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© Photograph by Carol Harrison
ISSN: 2384-9266
pl.it • rassegna italiana di argomenti polacchi
JAN KARSKI
5 • 2014
pl.it
rassegna italiana di argomenti polacchi
JAN KARSKI
A cura di Luca Bernardini
5
2014
pl.it
rassegna italiana di argomenti polacchi
5 (V), 2014
pubblicazione annuale
ISSN: 2384-9266
sito internet: www.plit-aip.com/plit
e-mail segreteria: [email protected]
e-mail direzione: [email protected]
EDITORE
Associazione Italiana Polonisti
COORDINATRICE
Marina Ciccarini
COMITATO REDAZIONALE
Alessandro Amenta
Luca Bernardini
Marina Ciccarini
Krystyna Jaworska
Laura Quercioli Mincer
Giovanna Tomassucci
SEGRETERIA E GRAFICA
Alessandro Amenta
PATROCINIO E CONTRIBUTI
In copertina: fotografia di Jan Karski. Copyright: © Photograph by Carol Harrison.
Le opinioni espresse nei testi pubblicati impegnano soltanto la responsabilità dei singoli autori.
Le immagini tratte da internet sono da considerarsi di pubblico dominio; qualora la loro
pubblicazione violasse eventuali diritti d’autore si prega di comunicarlo via e-mail alla redazione.
INDICE
5
PAWEŁ STASIKOWSKI, LUCA BERNARDINI
Un anno con Jan Karski: alcune considerazioni (non) finali
11
LUCA BERNARDINI
Le lettere di Jan Kozielewski, ovvero la figura di Jan Karski
tra narrazione letteraria e documentazione storiografica
35
MARCELLO FLORES
Jan Karski e Raphael Lemkin: la coscienza del genocidio
48
KOSTANTY GEBERT
La banalità del genocidio
60
GIULIA LAMI
Storia di uno Stato segreto: un manuale della clandestinità
79
MACIEJ PODBIELKOWSKI
Lo Stato clandestino polacco
109
EWA WIERZYŃSKA
La memoria resuscitata. Il programma “Karski: una missione
incompiuta” (2010-2014)
116
GIOVANNA TOMASSUCCI
Pola Nireńska, la moglie dell’“ebreo cristiano” Jan Karski
128
MARCO RIZZO
Jan Karski, l’eroe dei fumetti
136
Inserto documentario
150
JAN KARSKI
Shoah (Sterminio)
156
MARIA KUNCEWICZOWA
Lo sconosciuto
164
Inserto iconografico
181
Gli autori di questo numero
PAWEŁ STASIKOWSKI, LUCA BERNARDINI
Un anno con Jan Karski: alcune considerazioni (non) finali
I
l 6 dicembre 2013 il Parlamento della Repubblica di Polonia ha proclamato
il 2014 “Anno di Jan Karski”, su iniziativa e impegno del Ministero degli
Affari Esteri e del Museo di Storia della Polonia di Varsavia. Il centenario
della nascita dell’emissario dello Stato segreto polacco, che è caduto il 24 aprile, è
coinciso con il culmine di un progetto quadriennale, promosso dal Museo di
Storia della Polonia e intitolato Jan Karski. Una missione incompiuta (Jan Karski.
Niedokończona Misja), inaugurato nel 2010, ossia nel decimo anniversario della
morte dell’emissario.
Il programma delle celebrazioni dell’Anno di Jan Karski, estremamente
vasto e multidisciplinare, ha visto e vede tenersi mostre e proiezioni di documentari, workshop educativi e visite di studio, conferenze e seminari, pubblicazioni di libri e articoli, in Polonia e nel mondo.
Oltre ottanta sono i progetti patrocinati dal Ministero degli Affari Esteri
polacco e organizzati dalle sue rappresentanze diplomatiche, consolari e culturali
in tutto il mondo. Di questi ben dieci in Italia.
Molto prima della proclamazione dell’Anno di Jan Karski, il 13 maggio
2013, l’Università degli Studi di Milano ha ospitato la giornata di studi Jan Karski.
Una missione per l’umanità organizzata dal Consolato Generale della Repubblica
di Polonia in Milano in collaborazione con l’ateneo milanese e il Museo di Storia
della Polonia. La giornata ha visto la partecipazione di studiosi polacchi e italiani:
Ewa Wierzyńska del Museo di Storia della Polonia e Maciej Podbielkowski del
Museo dell’Insurrezione di Varsavia, i professori Luca Bernardini, Alessandro
Costazza, Giulia Lami, Marco Modenesi, Bianca Valota dell’Università di Milano,
Carla Tonini dell’Università di Bologna, Marcello Flores dell’Università di Siena,
5
PAWEŁ STASIKOWSKI, LUCA BERNARDINI
UN ANNO CON JAN KARSKI
Anna Raffetto in rappresentanza della casa editrice Adelphi di Milano. Durante
l’evento è stata presentata in prima assoluta l’edizione italiana del libro di Jan
Karski La mia testimonianza davanti al mondo. Storia di uno Stato segreto (Adelphi,
2013), a cura e nella traduzione di Luca Bernardini, nonché la versione italiana
della mostra Jan Karski. Una missione per l’umanità a cura del Museo di Storia
della Polonia.
Un seminario dedicato a Jan Karski – Il testimone inascoltato – è stato
organizzato dall’Associazione Italia-Israele di Torino e si è tenuto il 20 novembre
2013 presso la Fondazione Camis de Fonseca, con la partecipazione di Luca
Bernardini, Elisabetta Massera, David Meghnagi dell’Università di Roma Tre,
Anna Raffetto e Ugo Volli dell’Università di Torino, nonché di rappresentanti
dell’Ambasciata di Israele a Roma e del Consolato Generale della Repubblica di
Polonia in Milano.
L’Anno di Jan Karski in Italia è stato ufficialmente inaugurato a Roma
dall’Istituto Polacco in occasione della Giornata della Memoria 2014 con il patrocinio di Roma Capitale Assessorato alla Cultura, Creatività e Promozione Artistica e con la partecipazione di Luca Bernardini, Lelio Bonaccorso, Paolo Mo6
rawski, Marco Rizzo ed Ewa Wierzyńska. Durante l’evento sono stati presentati il
programma educativo Jan Karski. Una missione incompiuta di Ewa Wierzyńska, il
libro La mia testimonianza davanti al mondo. Storia di uno Stato segreto di Jan
Karski e il fumetto Jan Karski. L’uomo che scopri l’Olocausto di Marco Rizzo e
Lelio Bonaccorso (Rizzoli Lizard, 2014); sono state proiettate interviste a Jan
Karski dagli archivi della Rai Teche e dello United States Holocaust Memorial
Museum ed è stata inaugurata la mostra Jan Karski. Una missione per l’umanità a
cura del Museo di Storia della Polonia. Con un tale progetto, l’Istituto Polacco di
Roma intende concludere le celebrazioni dell’Anno di Jan Karski in Italia, a Palermo, in occasione della Giornata della Memoria 2015.
Eventi organizzati e/o patrocinati dalle rappresentanze polacche in Italia
si sono tenuti nel corso dell’Anno di Jan Karski anche a Cesena, Genova, Maccarese, Torino e Udine.
Alla vigilia dell’anniversario del rastrellamento del ghetto di Roma, mercoledì 15 ottobre 2014, nel Giardino dei Giusti dell’Istituto di Istruzione Superiore “Leonardo da Vinci” di Maccarese-Fiumicino, il Dirigente Scolastico Maria
Antonietta Maucioni, l’Ambasciatore della Repubblica di Polonia Wojciech Po-
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nikiewski e il Sindaco di Fiumicino Esterino Montino hanno messo a dimora un
albero in ricordo di Jan Karski. L’albero di Maccarese si aggiunge a quelli già
piantati in memoria dell’emissario polacco nei Giardini dei Giusti a Padova nel
2010 e a Milano nel 2011. All’IIS “Leonardo da Vinci”, da anni impegnato nello
studio della Shoah e nella custodia della Memoria, è stata donata inoltre una copia della mostra Jan Karski. Una missione per l’umanità e, per la biblioteca, alcune
copie del libro di Jan Karski e del fumetto italiano a lui dedicato.
Nello spirito della “missione incompiuta” dell’emissario polacco e nell’impegno a mantenere viva la testimonianza e la memoria, né il Museo della Storia
della Polonia di Varsavia, né l’Istituto Polacco di Roma limiteranno i loro progetti
all’Anno di Jan Karski. In particolare, sull’esempio dell’IIS “Leonardo da Vinci”
di Maccarese, l’Istituto Polacco intende allacciare nei prossimi anni collaborazioni con le scuole superiori in Italia coinvolte nei progetti e nei viaggi della
Memoria.
Un contributo inestimabile a proseguire il nostro impegno e realizzare
futuri progetti viene dato oggi anche da questo numero della rassegna «pl.it», che
la redazione ha voluto dedicare a Jan Karski in occasione del suo centenario. I
nostri più sentiti ringraziamenti vanno inoltre al prof. Luca Bernardini dell’Università degli Studi di Milano e alla dott.ssa Ewa Wierzyńska del Museo di Storia
della Polonia di Varsavia. Senza il loro personale impegno e disponibilità l’Anno
di Jan Karski in Italia non sarebbe stato in così ricco di contenuti e non avrebbe
raggiunto un così vasto pubblico.
[Paweł Stasikowski]
È difficile cercare di riassumere in poche righe i contenuti di un anno (ma,
per ciò che mi riguarda personalmente, gli anni sono almeno quattro) di iniziative
dedicate alla figura di Jan Karski, nato Jan Kozielewski (1914-2000), Giusto tra le
Nazioni. Presentando questo numero di «pl.it», credo però che si possa anticipare
una prima conclusione: al di là di anniversari e ricorrenze, la figura dell’emissario
dello “Stato segreto” polacco è oggi – paradossalmente – più viva, vitale e attuale
di quanto non lo sia stata almeno per un lungo periodo della sua effettiva esistenza terrena. Tutti i contributi raccolti in questa pubblicazione stanno a dimo-
7
PAWEŁ STASIKOWSKI, LUCA BERNARDINI
UN ANNO CON JAN KARSKI
strare la validità di un simile assunto. Le cause di questa attualità sono legate a
una serie di date successive a quelle in cui la figura dell’emissario fu effettivamente operativa (1939-1945). In questo senso, occorre cercare di distinguere i
diversi ruoli che nel corso degli avvenimenti storici Jan Karski si è ritrovato a rivestire. Oggi abbiamo la possibilità di renderci conto che Jan Karski è stato
l’osservatore perfetto dello svolgersi del secondo conflitto mondiale. Perché da
osservatore attento, oltre che attore, Jan Kozielewski prende parte a tutte le prime
fasi del conflitto: come ufficiale di artiglieria coinvolto nella disastrosa disfatta del
settembre del 1939, prigioniero dei sovietici in una guerra mai dichiarata (e –
sappiamo oggi – scampato alle fosse di Katyń), evaso rocambolescamente dalla
prigionia tedesca. Da osservatore, oltre che da messaggero, prenderà parte alle
attività dello Stato segreto polacco, conoscendo in prima persona i meccanismi
del suo funzionamento e la ferocia dell’oppressione nazista. Da osservatore, oltre
che da emissario, arriverà nelle grandi capitali alleate, Londra e Washington, e
assisterà ai cambiamenti politici che porteranno alla perdita della sovranità da
parte della Polonia postbellica. Le vicende narrate in Story of a Secret State (1944),
le diverse biografie redatte da E. Thomas Wood, Stanisław Jankowski, Maciej
8
Kozłowski, Andrzej Żbikowski, Marian Marek Drozdowski, Marta Kijowska (per
una bibliografia sull’argomento, si veda oltre) hanno ricostruito nel dettaglio le
vicende dell’emissario, ovvero del messaggero Jan Karski, latore delle richieste
avanzate alle grandi potenze alleate tanto dallo Stato clandestino polacco quanto
dalle organizzazioni ebraiche che vi operavano all’interno. La fase di Jan Karski
messaggero conosce sicuramente il suo apogeo nel 1944, al momento della pubblicazione di Story of a Secret State, ma è anche vero che a partire dal suo definitivo stabilirsi negli Stati Uniti – nel 1945 – Jan Karski si sarebbe scientemente rifiutato di tornare su ciò che aveva visto e fatto durante la guerra, per ben più di
trent’anni. Quando nel 1978 acconsentirà, dopo un iniziale rifiuto, a farsi intervistare da Claude Lanzmann, Jan Karski smetterà le vesti del messaggero per indossare quelle del testimone. Il ruolo cruciale giocato dal futuro direttore de
Le temps modernes nell’indurre Jan Karski a rendere al mondo la sua testimonianza è stato riconosciuto in primis proprio dallo stesso autore di Story of a Secret
State, pochi anni dopo l’uscita del capolavoro di Lanzmann. Nel 1987 Maciej
Kozłowski, che lo intervistava per il «Tygodnik Powszechny», avrebbe infatti
chiesto a Jan Karski che cosa lo avesse spinto a rompere quell’autoimposto voto
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
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di silenzio. Il professore della Georgetown University non avrebbe avuto esitazioni nel rispondere: era stato Claude Lanzmann, “personalmente”, a convincerlo
che aveva un obbligo, quello di rendere pubblica la sua testimonianza. A partire
dal 1985, anno di uscita del film Shoah, anche per il vasto pubblico Jan Karski da
messaggero diviene testimone e – in quanto tale – un personaggio tragico, assillato
dall’angoscia di non aver fatto abbastanza per porre fine al più grande genocidio
nella storia dell’umanità. Non è certo da ritenersi casuale se – a partire dalla
nuova edizione francese, pubblicata nel 2004 – Story of a Secret State verrà tradotto in una molteplicità di lingue con un nuovo titolo: La mia testimonianza
davanti al mondo. Può fare conto notare come nella trattazione letteraria del
personaggio Jan Karski, a partire da questi anni, sia affiorata – lo testimoniano le
opere di Janusz Korczak, Yannick Haenel, Bruno Tessarech – la precisa volontà
di fornire una replica positiva all’asserzione di Paul Celan che “Nessuno testimonia / Per il testimone”.
Queste diverse fasi dell’esistenza di Jan Karski, messaggero, testimone,
personaggio, sono state parimenti sottoposte ad analisi nei contributi compresi in
questo numero di «pl.it». Maciej Podbielkowski e Giulia Lami infatti hanno ricostruito le vicende dello “Stato clandestino” polacco, dalla sua comparsa fino
alla liquidazione per mano delle autorità comuniste nella seconda metà degli anni
Quaranta, permettendo di contestualizzare l’operato dell’emissario, il messaggero
Jan Kozielewski nel quadro della Resistenza polacca all’invasione nazista e in un
più ampio contesto degli analoghi movimenti europei. I contributi di Marcello
Flores e Konstanty Gebert inseriscono invece la figura di Jan Karski testimone al
centro della narrazione tutta novecentesca del “genocidio”, una narrazione che
prende le mosse dalla nascita stessa del termine, coniato da Rafael Lemkin, per
approdare a una riflessione sulle modalità di realizzazione del genocidio che – da
quello degli armeni nel 1915 a quello dei Tutsi nel 1994 – prevedono l’attiva
collaborazione allo sterminio di coloro che Primo Levi ne I sommersi e i salvati ha
definito la “zona grigia” che separa le vittime dai carnefici. A Jan Karski personaggio di questa narrazione sono dedicati il saggio di Luca Bernardini, quello di
Giovanna Tomassucci, incentrato sulla tragica figura di Pola Nireńska, e il contributo di Marco Rizzo. Di straordinario rilievo documentario è poi la testimonianza di Ewa Wierzyńska riguardo alla sorprendente assenza (come messaggero,
testimone e personaggio) di Jan Karski dal dibattito pubblico polacco, ancora per
9
PAWEŁ STASIKOWSKI, LUCA BERNARDINI
UN ANNO CON JAN KARSKI
lunghi anni dopo la caduta del comunismo. Tutti i testi che pubblichiamo qui
rispecchiano con modalità diverse i contributi dei partecipanti ad alcune delle
iniziative dedicate a Jan Karski che si sono tenute in Italia nel 2013 e nel 2014. Si è
poi ritenuto opportuno integrare il momento della riflessione con materiale documentario di origine e finalità diversi, dalla prima opera fabulare in cui Jan
Karski compare come protagonista, il racconto Nieznajomy uscito nel 1943 dalla
penna di Maria Kuncewiczowa (tradotto da Alessandro Amenta) alla recensione
del film Shoah di Claude Lanzmann scritta da Jan Karski e pubblicata su «Kultura» l’anno dopo l’uscita della pellicola (tradotta da Giovanna Tomassucci),
passando per due testi di Jan Karski, di assai difficile reperimento, che riproponiamo qui nella loro forma originale: The Jewish Mass Executions, pubblicato nel
pamphlet Terror in Europe. The Fate of the Jews (s.d. [1943]), e The Polish Underground State, pubblicato su «Polish Fortnightly Review», 82, 15 dicembre
1943. A questi documenti si aggiunge un corredo iconografico, comprensivo dei
ritratti di Jan Karski scattati da Carol Harrison e delle attestazioni fotografiche di
alcuni eventi che hanno ricordato la figura dell’emissario in Italia.
[Luca Bernardini]
10
[«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», 5, 2014, pp. 5-10]
LUCA BERNARDINI
Le lettere di Jan Kozielewski, ovvero la figura di Jan Karski
tra narrazione letteraria e documentazione storiografica
P
er centinaia di migliaia di lettori prima, e per milioni di spettatori poi, Jan
Karski – o meglio Jan Kozielewski – è stato vuoi l’autore del bestseller
Story of a Secret State, vuoi uno dei testimoni più autorevoli intervistati da
Claude Lanzmann nel suo capolavoro Shoah. Non tutti però sono consapevoli del
fatto che Jan Karski non è stato solo l’emissario del governo clandestino polacco
durante la Seconda guerra mondiale, un testimone dell’Olocausto e un messaggero che avrebbe cercato di attirare l’attenzione del cosiddetto mondo civile sullo
sterminio degli ebrei dell’Europa orientale, ma anche un personaggio letterario,
tanto in vita quanto dopo la sua morte. E nella sua ipostasi di personaggio, Karski
sembra aver conservato una sua tragica caratteristica costante: la disperata volontà di essere ascoltato, compreso e creduto da uditori che non erano in grado o
non intendevano prestar fede a quello che aveva da dire.
Nel marzo del 1943, la rivista polacca dell’emigrazione «Nowa Polska»
pubblicava un racconto di Maria Kuncewiczowa intitolato Nieznajomy (Lo sconosciuto), che aveva come protagonista un ignoto emissario del governo clandestino polacco, giunto a Londra per spiegare ai compatrioti in esilio la situazione
politica della Polonia occupata. È interessante notare come Kuncewiczowa segnalasse una qualità fondamentale per un appartenente al movimento di Resistenza: la capacità di non dare nell’occhio, di dissimularsi sullo sfondo: “Era
giovane, alto, scuro, era vestito talmente bene che l’abito e la cravatta passavano
inosservati. Né colore né il taglio si discostavano dalla buona impressione generale”1. In realtà, la scrittrice sottolineava anche qualcosa che nella vita di Jan
1
“Był młody, wysoki, ciemny, miał na sobie ubranie i krawat tak dobre, że niezauważalne. Ani
11
LUCA BERNARDINI
LE LETTERE DI JAN KOZIELEWSKI
Karski avrebbe costituito una costante: l’incommensurabile distanza esistenziale
che separava lui – vittima e testimone diretto degli orrori della guerra – da chi il
conflitto lo osservava da lontano. Una distanza che si rifletteva sul piano linguistico, quasi che non esistessero le parole per trasporre una realtà ancora priva di
denominazione nel lessico di convenzioni artistiche ormai tragicamente inattuali.
Kuncewiczowa notava come, nelle modalità della narrazione di Karski, la retorica
fosse stata sostituita da una logica “mostruosa per il mondo libero”, ma del tutto
naturale per un mondo vinto e asservito.
A qualcuno è parso che Arthur Koestler potrebbe essersi ispirato alla figura di Jan Karski per il protagonista del romanzo Arrival and Departure, pubblicato a Londra nel 1943, incentrato sulle vicende di un profugo proveniente da
un paese dell’Europa centrale e intenzionato a raggiungere la Gran Bretagna per
prendere parte alla lotta contro l’invasore nazista. Se è vero che Peter Slavek
giunge a Neutralia da un paese che in una qualche misura potrebbe essere la
Polonia, ed è stato testimone di un’esecuzione di massa di deportati ebrei che
presenta qualche esile attinenza con i racconti di Jan Karski, è anche vero che le
analogie tra i due personaggi finiscono qui2: Slavek è solo un profugo, non certo
12
l’emissario del governo clandestino del suo paese, e sappiamo che prima della
guerra faceva parte del Partito Comunista, un dettaglio inconciliabile con la
biografia dell’autore di The Great Powers and Poland.
Nel 1943 Arthur Koestler, i cui familiari erano già stati uccisi nei campi di
sterminio nazisti, aveva acconsentito a leggere alla BBC un testo attribuito a Jan
Karski, la cui vera voce, per ovvi motivi di sicurezza, non poteva essere trasmessa
per radio. Il testo della trasmissione, che riassumeva una conversazione tra
l’emissario del governo polacco e lo scrittore di origini ungheresi, avrebbe costituito il contributo di Jan Karski a Terror in Europe, una raccolta di scritti
koloru, ani kroju tych rzeczy nie można było wyodrębnić z ogólnego dobrego wrażenia”. MARIA
KUNCEWICZOWA, Nieznajomy, in «Nowa Polska», fasc. 3, marzo 1943, Londyn, poi in W oczach
pisarzy. Wybór opowieści wojennych, a cura di Gustaw Herling-Grudziński, Instytut Literacki,
Rzym 1947, p. 166. Trad. it. di Alessandro Amenta. La traduzione integrale del testo di Kuncewiczowa è pubblicata in questo stesso numero di «pl.it» alle pp. 156-163.
2
E. Thomas Wood e Stanislaw M. Stankowski hanno definito Peter Slavek “based closely on
Karski”. In realtà, nemmeno le modalità di esecuzione degli ebrei nel romanzo di Koestler corrispondono a quelle della peraltro discussa testimonianza di Jan Karski, dal momento che gli ebrei
vengono sterminati a colpi di mitragliatrice e non stipandoli in vagoni col fondo cosparso di calce
viva. Cfr. E. THOMAS WOOD, STANISŁAW M. JANKOWSKI, Karski. How one man tried to stop the
Holocaust, John Wiley & Sons, Inc., New York-Chichester-Brisbane-Toronto-Singapore 1994, p.
179.
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pubblicata a Londra nel 1943 dal National Committee for the Rescue from Nazi
Terror, dove – accanto ai nomi di Aleksej Tolstoj e Thomas Mann – figurava un
anonimo “Polish Underground Worker”. Karski vi descriveva l’esperienza fatta
in quello che credeva essere il campo di Bełżec, e che soltanto molto tempo dopo
la guerra si sarebbe scoperto essere il Durchgangslager di Izbica Lubelska. Il testo
porta i segni di quella disarmante sincerità che contraddistingue l’approccio di
Karski alle questioni della guerra e del genocidio del popolo ebraico. Karski infatti riconosceva di non sapere quasi nulla a proposito degli ebrei, ma di aver
scoperto che le loro sofferenze erano infinitamente maggiori rispetto a quelle dei
polacchi, dal momento che, se nei confronti dei suoi connazionali i tedeschi
avevano adottato una politica di assoggettamento e oppressione, nei confronti
degli ebrei avevano elaborato un piano sistematico di sterminio: era la prima volta
nella storia, scriveva Karski, che si intendeva far sparire dalla faccia della terra
un’intera nazione, e non solo una sua componente, per numerosa che fosse.
