POLICY PAPER: VERSO UNA STRATEGIA PER LA LIBIA

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POLICY PAPER: VERSO UNA STRATEGIA PER LA LIBIA
POLICY PAPER: VERSO UNA STRATEGIA PER LA LIBIA
di Arturo Varvelli
con il contributo di Tommaso Canetta
La minaccia dello Stato Islamico
Le risorse umane
La Libia appare oggi sempre più permeabile alla presenza di combattenti legati allo Stato Islamico (ISIS).
Fonti affidabili reputano che ci siano complessivamente tra 5000 e 6000 miliziani Isis che operano in Libia
(l’ONU a fine novembre dichiarava circa 3000-3500; il Dipartimento Stato USA a gennaio 5000; più recenti
fonti di stampa attorno a 6000). Il nucleo principale di questa presenza si attesta nella città di Sirte, sulla
costa mediterranea nella Libia centrale. Il contesto dell’ascesa di Isis a Sirte appare per certi versi simile a
quello che lo aveva inizialmente favorito in Iraq, ossia l’esclusione di parte della popolazione da un processo
di partecipazione politica. Non appare un caso che Sirte sia la città natale di Muammar Gheddafi, e
territorio dove è presente la tribù Qaddafa. Dalla sua caduta, la tribù è stata emarginata e ostracizzata dal
governo di Tripoli, accusata da altre milizie di connivenza con il passato regime e, in più di un’occasione,
duramente colpita per questo motivo. Parte dei giovani della tribù e di seconde linee del regime (figure più
defilate rispetto al caso iracheno), a cominciare dalla primavera 2015 hanno quindi sposato la causa
dell’Isis, più per motivazioni politiche che ideologiche. Appare poi piuttosto certa e in costante aumento la
presenza di stranieri, in particolare iracheni (tra i vertici) e tunisini.
La presenza territoriale
Il sedicente Stato islamico è presente nell’area di Sirte, dove pare controllare circa 180/200 chilometri di
costa mediterranea. La debolezza delle forze locali che si oppongono a Isis, rischia di facilitare la conquista,
più volte minacciata da parte del gruppo, delle infrastrutture petrolifere del Bacino della Sirte, che tra
dicembre 2015 e febbraio 2016 sono state bersaglio di numerosi attacchi. L’eventuale caduta di queste
aree, priverebbe lo Stato libico delle uniche entrate di cui dispone: i proventi del petrolio. In seconda
battuta garantirebbe rendite consistenti al sedicente Stato Islamico, sebbene, data la posizione geografica,
la vendita irregolare del greggio sia molto più complessa da operare rispetto a Siria e Iraq. La decisione di
Isis di orientare il fronte operativo a est, garantirebbe al movimento un importante vantaggio strategico
evitandogli, almeno per il momento, uno scontro diretto con le milizie di Misurata, tra le meglio attrezzate
in Libia. L’Isis appare inoltre disporre di altre aree di controllo in tutto il paese, da Derna, dove aveva
inizialmente stabilito una prima enclave alla fine del 2014, fino a Sabratha, dove un campo di
addestramento è stato colpito di recente da un raid statunitense. Nelle ultime settimane, a seguito di una
escalation degli scontri tra ISIS e le milizie limitrofe, vi è stata un’apparente mobilitazione di alcune forze
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(comprese quelle del Generale Khalifa Haftar) in vista di un possibile attacco alle zone sotto il controllo di
ISIS. Le reali intenzioni sono da chiarire.
Il quadro politico-strategico
Il 17 dicembre scorso, nella cittadina marocchina di Skhirat, sotto l’egida dell’ONU e del nuovo inviato
Martin Kobler, i rappresentanti di alcune fazioni hanno firmato un nuovo "Accordo Politico Libico" che
prevede un governo di unità nazionale e la condivisione del potere tra il parlamento di Tobruk, espressione
delle elezioni del giugno 2014, e quello di Tripoli, re-instaurato nel settembre dello stesso anno. L'accordo è
stato ufficialmente adottato con la risoluzione Onu 2259, approvata il 23 dicembre 2015. La risoluzione
obbliga gli stati membri a relazionarsi soltanto con il governo di unità nazionale scaturito dal processo di
Skhirat mentre, al contempo, stabilisce che la comunità internazionale possa intervenire militarmente
contro lo Stato Islamico solamente previa "richiesta del governo libico". Faiez Serraj ha ricevuto l’incarico di
guidare il governo, co-adiuvato da un Consiglio Presidenziale di 9 membri. A metà febbraio, Serraj ha
presentato il proprio esecutivo composto da 18 nomi che è ora in attesa di approvazione da parte del
