Rassegna stampa La compagnia Motus di Rimini ha inaugurato a

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Rassegna stampa La compagnia Motus di Rimini ha inaugurato a
Rassegna stampa
La compagnia Motus di Rimini ha inaugurato a Settimo la rassegna Teatri 90
Metti in gabbia l’uomo e i sogni
Catrame, performance tra lividi e desiderio
di Osvaldo Guerrieri
(“La Stampa”, 27 gennaio 1998)
«Non poteva cominciare in modo più sconcertante la rassegna Teatri 90 (…). L’altra sera il
nastro di partenza è stato tagliato dalla compagnia Motus di Rimini che al Garybaldi di
Settimo Torinese ha presentato Catrame, una performance definita «low tech exibition» il
cui sottotitolo è «Icone neuroniche sulle autostrade spinali». Non dobbiamo lasciarci
intimidire da questa oscura gergalità, né dobbiamo cedere in deliquio dinnanzi alle fonti
dichiarate di questo lavoro: il filosofo Baudrillard, lo scrittore di fantascienza Ballard, il
pittore Francio Bacon. Accostiamoci invece con mente sgombra a Catrame, fingendo che
sia la sintesi di un pensiero a lungo elaborato sul rapporto tra l’uomo e il suo corpo, tra
l’uomo e il sesso, in un contesto di isolamento. Ciò che lo spettatore vede è una gabbia, di
plexiglas. Dentro questo prisma trasparente, un uomo coperto soltanto da un perizoma
bianco con lustrini si lancia di corsa da un lato all’altro, si getta pesantemente a terra,
scivola a corpo morto sul pavimento. Così, a lungo, più e più volte. Entra una donna e lo
fotografa con una Polaroid, mentre i suoni che nascono in quella scatola o in qualche altra
zona arrivano alterati, sminuzzati, distorti. C’è un senso di atrocità in tutto questo. Il corpo
del nostro protagonista appare illividito, escoriato. E intanto accade qualche metamorfosi,
si profila un clima di blanda sessualità e di tenue ambiguità. Calzare scarpe con alti tacchi
a spillo può alludere a un sesso definito terzo; far sparire dentro la bocca una mano chiusa
a pugno, può citare con ironia inenarrabili “fucking” o può rinviare a certe crudeltà
pittoriche (e qui Bacon è davvero sovrano). Qualcuno parla di rappresentazione grave,
qualcun altro di gioco iper derisorio. Noi ne ricaviamo un profondo senso di solitudine, di
sforzo fisico necessario a se stesso, di disperazione che i bizzarri display elettronici non
riescono neppure ad attenuare. In gabbia si muore».
É di nuovo avanguardia
Al Franco Parenti di Milano, una rassegna dedicata ai gruppi giovanissimi e
“underground”. Saranno la nuova sperimentazione?
di Oliviero Ponte di Pino
(“Il Manifesto”, 18 marzo 1997)
«In questi anni, nella distrazione un po’ colpevole dei teatri e degli osservatori, sta
emergendo una nuova generazione teatrale. Ne ha dato un intenso spaccato la rassegna
Teatri ’90. La scena ardita dei nuovi gruppi (curata da Antonio Calbi al Teatro Franco
Parenti), dove in undici frenetici giorni è stato possibile vedere un nutrito pacchetto di
spettacoli e performance. Protagoniste di questa nuova generazione sono realtà nate e
cresciute lontano dai normali circuiti teatrali, e spesso anche dai teatri.
É più probabile vedere i loro spettacoli in luoghi di aggregazione e di flusso come centri
sociali e discoteche. É facile che lavorino in capannoni in disuso e cascine isolate. Hanno
trovato forme inedite di organizzazione e coordinamento, come l’Associazione dei Teatri
invisibili, che vuole raccogliere i non “ufficialmente finanziabili”. A un primo sguardo, gli
spettacoli selezionati per la rassegna milanese possono ricordare quelli dell’onda
precedente del nuovo teatro italiano, emersa tra gli anni ’70 e ’80, e che ha prodotto i
Tiezzi, i Barberio Corsetti, i Martone, le Societas Raffaello Sanzio….I punti di contatto
sono numerosi. Anche questi lavori sono prodotti da gruppi giovani o giovanissimi.