Karski spiegava di essersi sentito moralmente obbligato a indagare i dettagli dello
sterminio:
In the course of my investigation I succeeded in witnessing a mass-execution in the camp
of Belzec. With the help of our underground organisation, I gained access to that camp in
the disguise of a Latvian special policeman. I was, in fact, one of the executioners. I believe that my course of action was justified. I had no means of preventing the event, but
by becoming a witness, I was able to carry a first-hand account to the civilised world3.
È difficile determinare con certezza se il Karski protagonista della trasmissione radiofonica di Arthur Koestler e anonimo autore del testo The Jewish
Mass Executions, pubblicato in Terror in Europe, sia da considerarsi come un
autore o un personaggio. Lo storico polacco Stanisław M. Jankowski ha trovato
una lettera inviata ad Arthur Koestler, dove Karski prendeva le distanze
dall’asserzione “I was in fact one of the executioners”: se l’emissario aveva visitato
quel campo di concentramento, lo aveva fatto in quanto gli era stato esplicitamente richiesto dai rappresentanti delle organizzazioni ebraiche che operavano
nella clandestinità. Sembra cioè che Karski rimproverasse allo scrittore di origini
3
[JAN KARSKI], The Jewish Mass Executions. Account by an Eye-Witness, in ALEXEI TOLSTOY, A
POLISH UNDERGROUND WORKER, THOMAS MANN, Terror in Europe. The Fate of the Polish Jews,
National Committee for Rescue from Nazi Terror, London s.d. [1943], pp. 9-10. Il testo integrale
del contributo di Karski è pubblicato in questo stesso numero di «pl.it» alle pp. 137-141.
13
LUCA BERNARDINI
LE LETTERE DI JAN KOZIELEWSKI
ungheresi di averlo presentato come un osservatore casuale, poco consapevole,
che in una qualche misura poteva persino essersi fatto coinvolgere nelle atrocità a
cui aveva assistito4. D’altra parte, Karski era conscio del fatto che il racconto dei
crimini nazisti era destinato a un’opinione pubblica molto più incredula che indignata. E sembra di scorgere la sua ombra quando, in un suo articolo sul «The
New York Times Magazine»5, Arthur Koestler scriveva di corrieri che rischiavano la vita per portare fuori dalla Polonia documenti sul genocidio degli ebrei,
alla cui veridicità però non credevano nove americani su dieci6.
A Londra, non più come anonimo “Polish Underground Worker”, ma
come autore a pieno titolo, Karski pubblica nel numero della «Polish Fortnightly
Review» uscito il 15 dicembre 1943 il primo articolo in cui viene impiegato il
termine “Polish Underground State”7. Il testo di fatto avrebbe costituito l’impianto per il successivo volume dal titolo pressoché identico. L’assunto del numero della rivista era quello di sottolineare l’eccezionalità del movimento di Resistenza civile e militare dell’unico paese europeo che non avesse prodotto fenomeni di collaborazionismo, che non avesse visto la nascita di un Quisling. In
questo senso, il progetto iniziale di Jan Karski era stato quello di trovare i finan14
ziamenti necessari per produrre un grande film sul movimento di Resistenza polacco, di cui aveva anche già scritto la sceneggiatura8. Karski trovava singolare che
– tra i paesi dell’Europa occupata dai nazisti – l’unico dotato di un’amministrazione e un esercito clandestini, l’unico che avesse adottato una linea ostilmente
inflessibile nei confronti dei tedeschi fosse stato totalmente ignorato dall’industria cinematografica americana. Dopo il suo arrivo a New York, il 27 febbraio
4
STANISŁAW M. JANKOWSKI, Karski. Raporty tajnego emisariusza, Dom wydawniczy Rebis,
Poznań 2009, pp. 411-415.
5
Cfr. ARTHUR KOESTLER, On Disbelieving Atrocities in IDEM, The Yogi and the Commissar and
other essays, Macmillan, New York 1945, p. 91. Il saggio era comparso originariamente sul «The
New York Times Magazine» nel gennaio del 1944.
6
“At present we have the mania of trying to tell you about the killing, by hot steam, mass electrocution and live burial of the total Jewish population of Europe. So far three million have died.
It is the greatest mass-killing in recorded history; and it goes on daily, hourly, as regularly as the
ticking of your watch”. IVI, pp. 88-89.
7
JAN KARSKI, The Polish Underground State, in «Polish Fortnightly Review», 82, 15.12.1943. Il
testo integrale dell’articolo di Karski è pubblicato in questo numero di «pl.it» alle pp. 142-149.
Vedi anche CELINE GERVAIS-FRANCELLE, Introduction, in JAN KARSKI, Mon témoignage devant le
monde. Histoire d’un État clandestin, traduction anonyme de l’anglais (États-Unis) révisée et complétée, pour la présente édition, par Céline Gervais-Francelle, Robert Laffont, Paris 2010, p. XIV.
8
Cfr. WALDEMAR PIASECKI, Jak czytać “Tajne Państwo. Opowieść o polskim podziemiu”, in JAN
KARSKI, Tajne Państwo. Opowieść o polskim podziemiu, a cura di Waldemar Piasecki, Twój Styl,
Warszawa 1999, p. 12.
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1944, l’emissario poté rendersi conto che i produttori cinematografici statunitensi
non avevano alcun interesse in un film sul “Polish Secret State”, sia a causa del
deterioramento dei rapporti sovietico-polacchi sia per la possibilità che gli eventi
bellici e politici rendessero scarsamente attuale il soggetto. D’altra parte, il principale ostacolo per la realizzazione di un simile film si era rivelata essere la mancanza di un libro di successo su cui incentrare la sceneggiatura 9 . Fu quindi
Władysław Besterman, addetto stampa dell’ambasciatore polacco a Washington
Jan Ciechanowski, a mettere in contatto Jan Karski con Emery Reeves, che rappresentava sul mercato editoriale americano autori come Winston Churchill e
Anthony Eden. Reeves comprese immediatamente che dall’emissario – una persona già conosciuta negli Stati Uniti – avrebbe potuto ricavare un’opera diversa,
un autentico resoconto di guerra 10 . In realtà, una volta finito, il libro avrà
un’appartenenza di genere che possiamo definire “ibrida” a causa delle circostanze che avevano concorso alla sua nascita11. Per molti aspetti, si trattava di un
resoconto fedele del funzionamento delle istituzioni dello Stato clandestino polacco, come stanno a testimoniare i titoli di alcuni dei capitoli che lo compongono
(XI: The Underground State; XVII: Propaganda from the Country; XIX: The Four
Branches of the Underground; XXIII: The Secret Press). Le notizie che vi si ritrovano sono quelle presenti in articoli come The Polish Underground State, comparso sulla «Polish Fortnightly Review». C’è poi nel libro quella parte che – come
ha scritto Jean-Louis Panné in Jan Karski. Le “roman” et l’histoire – “si legge come
un romanzo d’avventura”12, ovvero le vicende dello stesso Karski, la sua attività di
emissario del governo clandestino polacco, il suo arresto a opera della Gestapo in
Slovacchia nel giugno del 1940, le torture subite per mano degli aguzzini nazisti,
la sua rocambolesca evasione dall’ospedale di Nowy Sącz, la sua permanenza in
clandestinità fino all’ottobre del 1942, quando giungerà in Gran Bretagna13. Sotto
9
STANISŁAW M. JANKOWSKI, Karski. Raporty, cit., p. 390.
Nel suo Raport o książce inviato dagli Stati Uniti al governo in esilio a Londra il 15 gennaio
1945, Jan Karski scriveva che secondo gli accordi intervenuti con l’agente letterario e l’editore,
il libro avrebbe dovuto essere una “eye-witness story”, scevra da accenni propagandistici e incentrata esclusivamente sul racconto delle esperienze dell’autore. Cfr. JAN KARSKI, Raport o
książce “Story of a Secret State” [dattiloscritto], 1945, <tinyurl.com/m8ab7wc> [consultato il
2.11.2014].
11
JAN KARSKI, Story of a Secret State, Houghton Mifflin Company, Boston 1944.
12
“[...] se lit comme un roman d’aventures”. Cfr. JEAN-LOUIS PANNE, Jan Karski, le “roman” et
l’historie, Pascal Galodé éditeurs, Saint-Malo 2010, p. 13.
13
In generale, i toponimi che compaiono in Story of a Secret State sono corretti, ma nell’edizione
americana del 1944 – per ovvi motivi di sicurezza – al posto di Nowy Sącz troviamo Krynica.
10
15
LUCA BERNARDINI
LE LETTERE DI JAN KOZIELEWSKI
questo aspetto, il materiale con cui Karski avrebbe costruito il libro era un misto
di finzione e autobiografia, incentrato su avvenimenti reali, riferiti però senza
quei dati che avrebbero permesso di contestualizzarli con precisione. Nel caso
delle persone, Karski si attenne a criteri diversi. A volte i personaggi furono indicati con nome e cognome, dacché si trattava di persone morte o fuori dal raggio
di azione della Gestapo. In altri casi, Karski avrebbe invece impiegato un criptonimo. Alcuni personaggi sarebbero stati abbozzati nel modo più approssimativo possibile, così da renderne impossibile il riconoscimento. Certe figure del
libro presentano gli attributi di più individui reali14. Infine, compaiono nel libro
alcuni personaggi inventati, come la famiglia berlinese degli “Strauch”, molto
probabilmente mai esistita, ma ospitata sulle pagine di Story of a Secret State per
mostrare al lettore come la pensassero i tedeschi15. Reeves infatti avrebbe insistito
con Karski affinché nel libro comparissero nomi e cognomi, così da affascinare il
lettore con la veridicità dei ricordi, pur senza tradire persone reali 16. Karski ebbe
l’impressione che l’agente letterario tendesse a esagerare l’importanza del ruolo
da lui stesso svolto nelle vicende narrate nel libro, così da mettere in evidenza le
parti più romanzesche del testo, a discapito degli aspetti ideologici e politici 17:
16
d’altra parte, si sarebbe anche lamentato di non riuscire talvolta a convincere
Reeves dell’autenticità delle informazioni fornite. Jankowski e Wood hanno
scritto che l’intenzione del libro era di promuovere l’immagine della Polonia negli
Stati Uniti. L’editore e l’agente letterario erano stati mossi principalmente dal
desiderio di vendere il testo, così nessuno si era preoccupato troppo della fedeltà
Un’altra eccezione è costituita da Pérpignan, che nella prima redazione del testo risultava essere
Pau.
14
Ha scritto giustamente Stanisław M. Jankowski che nelle pagine del libro si incontrano spesso
“personaggi di invenzione che riuniscono in sé le caratteristiche di una o più persone e che fanno
affermazioni o esprimono giudizi quali si sarebbero potuti o dovuti pronunciare in determinate
circostanze belliche o sotto un’occupazione straniera” (“fikcyjni bohaterowie, osoby łączące
cechy jednej lub kilku osób, wypowiadające zdania lub opinie, jakie w tamtych – okupacyjnych i
wojennych warunkach – mogli i powinni wygłosić”). Cfr. STANISŁAW M. JANKOWSKI, Karski.
Raporty, cit., p. 11. [Ove non diversamente indicato, le traduzioni in italiano sono mie, L.B.].
15
IVI, p. 470.
16
IVI, p. 466. Scrivono Jankowski e Wood che “[Reeves] wanted the story of Karski’s adventures,
not some dry treatise on the organization of the underground movement [...]”. Cfr. E. THOMAS
WOOD, STANISŁAW M. JANKOWSKI, op. cit., p. 225.
17
Nel suo Raport o książce Karski scriveva che una delle maggiori difficoltà incontrate scrivendo e
promuovendo il libro erano stati “i tentativi da parte degli americani di enfatizzare il mio ruolo e il
mio significato, di sottolineare la parte sensazionalistica e non quella ideologico-politica” (“usiłowania ze strony Amerykanów, wyolbrzymienia mej roli i znaczenia, oraz podkreślanie sensacyjnej strony tematu, a nie ideowo-politycznej”). Cfr. JAN KARKI, Raport o książce, cit., p. 3.
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
5 / 2014
al dettaglio storico18. L’editore Edward O. Houghton, della Houghton Mifflin
Company, convinto che il pubblico dei lettori americani fosse interessato a un
certo tipo di trama, chiese a Karski di inserire nel libro qualche notizia relativa
alla sua vita sentimentale, affinché non potesse essere accusato di voler nascondere “qualcosa”, magari il fatto che non gli piacessero le donne 19. Nonostante
Karski avesse cercato di spiegare come – in quattro anni trascorsi al fronte, prigioniero dei sovietici e dei tedeschi o in clandestinità – non avesse semplicemente
avuto il tempo per impegnarsi in relazioni amorose, Reeves riuscì comunque a
inserire nel testo qualche allusione a un possibile flirt dell’autore con Danuta
Sławik, una giovane appartenente al movimento clandestino. Nella redazione
definitiva del libro venne aggiunto al cap. XVII, Propaganda from the Country, un
lungo passaggio narrativo che doveva suggerire al lettore una presunta gelosia di
Karski, suscitata dalla natura non chiara dei rapporti tra Lucjan Sławik (“Sawa”) e
quella che si scoprirà essere sua sorella Danuta20.
Esito più rilevante ebbe – per la storia del libro – un altro tipo di “interferenze” operate dall’editore e dall’agente letterario. Reeves e Houghton, infatti,
avevano chiesto a Karski di dare maggior rilievo alla questione dello sterminio
degli ebrei, nella convinzione che ciò avrebbe aumentato l’interesse dell’opinione
pubblica statunitense. Karski si rifiutò di aggiungere al testo una parte relativa
all’insurrezione scoppiata nel ghetto di Varsavia quando lui si trovava ormai da
mesi fuori del paese, dal momento che gli sembrava incongruente con quella che
avrebbe dovuto essere una eye-witness story21. Può darsi comunque che in una
qualche misura abbia seguito i consigli dei due, mettendo in bocca al leader sionista incontrato prima della partenza per Londra l’annuncio di una futura azione
18
“Karski’s primary motivation in the book project was bolstering Poland’s image in the United
States. His agent and publisher were driven by the desire to sell books. It may well be that neither
side had any particular commitment to historical accuracy and neither intended the book to be a
comprehensive document of Karski’s wartime experiences. Neither, apparently, foresaw the
scholars decades later would rely on Story of a Secret State [...] for important source material on
the history of the Final Solution and other wartime topics, unaware of its gaps or ‘adaptations’”.
Cfr. E. THOMAS WOOD, STANISŁAW M. JANKOWSKI, op. cit., p. 229.
19
IVI, p. 224.
20
Un’analisi delle bozze di stampa del libro, recanti ancora il titolo Courier from Poland, mi ha
permesso di stabilire come tutto il brano dalle parole “In a short time I tiptoed down the stairs out
into the garden”, a p. 206, fino a “It’s kind of you to ask”, a p. 207, non figurasse nella prima
redazione del testo. L’intreccio amoroso, surrettiziamente introdotto nella trama del libro, è stato
ulteriormente sviluppato da Marco Rizzo e Lelio Buonaccorso nella graphic novel Jan Karski.
L’uomo che scoprì l’Olocausto (vedi oltre).
21
STANISŁAW M. JANKOWSKI, Karski. Raporty, cit., p. 463.
17
LUCA BERNARDINI
LE LETTERE DI JAN KOZIELEWSKI
di difesa del ghetto, quando – per quanto ne sappiamo oggi – nessuno nell’estate
del 1942 poteva averla prevista22. Paradossalmente, a rimanere fuori dal libro –
forse anche per motivi politici – è stato il ruolo svolto da Jan Karski nel farsi latore
presso il comandante dell’Armia Krajowa, gen. Stefan “Grot” Rowecki, di una
richiesta di armi da parte dei suoi interlocutori ebrei23.
Non è facile riuscire a stabilire con precisione che cosa nei capitoli XXIX
(The Ghetto) e XXX (To die in Agony...) possa essere effettivamente utilizzato ai
fini della documentazione storica. Stanisław M. Jankowski ha affermato di non
essere riuscito a trovare una conferma di uno dei passi più drammatici del cap.
XXIX, la battuta di “caccia all’ebreo” compiuta all’interno del ghetto da due
membri della Hitlerjugend, dal momento che – scrive – “memorie e resoconti non
riportano che i ragazzi della Hitlerjugend venissero fatti entrare nel ghetto”24.
Eppure Karski avrebbe confermato a più riprese di aver assistito a un simile
episodio, non solo in Shoah di Lanzmann, ma anche nel corso di una conversazione avuta con lo stesso Jankowski25. A buona ragione Jankowski e Woods sottolineano come nel 1944 né gli editori, né l’autore del libro potessero prevedere le
conseguenze di alcuni degli “adattamenti” editoriali del testo sulle future ricerche
18
storiche26.
22
“In the final text of the book, the Bund and Zionist leaders in Warsaw tell Karski of plans for
the Ghetto uprising. Karski may well have added this detail, which does not conform to what later
became know of the origins of the revolt, in response to Houghton Mifflin’s suggestions”. E.
THOMAS WOOD, STANISŁAW M. JANKOWSKI, op. cit., p. 228.
23
STANISŁAW M. JANKOWSKI, Karski. Raporty, cit., pp. 212-214.
24
“Non sono mai riuscito a trovare una conferma di simili fatti. Nelle memorie e nei resoconti
non compare l’informazione che i ragazzi della Hitlerjugend venissero fatti entrare nei ghetti, ma
Karski in una conversazione con l’autore [St.M. Jankowski] tenutasi nel dicembre del 1987 confermò recisamente di aver assistito a quella scena, che gli era rimasta per sempre scolpita nella
memoria” (“Nie udało mi się nigdy znaleźć potwierdzenia podobnych faktów. Pamiętniki i relacje
nie podają, aby do getta wpuszczano chłopców z Hitlerjugend, ale Karski w rozmowie z autorem
w grudniu 1987 roku potwierdził stanowczo, że był świadkiem opisanej w książce sceny i na
zawsze została ona w jego pamięci”). Cfr. IVI, nota 11, p. 579.
25
La stessa informazione si ritrova – tra l’altro – in un’intervista rilasciata a Maciej Kozłowski e
pubblicata sul «Tygodnik Powszechny» nel 1987. Cfr. [JAN KARSKI, MACIEJ KOZŁOWSKI],
Niespełniona misja. Z profesorem Janem Karskim, kurierem Polskiego podziemia w latach II wojny
światowej rozmawia Maciej Kozłowski, in «Tygodnik Powszechny», 11 (41), 1987, pp. 5-6.
26
Uno degli adattamenti editoriali fu l’aggiunta del post scriptum, dove si menzionavano le attività
in territorio polacco delle organizzazioni della Resistenza al servizio di Mosca, finalizzato a difendere il libro da possibili accuse di parzialità. Karski accettò controvoglia la richiesta di Reeves e
Houghton, ma sottopose il progetto di post scriptum fornitogli dai due al giudizio dell’ambasciatore Jan Ciechanowski, che vi apportò le modifiche necessarie a far sì che nulla nel testo contraddicesse le posizioni ufficiali del governo polacco in esilio. Cfr. JAN KARSKI, Raport o książce,
cit., p. 4. Jankowski ha scritto che Karski, dopo aver redatto il post scriptum, avrebbe portato il
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In taluni casi, le imprecisioni documentarie contenute nel testo sono dovute a ragioni relative all’orizzonte visivo del testimone, oppure a motivi di carattere politico. È purtroppo celebre, negli ambienti del revisionismo storico,
l’affermazione di Raul Hilberg riguardante l’autore di Story of a Secret State: “I
would not put him in a footnote in my books”27. Hilberg contestava a Karski una
serie di inesattezze che sembravano inficiare qualunque valore documentario
delle informazioni relative alla sua visita al campo di sterminio di Bełżec: a Bełżec
infatti – notava lo studioso – non c’erano guardie estoni, i prigionieri non erano
ebrei di Varsavia e dal campo non partivano convogli carichi di deportati28. Ora, a
onor del vero, se in Terror in Europe Karski aveva scritto “I succeeded in witnessing a mass-execution in the camp of Belzec”29, in Story of a Secret State aveva
accennato a un campo “located near the town of Belzec”30 e sarebbe stato soltanto negli anni successivi alla guerra che Yitzhak Arad, direttore dello Yad
Vashem di Gerusalemme, e Józef Marszałek dell’Università Maria Skłodowska
Curie di Lublino, avrebbero dimostrato come con ogni probabilità il campo visitato da Karski fosse quello di transito posto su un’altura sovrastante la cittadina
di Izbica Lubelska – circa quarantacinque chilometri a ovest di Bełżec31. Se in
Story of a Secret State i guardiani del campo figuravano come “estoni”, invece che
come ucraini, questo era accaduto senza nessuna responsabilità dell’autore, ma
per una precisa richiesta del governo polacco in esilio a Londra, che non intendeva
esacerbare i rapporti con gli ucraini tanto nell’ottica delle relazioni interetniche
dattiloscritto alla Cooperation Publishing Co. di Emery Reeves, nel Rockfeller Plaza. In realtà,
l’esame delle bozze tipografiche dimostra che Karski avrebbe aggiunto il post scriptum dopo che il
dattiloscritto era stato composto per la stampa. Da notare che le bozze di stampa riportano ancora
il titolo Courier from Poland. The Story of a Secret State 1939-1944 con le date 1939-1944
cancellate. Cfr. STANISŁAW M. JANKOWSKI, Karski. Raporty, cit., pp. 471-472.
27
In Recording the Holocaust, intervista rilasciata a Ernie Meyer, in «The Jerusalem Post», International Edition, 1338, 28.06.1986, p. 9.
28
“The description of the Warsaw Ghettos convincing enough, but there were no Estonian
guards at Belzec. Warsaw Jews were not sent to the camp; and no train filled with people left from
there”. Ibidem.
29
[JAN KARSKI], The Jewish Mass Executions, cit., p. 9.
30
IDEM, Story of a Secret State, cit., p. 339.
31
WALDEMAR PIASECKI, Jak czytać, cit., p. 14. È interessante notare quello che Jan Karski affermava nell’intervista pubblicata sul «Tygodnik Powszechny»: “All’epoca pensavo che Bełżec
fosse un campo di transito” (“Wówczas myślałem, że Bełżec był obozem przejściowym”), confermando involontariamente che il campo visitato non poteva essere quello di Bełżec, bensì, con
ogni probabilità, il ghetto di transito di Izbica Lubelska. Nell’intervista, Karski dichiarava di aver
assistito alla partenza di un trasporto destinato a Sobibór, dal momento che la gassazione effettuata a Bełżec col monossido di carbonio emesso da motori diesel non stava dando i risultati
sperati. Cfr. [JAN KARSKI, MACIEJ KOZŁOWSKI], op. cit., p. 5.
19
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LE LETTERE DI JAN KOZIELEWSKI
quanto nella speranza di riuscire a mantenere possesso della città di Leopoli32.