parlamento di Tobruk, l’unico riconosciuto a livello internazionale. Il 13 febbraio il Consiglio di presidenza
libico ha deciso di non attendere più il voto di fiducia del parlamento libico, e di auto-legittimarsi sulla base
di un documento a favore del governo di unità nazionale firmato da 101 deputati del parlamento di Tobruk.
Nell’ultimo mese il parlamento di Tobruk non è riuscito a raggiungere il numero legale (e votare
l’approvazione del nuovo governo) a causa delle intimidazioni subite dai deputati favorevoli. La comunità
internazionale e l’inviato speciale ONU Martin Kobler, hanno espresso pieno sostegno alla mossa del
Consiglio di presidenza. Nella fase iniziale il nuovo governo di Serraj (GNA, General National Accord) ha
operato dall’estero, in particolare da Tunisi, e non in Libia perché la capitale Tripoli, conquistata nell'estate
del 2014, era - ed è ancora oggi in gran parte - sotto il controllo del General National Congress (GNC). Il 30
marzo il governo di Serraj è giunto a Tripoli via mare (l’aeroporto della capitale era stato fatto chiudere in
precedenza pare proprio per evitare l’arrivo del governo unitario) e si è insediato nella base navale di Abu
Sittah, a 3 km dal centro della città. Il governo/parlamento di Tripoli (GNC) sembra non essere più attivo.
Serraj sembra aver consolidato la propria presenza nella capitale grazie al supporto di una parte delle
milizie locali, tuttavia, permane il timore che il nuovo governo di unità nazionale sia percepito come una
imposizione da parte della comunità internazionale, in particolare occidentale.
Obiettivi politici
Il presupposto fondamentale di ogni intervento armato è che sia chiaro l’obiettivo politico.
Conseguentemente l’intervento deve essere valutato, nella sua opportunità e nelle modalità, in base a tale
premessa che, sebbene appaia scontata, viene spesso dimenticata. Lo dimostra la scarsa chiarezza, in
termini di obiettivi politici, che ha caratterizzato molti dei recenti interventi militari occidentali nei teatri
mediorientali. Questa mancata chiarezza conduce a missioni a tempo indeterminato, la cui efficacia politica
viene progressivamente erosa. Si pensi ancora al caso dell'Iraq o dell’Afghanistan.
La finalità di un eventuale intervento in Libia, dovrebbe essere quella di contribuire al rafforzamento del
governo unitario. Finora sono stati considerati requisiti necessari per una possibile azione militare straniera
in Libia l'accordo tra fazioni libiche, la formazione del governo ed una successiva richiesta di intervento da
parte dello stesso. Alcune recenti indiscrezioni, tuttavia, lasciano intendere che alcuni attori abbiano
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valutato l’opportunità di cambiare strategia, considerando l’ipotesi di avviare bombardamenti più massicci
e interventi militari diretti contro l'Isis, anche senza una formale richiesta da parte di un legittimo governo
libico. Il potenziale di rischio di una scelta in tal senso, come dimostrano numerose esperienze passate,
compreso l’intervento NATO in Libia del 2011, è terribilmente alto.
Presupposto per l’individuazione di un eventuale intervento
Il presupposto analitico della scelta politica di un intervento, si fonda sul fatto che il contenimento e/o
contrasto militare all’ISIS – condotto principalmente tramite bombardamenti aerei – non sia sufficiente.
Questo appare piuttosto evidente in Siria e Iraq. Se, inoltre, si tiene presente come le cause profonde
dell’ascesa dell’ISIS, e di altri gruppi islamico radicali in Medio Oriente e Africa, siano da rintracciarsi
principalmente nello sfaldarsi delle entità statuali – con le definizioni politologiche di “Stati fragili”, “Stati
falliti” o “Stati in via di fallimento” – emerge chiaramente come soltanto attraverso il contributo con
politiche attive alla ricostruzione di questi Stati, e in questo caso dello Stato libico, sia possibile arginare la
minaccia di contesto anarchico favorevole all’espansione dello Stato Islamico.
Quando nel corso degli ultimi cinque anni si è più volte ripetuto che “ci si deve occupare della Libia”,
certamente si immaginava qualcosa di più di un nuovo intervento armato.
Si intendeva, in primis, accompagnare il tentativo libico di sviluppare un sistema politico partecipativo, per
il quale nel 2012 andarono a votare più del 60% degli aventi diritto, pur non avendo una chiara idea di cosa
comportasse un sistema di voto democratico, dopo oltre 40 anni di regime di Gheddafi. Si intendeva la