Utilizzano un linguaggio che, secondo i canoni di tutte le avanguardie teatrali, pone sullo
stesso piano tutti gli elementi che concorrono all’evento spettacolare. Amano le
contaminazioni tra teatro e altre arti. Si confrontano con le punte più avanzate del
presente, dell’estetica cyber della filosofia di Deleuze.
Oltre gli anni ‘80
Si potrebbe avere un’impressione di deja.vu al di là delle declinazioni di una sintassi e di
una poetica che ciascun gruppo sembra aver definito con grande precisione ed energia.
Tuttavia non c’è continuità storica tra le due esperienze, separate dal buco nero degli anni
Ottanta.Più che un passaggio di consegne a formare questa nuova leva è stata una sorta
di auto pedagogia spesso esplicitamente rivendicata. Colpiscono in questi lavori la
precisione e spesso la iperdeterminazione della forma della comunicazione con una ferrea
grammatica. A definire il rapporto con il pubblico possono essere vere e proprie macchine
sceniche, che impongono agli attori e/o al pubblico autentiche simbiosi. I giovanissimi
ravennati Fanny & Alexander presentano il loro Ponti in core in un teatrino anatomico da
24 posti, che isolano ciascuno spettatore in uno scranno solitario. La Nuova Complesso
Camerata, di stanza tra Emilia e Sardegna, usa tecniche itineranti di filiazione
grotowskiana e la cornice delle opere di Verdi per uno spettacolo fiume apparentemente
neorealistico che racconta l’Emilia ai tempi del fascismo e della resistenza, tra il romanzo
poetico di Attilio Bertolucci e Novecento, tra Pasolini e Cerati. Nell’incubo ingegneristico –
architettonico di Nur Mut – La passeggiata delle Schizo, di Masque Teatro (romagnoli)
impone frontalmente al pubblico una gigantesca e terribile macchina celibe che produce
cloni e feti, e s’innesta sui corpi e gli organi degli attori. Perché a offrire solide chiavi di
lettura possono essere i codici di genere. Dati : 1) il bianco; 2) il silenzio; 3) 2, opera del
romanzo Teatro degli Artefatti, è la geometrica rivisitazione di una serie di topoi
beckettiani. E il più immediatamente decodificabile è ancora la fantascienza, che torna
anche in Catrame dei riminesi Motus dove una delle chiavi è il cyber alla Ballard (La fiera
delle atrocità): un attore si esibisce instancabilmente in una sequenza di “crash test”,
imprigionato in una struttura di plexiglass che fronteggia la platea, in un esercizio
masochistico tra moda e pornografia. L’idealista magico del bolognese Teatrino
Clandestino, in una gabbia da teatro di fiera, debolmente illuminata da poche candele ,
ricostruisce con sconvolgente accuratezza, un esibizione ottocentesca sulla recente e
fascinosa scoperta dell’elettricità. Questa attenzione alla forma della comunicazione e la
capacità di condensare in opere il lavoro teatrale allontana queste esperienze, dai possibili
predecessori, per i quali il rapporto con il pubblico sembrava assicurato dalla novità di un
linguaggio spettacolare della forza dirompente e spesso provocatoria. A questo è legata
un’altra differenza, ancora più profonda. La consapevolezza della propria efficacia
nasceva, alla fine degli anni ’70, da una fiducia nella rappresentazione e da una capacità
di rappresentarsi che avevano due radici:in primo luogo che nella società dello spettatore,
tutto è – e deve diventare – rappresentazione, in un processo insieme mimetico e critico;
questo legittimava e rendeva necessarie tutte le possibili contaminazioni, a cominciare da
quelle tra l’arte e la realtà. In secondo luogo, ricollegandosi alle avanguardie storiche, quei
gruppi si vivevano come la punta avanzata di un’evoluzione dell’arte e della
comunicazione; si sentivano - ed erano – in qualche modo al centro. Certo un centro
contrapposto a quello della tradizione, che tendeva a disseminarsi in altri ambiti ma per
diffondere questa consapevolezza dell’infinita rappresentabilità del reale. Oggi questa
fiducia appare in qualche modo incrinata, forse irrecuperabile. Il centro, il teatro come
luogo “classico” di auto rappresentazione collettiva, sembra dissolto o museificato. Questi
gruppi sono nati e cresciuti nei margini, negli interstizi. In un orizzonte post-ideologico le
avanguardie non hanno più senso. L’infinita rappresentabilità del reale può portare solo ad
una vertiginosa moltiplicazione di simulacri. Il principio stesso della rappresentazione, per
tutti questi motivi, ha perso di consistenza (da qui forse l’imbarazzo degli spettatori
teatralmente più avvertiti, aldilà del fascino di questi spettacoli). In parallelo, si incrina
anche, inevitabilmente, la rappresentazione dell’Io.