Se il libro fu da subito un successo clamoroso, sicuramente lo dovette
anche al suo intrinseco valore artistico: come notava Karski, Reeves e il suo editor
William Poster ritenevano che il testo fin dall’inizio avesse dimostrato una certa
freschezza, che fosse stato scritto “non senza talento letterario”33. Il “Book of the
Month Club” lo proclamò libro del mese nel gennaio del 194534. La tiratura raggiunse l’incredibile cifra di 360.000 copie. Vi fu forse una sola voce discordante,
all’epoca, quella dello scrittore hard boiled Dashiell Hammett, fervente stalinista,
che nelle sue lettere definiva il libro “idiota e privo di un qualsiasi interesse”,
“disonesto nel farci credere che il governo polacco in esilio abbia a che fare col
movimento progressista in Polonia” dal momento che in tutto il testo non faceva
la sua comparsa un solo lavoratore35. Gli accordi di Jalta e la fine della guerra, con
la mutata situazione politica, finirono però con il togliere di attualità al suo impianto politico, così che a partire dal 1948 – data della traduzione francese – il
testo finì progressivamente con l’essere dimenticato. Jan Karski verrà letteralmente “resuscitato” nel 1977 da Claude Lanzmann durante la preparazione di
Shoah: nelle sue memorie, il regista francese ha infatti scritto di aver ritenuto che
20
l’emissario fosse morto, e di essere riuscito a rintracciarlo soltanto dopo notevoli
traversie36. Nel 1981, Elie Wiesel inviterà Karski alla prima conferenza internazionale dei Liberatori tenutasi in ottobre a Washington. L’anno successivo, lo
Yad Vashem lo invita a Gerusalemme per insignirlo della medaglia di Giusto tra
32
Cfr. WALDEMAR PIASECKI, Jak czytać, cit., p. 15. Occorre però osservare come ancora nel 1987
nell’intervista rilasciata a Maciej Kozłowski del «Tygodnik Powszechny», Jan Karski ribadisse
tutte le informazioni contenute in Story of a Secret State, parlando di “campo di sterminio di
Bełżec” e di guardiani “estoni”. Cfr. [JAN KARSKI, MACIEJ KOZŁOWSKI], op. cit., p. 5.
33
E. THOMAS WOOD, STANISŁAW M. JANKOWSKI, op. cit., p. 226.
34
Karski scriveva nel suo rapporto che la prima correzione di bozze aveva avuto luogo agli inizi di
settembre e il libro sarebbe dovuto andare in libreria il 17 ottobre. Il “Book of the Month Club”
aveva fatto un’eccezione, permettendo a Story of a Secret State di essere pubblicato prima della sua
proclamazione a “libro del mese”. L’emissario dal canto suo era riuscito a ottenere dall’editore un
rinvio della pubblicazione fino al 28 novembre. Zofia Kossak aveva dovuto aspettare ben tre mesi
prima che Blessed are the Meek, traduzione di Bez oręża, andasse in stampa, nonostante il testo
fosse già pronto, a causa delle esigenze del “Book of the Month Club”. Cfr. JAN KARSKI, Raport o
książce, cit., p. 5.
35
Scriveva Dashiell Hammett a Lillian Hellman il 25 febbraio 1945: “I also read somebody’s Story
of a Secret State, a foolish and empty attempt to make believe the Polish Government in Exile had
something to do with a legitimate underground movement in Poland. An amazing book in that
nobody even faintly resembling a workers has anything to do – except perhaps by accident – with
the resistance movement”. Cfr. Selected Letters of Dashiell Hammett. 1921-1960, a cura di Richard
Layman, Julie M. Rivett, Counterpoint, Washington 2001, pp. 407-408.
36
CLAUDE LANZMANN, La lièvre de Patagonie, Gallimard, Paris 2009, pp. 707-708.
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le nazioni. Quando nel 1985 uscirà il capolavoro di Lanzmann, Shoah, inizierà la
“seconda fase della missione di Karski”: questa volta l’autore di Story of a Secret
State avrà il compito di ricordare l’indifferenza degli Alleati di fronte al consumarsi del genocidio37. Dovendo effettuare una scelta del materiale girato, Lanzmann introduce nel suo film i quaranta minuti che ritiene più significativi da un
punto di vista artistico, quelli che faranno dire a David Denby che il racconto di
Karski regge il confronto con i passi più tormentati e cruciali delle tragedie di
Shakespeare38. Di fatto, però, il materiale utilizzato da Lanzmann non riguardava
specificamente il ruolo di “messaggero” svolto da Karski presso le potenze occidentali, bensì quello di “testimone” delle persecuzioni degli ebrei 39. Sarà proprio Karski nel 1986 a segnalare, nella sua recensione a Shoah comparsa sulla
parigina «Kultura» come, per ragioni di tempo e di coerenza stilistica, Lanzmann
non avesse inserito nel film la parte più importante, a suo avviso, dell’intervista:
quella relativa alla missione effettuata presso gli Alleati occidentali alla fine del
194240. A questo proposito, occorre sottolineare come il giudizio di Jan Karski a
proposito di Shoah sia comunque sempre stato un giudizio estremamente positivo. Nell’intervista rilasciata a Maciej Kozłowski, non solo l’emissario affermava
che Shoah era “un gran film”, ma anche che la maggior parte della stampa polacca
non ne aveva compreso l’intento: “È un film sui meccanismi dello sterminio degli
ebrei. Solo ed esclusivamente. [...] Lanzmann ha fatto un film sui meccanismi
dello sterminio, non sul rapporto tra i polacchi o qualcun altro e gli ebrei, o su ciò
37
Cfr. ANDRZEJ ŻBIKOWSKI, Jan Karski, Świat Książki, Warszawa 2011, p. 358.
DAVID DENBY, Out of Darkness, in Claude Lanzmann’s Shoah. Key Essays, a cura di Stuart
Liebmann, Oxford 2007, p. 74. Annette Becker ha sottolineato il ruolo cruciale svolto da Shoah di
Lanzmann nel far divenire Jan Karski un “personaggio”: “Á travers ces differénts temps, ces
différents films d’entretiens tournés de 1978 à aujourd’hui, on voit peu à peu advenir un
personnage, Jan Karski”. I film a cui la storica si riferisce sono Shoah e il successivo Le rapport
Karski di Lanzmann. [Il corsivo è mio, L.B.]. Cfr. ANNETTE BECKER, Devenir Karski: l’usage des
interviews filmées, in La Shoah. Théâtre et cinéma aux limites de la représentation, a cura di Alain
Klenberger, Philippe Mesnard, Editions Kimé, [s.l.] 2013, p. 265.
39
Cfr. JAN KARSKI, Shoah (Zagłada), in «Kultura», fasc. 11 (458), novembre 1986, p. 123. La
traduzione integrale della recensione di Karski è pubblicata in questo stesso numero di «pl.it» alle
pp. 150-155.
40
IVI, pp. 121-124. Troviamo nella recensione comparsa su «Kultura» un’annotazione di Karski
che non figura né in Shoah né nel Rapport Karski (2010), ma che ritengo particolarmente significativa: “I leader delle nazioni, i governi più potenti o hanno deciso lo sterminio, o hanno preso
parte allo sterminio o hanno assistito indifferenti allo sterminio. Sono stati singoli individui,
persone normali, migliaia di persone a solidarizzare con gli ebrei e portargli aiuto” (“Przywódcy
narodów, potężne rządy, albo decydowały o tej zagładzie, albo w tej zagładzie brały udział, albo
wobec tej zagłady zachowały obojętność. Ludzie, zwykli ludzie, tysiący ludzie współczuło z
Żydami lub szło im z pomocą”, p. 124).
38
21
LUCA BERNARDINI
LE LETTERE DI JAN KOZIELEWSKI
che venne fatto per salvarli”41. Lo stesso Lanzmann gli aveva detto di essere interessato a tre sole categorie di interlocutori: gli ebrei sopravvissuti al genocidio, i
tedeschi che lo avevano realizzato e coloro che vi avevano assistito. E in quella
veste Karski aveva preso parte, con altri polacchi, a un film che avrebbe influito
sulla consapevolezza di milioni di persone42. È evidente che Shoah di Lanzmann
ha in qualche modo conferito una nuova dignità documentaria alla testimonianza
di Jan Karski. Con ogni probabilità, è proprio dopo aver visto il film che Raul
Hilberg ha ospitato l’intero racconto riportato in Story of a Secret State all’interno
di Perpetrators, Victims, Bystanders. The Jewish Catastrophe 1933-1945, nel capitolo dedicato ai Testimoni43. Non si può escludere che siano stati il carattere
tragico e l’indubbia sincerità dell’esposizione di Karski ad aver convinto Hilberg
dell’attendibilità storiografica delle informazioni da lui a più riprese trasmesse.
Non è facile capire quindi che cosa intenderà dire, qualche anno più tardi, Yannick Haenel – autore di un celebre romanzo sulla figura dell’emissario – allorché
in un’intervista su «Libération» affermava che “Hilberg elimina scientificamente
la testimonianza di Karski”44. Peraltro, all’interno del dibattito storiografico, la
posizione di Karski come testimone attendibile dell’Olocausto si era venuta raf22
forzando ben prima dell’uscita di Shoah. Raccogliendo i materiali necessari per
The Terrible Secret, lo storico Walter Laqueur aveva condotto una lunga intervista con l’emissario, non dubitando mai della veridicità del suo racconto 45. Oggi,
41
“Jest to film o mechanizmie zagłady Żydów. Tylko i wyłącznie. [...] Lanzmann robił film o
mechanizmie zagłady, nie o stosunku Polaków czy innych do Żydów, ani o akcji pomocy Żydów”.
Cfr. [JAN KARSKI, MACIEJ KOZŁOWSKI], op. cit., p. 6.
42
È degno di nota come già nel 1987 Karski prevenisse le polemiche di stampo nazionalista che
Shoah avrebbe destato nella Polonia socialista prima e in quella democratica poi. I polacchi che
comparivano nel film, sottolineava Karski, erano in prevalenza contadini abitanti nei dintorni dei
campi di sterminio. Se si erano comportati come Lanzmann aveva mostrato nel film, la colpa non
era certo del regista, che non sapeva il polacco e non avrebbe certo potuto suggerire loro che cosa
dire. Cfr. [JAN KARSKI, MACIEJ KOZŁOWSKI], op. cit., p. 6.
43
A testimoniare l’influenza esercitata dal capolavoro di Lanzmann sul libro di Hilberg è – più
che una singola citazione a pag. 176 – l’epigrafe apposta al capitolo dedicato ai Bystanders: “He
says, it’s this way: if I cut my finger, it doesn’t hurt him”. – A translator explaining an answer given
to Claude Lanzmann by Czesław Borowi [sic!], a Pole who lived ner the death camp Treblinka”,
RAUL HILBERG, Perpetrators, Victims, Bystanders. The Jewish Catastrophe 1933-1945, Harper
Collins Publishers, New York 1992, p. 192.
44
“Hilberg élimine scientifiquement le témoignage de Karski”. Cfr. ERIC LORET, Karski le porteur de parole. Interview: Yannick Haenel relit son best-seller à la lumière des critiques, in «Libération», 22.10.2009, <tinyurl.com/psmnv5x> [consultato il 03.02.2014].
45
Alla missione di Jan Karski Laqueur dedica gran parte della quinta appendice al libro. In una
nota a p. 232 troviamo: “I am grateful to Professor Jan Karski for having patiently submitted to
detailed questioning (Washington, 3 September 1979)”. Cfr. WALTER LAQUEUR, The Terrible
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
5 / 2014
dopo Shoah di Lanzmann, comprendiamo che il merito principale di Laqueur è
quello di aver dimostrato che non solo Karski era un testimone attendibile ma
anche e soprattutto il messaggero di una verità scomoda, volutamente ignorata
dai governi delle potenze alleate: dal momento che il genocidio degli ebrei perpetrato dai tedeschi aveva motivazioni politiche, non militari, solo prendendo la
decisione politica di far pagare alla popolazione tedesca il prezzo del suo appoggio al regime nazista sarebbe stato possibile mettervi fine. L’aver subordinato la
volontà di fermare l’Olocausto alle esigenze militari del conflitto non aveva significato altro che permettere ai tedeschi di portarlo a termine. Conclusioni simili, ma esplicitate in modo più chiaro che in Story of a Secret State, Karski le
avrebbe esposte nella intervista pubblicata sul «Tygodnik Powszechny» nel 1987:
“Lord Selbourne [...] mi disse in tutta sincerità che non sarebbe stato possibile
dare seguito alle richieste degli ebrei polacchi, dal momento che il primo obiettivo
degli Alleati era quello di vincere la guerra, così che tutto ciò che non avesse avuto
significato da un punto di vista militare andava trattato come una ‘side issue’, una
questione marginale”46. In assenza di una traduzione polacca del testo di Story of a
Secret State47, Karski nel suo paese d’origine torna a essere, esattamente come nel
23
Secret. An Investigation into the Suppression of Information about Hitler’s ‘Final Solution’,
Weidenfeld and Nicolson, London 1980, pp. 229-237.
46
“[...] Lord Selbourne [...] powiedział mi bardzo szczerze, że postulaty Żydów polskich są
niemożliwe do spełnienia, gdyż głównym celem sprzymierzonych jest wygranie wojny i wszystko,
co nie ma znaczenia militarnego musi być uważany jako ‘side issue’, czyli sprawa poboczna”. Cfr.
[JAN KARSKI, MACIEJ KOZŁOWSKI], op. cit., p. 5.
47
Nell’intervista concessa nel 1990 a Justyna Duriasz per «Rzeczpospolita» troviamo: “Non
vorrebbe che il libro venisse pubblicato in polacco? – No, non mi interessa, perché si tratta di mie
vicende personali. E Le posso assicurare che tra tutte le centinaia di persone che ho incontrato,
quella che mi interessa meno è Jan Karski. Per di più, nel frattempo sono usciti così tanti libri sullo
Stato segreto polacco che le notizie da me trasmesse e che nel 1944 potevano essere una rivelazione su scala mondiale, oggi non introducono elementi di novità nel dibattito storiografico. (“Nie
chciałby Pan, żeby ta książka została przetłumaczona na polski? – To mnie nie interesuje, osnową
jej to są moje osobiste losy. A zapewniam Panią, że z setek ludzi, których poznałem, człowiekiem,
który mnie najmniej interesuje jest Jan Karski. Poza tym tyle książek ukazało się po polsku na
temat państwa podziemnego, że wiadomości, które podaję i które w 1944 były międzynarodową
sens-rewelacją, obecnie w [sic!] punktu widzenia historycznego nie wniosą nic nowego”). [JAN
KARSKI, JUSTYNA DURIASZ], Własna racja stanu. Rozmowa z profesorem Januszem [sic!] Karskim,
rozmawiała Justyna Duriasz, in «Rzeczpospolita», 16.04.1990, p. 6. Già nel 1945, Karski aveva
affermato che “il mio libro non è stato scritto per i polacchi, bensì per gli stranieri che non conoscono la Polonia e le difficoltà in cui si dibatte. Per questo è un libro consapevolmente ingenuo,
tendente alla semplificazione, sicuramente non sovraccarico di date e fatti, un libro da tenere sul
comodino, non un manuale. [...] Voglio sottolinearlo con forza: il mio libro non è stato scritto per
i polacchi” (“Książka moja jest pisana nie dla Polaków, a dla cudzoziemców, nie znających Polski i
jej kłopotów. Dlatego bardzo często jest świadomie naiwna, prostacka, nie przeciążona datami i
faktami, kameralna, a nie podręcznikowa. [...] Podkreślam bardzo silnie, że książka moja nie jest dla
LUCA BERNARDINI
LE LETTERE DI JAN KOZIELEWSKI
1943, un personaggio letterario48. Nel 1992 esce infatti Misja ostatniej nadziei
(successivamente ripubblicato come Karski) di Jerzy Korczak49, un romanzo che
di fatto costituisce una sorta di parafrasi del testo del libro, correggendone le
inesattezze storiche e approfondendo quegli aspetti che nell’edizione del 1944
erano stati trascurati per ragioni politiche, come la spinosa questione dei rifornimenti di armi da parte dell’Armia Krajowa alle organizzazioni della Resistenza
ebraica, le forti tensioni all’interno del governo in esilio dopo la morte del
premier Władysław Sikorski avvenuta in un disastro areo nel luglio del 1943 o le
attività al soldo di Mosca della Resistenza comunista50. Nell’introduzione alla
prima edizione, Korczak riconosceva come “la figura di Jan Karski, il celebrato
emissario dello Stato polacco clandestino, sia stata per me motivo di grande fascinazione tanto letteraria quanto storica”51. L’interesse di Korczak per gli aspetti
24
Polaków”). Durante la guerra, una richiesta da parte della cooperativa editoriale Rój di pubblicare il
libro in polacco aveva trovato la netta opposizione di Karski, la cui decisione era stata pienamente
condivisa da Stanisław Kot, ministro dell’Informazione, e dall’ambasciatore Jan Ciechanowski. Cfr.
[JAN KARSKI, JUSTYNA DURIASZ], op. cit., p. 6; JAN KARSKI, Raport o książce, cit., p. 3.
48
In realtà Jan Karski figura – non sorprendentemente – tra i ricordi di Antoni Słonimski raccolti
nelle pagine di Alfabet wspomnień. Lo scrittore ricostruiva il suo incontro londinese con
l’emissario – “riservato, serio, con la figura di uno di quei patrioti di Grottger” durante una
conferenza organizzata dal ministro dell’Informazione del governo in esilio. Słonimski era rimasto
colpito dall’insistenza con cui Karski aveva richiesto che le emittenti radio non si limitassero a
trasmettere notizie di guerra, ma anche poesie dall’effetto mobilitante “come quella il cui autore si
trova tra noi”. L’allusione era alla celebre Alarm di Słonimski. Cfr. ANTONI SŁONIMSKI, Alfabet
wspomnień, PIW, Warszawa 1975, pp. 95-96.
49
JERZY KORCZAK, Misja ostatniej nadziej, Oficyna wydawnicza Volumen, Warszawa 1992, poi
Karski, Oficyna wydawnicza Rytm, Warszawa 2001, e Karski. Opowieść biograficzna, Veda,
Warszawa 2010. Si può qui ricordare come la prima biografia di Jan Karski sia stata pubblicata a
New York, in polacco, da Stanisław M. Jankowski proprio l’anno prima dell’uscita del romanzo di
Korczak: cfr. STANISŁAW M. JANKOWSKI, Emisariusz “Witold”, Bicentennial Publishing
Corporation, New York 1991.
50
Sembra che le convinzioni di Yannick Haenel a proposito del presunto “silenzio” degli storici
sul contributo apportato da Karski alla storiografia sullo sterminio degli ebrei abbiano trovato eco
in Polonia, del momento che nell’introduzione alla nuova edizione di Karski. Opowieść biograficzna nel 2010 Jerzy Korczak scriveva che “le gesta di Karski per anni sono state passate sotto
silenzio da storici e scrittori” [N.B.: questo inciso manca nell’introduzione alla prima e alla seconda edizione del libro]. Come si è precedentemente dimostrato, una simile affermazione non ha
alcun fondamento, tanto per quanto riguarda gli storici, quanto per ciò che concerne gli scrittori.
Né contribuisce in modo fattivo al dibattito su Jan Karski un’altra discutibilissima annotazione,
quella che vorrebbe aver Lanzmann ospitato nel suo film Shoah “appena una mezz’ora” delle
conversazioni – durate alcune ore – avute con Jan Karski (“[d]okonania Karskiego przez lata nie
były dostrzegane przez historyków i pisarzy”; “z wielogodzinnych rozmów z Karskim [...] Claude
Lanzmann [...] to tylko niespełna pół godziny wybrał do swojego głośnego filmu dokumentalnego
pt. Shoah”). JERZY KORCZAK, Od autora, in IDEM, Karski. Opowieść, cit., p. 7.
51
“[P]ostać Karskiego, legendarnego emisariusza Polski Podziemnej, była dla mnie od dawna
literacką i historyczną fascynacją”. IVI, p. 6.
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
5 / 2014
letterari della vicenda di Karski è stato talmente forte da spingerlo a segnalare
come Józef Hieronim Retinger, consigliere del generale Sikorski e mentore di
Karski nel suo soggiorno londinese, avesse iniziato a scrivere una piéce teatrale
sulla rivoluzione messicana insieme a Joseph Conrad, di cui era buon amico52.
La ripubblicazione di Mon témoignage devant le monde. Histoire d’un État
secret, la traduzione francese del libro di Karski uscita nel 1948, e integrata nel
2004 con i materiali comparsi nella traduzione polacca del 1999 53, sembra essere
stata lo spunto per la stesura di Jan Karski (Gallimard, Paris 2009), dove Yannick
Haenel ha riunito, in una discussa operazione, il testo dell’intervista comparsa in
Shoah di Lanzmann, un riassunto di Story of a Secret State e un terzo capitolo
(fortemente indebitato con Karski. How one man tried to stop the Holocaust di
Wood e Jankowski) incentrato su una sua personale, fantasiosa e fortemente
polemica ricostruzione dell’incontro dell’emissario con F.D. Roosevelt. Sicuramente una delle immagini più forti del libro è quella del presidente degli Stati
Uniti che accoglie Karski dopo aver mangiato, mentre sta digerendo – oltre alla
cena – anche lo sterminio degli ebrei di Europa di cui si sarebbe reso complice
52
IVI, pp. 129-130. Della piéce, scritta in francese e la cui trama era ambientata in Messico al
tempo della rivoluzione condotta da un dittatore assai simile al generale Victoriano Huerta, Józef
Hieronim Retinger ha lasciato una descrizione nel capitolo At Random di Conrad and His Contemporaries, Roy Publishers, New York 1943, pp. 140-145. Józef Hieronim Retinger si era addottorato in legge a Cracovia e in scienze umane alla Sorbona. Autore di una Histoire de la litérature française du romantisme à nos jours (Paris 1911) e di un trattato su The Poles and Prussia
(London 1911) Retinger aveva conosciuto Joseph Conrad grazie ad Arnold Bennet, di cui era
amico. Fu sua madre che invitò Conrad a visitare la Polonia nel 1914. Cfr. anche Conrad’s Polish
background: letters to and from Polish friends, a cura di Zdzisław Najder, Oxford University Press,
London 1964, pp. 261-262.
53
Per una disamina degli interventi operati da Jan Karski sul testo di Tajne Państwo, la prima
traduzione polacca di Story of a Secret State, si rimanda a LUCA BERNARDINI, Messaggero, testimone, personaggio: l’uomo che cercò di fermare la Shoah, in JAN KARSKI, La mia testimonianza
davanti al mondo. Storia di uno stato segreto, a cura di Luca Bernardini, Adelphi, Milano 2013, pp.
508-511. Qui si può segnalare come i cambiamenti maggiori abbiano riguardato il trentesimo
capitolo, Ostatni etap, dove Karski ricostruiva la sua visita al ghetto di transito in funzione a Izbica
Lubelska. Nel 1999, infatti, non solo erano venuti meno i condizionamenti politici che durante la
guerra lo avevano costretto a dichiarare come estone o lettone la nazionalità dei guardiani del
campo, ma la ricerca storiografica aveva ormai stabilito che quel campo non poteva essere Bełżec.
Nella traduzione polacca pertanto non si specifica da quale ghetto giungessero nel campo i deportati, né si sostiene che venissero sterminati in vagoni ferroviari il cui pavimento era stato cosparso di calce viva, anche se Karski conferma che a causa di un simile procedimento, per il
progressivo consumarsi dell’ossigeno e le esalazioni di cloro, “erano molti i ‘viaggiatori’ a morire
durante il trasporto. E proprio questo era lo scopo dei convogli” (“transportu tego nie przeżywało
wielu ‘podróżnych’. A o to przecież chodziło”). Cfr. JAN KARSKI, Tajne Państwo. Opowieść, cit.,
p. 261. Una nuova traduzione polacca è stata pubblicata quest’anno dalla casa editrice Znak: JAN
KARSKI, Tajne Państwo, trad. di Grzegorz Siwek, Znak, Kraków 2014.
