fino che il diavolo non sappia che
sei morto».
Figlio di un attore, Lumet ha calcato le scene del teatro Yiddish prima di passare
dietro la macchina da presa. «Il mio background teatrale — egli dice — ha sviluppato in me l’interesse per la letteratura. Amo Eugene O’Neill e il suo Lungo viaggio
verso la notte. Il film che nel 1962 ho ricavato da quel dramma è uno dei miei lavori
ai quali tengo di più. Penso che ad esso si ricolleghi quest’ultimo film. Quel “viaggio” finiva con una calma illusoria. Oggi stiamo tutti viaggiando all’interno di un
incubo, ma il cinema sembra avere ritrovato la forza che aveva negli anni Sessanta,
quando raccontavo i nostri pomeriggi di un giorno da cani.
«Allora puntavo il dito sullo spettacolo dei mass media pronti a strumentalizzare
una tragedia di reduci dal Vietnam. Oggi ritengo che il melodramma vada cercato
nel privato più nascosto e amorale. È ormai alle mie spalle il ragazzo che sono stato
e che recitava off-Broadway con Yul Brynner. Non sono più giovane, ma amo ancora il lavoro, un bel tramonto, la mia famiglia, la politica, la fatica di voler capire
perché una giuria assolve qualche criminale, perché siamo sommersi da una certa
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trivialità televisiva oppure quale è il senso dello spettacolo che l’umanità offre di se
stessa con il suo procedere inconsapevolmente verso l’autodistruzione».
Un mondo dipinto a tinte fosche
Se fosse vero quello che di tanto in tanto si sente ripetere, che il cinema rispecchia la
società che ci circonda, verrebbero i brividi al solo pensiero che viviamo in un
mondo come quello descritto in questi tre film, ai quali se ne aggiungono altri, dal
contenuto non meno agghiacciante, che hanno attirato la nostra attenzione, come
Sogni e delitti di Woody Allen (cfr Civ. Catt. 2008 II 207 s) e Non è un paese per
vecchi di Joel ed Ethan Coen (cfr ivi, 2008 II 311 s). Fortunatamente sappiamo che il
concetto di rispecchiamento applicato ai rapporti tra cinema e società non va preso
alla lettera, ma in senso metaforico. Tante sono le mediazioni che si inseriscono tra
il cinema inteso come specchio e la realtà che vi si riflette. Guardare un film non significa guardare un pezzo di mondo, ma guardare, di quel pezzo di mondo, ciò che
un altro (il regista o chi per lui) fa vedere.
Ci sono sguardi superficiali e sguardi approfonditi, sguardi attenti e sguardi distratti, sguardi precisi e sguardi distorti... Tutto ciò che può essere riprodotto con
immagini si presta a manipolazioni che intervengono a diversi livelli. Ciò vale non
soltanto per il cinema, ma per gli audiovisivi in generale e, in particolare, per la televisione. La rappresentazione della violenza ha in sé qualcosa di spettacolare che
suscita la curiosità di un grande numero di persone. C’è il rischio che la rappresentazione della violenza, usata in dosi massicce come ingrediente in prodotti di larga
diffusione, provochi una sorta di assuefazione nei confronti della violenza stessa e
un allentamento della difesa dai pericoli che essa comporta.
Lo sfruttamento della violenza a scopo spettacolare genera un sovvertimento di valori nell’ambito dei meccanismi che reggono il rapporto tra segno e senso nel linguaggio audiovisivo: ciò che è marginale e secondario prende il posto di ciò che
dovrebbe trovarsi al centro del discorso, mentre ciò che riveste un’importanza fondamentale è relegato tra le cose che contano di meno, i mezzi prevaricano sul fine.
L’uso di immagini «forti», che risulta pretestuoso e fuorviante in tanti prodotti di
fattura dozzinale, che dilagano sugli schermi grandi e piccoli, trova una collocazione motivata all’interno di opere che rientrano nella categoria dei film di qualità.
Qui la rappresentazione della violenza non è un dato gratuito, ma fa parte di una
ricerca, condotta con mezzi espressivi, che si sviluppa per tappe attraverso l’opera
complessiva dei rispettivi autori.
Cronenberg, Scott e Lumet, i registi che abbiamo visto in azione, non si limitano a
vellicare la sensibilità epidermica dello spettatore, ma si servono della rappresentazione della violenza per sollevare interrogativi che riguardano la natura dell’uomo
e provocano, direttamente o indirettamente, se non una soluzione chiara e netta dei
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problemi trattati dai loro film, almeno un’assunzione di responsabilità di fronte a
ciò che significa vivere in un mondo dove la presenza del male non cessa
d’interpellare la coscienza di chi crede nel trionfo finale della giustizia divina e
quella di chi, pur non avendo il dono della fede, non per questo è disposto ad accettare a cuor leggero tutto quello che accade sulla faccia della terra.
© La Civiltà Cattolica 2008 II 365-374
quaderno 3790
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