Il ruolo dell’attore
Diventa cosi necessario ruolo e senso dell’attore. In questi spettacoli ci sono molti corpi
esibiti, violentati, sospinti verso il pubblico. Spesso sono corpi di morti, sui quali bulicano
gli insetti della decomposizione. Nel Peep Show della Teddy Bear Company un singolo
spettatore è esposto alla visione scandalosa di un ragazzo nudo, con paramenti
cardinalizi, la flebo infilzata nel braccio, un catino con una siringa da tossico nell’altra,
finché il voyerismo non si ribalta in disagio e imbarazzo. Si esplora così uno dei caposaldi
della poetica del secolo, il proclama profetico di Rimbaud: “Io è un altro”. L’Io viene
negato, il corpo oggettivato: gli attori non sono personaggi, ne portavoce di una
soggettività che occupa vitalisticamente. Sono ombre, icone di macchine desideranti. La
consapevolezza dello scarto tra il corpo e l’immagine, tra l’Io e la sua figura, esplode con
forza poetica e sorpresa comica nell’intensa esercitazione dei Quattro lamenti dei
giovanissimi catanesi di Segnalemosso, che attingono non a caso ai testi di due poeti
come Caproni e Pessoa. Ai due poli di questa opzione anti-umanisitca, due radicali
interrogativi sottendono questo teatro “esploso”. Nei Cinque Sassi usando le liriche di
Marco Munaro, il Teatro del Lemming, si immerge nel tema della dissoluzione del soggetto
utilizzando le armi della poesia. Il dubbio più radicale sulla rappresentabilità del mondo
arriva invece dal Teatrino Clandestino. Nello spettacolo precedente Mondo (Mondo)
attraverso Pascoli interrogava la possibilità delle poesie ( e della parola) di dire il mondo e
il pensiero. Questa volta è la potenza di verità della scienza a essere messa in
discussione: quegli scienziati non saranno mai in grado di definire o spiegare la realtà,
sono insieme idealisti e maghi. Gli aforismi di Novalis evocano una sapienza dell’invisibile
e dell’apparenza ancora più necessaria. Dove può portare questa ricarica? Da un lato, può
spingere a cercare di riconquistare il centro della scena, in cui l’Io e il mondo possano in
qualche modo rispecchiarsi, ponendo nuovamente la scena teatrale al centro di quella
sociale. La generazione precedente a metà degli anni 80, scegliendo l’opzione del teatro
d’arte e di poesia ha imboccato decisamente questa strada; non a caso ha messo
profonde radici nei teatri, nel luogo deputato alla rappresentazione. E però, come nel caso
della Societas Raffaello Sanzio, costeggiando con consapevolezza sempre maggiore il
sovvertimento dei suoi meccanismi tradizionali. L’altra possibilità segue una direttrice
analoga: continuare a scavare sui motivi dell’irrappresentabilità del reale e di se stessi,
insistere nel cristallizzare in opere, fragili tappe di una deriva infinita del senso».