25
LUCA BERNARDINI
LE LETTERE DI JAN KOZIELEWSKI
per inanità: “Credo che digerisse; pensavo: Franklin Delano Roosevelt è un uomo
che digerisce... sta già digerendo lo sterminio degli ebrei d’Europa”54. Molto più
che a Karski, con molta probabilità Haenel è debitore di questa immagine ad
Arthur Koestler e al suo articolo On Disbelieving Atrocities. Indignato dalla
spaventosa indifferenza dell’opinione pubblica occidentale nei riguardi delle notizie sullo sterminio degli ebrei, l’autore di Buio a mezzogiorno aveva osservato
come la vista di un cane investito da un’automobile ci rovinasse la digestione, non
così invece la notizia della morte di tre milioni di ebrei polacchi55.
Haenel ha avuto la capacità di creare il personaggio di Jan Karski come
una figura tragica, cogliendone la caratteristica di messaggero divenuto esso
stesso messaggio. Non stupisce quindi che il suo testo abbia ricevuto un adattamento teatrale a opera di Arthur Nauzyciel, Jan Karski (Mon nom est une fiction),
messo in scena al Festival di Avignone, nel luglio del 2011, in collaborazione con
il noto artista polacco Mirosław Bałka. Un altro merito dell’autore di Jan Karski è
stato quello di spingere Claude Lanzmann a produrre Le rapport Karski (Francia
2010), montando ulteriori quaranta minuti dell’intervista, incentrati sui colloqui
dell’emissario con Franklin D. Roosevelt e il giudice Felix Frankfurter56. Proprio
26
grazie al nuovo film di Lanzmann il grande pubblico sarebbe venuto a conoscenza del fatto che Frankfurter non era “stato in grado” di credere a ciò che
Karski gli aveva appena detto al riguardo del genocidio degli ebrei 57. Il regista
francese avrebbe in questo modo permesso al mondo di comprendere come Jan
Karski non fosse stato un semplice testimone della Shoah, ma anche una delle
54
“Je croit qu’il digérait; je me disais: Franklin Delano Roosevelt est un homme qui digère – il est
déjà en train de digérer l’extermination des Juifs d’Europe”. Cfr. YANNICK HAENEL, Jan Karski.
Roman, Gallimard, Paris 2009, p. 125 (Il testimone inascoltato, trad. it. di Francesco Bruno,
Guanda, Parma 2009, p. 145).
55
“A dog run over by a car upsets or emotional balance and digestion; three million Jews killed in
Poland cause but a moderate uneasiness”. ARTHUR KOESTLER, On Disbelieving Atrocities, cit., p. 91.
56
Jan Karski, nella sua recensione di Shoah, aveva sottolineato come la parte dell’intervista relativa ai colloqui avuti con Antony Eden e il presidente F.D. Roosevelt dimostrasse che non era stata
l’umanità intera ad abbandonare gli ebrei al proprio destino (come avrebbe di fatto sostenuto nel
suo film Claude Lanzmann), bensì i governi delle potenze occidentali, le uniche che avevano i
mezzi per andare loro in aiuto. Avendo il regista francese scelto di attenersi rigidamente alla
propria linea interpretativa, nel film mancava “la parte più importante della mia missione a favore
degli ebrei”. Cfr. JAN KARSKI, Shoah, cit., pp. 123-124.
57
Già nel 1968, Derek Tangye, agente del MI 5 che aveva conosciuto Karski a Londra durante la
guerra, constatava come nel maggio 1943 l’emissario “[...] knew that the hardest part of his assignment was in the present. He had to convince people like me that he was speaking the truth”.
Cfr. DEREK TANGYE, The Way to Minack, Michael Joseph Ltd., London 1968 (edizione
consultata: Sphere Books, London 1981), p. 148.
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
5 / 2014
poche persone ad aver fatto concretamente qualcosa per cercare di porre fine allo
sterminio degli ebrei. Può essere interessante notare come in determinate circostanze sia stato lo stesso Karski a sfatare, magari solo in parte e preventivamente,
il mito del “testimone inascoltato”. Nell’intervista pubblicata su «Tygodnik
Powszechny» nel 1987, a una domanda di Maciej Kozłowski se fosse vero che la
missione americana non aveva prodotto alcun risultato concreto, il professore di
Georgetown rispondeva di aver letto a suo tempo una dichiarazione di John
Pehle, dove il primo direttore dell’American Refugee Board affermava che era
stata proprio la missione di Karski ad aver convinto il presidente F.D. Roosevelt,
uscito profondamente scosso dall’incontro con l’emissario, della necessità di dare
immediatamente vita a un’organizzazione per l’aiuto ai rifugiati. L’American
Refugee Board, d’altra parte, aveva iniziato le sue attività soltanto nel febbraio del
1944, quando – ad avviso di Pehle – oramai era troppo tardi58.
Il “messaggero Karski” è uno dei protagonisti del romanzo di Bruno
Tessarech Les sentinelles59, incentrato su coloro che sapevano del genocidio degli
ebrei e che a vario titolo durante il secondo conflitto mondiale hanno o non
hanno cercato di fare qualcosa per fermarlo, essendone in taluni casi persino
responsabili (come nel caso di Adolf Eichmann e – in una qualche misura – di
Werner Von Braun)60. Forse un po’ paradossalmente per un romanziere, Tessa58
Cfr. [JAN KARSKI, MACIEJ KOZŁOWSKI], op. cit., p. 6. D’altra parte, è anche vero che successivamente Karski si sarebbe chiesto se ciò che Pehle aveva affermato alla conferenza dei Liberatori
tenutasi a Washington nel 1981 non fosse stato una specie di atto di cortesia nei suoi confronti, dal
momento che in Shoah il direttore del War Refugee Board non aveva fatto menzione di Jan Karski,
né pertanto accennato a un possibile esito concreto dell’incontro del 28 luglio 1943. Fatta salva la
possibilità che una simile informazione non sia stata montata nel film per le ragioni di cui sopra,
verrebbe da chiedersi se la diversa posizione assunta da Karski a questo proposito non dipendesse
solo dallo specifico momento storico e politico, ma anche dalla nazionalità dell’interlocutore: nel
1987 negare di essere stato un “testimone inascoltato” su un periodico polacco aveva un significato ben diverso che ammettere questa eventualità con un interlocutore statunitense otto anni più
tardi. Si veda l’intervista rilasciata da Jan Karski a Elizabeth S. Rotschild (non ad Hannah Rosen,
personaggio fittizio e mai esistito, come riporta erroneamente Jean-Louis Panné), che si trova sul
sito web dedicato allo “Hannah Rosen Diary”: <www.remember.org/educate/hrintrvu.html>
[consultato il 15.11.2014]. Cfr. anche JEAN-LOUIS PANNE, op. cit., p. 21.
59
BRUNO TESSARECH, Les sentinelles, Grasset, Paris 2009.
60
Uno dei protagonisti del libro di Tessarech è l’Obersturmführer delle SS Kurt Gerstein, che il
19 agosto 1942 aveva consegnato un carico di Ziklon B a Bełżec e Treblinka, assistendo di persona
a una gassazione. Incontrato casualmente un diplomatico svedese, il barone Göran von Otter,
Gerstein gli aveva raccontato nel dettaglio ciò di cui era stato testimone, ma l’ambasciata svedese a
Berlino non avrebbe trasmesso agli Alleati l’informazione ottenuta che a guerra finita. Le vicende
di Gerstein, che aveva cercato di riferire le notizie in suo possesso al vescovo protestante Otto
Dibelius e al nunzio papale Cesare Orsenigo, erano già note negli anni Sessanta e sono state ricostruite da Hilberg nel suo Perpetrators, Victims, Bystanders. Può essere interessante notare come
27
LUCA BERNARDINI
LE LETTERE DI JAN KOZIELEWSKI
rech accorda molto rilievo alla questione dell’attendibilità del dato fattografico
trasmesso da Karski61: fa infatti ammettere allo stesso emissario che, per quanto
concerneva le modalità della soppressione degli ebrei a Bełżec, “la mia testimonianza non coincideva con quella di altri”62. In effetti, il particolare della esecuzione ottenuta stipando i deportati in vagoni dal pavimento ricoperto di calce viva
non trova altri riscontri nella letteratura sull’argomento, ma il dato fondamentale
rimaneva pur sempre ciò che aveva visto il testimone: “treni carichi di esseri
umani in partenza per la morte”. “Tutto questo non lo avevo sognato”, protesta
disperato il Karski di Tessarech: “quali che fossero i mezzi dello sterminio, il loro
orrore oltrepassava [infatti] i confini dell’immaginazione di essere umani civilizzati”63. Tessarech prende le distanze dall’assunto di un Roosevelt complice dello
sterminio degli ebrei operato dai nazisti, per la passività con cui vi avrebbe assistito. Lo scrittore ricorda come fosse stato proprio il presidente americano a farsi
promotore della dichiarazione ufficiale dei tredici governi alleati con cui il 17
dicembre del 1943 per la prima volta si condannavano ufficialmente le deportazioni e lo sterminio degli ebrei d’Europa. Nella visione di Tessarech, la Shoah
assume le dimensioni di una tragedia che forse avrebbe potuto essere prevenuta,
28
magari a partire dalla conferenza di Evian sui rifugiati del 1938, ma non più
fermata durante il conflitto, quando Hitler aveva rivelato di essere “il male assoluto, dal momento che il suo potere è tale da impedirci di agire contro di lui”64.
Un male che si nasconde in ognuno di noi: il Roosevelt di Tessarech muore
Jan Karski nell’intervista pubblicata sul «Tygodnik Powszechny» menzionasse la testimonianza di
Kurt Gerstein, mettendola in relazione con la visita che riteneva di aver effettuato a Bełżec. Karski
peraltro sosteneva che il rapporto, senza che venisse fatto il nome di Gerstein, fosse giunto a
Londra alla fine del 1943 e fosse stato letto dalle autorità polacche. Cfr. RAUL HILBERG, Perpetrators, cit., pp. 218-221; [JAN KARSKI, MACIEJ KOZŁOWSKI], op. cit., p. 5.
61
Si può arrischiare l’ipotesi che Tessarech non solo abbia basato l’impianto narrativo del suo
romanzo su Perpetrators, Victims, Bystanders ma anche che – per ciò che concerne lo specifico
trattamento del testimone Jan Karski – abbia ricostruito in modo mimetico l’intero itinerario
ermeneutico di Hilberg, dallo scetticismo iniziale alla piena fiducia finale.
62
Nel caso in cui al concetto di “testimonianza per il testimone” si voglia conferire la valenza di
volontà di una corretta ricostruzione storica, Tessarech sembra affrontare in modo assai più deciso e convincente, anche se sicuramente più problematico, l’interrogativo celaniano posto da
Yannick Haenel in esergo al suo libro: “Chi testimonia per il testimone?”.
63
“Et cela, je ne l’avais pas rêvé. [...] Quels que soient les moyens utilisés, leur horreur dépassait
l’imagination d’êtres humains civilisés”. Cfr. BRUNO TESSARECH, Les sentinelles, cit., p. 219.
64
“[...] le mal absolut, puisque son pouvoir est tel qu’il nous empêche d’agir contre lui”. Cfr. IVI,
p. 296. Perché, spiega Roosevelt nelle pagine del romanzo, l’orizzonte in cui si muovevano i governi alleati era quello della politica, non quello della morale (“[n]ous restons dans la politique.
Pas dans la morale”, IVI, p. 294).
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
5 / 2014
pensando a ciò che sarebbe potuto accadere negli Stati Uniti se il presidente del
Jew Deal, odiato da tanta parte di un’opinione pubblica isolazionista e antisemita,
avesse impegnato la macchina bellica statunitense per il salvataggio degli ebrei
d’Europa e non per la sconfitta del regime hitleriano e del Giappone imperialista.
Nel complesso, Tessarech sembra essere molto più consapevole dell’enorme
ammirazione nutrita da Karski per la figura del presidente degli Stati Uniti e – in
questo – molto più vicino alla verità storica, e alla reale psicologia del personaggio, di quanto non lo sia stato Haenel. Anche se non si può non concordare con
Annette Becker, quando sostiene che il quadro tratteggiato da Haenel nel suo
romanzo è “certes imprécis sous l’angle du déroulement factuel de l’historie, mais
très efficace du point de vue d’une vision de la réalité de l’histoire”, rimane motivo di perplessità il fatto che l’avversione nei confronti di FDR esibita dal personaggio haeneliano diverga in modo così radicale dalla venerazione provata dal
Karski “reale”, anche a distanza di tempo. Se il Roosevelt di Haenel scandalizza
Karski perché, durante il loro colloquio, ogni tanto si volta a guardare le gambe di
una peraltro esclusivamente romanzesca segretaria (“De temps en temps, il se
tournait vers la femme au chemisier blanc, il ne se gênait pas pour regarder les
jambes”65), quello storico aveva fatto all’emissario l’impressione di essere “un
grande uomo di Stato [...] il padrone del mondo. Non vi ravvisai alcun segno di
debolezza o malattia. Soltanto grandezza, maestà. Rimasi talmente colpito da
quella conversazione che, dopo essermi congedato, presi a indietreggiare verso la
porta. A causa di quel gesto l’ambasciatore Ciechanowski mi avrebbe preso in
giro ancora per anni. Appena usciti mi disse: ‘È il presidente, non è mica un re.
Qui c’è la democrazia’”66. In precedenza, Karski aveva spiegato le origini psicologiche di un simile atteggiamento: “Il fatto è che persone come Roosevelt o
Churchill, che in ogni caso non ho mai incontrato, persone che tenevano letteralmente in pugno le future sorti del mondo, a me – giovane soldato – non potevano che sembrare semidei”67.
65
YANNICK HAENEL, Jan Karski, cit., p. 125: “[...] lanciava una rapida occhiata in direzione della
donna dalla camicetta bianca, ne approfittava per guardarle le gambe [...]”. (Trad. it., p. 109).
66
“Roosevelt zrobił na mnie wrażenie wielkiego męża stanu, widziałem w nim pana świata. Nie
dostrzegłem w nim żadnych oznak choroby ani słabości. Sama wielkość, majestat. Byłem do tego
stopnia przejęty tą rozmową, że po pożegnaniu, do drzwi szedłem tyłem. Z czego potem wiel lat
śmiał się ambasador Ciechanowski, który po moim wyjściu powiedzial: ‘To nie król, to prezydent.
Tu jest demokracja’”. Cfr. [JAN KARSKI, JUSTYNA DURIASZ], op. cit., p. 6.
67
“Przecież tacy ludzie jak Roosevelt czy Churchill, którego zresztą nie spotkałem, ludzie
29
LUCA BERNARDINI
LE LETTERE DI JAN KOZIELEWSKI
I giudizi su Roosevelt di Haenel e Tessarech non potrebbero pertanto
essere più divergenti, ma a unire i due romanzi è la convinzione che il testimone e
messaggero Jan Karski faccia appello alla nostra coscienza tutti i giorni, da settant’anni. Il protagonista del libro di Tessarech, Patrice Orvieto, dopo la morte di
Jan Karski, avvenuta il 13 luglio del 2000, ritrova le lettere scritte dall’emissario ai
governanti del mondo affinché aprissero gli occhi sul genocidio degli ebrei:
Aveva scritto a Churchill, Roosevelt, de Gaulle, Stalin, e ancora ad altri, Eden, Wise,
Frankfurter, a tutti coloro che aveva cercato di convincere, a Londra o a Washington. Ma
ben presto l’emozione di Patrice dovette cedere il passo allo stupore. Jan aveva continuato a scrivere ai governanti anche dopo la loro morte, accumulando testimonianze,
prove, ponendo interrogativi sul loro silenzio. Scoprì anche una lunga lettera a Szmul
Zygielbojm, il rappresentante del Bund, scritta per farsi perdonare. Era datata un mese
dopo che Zygielbojm si era suicidato. Le ultime che aveva spedito a Roosevelt e a
Churchill risalivano al 20 giugno del 2000 68.
E Karski continua davvero a inviare le sue lettere, non solo ai potenti della
terra, ma a tutti noi69. Lo stanno a dimostrare le continue riedizioni della sua Story
30
of a Secret State, quella Penguin – la prima – del 201170, quella tedesca, Mein Bericht an die Welt, uscita per i tipi della Antje Kunstmann Verlag, München 2011,
le traduzioni castigliana e catalana pubblicate a Barcellona nello stesso anno71,
quella russa Ja svidetel'stvuju pered mirom. Istoria podpol'nogo gosudarstva uscita a
Mosca per Astrel’ nel 201272, la traduzione giapponese Watakushi-wa Horokōdosłownie trzymający w ręku przyszłe losy świata, wydawać się musieli mnie, młodemu
żołnierzowi, niemal półbogami”. Cfr. [JAN KARSKI, MACIEJ KOZLOWSKI], op. cit., p. 6.
68
“Il avait ainsi écrit à Churchill, à Roosevelt, à de Gaulle, à Staline, à des autres encore, Eden
Wise, Frankfurter, à tous ceux qu’il avait tenté de convaincre, à Londres ou à Washington. Mai
bientôt l’émotion de Patrice laissa place à la stupeur. Jan avait continué à écrire aux gouvernants
après leur mort, accumulant les témoignages, les preuves, les questions sur leur silence. Il découvrit ainsi une longue lettre écrite à Samuel Zygielbojm, l’agent juif du Bund, afin de se faire
pardonner. Elle datait du mois suivant son suicide. Le dernières qu’il avait envoyées à Roosevelt et
à Churchill remontaient au 20 juin 2000”. BRUNO TESSARECH, Les sentinelles, cit., p. 373.
69
Vere e proprie “lettere” postume, di grande interesse documentario, sono le conversazioni tra
Karski e Maciej Wierzyński, registrate per la radio Voice of America dal 1995 al 1997 e pubblicate
nel 2012. Cfr. JAN KARSKI, MACIEJ WIERZYŃSKI, Emisariusz własnymi słowami, PWN, Warszawa
2012.
70
JAN KARSKI, Story of a Secret State. My Report to the World, with an Afterword by Andrew
Roberts, Penguin Classics, London 2011.
71
Historia de un estado clandestino, tradución de Cristina Luengo, Acantilado, Barcelona 2011;
Història de un estat clandestì, traducció de Carles Miró, Quaderns Crema, Barcelona 2011.
72
Ja svidetel'stvuju pered mirom. Istoria podpol'nogo gosudarstva, perevod z francuskogo Natali
Mavlevič, Astrel’, Moskva 2012.
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
5 / 2014
suto-o mita: mokusatsu sareta seiki-no shōgen senkyūhyakusanjūkyū yonjūsan uscita a Tokio nel 2012, quella italiana del 201373, la nuova traduzione polacca
pubblicata quest’anno insieme a una nuova edizione americana74. E lo testimoniano le numerose biografie dell’emissario, da quella pionieristica di Wood e
Jankowski – uscita nel 1994 ma ripubblicata, rivista e ampliata, quest’anno75 – a
quella di Maciej Kozłowski76, da quelle già citate, estremamente documentate,
di Jankowski agli ultimi progetti comparsi in polacco, usciti dalla penna di Marian M. Drodzowski e dalla grafica di Maciej Sadowski77, o in tedesco, a opera di
Marta Kijowska78. Una di queste lettere l’abbiamo ricevuta in Italia per la giornata
della Memoria del 2014, ed è stata una lettera a fumetti. Jan Karski. L’uomo che
scoprì l’Olocausto, curato da Marco Rizzo per i testi e Lelio Bonaccorso per i disegni, ha avuto un grande successo editoriale ed è stato da poco pubblicato anche
in Polonia79. La cosa non deve stupire se, come spiega Marco Rizzo, la vicenda di
Karski ha tutti gli ingredienti per un buon fumetto: c’è il tema dell’avventura, del
viaggio, della scoperta di sé e del mondo, una tragedia collettiva che diviene
dramma personale. Pur contrassegnata da alcuni difetti di natura storiografica 80,
73
La mia testimonianza davanti al mondo, cit.
74
Tajne Państwo, trad. di GRZEGORZ SIWEK, cit.; JAN KARSKI, Story of a Secret State. My Report to
the World, foreword by Madelein Albright, Georgetown University Press, Washington DC, 2014.
Le nuove edizioni del libro riprendono il testo del 1944, integrandolo con la traduzione dei materiali aggiunti da Karski all’edizione polacca del 1999, in modo non dissimile da quanto è stato
fatto per l’edizione italiana.
75
E. THOMAS WOOD, STANISŁAW M. JANKOWSKI, Karski. How one man tried to stop the Holocaust, revised edition, with an Introduction by Michael Berenbaum, Texas Tech University
Press-Gihon River Press, Lubbock, Texas-East Stroudsburg, PA 2014.
76
MACIEJ KOZŁOWSKI, The Emissary. Story of Jan Karski, trad. Joanna Maria Kwiatkowska,
Oficyna wydawnicza Rytm, Warszawa 2007.
77
MARIAN MAREK DROZDOWSKI, Jan Karski Kozielewski. 1914-2000, Natolin European Center,
Natolin 2014; MACIEJ SADOWSKI, Jan Karski. Photobiography. Fotobiografia, Veda, Warszawa 2014.
78
MARTA KIJOWSKA, Das Leben des Jan Karski. Kurier der Erinnerung, C.H. Beck, München 2014.
79
MARCO RIZZO, LELIO BONACCORSO, Jan Karski. L’uomo che scoprì l’Olocausto, Rizzoli Lizard,
Milano 2014. Un contributo di Marco Rizzo sulla genesi del fumetto è pubblicato in questo stesso
numero di «pl.it» alle pp. 128-135.
80
Ammessi peraltro dall’autore della sceneggiatura, Marco Rizzo, che scrive: “[...] è necessario
ambire sempre alla verità, adattando [...] la Storia al medium”. Ciò non toglie – per dirne una –
che nel settembre del 1939 la guerra non era “alle porte”, bensì già scoppiata dal primo del mese,
il ghetto di Varsavia nel novembre-dicembre 1939 ancora non esisteva, quello di Izbica Lubelska
non era un campo di sterminio (nella postfazione, Rizzo lo definisce giustamente un Durchganglager), Karski non ha mai parlato con Churchill. Ovviamente, è tanto improbabile che il luogo in
cui era caduta una partigiana nel ghetto di Varsavia potesse essere contrassegnato da una bandiera
polacca, quanto il fatto che Jan Karski a Washington potesse scegliersi come confidente il giudice
Felix Frankfurter, colui che aveva detto “non sono in grado di crederle”. La lettura del Testimone
inascoltato di Haenel ha avuto conseguenze sulla sceneggiatura. Nel fumetto, il rappresentante del
31
LUCA BERNARDINI
LE LETTERE DI JAN KOZIELEWSKI
la graphic novel ha l’immenso merito di aver trascritto la vicenda di Jan Karski in
un linguaggio – quello delle immagini – universale e particolarmente accessibile
alla sensibilità estetica e alla percezione cognitiva delle generazioni più giovani.
Così come, dopo Artur Nauzyciel, ha fatto Arthur Feinsod, ricostruendo
quest’anno a teatro le vicende dell’emissario dello “Stato segreto”81, e a breve farà,
proprio nel nostro paese, Fabrizio Matteini. Settant’anni dopo l’uscita di Story of a
Secret State e a cento anni dalla nascita del suo autore, la figura di Jan Karski, testimone e messaggero, continua a colpire la nostra immaginazione e a parlare alle
nostre coscienze.
Bibliografia, filmografia, sitografia
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aux limites de la représentation, a cura di Alain Klenberger, Philippe Mesnard, Editions
Kimé, [s.l.] 2013.