necessità di favorire il processo di “nation bulding” e di “state building” in un paese dall’identità nazionale
ancora fragile, che si era retto negli ultimi decenni unicamente sulla figura di un leader totalitario che aveva
smantellato sistematicamente ogni istituzione in gradi di agire da contrappeso alla sua personale gestione
del potere. Un potere che gli derivava principalmente dai proventi del petrolio. Un obiettivo politico chiaro
insomma, seppur estremamente complesso e articolato.
Eppure, nel calderone delle semplificazioni giornalistiche di questi giorni, è spesso implicita una
corrispondenza pericolosa: non dare immediatamente avvio ad una spedizione militare, vorrebbe dire non
avere un ruolo. Ergo, vorrebbe dire non occuparsi della Libia. In realtà occuparsi della Libia significa
affrontare le difficoltà del Paese. E non sembra che con i bombardamenti aerei si possa porre rimedio alla
fragilità delle istituzioni, ricomporre il quadro politico, e ridare fiducia ad una popolazione che nel 2014 ha
fatto registrare un’affluenza al voto per le elezioni legislativa soltanto del 18%, dimostrando come in pochi
mesi, gran parte di coloro che avevano creduto in un processo di partecipazione democratica avevano già
perso ogni fiducia. Occorre dunque continuare il percorso di ricostruzione del Paese. Serve un nuovo “patto
civile e sociale” che faccia da argine alla frammentazione, serve affrontare i nodi politici interni e
internazionali.
Nodi politici irrisolti e rischi di un intervento senza accordo politico tra le fazioni libiche
Pertanto, la stabilizzazione di un governo unitario dovrebbe essere l’obiettivo prioritario e, come tale, va
perseguito con tutti gli strumenti possibili dalla comunità internazionale e dall’Italia. I nodi che finora hanno
impedito il successo del negoziato sono ancora da sciogliere, in particolare il ruolo che avrà il generale
Haftar nel futuro della Libia e la perdurante ostilità all'accordo di buona parte delle milizie e delle forze
politiche della Tripolitania, che fanno riferimento al presidente islamista del Parlamento di Tripoli, Nuri Abu
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Sahmein. È poi logico pensare che un intervento armato in un paese che faticosamente cerca di ricomporre
il quadro politico possa definitivamente compromettere le residue speranze di pacificazione. È molto facile
che un intervento esterno faciliti il compattamento dei gruppi islamisti attorno alla forza preponderante, il
sedicente Stato islamico, offrendo ad esso una potente arma propagandistica ed aumentandone il
potenziale bacino di reclutamento. Il panorama politico libico sembra ancora vittima degli interessi di parte
contro gli interessi generali della nazione. Nell’ultimo mese il parlamento di Tobruk non è riuscito a
raggiungere il numero legale (e votare l’approvazione del nuovo governo) a causa delle forti intimidazioni
subite dai deputati favorevoli. Non è d’altra parte auspicabile per gli interessi italiani ed europei, che si
creino le condizioni di operatività del nuovo governo di Serraj senza che vi sia una piena volontà politica
delle amministrazioni Tobruk e Tripoli di aderirvi.
Vi è da considerare che agli occhi dei libici un nuovo intervento esterno, anche nel caso che fosse un
governo libico unitario a richiederlo, potrebbe svuotare definitivamente quest’ultimo di qualsiasi
credibilità, facendolo apparire palesemente irrilevante o peggio un “fantoccio” dell'Occidente, causandone
rapidamente il boicottaggio da parte di numerosi paesi arabi. È bene ricordare che l’obiettivo finale
dovrebbe essere una reale stabilità della Libia, e questo può essere conseguito soltanto attraverso politiche
di stabilizzazione di lungo periodo. Per questo è necessario guardare non solo al quadro libico, ma a quello
internazionale. Per esempio, è auspicabile rassicurare l’Egitto e trovare un accordo, affinché il governo si
liberi della carta Haftar, che rappresenta un impedimento troppo rilevante al processo di riconciliazione
nazionale. Nonostante lo scorrere del tempo favorisca l’Isis, sono necessarie pazienza ed una visione
politica lucida e di lungo periodo, non aggressività militare.
Politiche di stabilizzazione
In sintesi, la comunità internazionale, l’Europa e i principali attori coinvolti nella crisi libica (Italia, Stati Uniti,
Francia, Gran Bretagna e Germania) dovrebbero:

De-enfatizzare la questione della "legittimità" nelle dichiarazioni pubbliche e porre invece enfasi
sulla partecipazione ai negoziati condotti dalle Nazioni Unite e sul comportamento degli attori sul
terreno, in particolare l’aderenza al cessate il fuoco. Al contempo, è necessaria una decisa azione
diplomatica per rafforzare il nuovo governo di Serraj e permettergli di prendere pieno possesso
della capitale e dell’amministrazione reale del paese, attraverso consultazioni con le forze politiche
libiche e le milizie, in particolare della Tripolitania. Continuare un processo di consultazione tra gli
attori chiave del paese: partiti politici, rappresentanti locali delle municipalità, società civile,
rappresentanti delle minoranze (tebu, tuareg, berberi) e delle tribù per quanto possibile (sulla
traccia di quanto già iniziato a Skhirat). Il processo di legittimazione del nuovo governo deve
avvenire in un costante processo di costruzione di consenso vero tra forze politiche e milizie.

Essere più espliciti nel confronto con gli attori regionali che contribuiscono ad alimentare ancora il
conflitto fornendo armi o altro aiuto militare o politico - in particolare Ciad, Egitto, Qatar, Sudan,
Turchia ed Emirati Arabi Uniti (EAU) - e incoraggiarli a premere i loro alleati libici a negoziare in
buona fede alla ricerca di una soluzione politica. Gli attori regionali che tentano di sostenere i
negoziati, in particolare Algeria e Tunisia, dovrebbero essere incoraggiati e sostenuti.
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
Elaborare strategie politiche e militari per combattere il terrorismo, in coordinamento con le forze
politiche libiche di ogni area, astenendosi al contempo dal sostenere un intervento militare esterno
per combattere l’ISIS, nonché facilitare in tal senso un coordinamento sul terreno delle forze vicine
a Serraj e di quelle facenti capo a Haftar, anche come primo passo di appeasement politico.

Mantenere per ora l'embargo sulle armi delle Nazioni Unite, respingendo espressamente la sua
revoca totale o parziale e rafforzarne invece l’attuazione, per quanto possibile.

Ampliare le sanzioni ONU e UE ad personam contro coloro che si oppongono al processo politico e
al nuovo governo di unità nazionale sulla base di criteri trasparenti e oggettivi, in particolare contro
chi si rende colpevole di incitamento o partecipazione a violenze.

Sostenere, anche militarmente laddove necessario, l’incolumità fisica dei nuovi rappresentanti
politici, del governo e delle istituzioni economico-finanziarie, che devono essere messi in
condizione di prendere decisioni senza le pressioni e le intimidazioni delle milizie.

Proteggere la neutralità e l'indipendenza delle istituzioni finanziarie e petrolifere: la Central Bank of
Libya (CBL), la Società National Oil (NOC) e la Libyan Investment Authority (LIA); nonché garantire
che queste gestiscano la ricchezza nazionale in modo da far fronte alle esigenze fondamentali dei
cittadini e contribuire ad una soluzione politica negoziata.

Avviare programmi di disarmo, smobilitazione e reintegrazione per i miliziani che siano legati ad
incentivi economici da parte del nuovo governo. Avviare reali programmi di integrazione di alcune
milizie all’interno delle forze di polizia e dell’esercito. Terminare il pagamento indiscriminato ai
miliziani subordinando tali pagamenti all’adesione dei programmi del nuovo governo.

Avviare un reale processo di “State-building / Institution building” con l’ausilio dell’ONU e della UE.

L’Italia si è dichiarata pronta a prendere il comando delle operazioni, ma è necessario che il
compito di affrontare sul campo l’ISIS venga demandato alle forze libiche sostenute, addestrate e
‘consigliate’ da quelle internazionali sulla base del principio SFA (Security Forces Assistance): train,
assist e advise in linea con quanto già avviene in altri teatri di guerra, dall’Afghanistan al Kurdistan.
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