LUCA BERNARDINI, Messaggero, testimone, personaggio: l’uomo che cercò di fermare la Shoah, in
32
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Luca Bernardini, Adelphi, Milano 2013.
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trad. di Francesco Bruno, Guanda, Parma 2009).
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best-seller à la lumière des critiques, in «Libération», 22.10.2009, <tinyurl.com/ psmnv5x>.
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Collins Publishers, New York 1992.
Bund incontrato a Varsavia prima della visita al ghetto, afferma che “gli Alleati mentono” quando
sostengono che gli ebrei deportati dai ghetti vengono mandati in Germania ai lavori forzati: due
vignette dopo, il militante sionista afferma che “questo le nazioni alleate non lo sanno”. È davvero
lodevole l’intenzione espressa da Rizzo di precisare nella postfazione alcuni dettagli storici ma, se
è vero che il debriefing di Jan Karski al riguardo delle sue visite al ghetto di Varsavia era avvenuto
a Londra, la richiesta di visitare quello che si riteneva essere il campo di Bełżec gli era stata
avanzata, ovviamente, a Varsavia. Si veda MARCO RIZZO, Un compromesso con la storia, in MARCO
RIZZO, LELIO BONACCORSO, op. cit., pp. 141-142 e – per i passi del fumetto – le pp. 11-17, 65,
100, 106, 113.
81
ARTHUR FEINSOD, Coming to see Aunt Sophie, regia di Dale McFadden. La prima rappresentazione si è tenuta in occasione dell’Here and Now Festival di Mannheim, il 9 maggio 2014.
<http://www.comingtoseeauntsophie.com/#!people/c1ibf> [consultato il 11.11.2014].
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
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33
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34
Filmografia
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Sitografia
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<www.jankarski.org>
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[«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», 5, 2014, pp. 11-34]
MARCELLO FLORES
Jan Karski e Raphael Lemkin: la coscienza del genocidio
L
e vite di Jan Karski e Raphael Lemkin si incrociano e si sovrappongono –
senza incontrarsi – nel triennio 1941-1944. Mentre il nome del primo
venne progressivamente dimenticato, fino alla rinascita di interesse per la
sua figura alla fine del Novecento e in questo secolo, il secondo divenne il centro
di una battaglia culturale, politica e giuridica che condusse all’approvazione della
Convenzione per la prevenzione e la punizione del crimine di genocidio, ma
anch’egli è tornato all’attenzione degli studiosi nello stesso periodo, quando, cioè,
gli studi sulla Shoah avevano ormai influenzato potentemente la visione della
storia del XX secolo e si erano intrecciati con i nuovi studi sui genocidi in corso
da circa un ventennio.
La differenza d’età tra i due personaggi era di tredici anni. Lemkin era
nato nel 1901 a Bezwodne, nella Polonia nordorientale, e nelle sue memorie ricorderà questo piccolo villaggio dove trascorse l’infanzia fin quando, a dieci anni,
si trasferì con la famiglia nella cittadina di Wołkowysk, vicino a Białystok, dove gli
ebrei rappresentavano la metà della popolazione e sua madre era insegnante,
seguace del metodo educativo di Pestalozzi, dalla forte impronta etica. Tra il 1911
e il 1913 la comunità ebraica della Russia seguiva con attenzione le vicende dei
processi contro Mendel Bejlis, accusato di omicidio rituale nei confronti di un
bambino, a dispetto di ogni evidenza investigativa che avrebbe alla fine portato
alla sua assoluzione. L’atmosfera di odio e diffidenza nei confronti degli ebrei che
quell’episodio (montato ad arte da un giornale reazionario di San Pietroburgo)
aveva creato s’intrecciò, per Lemkin, con la lettura del romanzo Quo vadis? dello
scrittore polacco Henryk Sienkiewicz:
35
MARCELLO FLORES
JAN KARSKI E RAPHAEL LEMKIN
Nella mia infanzia ho letto Quo vadis?, una storia piena di fascino sulle sofferenze dei
primi cristiani e del tentativo dei romani di distruggerli solo perché credevano in Cristo.
Nessuno poteva salvarli, né la polizia di Roma né un qualsiasi altro potere esterno. Non
fu soltanto la curiosità che mi spinse a cercare nella storia esempi simili, come il caso degli
ugonotti, dei mori in Spagna, degli aztechi in Messico, dei cattolici in Giappone e di tante
razze e popoli sotto Gengis Khan. Il percorso di questa indicibile distruzione mi condusse attraverso l’era moderna fino alla soglia della mia propria vita. Ero sconvolto dalla
frequenza del male, dalle grandi perdite di vite e di cultura, dalla disperata impossibilità
di risuscitare i morti o consolare gli orfani e, soprattutto, dall’impunità su cui contavano
freddamente i colpevoli1.
Anche se nella più tarda ricostruzione del percorso che lo portò a occuparsi della violenza di massa e delle forme del diritto che avrebbero potuto sanzionarla e impedirla, Lemkin può avere esagerato l’influenza dei suoi sentimenti
infantili, non si può disconoscere l’importanza di un clima – culturale, politico,
religioso – come quello che vivevano gli ebrei nella Russia dell’epoca dei grandi
pogrom successivi alla diffusione del libello diffamatorio I protocolli dei Savi di
Sion. È comunque accertato che il piccolo Raphael lesse più volte Quo vadis? e ne
discusse con la madre le implicazioni morali e le similitudini storiche.
36
Nel corso della Prima guerra mondiale la regione in cui viveva la famiglia
Lemkin venne occupata dai tedeschi. Per l’intera popolazione furono anni di
fame e stenti, durante i quali Raphael continuò a studiare (in un ginnasio di
Białystok e, pare, anche a Vilnius), iniziando a venire interessato dal sionismo, a
studiare lo yiddish e a essere coinvolto nelle dispute ideologiche con i membri del
Bund (l’organizzazione social-democratica degli ebrei della Russia zarista).
Ed è proprio alla vigilia dello scoppio della guerra, nel 1914, che si situa la
nascita di Karski a Łódź, città all’epoca dell’impero russo dove il 34% degli abitanti è ebreo e i polacchi costituiscono la metà della popolazione e che nel 1916
viene occupata dai tedeschi e solo nel 1918 potrà ritrovare pienamente, con la
nuova indipendenza della Polonia, la sua identità al tempo stessa polacca ed
ebraica, sia pure all’insegna di contrasti, violenze, persecuzioni. Karski è cattolico
e vive il contraddittorio clima multietnico e religioso della sua città.
Nel 1918, nel corso della ritirata tedesca, insieme ad altri giovani Raphael
Lemkin organizzò gruppi di sabotaggio per disarmare i soldati in fuga e conse1
RAPHAEL LEMKIN, Totally Unofficial, manoscritto senza data, New York Public Library,
Manuscript and Archives Division, The Raphael Lemkin Papers, reel 2: Bio and Autobiographical
Sketches on Lemkin. Il capitolo è intitolato Early Childhood.
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
5 / 2014
gnarli alle autorità polacche. Due anni dopo venne leggermente ferito in una delle
azioni militari guidate dal maresciallo Józef Piłsudski per ricacciare dalla Polonia
orientale l’Armata Rossa che cercava di “esportare” con le armi anche in Polonia
la rivoluzione bolscevica, esperienza che consolidò per l’intera sua vita un forte
sentimento anticomunista.
Nel dopoguerra, tra il 1918 e il 1919, continuarono nella Polonia orientale
le violenze antisemite (a Leopoli – oggi L’viv – vennero uccisi 72 ebrei e ne vennero feriti 443 in un pogrom di tre giorni), spesso mascherate o intrecciate con le
azioni militari condotte contro i bolscevichi nella confinante Ucraina sconvolta
dalla guerra civile russa. Proprio a Leopoli (L’viv), Lemkin cominciò a frequentare l’università nel 1920, studiando filologia e continuando a sviluppare una
sorprendente conoscenza di numerose lingue, viste come la chiave per penetrare
e comprendere le loro culture2.
Alla vigilia della guerra, mentre Karski aveva iniziato a lavorare per il
Ministero degli Esteri il 1° gennaio 1939, Lemkin proseguiva il suo lavoro di
giurista e studioso, pubblicando in francese un trattato sul commercio internazionale. Allo scoppio del conflitto vengono entrambi mobilitati, in quella che a
Jan appare ancora un’esercitazione e che si presenta invece in pochi giorni con le
tragiche fattezze dell’invasione tedesca. Raphael combatte con l’esercito polacco
per la difesa di Varsavia, dove viene ferito sfuggendo di poco alla cattura tedesca.
Nel 1940, entrato in immediato contatto con la Resistenza, riesce a fuggire attraverso la Lituania e a raggiungere la Svezia, dove, grazie ai suoi contatti accademici, riuscirà poi a giungere negli Usa con un invito del professor Malcolm Mc
Dermott della Duke University, con cui cinque anni prima aveva collaborato per
la traduzione in inglese del codice penale polacco del 1932. Proprio a Durham, in
North Carolina, Lemkin venne a conoscenza dell’invasione tedesca dell’URSS, il
22 giugno 1941, che aveva comportato anche l’occupazione della Polonia orientale doveva viveva la sua famiglia.
Mentre la comunità internazionale dei giuristi riprendeva a interrogarsi
sui crimini di guerra e sulla possibilità o necessità di includervi l’aggressione,
come quella perpetrata da Hitler verso l’intera Europa, Lemkin iniziava a raccogliere materiale sulla dominazione nazista in Europa, informazioni sulle atrocità
2
JOHN COOPER, Raphael Lemkin and the Struggle for the Genocide Convention, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2008, p. 15.
37
MARCELLO FLORES
JAN KARSKI E RAPHAEL LEMKIN
commesse, decreti e documenti ufficiali, iniziando a lavorare nell’estate del 1942
per il Board of Economic Warfare a Washington. Karski, nel frattempo, fatto
prigioniero dai tedeschi, era riuscito a fuggire e a unirsi alla Resistenza, prendendo proprio in quell’occasione il nome di Jan Karski (il suo vero nome era Jan
Kozielewski) e iniziando la sua attività di agente segreto che lo condurrà più volte
in Europa, nelle mani della Gestapo da cui venne torturato a lungo, ancora in
Inghilterra e negli Stati Uniti.
Già dalla fine del 1941 erano iniziati a circolare racconti e testimonianze
delle violenze naziste, in particolare dei massacri e delle deportazioni di ebrei, che
si infittirono nella seconda metà del 1942 giungendo ormai da fonti diverse (diplomatiche, militari, comunità ebraiche). Lemkin era convinto che Hitler avesse
intrapreso una distruzione pianificata dei popoli sotto il suo controllo, anche se la
sua analisi non riceveva gran credito negli ambienti politici e militari della capitale
americana. A metà del 1942 iniziò a scrivere un’opera sui decreti e le leggi di
occupazione della Germania, che presto si trasformò in un lavoro più ampio, in
cui erano presenti anche notizie e analisi delle politiche di deportazione e di
soppressione dei nemici, in particolar modo degli ebrei, che il nazismo stava rea38
lizzando nell’Europa occupata.
Ed è proprio in questo periodo che Karski svolge la sua prima missione
presso il governo Sikorski in esilio a Londra. Per raccogliere le informazioni più
dettagliate e precise possibili, come racconta con semplicità e drammaticità
nell’ultima parte delle sue memorie3, Jan entra due volte nel ghetto di Varsavia e
si fa addirittura condurre nel campo di Izbica Lubelska dove è testimone della
partenza dei convogli blindati stipati di ebrei verso lo sterminio4.
Raphael Lemkin pubblica Axis Rule in Occupied Europe5 nel 1944, anche
se il libro era già pronto alla fine dell’anno precedente in una dimensione più che
tripla di quella prevista inizialmente, oltre settecento pagine. Uno dei principali
obiettivi di Lemkin era quello di convincere i suoi lettori – tra i quali lo stesso
establishment degli Stati Uniti – che l’occupazione hitleriana dell’Europa era stata
3
JAN KARSKI, La mia testimonianza davanti al mondo, a cura di Luca Bernardini, Adelphi, Milano
2013.
4
IVI, p. 437: “I vagoni erano adesso pieni di carne umana fino a scoppiare, saturi nel più estremo
dei recessi. Intanto nel campo intero si riverberava un frastuono terrificante: vi si mescolavano in
modo incoerente lamenti, urla, detonazioni, bestemmie e comandi rabbiosi”.
5
RAPHAEL LEMKIN, Axis Rule in Occupied Europe: Laws of Occupation – Analysis of Government
– Proposals for Redress, Carnegie Endowment of International Peace, Washington D.C. 1944.
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
5 / 2014
caratterizzata da violazioni continue delle leggi di guerra e di ogni norma morale,
spesso con la giustificazione di una legislazione adottata per l’occasione. A questo
scopo egli utilizzava massicciamente decreti e articoli ufficiali del regime nazista,
trattando prevalentemente l’occupazione militare e politica, ma occupandosi
anche di questioni di natura economica (proprietà, lavoro, finanze) legate
all’occupazione stessa. Il disprezzo per il diritto internazionale e al tempo stesso
la volontà di costruire una nuova “legalità nazista” si nutriva di una feroce repressione delle popolazioni civili e di un programmato saccheggio delle ricchezze
delle regioni occupate.
Che Lemkin fosse preoccupato per la scarsa propensione negli Stati Uniti
a conoscere e comprendere quanto stava avvenendo in Europa era più che giustificato. Proprio nell’estate del 1943, mentre Lemkin stava terminando il suo libro, Jan Karski – chiamato più tardi a ragione “il testimone inascoltato” – aveva
incontrato sia Eden sia Roosevelt, spingendo quest’ultimo a creare un comitato di
emergenza per salvare gli ebrei d’Europa ma non riuscendo a convincerlo della
necessità di intraprendere azioni più nette e risolute. “Quando incontra Felix
Frankfurter, giudice della Corte Suprema, Karski non sospetta nemmeno che i
massimi esponenti della comunità ebraica statunitense, Nahum Goldmann e il
rabbino Stephen S. Wise, presidente dell’American Jewish Congress, in realtà
sappiano tutto del genocidio fin dall’agosto del 1942, ma siano stati obbligati al
silenzio dal Dipartimento di Stato”6.
Subito dopo un altro polacco, Szmul Zygielbojm, leader del Bund e uno
dei due membri ebrei del governo polacco in esilio a Londra, cui Karski aveva
fatto il proprio racconto di testimone oculare, cercava di convincere della gravità
e novità della persecuzione antiebraica in Europa ma i suoi racconti e le sue denunce restavano ugualmente inascoltate e non venivano credute. La sua proposta
di bombardare Auschwitz e il ghetto di Varsavia – dove erano morti da poco sua
moglie e suo figlio – veniva scartata dai comandi militari come ininfluente per gli
obiettivi della guerra. Di fronte a questa cortina di incomprensione, il 12 maggio
1943 Zygielbojm si era suicidato, lasciando una lettera che venne pubblicata sul
«The New York Times»:
6
LUCA BERNARDINI, Messaggero, testimone, personaggio: l’uomo che cercò di fermare la Shoah, in
JAN KARSKI, op. cit., p. 500.
39
MARCELLO FLORES
JAN KARSKI E RAPHAEL LEMKIN
Con la mia morte voglio esprimere la mia più forte protesta contro l’inattività con cui il
mondo sta osservando e permettendo lo sterminio del popolo ebraico. So bene quanto
poco valore abbia la vita umana, specialmente in questi giorni. Ma dal momento che non
sono stato capace di farlo mentre ero in vita, forse con la mia morte potrò contribuire a
distruggere l’indifferenza di coloro che ne sono capaci e dovrebbero agire 7.
Karski si sentì fortemente colpevole dell’accaduto: “Sulle prime rimasi
indifferente, ma poi fui colto da un’ondata di angoscia e di sensi di colpa. La
notizia mi aveva sconvolto più di quanto non volessi ammettere. Mi sentivo come
se avessi personalmente consegnato a Zygielbojm la sua condanna a morte” 8.
Dopo il fallimento della sua missione – spingere gli Alleati a intervenire per
bloccare la distruzione degli ebrei europei – Karski resta a Londra anche se vorrebbe tornare in Polonia, e viene nuovamente mandato negli Stati Uniti dal nuovo
premier del governo in esilio Stanisław Mikołajczyk per “promuovere la realizzazione di un grande film sul movimento di Resistenza polacco, di cui aveva già
scritto anche la sceneggiatura”9. Non riuscendo a convincere i produttori americani a finanziare questo progetto, Karski iniziò a pensare di scrivere un libro,
40
che l’agente letterario cui si rivolse chiese non contenesse accenni antisovietici. È
così che, rapidamente, nasce Story of a Secret State, la prima edizione di quello
che, rivisto e corretto, sarà poi La mia testimonianza. Ed è proprio mentre è in
corso l’insurrezione di Varsavia che diverse case editrici leggono il manoscritto,
che verrà pubblicato di lì a pochi mesi, a dicembre, dopo che Karski si era rifiutato di accettare “l’inserimento di alcune pagine che dessero conto dei combattimenti avvenuti durante la rivolta del ghetto (aprile-maggio 1943), e addirittura
l’aggiunta di un intreccio amoroso”10, dall’edi- tore di Boston Houghton Mifflin.
Qualche mese prima era stato pubblicato il ponderoso volume di Lemkin,
Axis Rule, che aveva conosciuto un interesse notevole, soprattutto negli ambienti
diplomatici, politici e militari della capitale. Numerose furono le recensioni che
riservarono al libro di Lemkin un giudizio più che lusinghiero. Il prestigioso
«American Journal of International Law» lodò l’incredibile e riuscito tour de force
compiuto dall’autore; l’«American Historical Review» giudicò il racconto di
Lemkin, proprio perché scritto in un freddo linguaggio giuridico, maggiormente
7
Pole’s Suicide Note Pleads for Jews, in «The New York Times», 4.6.1943, p. 4.
JAN KARSKI, op. cit., p. 423.
9
LUCA BERNARDINI, op. cit., p. 501.
10
IVI, p. 504.
8
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
5 / 2014
capace di suscitare indignazione; la «New York Times Book Review» dedicò
addirittura la copertina e il servizio più importante al “Twentieth-Century Moloch” raccontato da Lemkin: “Al di là del suo asciutto legalismo [nel libro]
emergono i contorni del mostro che attualmente cavalca il mondo”, un mostro
“che rende bestie i suoi servi e corrompe alcune delle più nobili emozioni umane
con le sembianze di una autorità e falsa legalità che lascia indifesi gli individui”11.
L’unica critica che veniva rivolta a Lemkin era quella di avere esteso
all’intero popolo tedesco le colpe e i comportamenti del nazismo, avendo egli
sostenuto che “la distruzione dell’Europa non sarebbe stata completa e meticolosa se il popolo tedesco non avesse liberamente accettato il piano di Hitler,
partecipando volontariamente alla sua esecuzione e fino ad oggi approfittandone
grandemente”12.
Un anno dopo la sua pubblicazione negli Stati Uniti, il difficile e voluminoso libro di Raphael Lemkin veniva recensito anche nella rivista «American
Journal of Sociology». La recensione, a firma di Melchior Palyi, un economista
tedesco emigrato in Gran Bretagna e poi negli Stati Uniti dopo l’avvento al potere
di Hitler, accusava Lemkin di avere scritto una “requisitoria da pubblico ministero” piuttosto che un’indagine storico-politica. Palyi sottolineava che dei nove
capi d’accusa formulati da Lemkin contro le autorità naziste, più o meno tutti
avrebbero potuto essere rivolti anche contro gli Alleati: anche se questi ultimi
erano ricorsi a “pratiche illegali” coprendole con formule umanitarie o di altro
genere mentre i nazisti manifestarono apertamente i loro progetti intenzionali di
commettere crimini.
A quel punto, tuttavia, la diffusione del libro di Lemkin era ormai ampiamente assodata, grazie soprattutto a un apparente dettaglio terminologico che
avrebbe modificato radicalmente e in modo permanente la percezione non solo
giuridica, ma dello stesso senso comune, dei crimini di massa e dei massacri
commessi contro gruppi di persone.
Nuove concezioni richiedono nuovi termini. Con “genocidio” intendiamo
la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico. Questa nuova parola, coniata
dall’autore per denotare una vecchia pratica nel suo sviluppo moderno, è formata
dall’antica parola greca genos (razza, tribù) e dal latino -cidium (dal verbo caedĕre,
11
12
«The New York Times Book Review», 21.1.1945, p. 1.
RAPHAEL LEMKIN, Axis Rule, cit., p. XIV.
41
MARCELLO FLORES
JAN KARSKI E RAPHAEL LEMKIN
uccidere), corrispondendo così nella sua formazione a parole come tirannicidio,
omicidio, infanticidio ecc. Parlando in termini generali, il genocidio non significa
necessariamente l’immediata distruzione di una nazione, eccetto quando è accompagnata dal massacro di tutti i suoi membri. Vuole piuttosto indicare un
piano coordinato di azioni differenti con lo scopo di distruggere i fondamenti
essenziali della vita di gruppi nazionali, con l’obiettivo di annientare i gruppi
stessi. Gli obiettivi di un simile piano sono la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, del linguaggio, dei sentimenti nazionali, della religione, dell’esistenza economica dei gruppi nazionali, la distruzione della sicurezza
personale, della libertà, della salute, della dignità e perfino della vita degli individui che appartengono a tali gruppi. Il genocidio è diretto contro un gruppo nazionale inteso come un’entità e le azioni coinvolte sono dirette contro gli individui
non nella loro capacità individuale ma come membri di un gruppo nazionale13.
La forza del nuovo termine non risiedeva solo nell’abilità e fantasia linguistica di Lemkin, capace di coniugare il latino e il greco per offrire un neologismo capace di guardare non solo al presente ma alla storia intera dell’umanità.
Consisteva soprattutto nel rinvio, finalmente concreto e determinabile, a ciò che
42
di più terribile stava avvenendo in Europa, a quel “crimine senza nome” per
combattere il quale Churchill e Roosevelt avevano sottoscritto la Carta di Londra
impegnandosi di fronte al mondo a sconfiggere per sempre la barbarie. Non è un
caso, quindi, che già il 3 dicembre 1944, appena venti giorni dopo la pubblicazione di Axis Rule, Lemkin avesse convinto il proprietario del «Washington
Post» ad affrontare in modo fortemente divulgativo, e necessariamente emotivo,
quanto affermato nel volume con maggiore ricchezza di dati e di analisi.
Riprendendo un rapporto pubblicato dal War Refugee Board, il giornale
della capitale ricordava come:
A Birkenau, tra l’aprile 1942 e l’aprile 1944 circa un milione e settecentosessantacinquemila ebrei sono stati messi a morte con un gas venefico in camere ingegnosamente
costruite; i loro corpi sono stati poi bruciati in forni appositamente costruiti e le loro
ceneri usate come fertilizzante. Questo processo di sterminio col gas è stato realizzato
anche in altri campi oltre a Birkenau e nella maggior parte dei casi si applicava solamente
agli ebrei. Ci sono state indicibili atrocità ad Auschwitz e Birkenau. Ma la questione riguardo a queste uccisioni è che esse sono state sistematiche e risolute. Le camere a gas e i
13
RAPHAEL LEMKIN, Axis Rule, cit., p. 79.
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
5 / 2014
forni crematori non furono improvvisati, erano strumenti scientificamente progettati per
lo sterminio di un intero gruppo etnico14.
L’articolo ricordava poi come a quanto appena descritto un “giurista e
studioso polacco” avesse dato da poco un nuovo nome, per descrivere un gratuito
e ingiustificato massacro etnico così riassunto con le sue stesse parole:
Genocidio non significa necessariamente l’immediata distruzione di una nazione, eccetto
quando è portata a termine dal massacro di tutti i membri di una nazione. È utilizzato
piuttosto per indicare un piano coordinato di differenti azioni con lo scopo di distruggere
le fondamenta essenziali della vita di gruppi nazionali, con l’obiettivo di annientare gli
stessi gruppi15.
Soprattutto negli ultimi anni la figura di Lemkin ha conosciuto un vasto
interesse, e i suoi scritti, compresi gli appunti e i capitoli non pubblicati, sono stati
oggetto di valutazioni non sempre coerenti e univoche. Un aspetto su cui vi sono
stati giudizi difformi ha riguardato l’importanza del momento storico particolare
– la violenza nazista nell’Europa occupata – e la scelta di individuare un concetto
e termine nuovo che avessero un carattere più generale e universale di quanto
suggerito dall’emergenza storica contingente.
In Lemkin – se si considerano al tempo stesso Axis Rule e gli altri interventi scritti nello stesso periodo – non esiste una contrapposizione tra la ricerca
della specificità e novità della barbarie nazista (che è al cuore del volume pubblicato nel 1944) e il desiderio di enucleare un criterio universale per definire e
sanzionare i massacri commessi contro gruppi di diversa natura.
Per cercare di far comprendere quanto il concetto di genocidio dovesse essere inteso nel senso più ampio, Lemkin si richiamò spesso all’intera storia dell’umanità, ricordando, in un articolo del 1948, come fossero tutti casi di genocidio
la distruzione di Cartagine, la distruzione degli Albigesi e del Valdesi, le Crociate, la
marcia dei Cavalieri Teutonici, la distruzione dei cristiani sotto l’Impero Ottomano, il
massacro degli Herero in Africa, lo sterminio degli armeni, il massacro degli assiri cristiani in Iraq nel 1933, la distruzione dei maroniti, i pogrom degli ebrei nella Russia zarista e in Romania16.
14
15
16
«The Washington Post», 3.12.1944, B4.
Ibidem.
RAPHAEL LEMKIN, War against Genocide, in «Christian Science Monitor», 31.1.1948, p. 2.
43
MARCELLO FLORES
JAN KARSKI E RAPHAEL LEMKIN
Il tentativo di generalizzare, e quindi di rendere il concetto più universalmente utilizzabile, lo aveva spinto a tentare una caratterizzazione che riteneva
avvenisse inevitabilmente:
Il genocidio ha due fasi: la prima è la distruzione del modello nazionale del gruppo oppresso; la seconda è l’imposizione del modello nazionale dell’oppressore. Questa imposizione, a sua volta, può essere fatta sopra la popolazione oppressa cui si permette di restare o sul solo territorio, dopo la deportazione della popolazione e la colonizzazione
dell’area da parte dei membri della nazione dell’oppressore. Denazionalizzazione è stata
la parola usata nel passato per descrivere la distruzione di un modello nazionale. […] I
termini “germanizzazione”, “magiarizzazione”, “italianizzazione”, per esempio, sono stati
usati per connotare l’imposizione da parte di una nazione più forte (Germania, Ungheria,
Italia) del proprio modello nazionale sul gruppo da esse controllato 17.
Non va dimenticato, tuttavia, che nove decimi di Axis Rule sono dedicati
all’occupazione tedesca dell’Europa, di cui il genocidio costituisce uno strumento
e una forma particolare:
Il quadro delle coordinate tecniche di occupazione della Germania deve portare alla
44
conclusione che l’occupante tedesco ha intrapreso un gigantesco schema di cambiamento, in favore della Germania, dell’equilibrio delle forze biologiche tra essa e le nazioni prigioniere per gli anni a venire. L’obiettivo di questo schema è distruggere o paralizzare i popoli soggiogati nel loro sviluppo, così che, anche in caso di sconfitta militare
tedesca, la Germania sarà in una posizione per accordarsi con le altre nazioni europee
con il vantaggio di una superiorità numerica, fisica ed economica 18.
A tal punto l’attenzione di Lemkin era focalizzata sul “caso tedesco” che
non mancavano, nel suo libro, riflessioni giuridiche di grande interesse sul ruolo
della Gestapo e delle SS, sul loro essere associazioni a delinquere i cui crimini
erano commessi non solo contro le leggi nazionali dei paesi occupati ma contro il
diritto internazionale e le leggi di umanità, sulla necessità di considerare la sola
appartenenza a tali gruppi criminali “come un reato, in modo da punire i membri
della Gestapo e delle SS per la sola ragione che rivestono le loro funzioni nei paesi
occupati. Inoltre, se uno di loro avesse anche commesso un crimine concreto
avrebbe dovuto essere punito naturalmente per lo specifico reato”19.
17
18
19
IDEM, Axis Rule, cit., pp. 79-80.
IVI, p. XI.
IVI, pp. 21-22.
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
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Una profonda compenetrazione con il clima dell’epoca, con i sentimenti e
le passioni suscitate dalla violenza nazista, convivono in Lemkin con il desiderio
di utilizzare quell’esperienza originale e tragica che sta avvenendo sotto i propri
occhi per far compiere al diritto internazionale un salto di qualità, quel salto che
aveva inutilmente cercato di fare dopo il primo dopoguerra e che solo l’attuale
“crimine senza nome” permette di affrontare e forse risolvere.
È la distruzione degli ebrei a diventare il catalizzatore di un pensiero teorico che da anni si stava sforzando di trovare soluzione alla violenza contro gruppi
in quanto tali, alle loro sofferenze e alla loro possibile scomparsa. Una specifica e
necessariamente unica esperienza (unica storicamente ma anche come percezione
soggettiva) diventa la chiave di lettura e di interpretazione di un modello di violenza che appartiene alla storia stessa dell’umanità.
L’atto d’accusa che istituiva il Tribunale Militare Internazionale di Norimberga si fondava su quattro capi, di cui vennero accusati i ventiquattro leader
nazisti che risultarono imputati nel principale dei processi che ebbe inizio nel
novembre 1945: cospirazione, crimini contro la pace, crimini di guerra e crimini
contro l’umanità. Tra i crimini di guerra, nel paragrafo che si occupava di “omicidi e maltrattamenti delle popolazioni civili”, si ricordava come gli accusati
avessero “condotto deliberato e sistematico genocidio, cioè lo sterminio di gruppi
razziali o nazionali, contro le popolazioni civili di alcuni territori, con l’obiettivo
di distruggere particolari razze e classi di persone e gruppi nazionali, razziali o
religiosi, in particolare ebrei, polacchi, zingari e altri”20.
Già alla vigilia della fine del secondo conflitto mondiale, Lemkin era
tornato sulla definizione di genocidio in un articolo apparso su «Free World»,
individuandone la caratteristica principale nell’intento di “distruggere o degradare un intero gruppo nazionale, religioso o razziale, attaccando gli individui
membri di quel gruppo” attraverso “una seria minaccia alla vita, alla libertà, alla
salute, all’esistenza economica o a tutte queste cose insieme”21.
Nel 1946, con un saggio dal titolo Genocidio apparso su «American
Scholar», Lemkin ricordava che l’inserimento del crimine di genocidio nel rinvio
a giudizio dei criminali nazisti che sarebbero stati processati a Norimberga mo20
Cfr. <http://avalon.law.yale.edu/imt/count3.asp>; WILLIAM A. SCHABAS, Genocide in International Law: The Crimes of Crimes, Cambridge University Press, 2000, p. 43; JOHN COOPER, op.
cit., p. 65.
21
RAPHAEL LEMKIN, Genocide. A Modern Crime, in «Free World», aprile 1945.
45
MARCELLO FLORES
JAN KARSKI E RAPHAEL LEMKIN
strava nel modo più esplicito l’enormità dei crimini nazisti, riprendendo alla lettera la definizione inserita nell’atto d’accusa.
Il crimine di genocidio, tuttavia, non rientrò formalmente nella sentenza
emessa a Norimberga il 30 settembre e il 1° ottobre 1946, anche se esso vi era
ampiamente descritto, sia sotto la fattispecie dei “crimini di guerra” sia sotto
quella dei “crimini contro l’umanità”. Nel corso del processo avevano fatto riferimento al termine di genocidio sia il pubblico ministero britannico Sir David
Maxwell-Fyfe, nel corso dell’interrogatorio di Constantin von Neurath – ricordandogli che di quello era accusato e riassumendogli nuovamente la definizione –
sia il pubblico ministero francese Champetier de Ribes, che nelle sue conclusioni
parlò “di un crimine così mostruoso, così impensabile nella storia, dall’era cristiana alla nascita dell’hitlerismo, che è stato coniato il termine di genocidio per
definirlo”22.
Il giudizio di Lemkin sulla sentenza di Norimberga fu per certi aspetti
contraddittorio. Da una parte l’aver incluso l’imputazione di genocidio nel punto
3 dell’atto di accusa di Norimberga costituì un importante riconoscimento del
suo lavoro, come ebbe a scrivere a Eleanor Roosevelt e al Giudice Jackson;
46
dall’altra l’esclusione dei crimini di guerra e contro l’umanità dall’imputazione di
cospirazione (che rimase solo per l’imputazione di crimini contro la pace) impedì
sia che fossero presi in considerazione gli atti criminali del nazismo commessi
prima dell’inizio della guerra di aggressione nel settembre 1939, sia che venisse
riconosciuto nella sentenza il crimine di genocidio: “Dal momento che l’obiettivo
era di mostrare come i crimini di guerra e contro l’umanità derivassero dalla
cospirazione per l’aggressione, stabilire quel nesso divenne in pratica più importante che registrare la moltitudine dei crimini”23. La strada era aperta, per
Lemkin, alla formulazione giuridica definitiva del crimine di genocidio.
Alla fine, l’11 dicembre 1946, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite
approvava la Risoluzione 96(I):
Genocidio è la negazione del diritto all’esistenza di interi gruppi umani; questa negazione
del diritto all’esistenza sconvolge la coscienza umana, infligge gravi perdite all’umanità
che si trova privata dagli apporti culturali o di altra natura di questi gruppi, ed è contraria
alla legge morale e allo spirito e agli obiettivi delle Nazioni Unite.
22
WILLIAM A. SCHABAS, op. cit., p. 43.
DONALD BLOXHAM, Genocide on Trial. War Crimes Trials and the Formation of Holocaust
History and Memory, Oxford University Press, Oxford 2001, p. 62.
23
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
5 / 2014
Molti esempi di un simile crimine di genocidio hanno avuto luogo quando gruppi razziali, religiosi, politici o di altra natura sono stati distrutti interamente o in parte.
La punizione del crimine di genocidio è una questione di interesse internazionale.
L’Assemblea Generale, di conseguenza, afferma che il genocidio è un crimine per il diritto internazionale che il mondo civilizzato condanna, e per la perpetrazione del quale
responsabili e complici – siano privati individui, pubblici ufficiali o uomini di Stato e sia
che il crimine sia commesso per ragioni religiose, razziali, politiche o di qualsiasi altra
natura – sono punibili.
Il testo che il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite preparò
dopo innumerevoli discussioni venne approvato e passò poi, senza alcuna modifica da parte della Commissione Diritti Umani, all’esame della terza sessione
dell’Assemblea Generale che si riuniva a Parigi, dove venne – invece – profondamente modificato in seno al 6° Comitato che lo discusse dal 28 settembre al 2
dicembre 1948. A sostegno di una rapida approvazione era giunta all’Assemblea
una petizione firmata da 166 organizzazioni di 28 paesi che rappresentavano
duecento milioni di persone, in gran parte frutto del grande lavoro di mobilitazione
che Lemkin e i suoi collaboratori avevano compiuto nell’ultimo anno e mezzo.
Il 9 dicembre l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvava il testo
licenziato dal 6° Comitato rigettando l’ennesima richiesta sovietica di condannare
esplicitamente il nazismo e un ulteriore tentativo venezuelano di reintrodurre il
genocidio culturale. La Convenzione per la prevenzione e la punizione del crimine di genocidio veniva approvata con 56 voti a favore e nessuno contrario.
Anche gli Stati che si erano astenuti nel 6° Comitato (Gran Bretagna, URSS,
Polonia, Cecoslovacchia, Jugoslavia) si erano ricreduti e il delegato sudafricano si
era allontanato dall’Assemblea.
Il disegno per il quale Lemkin aveva lottato con entusiasmo e dedizione
era finalmente raggiunto. Certamente non tutta quello che era stata la sua riflessione sul genocidio era potuta diventare parte integrante di un documento giuridico cui avevano contribuito paesi con culture, storia, politiche e interessi diversi e a volte divergenti.
[«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», 5, 2014, pp. 35-47]
47
KONSTANTY GEBERT
La banalità del genocidio
J
an Karski è probabilmente l’esempio più famoso di una figura emblematica
del XX secolo: quella del testimone che ha testimoniato invano. Per tutta la
vita, dopo la guerra, Karski ha risentito del trauma procuratogli dalla con-
vinzione di aver fallito nella propria missione: gli Alleati, infatti, non avevano
preso alcuna iniziativa concreta a seguito del suo rapporto di testimone oculare
della Shoah, consegnato direttamente ad Antony Eden e Franklin Delano Roosevelt. Non è stato l’unico a soffrire a causa di un simile trauma: l’uomo di affari
48
americano Walther Geddess si uccise nel 1915, dopo aver assistito agli orrori
della marcia della morte nel deserto siriano in cui erano stati sterminati gli armeni. I resoconti del genocidio armeno di Armin Wegner – un soldato tedesco
che aveva prestato servizio nell’esercito turco, pubblicati dal «Berliner Tagblatt»
– vennero presentati al presidente Woodrow Wilson, che non ne rimase certo
impressionato: sicuramente non più del presidente Roosevelt quando ebbe
ascoltato il rapporto di Jan Karski, un quarto di secolo dopo. Dobbiamo pertanto
farci una ragione del fatto che la reazione standard dei potenti, nel momento in
cui viene loro notificato un genocidio, sia di indifferenza e non – come sarebbe
lecito aspettarsi – di indignazione morale. L’attivista americana Samantha Power,
nel suo libro A problem from Hell1, premio Pulitzer, ha denunciato l’indifferenza
degli Stati Uniti ai successivi genocidi del XX secolo. Come ambasciatrice degli
USA presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nel XXI secolo Power è
divenuta la rappresentante più significativa di quell’indifferenza da lei precedentemente denunciata. Che cosa si può fare, quindi? Karski aveva torto nel
1
SAMANTHA POWER, A Problem from Hell. America and the Age of Genocide, Basic Books, New
York 2002, trad. it. Voci dall'inferno: l’America e l’era del genocidio, a cura di Nazzareno Mataldi,
Mondolibri, Milano 2004 [N.d.C.].
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
5 / 2014
credere che la sua missione fosse stata un fallimento: era giunto all’erronea conclusione che si fosse conclusa una volta consegnato il suo rapporto alla Casa
Bianca. Tuttavia, nel 1978 quel combattente della Resistenza polacca concesse
una lunga intervista al documentarista francese Claude Lanzmann, che all’epoca
stava lavorando su quello che sarebbe divenuto il suo capolavoro, Shoah, un film
della durata di nove ore. Nel film Lanzmann avrebbe inserito soltanto un breve
frammento dell’intervista: una versione più lunga, ma pur sempre non integrale,
uscirà poi nel 2010 con il titolo Il rapporto Karski. Parlando con Lanzmann,
l’emissario dello Stato segreto riferiva del suo rapporto e di come fosse stato accolto dai leader alleati. Così facendo, Karski aveva finalmente realizzato la propria missione: aveva consegnato il suo resoconto a coloro che avevano più bisogno di ascoltarlo. A noi, gli abitanti di questo pianeta. All’umanità. Alle vittime,
agli spettatori e ai carnefici dei genocidi futuri. E a coloro che, come Karski,
Wegner e molti altri, vorranno affidare le loro testimonianze al mondo. Karski ci
ha fatto capire non soltanto che cosa sia accaduto, ma anche che cosa abbia fatto
lui. In questo modo ha mandato in frantumi il comodo mito dell’impotenza
umana di fronte al male. Molto semplicemente, ha dimostrato che non è vero che
non si possa fare nulla.
Il generale Roméo Dallaire era il comandante delle truppe delle Nazioni
Unite inviate in Ruanda al fine di scongiurare lo scoppio di una nuova guerra civile e di monitorare l’andamento del processo di pace. Quello che scoprì fu che si
stava preparando un genocidio. I suoi tentativi di mobilitare la comunità internazionale contro il genocidio si rivelarono infruttuosi, ed egli divenne il testimone
impotente di quello che sarebbe divenuto il genocidio conclusivo del XX secolo,
il secolo che ce lo ha fatto conoscere.
Nel suo libro Shake Hands with the Devil2, Dallaire riferisce una strana
notizia di cui era venuto a conoscenza a Kigali, nel febbraio del 1994. Uno dei
suoi informatori gli aveva detto che gli insegnanti delle scuole ruandesi avevano
ricevuto dal Ministero dell’Istruzione l’incarico di stilare elenchi degli studenti
Tutsi e Hutu, e di farli pervenire al Ministero.
I Tutsi e gli Hutu erano i due maggior gruppi socio-etnici del Ruanda, non
gruppi etnici nel senso europeo del termine. Gli Hutu e i Tutsi infatti hanno la
2
ROMEO DALLAIRE, Shake hands with the devil: the failure of humanity in Rwanda, with Brent
Beardsley, Random House Canada, Toronto 2003 [N.d.C.].
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KONSTANTY GEBERT
LA BANALITÀ DEL GENOCIDIO
stessa cultura, la stessa religione, la stessa provenienza. Nel complesso sistema
sociale ruandese rappresentavano due diversi gruppi sociali. Il dominio coloniale
belga li ha trasformati in gruppi etnici, così che ogni adulto ruandese aveva
l’obbligo di portare con sé una carta di identità che ne specificasse l’appartenenza
etnica: Tutsi, Hutu o Twa, il terzo gruppo, quello più piccolo.
I bambini, comunque, non avevano carte d’identità. Quindi, per sapere
quali bambini uccidere, il governo – che stava preparando il genocidio – aveva
bisogno di liste di nomi. E questo è il motivo per cui agli insegnanti era stato richiesto di stilare elenchi di studenti Tutsi e Hutu.
Penso spesso a quegli insegnanti. Mi immagino di essere un insegnante di
Kigali nel 1994 e di aver ricevuto la circolare del Ministero dell’Istruzione. Ci
sono tante ragioni plausibili per cui il Ministero avrebbe potuto richiedermi una
simile informazione. Quindi perché mai non avrei dovuto fornirgliele? Quando il
genocidio avrà luogo, gli autori finali del genocidio saranno coloro che si recheranno sul posto e massacreranno realmente, vuoi facendo a pezzi le persone, vuoi
spingendole in una camera a gas, vuoi facendole morire di fame, a seconda della
tecnologia impiegata per il genocidio. Ma perché il genocidio possa avvenire sono
50
necessari quegli insegnanti. Siamo necessari noi. La fase preliminare del genocidio, quella precedente ai massacri veri e propri, vede le istituzioni di uno Stato del
tutto normale, perfettamente funzionante, nonché la relativa società civile, impegnate a preparare lo sterminio.
Victor Klemperer, un linguista tedesco, scrisse un libro affascinante
sull’avvento e la crescita del nazismo nella Germania tra le due guerre, intitolato
Lingua Tertii Imperii, La lingua del terzo impero, stando ovviamente a indicare il
Terzo Reich3. Nel suo libro Klemperer – filologo germanico di origini ebraiche
che, con suo grande stupore, si trovò a essere bollato come ebreo e pertanto a
subire quello che subivano gli ebrei – illustrava lo sviluppo del linguaggio pubblico in Germania. Segnalava, piuttosto divertito, come il termine ebreo, che aveva implicazioni religiose o etniche, avesse assunto un significato legale. Una
volta che qualcuno fosse stato considerato ebreo, avrebbe avuto l’obbligo di non
fare certe cose e di farne altre. Klemperer rilevava le situazioni grottesche che si
sarebbero sicuramente verificate in Germania nel momento in cui gli ebrei fos3
VICTOR KLEMPERER, LTI. Notizbuch eines Philologen, Berlin 1947; trad. it. LTI. La lingua del
Terzo Reich. Taccuino di un filologo, a cura di Paola Buscaglione, prefazione di Michele Ranchetti,
Giuntina, Firenze 1998 [N.d.C.].
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
5 / 2014
sero divenuti una categoria legale: come si può infatti decidere chi è ebreo? In
base alla percentuale di sangue ebraico che gli scorre nelle vene? Ma in che cosa
consiste, precisamente, il sangue ebraico?
In ogni caso, all’epoca il termine ebreo divenne parte del linguaggio socialmente accettato. Klemperer riferiva di come una volta si fosse seduto in un
parco pubblico su una panchina preclusa agli ebrei. Una dolce, cara vecchietta
che si trovava a passare di là ci fece caso e lo volle informare: “Signore, si è seduto
sulla panchina sbagliata. Non può stare là”. La cara vecchietta ovviamente non si
rendeva conto che così facendo stava rendendo possibile il genocidio, interiorizzandolo e facendo proprie le categorie mentali e le idee che lo sottendevano.
La cosa interessante dell’antisemitismo di Hitler, in Germania, è che ha
avuto inizio con un distacco quasi da diagnosi clinica. Da questo punto di vista
può essere utile la lettura di Mein Kampf, libro consultabile in biblioteca. È interessante, ma in un certo senso anche assai deludente. È scritto malissimo,
davvero con i piedi, e – per dirla tutta – è anche stupido. E ti viene da pensare: “E
questo sarebbe il libro che ha cambiato il mondo? In uno infinitamente peggiore,
ma lo ha cambiato?”. Non torna. Una cosa interessante in Mein Kampf però la si
può trovare, ed è l’atteggiamento di Hitler nei confronti degli ebrei. Afferma che,
allo stesso modo di un dottore che, volendo salvare un essere umano deve essere
spietato nei confronti dei batteri che lo hanno infettato, i politici che intendano
salvare la civiltà occidentale dovranno essere spietati verso i batteri ebraici. In una
delle sue digressioni, Hitler scrive che l’ebreo non ha colpa del suo essere ebreo,
ma non hanno alcuna colpa nemmeno gli esseri umani che desiderano liberarsi
dei batteri ebraici che li stanno distruggendo. Non c’è nulla di personale: si tratta
di un’applicazione dell’idea illuminista che noi, ossia il governo, abbiamo il dovere di migliorare le sorti della società. Noi siamo responsabili del miglioramento
dei destini della società. Se esiste un gruppo che rifiuta di integrarsi in nome del
bene comune, o che a questo bene comune si oppone, allora è cosa buona eliminarlo.
Questo è il motivo per cui, quando qualcuno effettua un’analogia tra i
genocidi, fenomeno del XX secolo, e gli stermini, pratica ricorrente fin dai reconditi primordi della storia umana – afferma il falso. Le cronache medievali sono
piene di descrizioni di stermini. Il lettore però è destinato a scoprire che gli
stermini sono fenomeni dalla durata relativamente breve. Una città viene asse-
51
KONSTANTY GEBERT
LA BANALITÀ DEL GENOCIDIO
diata per mesi, alla fine cade, l’esercito assediante la invade e fa tutto ciò che fa un
esercito vincitore: assassinii, stupri, saccheggi. Assassinii, stupri e saccheggi
vanno avanti per tre, quattro o cinque giorni, ma il bel gioco dura poco. Quante
persone si possono torturare, violentare o assassinare prima di non poterne
davvero più? Alla fine, quando uno si è tolto la voglia, permetterà a coloro che
sono sopravvissuti di andare avanti. Il principio dello sterminio consiste in una
gratificazione immediata. Una volta che sentimenti e voglie siano stati soddisfatti,
non c’è più alcuna ragione di insistere: almeno fino alla prossima volta. La modalità storica di fare ammenda per la propria partecipazione a uno sterminio è
sempre consistita in offerte religiose da devolvere a templi, chiese o moschee. Una
simile modalità di comportamento implica che coloro che hanno effettuato tali
offerte si sentano in qualche misura moralmente a disagio.
Mi ricordo di aver avuto una conversazione a Kigali, in Ruanda, nel 2009,
con un signore che era stato appena scarcerato dopo aver trascorso tredici anni in
prigione per aver preso parte al genocidio. Un signore molto gentile: ci facemmo
una bella chiacchierata bevendoci un paio di birre. Mi volle spiegare – e si noti
che non aveva letto il Mein Kampf:
52
Sa come chiamavamo i Tutsi? Li chiamavamo inyenzi, scarafaggi. Ritiene che sia stato un
caso che proprio questo gruppo venisse chiamato “scarafaggi”? Sa, una volta ho letto un
bell’articolo sul giornale, glielo consiglio. Diceva: ‘Così come da uno scarafaggio non
nascerà mai una farfalla, un inyenzi rimarrà sempre un inyenzi’. In tribunale mi hanno
incastrato: io non ho ammazzato nessuno, ma si sa, noi Hutu siamo accusati di essere tutti
assassini. Signore, mi creda, quelli che hanno fatto il lavoro (questo è il termine che ha
usato: le travail, il lavoro) hanno dovuto lavorare davvero duro. Perché è stato un duro
lavoro fisico. Certo, per nulla divertente, ma qualcuno doveva pur farlo, perché la gente
aveva il diritto di non vivere con gli inyenzi, gli scarafaggi, in casa.
Questo è, grosso modo, il linguaggio che ho sentito usare in Bosnia dai carnefici
del genocidio bosniaco. È stato descritto, nel contesto di un altro genocidio e nei
particolari più agghiaccianti, da Cristopher Browning, uno storico americano
della Shoah, nel suo libro Ordinary men4. Brown racconta la storia del 101° battaglione di riserva della polizia tedesca, formato nella città di Amburgo.
Nell’estate del 1942 il battaglione uccise venticinquemila ebrei nella cittadina di
4
CRISTOPHER R. BROWNING, Ordinary men. Reserve Police Battalion 101 and the final solution in
Poland, Harper Perennial, New York 1993; trad. it. Uomini comuni. Polizia tedesca e soluzione
finale in Polonia, a cura di Laura Salvai, Einaudi, Torino 1995 [N.d.C.].
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
5 / 2014
Józefów Lubelski e dintorni. Si trattava, come detto, di un battaglione di riserva
della polizia. Non erano della Gestapo o delle SS, ma neanche della Wehrmacht.
Erano signori di mezza età, dai quarantacinque anni in su, troppo vecchi per venire chiamati alle armi, mobilitati in un battaglione di polizia e spediti in Polonia
a svolgere compiti di polizia. Cosa che nel caso specifico voleva dire uccidere gli
ebrei. Venivano da tutti gli impieghi possibili. Potevano essere stati insegnanti,
impiegati, ingegneri, conducenti di autobus, scaricatori di porto. Quasi tutti
sposati con figli.
Gli ufficiali al comando del 101° battaglione di riserva della polizia,
quando giunse l’ordine di giustiziare gli ebrei, offrirono un’alternativa ai loro
uomini. “Se pensate di non farcela – dissero – potete dire che non prenderete
parte alle esecuzioni e verrete trasferiti a un’altra unità”. Non erano previste punizioni. Nessuno sarebbe finito in carcere per essersi rifiutato di uccidere una
persona. Il peggio che gli sarebbe potuto capitare era di venir trasferito a un’altra
unità. Quelle persone non erano dei fanatici. Quelle persone non erano ideologizzate. Quelle persone eravamo voi ed io. Quelle persone erano uomini comuni.
Ci furono casi sporadici di rifiuto, ma la grande maggioranza decise di non abbandonare i compagni. Non sarebbe stato onesto, non sarebbe stato corretto lasciare che fossero gli altri a fare il lavoro sporco, godendo di una situazione privilegiata. Morale della favola: quelle persone erano dotate di senso morale, e
hanno fatto quello hanno fatto non perché fossero assetate di morte, ma per solidarietà verso i loro compagni. Lo hanno fatto per quello che ritenevano essere
uno scopo morale: il miglioramento della razza umana. L’eliminazione degli ebrei
serviva a migliorare le sorti dell’umanità.
Pensavano a se stessi in termini eroici. In un celebre discorso rivolto nel
1943 ai capi delle SS radunatisi nella città occupata di Poznań, Heinrich Himmler
ebbe a dire: “Siamo tutti qui per aver preso parte a una gloriosa pagina di storia
tedesca che non sarà mai scritta”. Non sarà mai scritta perché non possiamo
aspettarci che esseri inferiori comprendano la gloriosa nobiltà di una simile impresa, ma questa è una impresa gloriosamente nobile. Esattamente come gli assassini dei Tutsi in Ruanda crederanno di stare partecipando a un’impresa gloriosa, anche se non si divertiranno a farlo. E in effetti non si divertirono affatto.
Certo, poteva esserci talvolta una vacca da rubare, una donna da stuprare o
qualcuno che ti stava antipatico da ammazzare, ma fare a pezzi una persona col
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KONSTANTY GEBERT
LA BANALITÀ DEL GENOCIDIO
machete è un lavoro duro, pesante. Se lo devi svolgere sette giorni alla settimana,
dalle 9 alle 17 (era stato tutto organizzato alla perfezione), non è affatto divertente. Lo fai perché sei una persona con senso morale, perché credi che sia un
lavoro che qualcuno deve pur fare in nome del bene comune. In ultima istanza:
perché credi che il governo abbia il diritto di chiederti quali bambini nella tua
classe siano Tutsi e quali Hutu.
Questo è quello che chiamerei – rifacendomi al fondamentale testo di
Hannah Arendt sul processo a Eichmann, La banalità del male5 – la banalità del
genocidio. Gli assassinii di massa, gli stermini – che avvengono tanto ai nostri
tempi quanto sono avvenuti nella storia – non sono banali. Sono eventi straordinari dal momento che sia i carnefici sia le vittime li concepiscono come tali. Il
genocidio in qualche modo è incipiente nelle istituzioni correnti di qualsiasi Stato
o società ben organizzati. Una volta che accettiamo il principio per il quale il
governo, responsabile del bene comune, ha il diritto di compiere certe azioni
riguardo a determinati gruppi, abbiamo fatto il primo passo in questa direzione.
Tornando al Ruanda – che trovo un caso particolarmente affascinante – i
Tutsi e gli Hutu facevano parte di una struttura sociale assai complessa, concer54
nente fenomeni come l’accesso al potere o il lavoro svolto. Non si trattava di una
questione etnica che poteva in qualche modo essere sottoposta a verifica. I due
gruppi condividono lingua e cultura, non esistono tradizioni secondo cui uno è
giunto da un certo luogo e l’altro da un luogo diverso. In soldoni, ovviamente
semplifico la cosa all’eccesso, se uno fa il coltivatore molto probabilmente è un
Hutu, se uno è un allevatore altrettanto verisimilmente sarà un Tutsi. Era di gran
lunga meglio essere un Tutsi che un Hutu, dal momento che i re erano sempre
Tutsi.
Il Belgio ricevette il Ruanda nel 1919 come risarcimento bellico dalla
Germania. La trovo una cosa carina: usare un terzo paese come riparazione di
guerra offerta dal secondo paese al primo. Il Belgio non si era ancora ripreso dal
trauma provocato dalla rivelazione degli orrori perpetrati dal governo belga del
Congo, così che l’atteggiamento nei confronti del Ruanda fu: “Questa volta faremo la cosa giusta”. E fecero molte cose giuste: costruirono ospedali, scuole,
strade, ponti, dettero un’istruzione ai bambini ruandesi. Trovarono però che
5
HANNAH ARENDT, Eichmann in Jerusalem. A report on the banality of evil, Viking Press, New
York 1964; trad. it. La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, a cura di Pietro Bernardini,
Feltrinelli, Milano 1964 [N.d.C.].
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
5 / 2014
quella maledetta mescolanza di Tutsi e Hutu fosse qualcosa di terribilmente
complesso da gestire e decisero di risolvere il problema con metodi scientifici.
Per dieci anni squadre di antropologi belgi attraversarono il Ruanda da un
capo all’altro, misurando l’angolazione dei nasi, l’arricciamento dei capelli e il
colore degli occhi dei suoi abitanti, così da poter finalmente stabilire, con metodi
scientifici, chi fosse Hutu e chi Tutsi. In conclusione venne escogitata la seguente
definizione: se sei alto 1.90 o più, se hai dieci vacche o più sei un Tutsi; altrimenti
sei un Hutu. E da allora le cose vanno così. E le identità vennero registrate su
appositi documenti: basta con questa confusione africana per cui oggi sei un Tutsi
e domani un Hutu.
Le carte d’identità furono un’invenzione europea introdotta in Ruanda
con le migliori intenzioni. Ma senza queste carte d’identità, con le loro annotazioni “Tutsi” e “Hutu”, il genocidio non sarebbe stato possibile. Grazie alla
meravigliosa introduzione della scienza europea, compiere un genocidio divenne
la cosa più facile del mondo. Certo, non sarebbero bastate le sole carte d’identità.
I belgi avevano portato in Ruanda anche l’istruzione scolastica, e in quel campo
erano davvero bravi. Insegnavano la storia del Ruanda. Ora, il Ruanda era una
società basata sulla comunicazione orale. Non esisteva una storia scritta, solo miti,
peraltro piuttosto vaghi. I belgi portarono in Ruanda la scienza e la storia, e
presero a insegnare la storia del Ruanda per come pensavano che fosse stata.
C’era una storia completamente inventata, messa su da John Speke, un
avventuriero britannico che era stato il primo europeo a entrare nel Ruanda alla
metà del XIX secolo6. Speke aveva notato che alcuni ruandesi erano più alti o
avevano la pelle più chiara degli altri. Ai suoi occhi, questi ruandesi più “bianchi”
erano il motivo per cui esisteva uno Stato. Così decise che i Tutsi, un certo numero dei quali erano più alti e avevano una pelle più chiara degli Hutu, in realtà
erano invasori giunti da nord – forse dall’Etiopia o dalle rive del Mediterraneo, in
ogni caso da un qualche luogo più vicino all’Europa, alla civiltà europea – che si
erano spinti a sud e avevano conquistato la regione. E questo sarebbe stato il
motivo per cui avevano uno Stato. Non c’era uno straccio di prova di tutto ciò.
6
John Hanning Speke, ufficiale dell’esercito indiano, esploratore e scopritore del lago Victoria,
sostenitore del razzismo scientifico, si inventò la discendenza dei Tutsi da Cam, figlio di Noé. Cfr.
JOHN HANNING SPEKE, Journal of the discovery of the source of the Nile, Blackwood and Sons,
Edinburgh-London, 1864; trad. it.: GRANT E SPEKE, Viaggio alle sorgenti del Nilo, Serafino
Muggiani e Comp., Milano 1878 [N.d.C.].
55
KONSTANTY GEBERT
LA BANALITÀ DEL GENOCIDIO
Non c’era una sola leggenda, una credenza popolare su degli invasori giunti da
nord. Niente. Era una favola pura e semplice.
E questa favola i belgi la insegnavano a scuola. Ai bambini Tutsi, prevalentemente, visto che i Tutsi, lo sappiamo, erano più bianchi e pertanto migliori:
una razza superiore. E in quanto superiore, hanno il diritto e il destino di dominare gli Hutu. E non è difficile capire come agli Hutu non facesse poi tutto questo
piacere sentirsi dire che erano una razza inferiore.
Dopo la seconda guerra mondiale, il Belgio ha continuato a governare il
Ruanda, ma nel frattempo il sistema sociale del paese aveva conosciuto un cambiamento epocale: la maggioranza fiamminga, a lungo dominata dalla minoranza
vallone, era andata al potere. Gran parte dei quadri inviati dal Belgio in Ruanda
erano missionari cattolici, spesso provenienti dalle Fiandre. E iniziarono a interpretare la situazione in Ruanda attraverso l’ottica di quella belga. C’era una
maggioranza, gli Hutu, oppressi da una minoranza. Era giunto il momento che la
maggioranza rivendicasse i propri diritti. Gli stessi belgi che in precedenza avevano convinto i Tutsi di essere una razza superiore e spiegato agli Hutu che erano
una razza inferiore, adesso ammaestravano gli Hutu: Siete la maggioranza! Avete
56
dei diritti democratici da difendere! Dovreste essere voi i padroni di questa terra,
e loro – gli invasori stranieri – dovrebbero imparare a stare al loro posto.
I primi massacri su larga scala avvennero negli ultimi mesi di amministrazione belga in Ruanda, e i belgi non fecero nulla per impedirlo: in fondo, era
la maggioranza che si stava affermando. L’idea era che quello che stava accadendo in Ruanda fosse “un tipico sterminio africano” (ci sono persone che pensano che in Africa piovano stermini come in Inghilterra cade la pioggia: non sarebbe altro che l’ordine naturale delle cose) è semplicemente ridicola. Tutto
questo era stata la conseguenza di una costruzione intellettuale importata
dall’Europa.
L’ultima causa scatenante furono i media. Dopo il 1989 i francesi, che
avevano ereditato dai belgi il patronato politico di un Ruanda formalmente indipendente, costrinsero l’allora dittatore ruandese, il generale Habyarimana, a
liberalizzare le leggi sui media, quelle sui partiti e a dare vita a una vera democrazia. Fece quasi subito la sua comparsa un giornale populista a grande tiratura,
il «Kangura». Kangura in Kinyaruanda significa “Déstalo”. Ricorda da vicino uno
slogan citato da Klemperer: Deutschland erwache, “Déstati, Germania!”.
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
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«Kangura» si prefiggeva come compito quello di rendere i lettori Hutu
edotti delle iniquità commesse dai Tutsi. Esiste persino un testo pubblicato da
«Kangura» e intitolato I dieci comandamenti degli Hutu dove si sostiene che gli
Hutu devono sapere che i Tutsi, tutti i Tutsi, sono loro mortali nemici, avendo
sempre cercato di dominarli. Due o tre comandamenti riguardano le donne Tutsi,
viste come particolarmente pericolose. Le donne Tutsi infatti corrompono gli
uomini Hutu distraendoli dagli indispensabili legami di solidarietà razziale. Anche in questo caso si tratta di un mito facilmente rintracciabile nella propaganda
antisemita tedesca degli anni Venti e Trenta. I Dieci comandamenti insistono sul
fatto che tutti gli Hutu considerino tutti i Tutsi come il male assoluto.
Senza questo combinato disposto di scienza moderna, istruzione moderna
e moderni mass media, il genocidio ruandese non sarebbe mai potuto accadere.
Tutte queste istituzioni sono un retaggio dell’Illuminismo. Sarebbe fin troppo
facile prendersela con l’Illuminismo, considerando questa impresa come una
delle sue più orribili conseguenze. Ma se un qualche fenomeno presenta conseguenze patologiche, non significa che sia patologico in sé. Occorre comunque
essere sempre consapevoli dei pericoli che si celano dietro occorrenze apparentemente innocue.
Ciò che ci viene insegnato a scuola su noi stessi o sugli altri non è innocente. Non è innocente ciò che leggiamo nei mass media su questo o quest’altro
gruppo etnico, religioso, sessuale o altro, descritto come composto da animali o
insetti.
Il linguaggio è uno degli elementi chiave. È stato incredibile vedere i miei
amici ruandesi, che non avevano mai sentito nominare Klemperer, leggerlo e dire:
“Ma si tratta di noi! Questo è quanto è accaduto qui!”.
C’è ancora una cosa a proposito del linguaggio, con cui vorrei concludere.
C’è un ulteriore aspetto perverso per quel che concerne la storia del genocidio. Il
genocidio può divenire una narrazione di successo. Se facciamo caso alla ricezione pubblica della Shoah, ovvero dello sterminio degli ebrei a opera dei tedeschi durante la Seconda guerra mondiale, ci rendiamo conto che, di fatto, è una
narrazione di successo. Mai prima d’ora nella storia del genere umano è accaduto
che le sofferenze di un gruppo oppresso siano state riconosciute nella stessa misura in cui le riconosce quel gruppo. La narrazione delle sofferenze ebraiche –
nelle modalità in cui le ricordano gli ebrei – è divenuta la narrazione universale
57
KONSTANTY GEBERT
LA BANALITÀ DEL GENOCIDIO
delle sofferenze ebraiche. Non è mai capitato prima. Si tratta di un incredibile
successo e tutti invidiano agli ebrei un successo di tale portata.
Se andate per strada, non importa se a Parigi, Londra, Amsterdam, o in
qualsiasi altra capitale europea, e chiedete dell’Olocausto, le risposte saranno –
nella maggior parte dei casi – che l’Olocausto è consistito nello sterminio degli
ebrei per mano dei tedeschi. Se doveste effettuare un sondaggio su chi abbia ucciso chi in Ruanda, se siano stati i Tutsi a massacrare gli Hutu o gli Hutu a sterminare i Tutsi – perché, fa differenza? – molto probabilmente la maggioranza
delle risposte suonerebbe: “Non lo so e non mi importa”. Ancora oggi gli armeni
non riescono a ottenere che i discendenti dei loro carnefici riconoscano il genocidio commesso. Ma la Shoah è riconosciuta. La Shoah viene ricordata esattamente nello stesso modo in cui la ricordano gli ebrei e questo ha generato quello
che, un po’ perversamente, chiamo “invidia della Shoah”, “invidia dell’Olocausto”. E cederei volentieri la grande storia di successo in cambio dei sei milioni
di vittime, peccato che non ci sia nessuno in grado di effettuare lo scambio.
La morale che possiamo trarre è che una simile banalizzazione dell’Olocausto finisce con il banalizzare non solo il termine, ma anche il concetto che lo
58
sottende. Non si tratta soltanto di un insulto alla memoria delle vittime, perché ci
rende insensibili alla possibilità che si possa divenire testimoni di un nuovo genocidio, magari non in Europa (anche se il genocidio precedente a quello ruandese ha avuto luogo proprio in Europa, in Bosnia). Dobbiamo rimanere costantemente vigili e attenti a ogni possibile presagio di genocidio nel discorso pubblico e nelle pubbliche istituzioni, tanto quanto dobbiamo rimanere costantemente vigili e attenti a ogni sintomo di banalizzazione del termine e del concetto
nel discorso pubblico.
Il genocidio è uno dei grandi contributi del XX secolo alla storia
dell’umanità. È un fenomeno nuovo. Non è mai capitato prima, ma temo che non
sarà l’ultima volta che ne sentiremo parlare. È facile da commettere e – se non
avete la sfortuna di perdere una guerra nel frattempo – è assai probabile che la
farete franca. I governanti tedeschi persero la guerra e si sono ritrovati a Norimberga. I genocidi Hutu hanno perso la guerra e qualcuno di loro è sotto
processo, mentre altri si sono dati alla fuga. Dal momento che è semplice da
commettere, che è radicato nella logica dello Stato illuminista e che è facile farla
franca, sicuramente ne vedremo altri. L’unica cosa che si frappone tra un geno-
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
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cidio che avrà luogo e uno che non accadrà è l’insegnante che riceve una circolare
dal Ministero dell’Istruzione: “Redigete un elenco degli studenti Hutu e Tutsi
nelle vostre classi”. Immaginatevi di essere quell’insegnante e di dirvi: “Al diavolo, no! Non lo farò e non devo certo fornire una giustificazione. Sarà meglio
che siano loro a spiegarmi perché vogliono una tale informazione, prima di tutto!”. Quello di cui abbiamo bisogno non sono impiegati statali che eseguano le
circolari dei loro Ministeri. Quello di cui abbiamo bisogno sono persone che non
facciano le cose che sentono essere sbagliate, anche se dovessero sembrare giuste.
Jan Karski aveva iniziato la sua missione come testimone: pensava, da
soldato disciplinato e leale, che sarebbe bastato riportare i fatti ai suoi superiori, e
loro avrebbero saputo che fare. E invece no: non soltanto i suoi superiori, ma
nemmeno i superiori dei suoi superiori, i leader del mondo libero, seppero che
fare. O, peggio ancora, sapevano che sarebbe bastato non far nulla. Per questo
Karski per tutta la vita ebbe la sensazione di aver fallito: la Shoah era potuta andare avanti, malgrado il fatto che gli Alleati sapessero.
Roméo Dallaire non è riuscito a forzare la mano all’ONU, che pur sempre
rappresentava in Ruanda, così da farsi mandare alcune migliaia di soldati in più,
con i quali – era sicuro – sarebbe riuscito a fermare il genocidio. Conclusa la sua
missione e tornato nel suo Canada natale, è caduto in una profonda depressione.
Per tutta risposta, l’esercito canadese l’ha messo a riposo. Sembra che una persona
che ha reagito a un genocidio cadendo in depressione non sia adatta al comando.
Viene da chiedersi se lo sarebbe stata, qualora non avesse avuto una tale reazione.
Tanto Karski quanto Dallaire, inascoltati dai propri superiori, si sono
successivamente rivolti all’opinione pubblica. Ci hanno informati: ecco che cosa
abbiamo visto, ecco che abbiamo fatto, ed ecco il risultato. In un mondo dove il
genocidio ha diritto di cittadinanza, nessuno può permettersi di ignorare queste
testimonianze7.
[Traduzione dall’inglese e cura di Luca Bernardini]
[«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», 5, 2014, pp. 48-59]
7
Una prima versione del testo è stata presentata ad Amsterdam nel 2010, in occasione del 1°
Convegno Annuale di Humanity in Action [N.d.A.].
59
GIULIA LAMI
Storia di uno Stato segreto: un manuale della clandestinità
L
a pubblicazione in Italia del libro di Jan Karski Story of a Secret State, col
titolo La mia testimonianza davanti al mondo. Storia di uno Stato segreto1
è un contributo essenziale alla conoscenza della Resistenza polacca, per
la ricchezza della testimonianza dall’interno che offre su un tema noto, certo, ma,
per una serie di ragioni che sono emerse anche nel corso del convegno2, ancora
poco studiato in tanti suoi aspetti.
È stata una vicenda drammatica, soprattutto se consideriamo che proprio
60
la costruzione dello Stato segreto a opera del movimento clandestino in accordo
con il governo in esilio al fine di preservare la continuità statale e ridare vita nel
futuro dopoguerra a un paese ricomposto e libero – dopo quella che nel libro
viene definita la “quarta spartizione” – non poté avere luogo.
Giustamente Jerzy W. Borejsza sottolineava – in un saggio dedicato alla
Resistenza polacca – la “semantica complessa” del termine Resistenza applicato al
contesto polacco3. Questo termine ha una lunga tradizione proprio in Polonia,
dove era ben presente nelle sue varie accezioni nel pensiero politico polacco del
XIX sec.: niente di più logico quindi che applicarlo al periodo 1939-1945 in cui
senz’altro la Polonia resistette in varie forme all’invasore. Ma, appunto, nel caso
della Polonia la questione è delicata, perché da un lato il nemico è il tedesco, così
come negli altri paesi europei, dall’altro è il sovietico, identificato da alcuni du1
JAN KARSKI, La mia testimonianza davanti al mondo. Storia di uno Stato segreto, a cura di Luca
Bernardini, Adelphi, Milano 2013.
2
La giornata di studi Jan Karski. Una missione per l’umanità organizzata dal Consolato Generale
della Repubblica di Polonia in Milano, il Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere e quello
di Studi Storici dell’Università di Milano, tenutosi presso la Sala Napoleonica dell’Università degli
Studi di Milano, 13 maggio 2013 [N.d.C.].
3
JERZY W. BOREJSZA, La Resistenza in Polonia, in «Ricerche di storia politica», 1, 2002, pp.
77-91.
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
5 / 2014
rante, ma anche dopo la guerra, come il liberatore di popolazioni e territori occupati dai tedeschi e fondamentale artefice della vittoria alleata sul nazismo. Per
questo, forse, gli storici polacchi, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, per
reazione alla visione della Resistenza – intesa esclusivamente in senso anti-tedesco –
propria della Polonia Popolare, hanno preferito far ricorso più che al termine
“Resistenza” a quello di “Stato polacco clandestino”4 e di “Polonia clandestina”5.
In realtà, l’uso del termine “Resistenza” è appropriato, laddove si consideri che la Polonia non è stata sola nella sua lotta contro l’occupazione tedesca,
riconnettendosi idealmente alla più generale lotta portata avanti in Europa da
altri paesi caduti sotto il giogo tedesco6, anche se l’uso del termine “Stato polacco
clandestino” illustra una specificità dell’esperienza polacca che merita di essere
compresa e valorizzata. Come scriveva Giorgio Vaccarino nel suo ampio quadro
della Resistenza in Europa, “la Resistenza in ogni paese ebbe una fisionomia
propria, quasi una risultante del parallelogramma fra le sue componenti”7. In
questo senso, “nei paesi che lottarono per la difesa dell’identità nazionale [...] la
difesa della propria identità allargò la rosa degli avversari, accostando sovente
all’invasore tedesco quello sovietico” come fu nel caso della Polonia “che fin dal
primo giorno della progressiva occupazione tedesca dell’intero territorio, nel
settembre del 1939, vide la concorrenza sovietica sulla metà orientale di esso, e si
batté con metodi in realtà diversi contro l’una e l’altra occupazione”8.
Richiamo brevemente i fatti che sostanziano quanto detto sopra.
Già dall’agosto del 1939, con la firma del patto Ribbentrop-Molotov, di
cui quest’anno ricorre il 75° anniversario, la spartizione sovietico-tedesca
dell’intero territorio polacco e l’impegno congiunto previsto nel “protocollo
supplementare e segreto” a reprimere qualsiasi forma di agitazione polacca segnavano fin da subito il destino della Polonia9.
4
STANISŁAW SALMONOWICZ, Polskie Państwo Podziemne. Z dziejów walki cywilnej 1939-1945,
WSiP, Warszawa 1994; TOMASZ STRZEMBOSZ, Rzeczpospolita podziemna. Społeczeństwo polskie a
Państwo Podziemne 1939-1945, Krupski i S-ka, Warszawa 2000.
5
WŁODZIMIERZ BORODZIEJ, ANDRZEJ CHMIELARZ, ANDRZEJ FRISZKE, ANDRZEJ KRZYSZTOF
KUNERT, Polska Podziemna 1939-1945, WSiP, Warszawa 1991.
6
NORMAN DAVIES, La rivolta. Varsavia 1944, Rizzoli, Milano 2004, cap. 4, La Resistenza. Cfr.
anche IDEM, Storia d’Europa, vol. I, Bruno Mondadori, Milano 2002.
7
GIORGIO VACCARINO, Lineamenti della Resistenza in Europa, in La Resistenza e l’Europa. Atti del
Convegno di studi storici, a cura di Arturo Colombo, Mondadori, Milano 1984, pp. 37-85, p. 37.
8
IVI, pp. 55-56.
9
Segnalo il volume Il patto Ribbentrop-Molotov, l’Italia e l’Europa (1939-1941), a cura di Alberto Basciani, Antonio Macchia, Valentina Sommella, Aracne, Ariccia 2013, che raccoglie, tra
61
GIULIA LAMI
STORIA DI UNO STATO SEGRETO
Anche se la “cinica alleanza”, per usare un’espressione di Ettore Cinnella,
era destinata a durare solo un biennio, ai due “briganti totalitari”10, Hitler e Stalin, regalò “copiosi frutti” a spese del resto dell’Europa. Va ricordato peraltro che
“i protocolli segreti del trattato hanno incluso in fasi successive anche piani di
spartizione dell’Europa settentrionale e orientale in sfere di influenza, capaci con
la violenza di sottomettere interi paesi nei quali la brutalità organizzata sarebbe
diventata ‘interna’, dopo l’invasione e le annessioni condotte senza dichiarazioni
di guerra”, come scrive Alessandro Vitale, che accosta protocolli segreti e “democidio”, per l’azione finalizzata a rimuovere i cosiddetti elementi “ostili” dai
territori conquistati quali Paesi Baltici, Polonia, Bessarabia, Bucovina settentrionale11. Ma, per restare alla Polonia, è ben vero, come notava William Shirer –
citato da Cinnella – che “fu Hitler a combattere e vincere la guerra in Polonia, ma
il maggior guadagno l’ebbe Stalin le cui truppe non avevano sparato quasi
nemmeno un colpo”12. Se si guarda peraltro alla posizione della Polonia nel periodo interbellico e al suo tentativo di mantenere una “politica di equidistanza”
fra Berlino e Mosca, non si può che vedere nel patto Ribbentrop-Molotov il tragico fallimento di questa articolata “politica di bilanciamento” che la Polonia
62
attuò fra i due potenti vicini fino alla crisi del 193913. Non cedendo alle richieste
tedesche e non aprendosi alla collaborazione con l’Unione Sovietica, ma compiendo una scelta filo-occidentale, la Polonia divenne senz’altro un simbolo, ma
pagando un prezzo altissimo, che non le fu reso alla conclusione delle ostilità.
La Resistenza infatti non si esercitò solo sul piano militare, ma cercò di
preservare l’integrità del paese, anzitutto a livello del corpo sociale e politico. Qui
è il vero nodo rappresentato dal governo clandestino, che costituisce l’effettiva
specificità polacca nel quadro della Resistenza europea.
Un governo clandestino, del resto, era stato messo in piedi efficacemente
già durante l’insurrezione anti-russa del 1863-1864, la cosiddetta Insurrezione di
gli altri, innovativi contributi sulla genesi del patto e sulle vicende polacche che qui ci intere ssano.
10
ETTORE CINNELLA, La cinica alleanza. I rapporti fra URSS e Germania nel 1939-1941, in Il patto
Ribbentrop-Molotov, cit., pp. 71-100.
11
ALESSANDRO VITALE, Protocolli segreti e “democidio”: i due volti di un patto, specchio del Novecento, in Il patto Ribbentrop-Molotov, cit., pp. 113-123, p. 114.
12
WILLIAM L. SHIRER, Storia del Terzo Reich, Einaudi, Torino 1962, p. 686, cit. in ETTORE
CINNELLA, La cinica alleanza, cit., p. 77.
13
SANDRA CAVALLUCCI, La Polonia e il Terzo Reich, in Il patto Ribbentrop-Molotov, cit., pp.
187-204.
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
5 / 2014
gennaio, nella quale 200.000 uomini per circa venti mesi combatterono contro le
ben più numerose armate zariste14. In questa occasione si era costituito un governo nazionale, in grado di esercitare estesi poteri sia all’interno, sia nei rapporti
con i suoi rappresentanti all’estero: come ben sottolinea Borejsza, si cercò di resuscitare questa esperienza già prima del 1914, cioè nel 1877-1878 e nel 1905, e,
per quanto non ci si riuscisse, l’idea di un governo in grado di organizzare una rete
capace di guidare la Resistenza costituì un sicuro riferimento nel caso del 1939.
Come ribadiva Zofia Korbońska nella prefazione alla nuova edizione del
libro Fighting Warsaw del marito Stefan Korboński, uno dei protagonisti della
creazione dello Stato clandestino dal 1939, questo fatto deve essere considerato
come una delle pagine più gloriose nella storia contemporanea della Polonia15.
Questo governo interno si integrava con quello di Londra, costituiva un’autorità
nazionale sul suolo patrio che preservava la continuità statuale e teneva unita la
società polacca, guardando alla futura riconquista dell’indipendenza.
In questa prospettiva, erano i partiti dell’opposizione del periodo interbellico a esservi rappresentati, dal socialista, al popolare contadino, al partito
nazionale, fino a quelli minori di centro-sinistra.
Certo, come spiega Richard C. Lukas16, non fu facile mantenere l’unità del
governo né all’estero né in patria perché la sua linea, in definitiva moderata, veniva contestata da destra e da sinistra dello spettro politico. Non fu quindi un
processo né semplice né lineare quello che portò a mettere in piedi un’autorità
politica e una forza militare all’interno del paese che avessero un carattere unitario, che potessero effettivamente svolgere i compiti militari e politici richiesti
dalle circostanze in accordo con il governo in esilio17.
Per ciò che riguarda infatti il periodo 1939-1941, non bisogna dimenticare
che la Polonia subiva due occupazioni, che assumevano forme diverse, ma che in
sostanza incutevano egualmente terrore. Si può concordare, in stretta misura, con
14
JERZY W. BOREJSZA, La Resistenza in Polonia, cit., p. 83.
STEFAN KORBOŃSKI, Fighting Warsaw. The Story of the Polish Underground State. 1939-1945,
Hippocrene books, New York 2004 (1a ed. Macmillan, New York 1956).
16
RICHARD C. LUKAS, Forgotten Holocaust. The Poles under German Occupation. 1939-1944,
Hippocrene books, New York 2010 (1a ed. 1990).
17
IVI. Cfr. anche GIORGIO VACCARINO, Storia della Resistenza in Europa 1938-1945. I paesi
dell’Europa centrale: Germania, Austria, Cecoslovacchia, Polonia, Feltrinelli, Milano 1981, pp.
326-336. Sulle strutture del governo e dello Stato clandestini, oltre alle opere succitate, cfr.
WALDEMAR GRABOWSKI, Delegatura Rządu Rzeczpospolitej Polskiej na Kraj, Instytut Wydawniczy Pax, Warszawa 1995.
15
63
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STORIA DI UNO STATO SEGRETO
l’opinione diffusa che se nelle terre annesse al Reich e nel governatorato generale
la politica di “germanizzazione” e “colonizzazione” secondo le linee di quello che
poi sarebbe stato il Generalplan Ost aveva un aspetto immediatamente genocidario18, nella parte di Polonia orientale occupata dai sovietici si mirava selettivamente a neutralizzare ed eliminare coloro, in massima parte membri dell’intelligencija in senso lato, che avrebbero potuto giocare un ruolo nella Resistenza attuale e futura contro i piani di sovietizzazione. Di qui le massicce deportazioni
verso la Russia delle forze attive della nazione, secondo modalità brutali oggi ben
note, ma alle quali si è a lungo messa la sordina19.
È questo il contesto in cui ebbe luogo l’efferata esecuzione da parte sovietica degli ufficiali polacchi nella foresta di Katyń nel 1940 – che sarebbe stata
rivelata dai tedeschi nell’aprile del 1943, con un effetto devastante sulle già tese
relazioni polacco-sovietiche – su cui, come è noto, è stato a lungo difficile fare
luce20.
La Polonia, fin da subito, diede il suo contributo alla comune causa con gli
Alleati, non facendo mancare il proprio appoggio militare grazie alle truppe che
avevano potuto trovare riparo all’estero fin dagli inizi del conflitto, nella fanteria,
64
nell’aviazione, nella marina su un fronte molto ampio21.
Questa partecipazione alla guerra alleata si rafforzò dopo la firma del
trattato fra Polonia e Unione Sovietica, nel luglio del 1941, che certo non soddisfaceva le richieste polacche di restaurare la linea di frontiera della pace di Riga
(1921), ma che in effetti annullava il patto tedesco-sovietico del 1939, permetteva
la creazione di un esercito polacco su suolo sovietico e apriva la prospettiva per il
rilascio dei prigionieri ancora detenuti nelle prigioni e nei campi di quel paese.
Non fu un processo facile, né fu pienamente attuato se si tiene conto anche del
numero dei civili trattenuti in Unione Sovietica, ma indubbiamente aprì la strada,
attraverso molte peripezie e perdite, al trasferimento delle truppe polacche
dall’Unione Sovietica all’Iran e poi il loro contributo allo sforzo bellico alleato dal
18
JERZY W. BOREJSZA, L’antislavismo di Adolf Hitler: contro polacchi, ucraini, russi, in «poloniaeuropae», 2, 2011, <www.poloniaeuropae.eu/wp-content/uploads/2012/11/Borejsza_ Lantislavismo-Hitler.pdf>.
19
La testimonianza insuperata per forza e bellezza del tragico destino di prigionia che colpì molti
polacchi resta quella di GUSTAW HERLING-GRUDZIŃSKI, Un mondo a parte, Laterza, Bari 1958.
20
VICTOR ZASLAVSKY, Il massacro di Katyń: il crimine e la menzogna, Ideazione, Roma 1998.
21
Per un’efficace sintesi storica della Polonia durante il secondo conflitto mondiale si veda JÓZEF
GARLIŃSKI, Polska w drugiej wojnie światowej, Odnowa, London 1982. Per i rapporti diplomatici: Historia dyplomacji polskiej, a cura di Waldemar Michowicz, vol. 5, PWN, Warszawa 1999.
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5 / 2014
Medio Oriente all’Italia, dove il 2° Corpo d’Armata del gen. Władysław Anders
ebbe un ruolo fondamentale nella liberazione del nostro paese dai nazisti.
Bisogna anche ricordare l’apporto polacco a livello di intelligence, testimoniato dal ruolo cruciale svolto dai matematici polacchi nella precoce decifrazione di Enigma, che aiutò in modo essenziale la vittoria degli Alleati22.
A questo sforzo esterno si univa quello interno, grazie all’Armia Krajowa
(d’ora in poi AK), che raggiunse, come ricorda Vaccarino, i 380.000 uomini, di
contro all’Armia Ludowa di soli 20.000, organizzata dai comunisti. Una divisione,
questa, destinata poi a pesare sui futuri destini del paese.
Fu proprio l’AK a impegnarsi con 40.000 dei suoi uomini nell’Insurrezione di Varsavia, “l’episodio più sorprendente e clamoroso dell’intera Resistenza
europea”23. Ma anche il più controverso, per come si è situato al centro dei rapporti sovietico-polacchi durante le ultime fasi della guerra.
La Resistenza polacca aveva sempre puntato a un’insurrezione contro
l’occupante tedesco, che avrebbe dovuto permettere al governo clandestino e alle
sue strutture di uscire allo scoperto, testimoniando il loro diritto a incidere sui
futuri destini della nazione. A questo scopo, dato l’alto numero di vittime che la
lotta partigiana comportava, furono lungamente privilegiate azioni di contrasto e
di sabotaggio, che non compromettessero troppo profondamente il potenziale
bellico a disposizione delle truppe dell’interno. In questo senso, la Resistenza
comunista, che non era peraltro in grado di opporre ai tedeschi la stessa forza di
contrasto, ebbe sempre buon gioco nell’accusare l’AK di attendismo, di scarsa
efficacia bellica. In realtà, pur nella difficoltà di individuare la giusta scelta strategica, che combinasse efficacia e autoperpetuazione, le perdite umane nel campo
dell’AK furono elevatissime lungo tutto il corso del conflitto, per non parlare del
costo che ebbe l’Insurrezione di Varsavia.
In generale, va precisato che il contributo della Resistenza polacca in toto
è comunque impressionante su scala europea. Come ricorda Borejsza, sulla scorta
anche delle stime di Andrzej Paczkowski, prima del 1944 alle 62.000 vittime circa
della ZWZ-AK vanno aggiunte le perdite subite “da altre formazioni (battaglioni
contadini legati alla sinistra della Guardia Popolare, comunisti – trasformati nel
gennaio 1944 in Armata Popolare) – senza dimenticare le forze della destra na22
GIULIA LAMI, OTTAVIO RIZZO, CARLO MAZZA, Enigma: decifrare una vittoria, in «poloniaeuropae», 2, 2011, <www.poloniaeuropae.eu/wpcontent/uploads/2012/11/Lami_Mazza_Enigma. pdf>.
23
GIORGIO VACCARINO, Lineamenti della Resistenza in Europa, cit., p. 58.
65
GIULIA LAMI
STORIA DI UNO STATO SEGRETO
zionalista raggruppate nelle Forze Armate Nazionali, Narodowe Siły Zbrojne
(NSZ)”, per un totale di 90.000-100.000 vittime, non sempre armate24.
Nel 1944, davanti all’avanzare delle forze sovietiche, divenne importante il
momento della collaborazione con esse, ma anche l’attenzione a tutelare il ruolo
del governo clandestino che avrebbe voluto essere riconosciuto come interlocutore per un futuro accordo politico. Questo in realtà non accadde mai, anzi, durante il dispiegarsi dell’azione Burza nel 1944, che mirava ad appoggiare l’azione
sovietica contrastando i tedeschi nelle terre orientali, nella Polonia centrale e, in
prospettiva, nella Varsavia occupata, risultò chiaramente che la collaborazione
con i sovietici si traduceva in un insuccesso, coronato spesso, paradossalmente,
dal disarmo e dalla deportazione delle forze polacche precocemente individuate.
Mosca subordinava l’accordo militare a quello politico, da attuare secondo i suoi
tempi e i suoi interessi, in cui certo non rientrava il riconoscimento della Resistenza non-comunista, qual era quella rappresentata dal governo clandestino.
In questo contesto di isolamento, dove non ci si poteva attendere aiuto
dagli alleati occidentali, ma neanche dai sovietici, al contrario, maturò la decisione di condurre a Varsavia un’insurrezione autonoma, che consacrasse in certo
66
modo gli ininterrotti sacrifici condotti dal 1939 e impedisse che senza colpo ferire
a un occupante se ne sostituisse, proprio a Varsavia, un altro.
I sovietici, e tutta la storiografia conseguente, hanno sempre stigmatizzato
l’Insurrezione di Varsavia come improvvida, avventurista, non concordata con la
parte sovietica e quindi destinata all’insuccesso: in realtà ogni ricerca di contatto
con i sovietici fu da questi disattesa, nell’ottica di un progetto politico alternativo
già da tempo messo a punto25.
Ricordo che la città si levò contro i tedeschi dal 1° agosto al 3 ottobre 1944
senza ricevere alcun aiuto dall’esterno, perché gli alleati occidentali non potevano
soccorrerla dall’aria, essendo bloccati dal veto sovietico. I pochi voli che furono
effettuati con equipaggi polacchi dall’Italia meridionale alla volta di Varsavia
verso la fine della disperata impresa non solo furono a quel punto inefficaci, ma
costarono ulteriori perdite perché la mancanza di carburante ne impediva il ritorno.
24
JERZY W. BOREJSZA, La Resistenza in Polonia, cit., p. 87. Il rimando di Borejsza è: ANDRZEJ
PACZKOWSKI, Półwieku dziejów Polski 1939-1989, PWN, Warszawa 1995.
25
Anche in questo caso rimando alla valida analisi generale di GIORGIO VACCARINO, Storia della
Resistenza in Europa, cit.
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5 / 2014
L’immagine di Varsavia, stretta nella morsa dei tedeschi e abbandonata
alla sconfitta dal calcolo sovietico e dall’impotenza alleata26, è stata un punto
centrale nella letteratura, come nella storiografia, che ha rinnovato, in certo senso,
lo stereotipo della “Polonia-martire” d’ottocentesca memoria, senza tuttavia che
vi fosse poi una presa di coscienza della gravità di ciò che era accaduto e che già
prefigurava l’isolamento della Polonia dietro la Cortina di Ferro del dopoguerra.
Per i sovietici si trattava di vanificare così tutto il lavoro, l’impegno e il sacrificio
dello Stato clandestino polacco che aveva progettato di ricostituire democraticamente la sovranità perduta. Non sarebbe stato infatti il governo polacco legittimo, a Londra e in patria, a insediarsi a Varsavia, ma l’eterodiretto Comitato di
Liberazione Nazionale costituito a Lublino per volere dei sovietici. A questo,
come è noto, si accompagnò la definitiva sconfitta dell’AK, la liquidazione del
governo clandestino, la persecuzione dei suoi sostenitori, in senso specifico e in
senso più generale, fino almeno al 1956.
È in questo quadro che si inserisce il libro di Karski, una delle migliori
descrizioni della Polonia clandestina e di un’importante serie di operazioni
condotte dalla Resistenza polacca fin dal 1939.
Jan Kozielewski, giurista di formazione, impiegato presso il Ministero
degli Esteri polacco, ufficiale dell’esercito, dopo una breve esperienza di prigionia nelle mani dei sovietici e dei tedeschi nel 1939, si unisce alla Resistenza che
viene costituendosi a Varsavia e, dal 1940, si impegna in rischiose operazioni di
collegamento con il governo in esilio.
Nel 1942 e nel 1943, ormai noto come Jan Karski, svolse missioni di
grande momento in Gran Bretagna e negli Stati Uniti con il compito di ragguagliare quanto più possibile sulla situazione della Polonia e in particolare degli
ebrei polacchi. La sua opera informativa non incontrò un’adeguata risposta
presso i politici occidentali, ma resta senz’altro una pietra miliare nella storia del
secondo conflitto mondiale.
All’interno della Resistenza, oltre alla missione di corriere, Jan Karski ricoprì un ruolo importante nell’ufficio di propaganda e informazione dell’AK che
gli permise di studiare da vicino i meccanismi dell’occupazione e della Resistenza.
26
1944: Varsavia brucia, a cura di Krystyna Jaworska, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2006. Ricordo anche l’articolo di LUCIA PASCALE, L’Insurrezione di Varsavia nel cinema, nel teatro e nella
musica – con un’intervista a Mariusz Denst, in «poloniaeuropae», 2, 2011, <http://www.polonia
europae.eu/wp-content/uploads/2012/11/Pascale_Mariusz-Denst1.pdf>.
67
GIULIA LAMI
STORIA DI UNO STATO SEGRETO
Quale immagine della Resistenza e delle forme in cui si espletava ci offre
Storia di uno Stato segreto?
Senza essere riduttivi, direi che il libro si pone a tratti come un vero e
proprio manuale su come si organizza la Resistenza in un paese occupato, con le
difficoltà culturali, psicologiche ancor prima che tattiche e operative, che la messa
in piedi e la gestione di una rete clandestina comporta.
Vorrei quindi evidenziare alcuni momenti che mi sono parsi molto significativi per capire le caratteristiche della lotta clandestina, e questo può valere per
ogni riflessione su analoghi movimenti più vecchi, più recenti, ma soprattutto per
la Resistenza polacca così come è descritta da Karski.
Leggendo il libro, cercavo di tenere presente il contesto generale del 1944,
anno in cui uscirono per la prima volta le sue memorie, condizionate dalla necessità di non danneggiare involontariamente coloro che erano rimasti in patria,
ma anche di dimostrare la vitalità e l’importanza di una Resistenza polacca operante già dal 1939. Non parliamo poi delle censure che lo stesso Karski dovette
operare per le pressioni che riceveva, a partire dagli editori fino al governo polacco in esilio, legato alla volontà degli Alleati, così come ricostruisce Bernardini
68
nella postfazione, spiegando il successo clamoroso che ebbe il libro, ma anche il
suo diventare presto scomodo nel “clima d’esaltazione per la vittoria degli Alleati
e dopo il riconoscimento del nuovo governo polacco a opera degli Stati Uniti e
della Gran Bretagna (il 5 luglio 1945)”.
Quello che Karski si era proposto si rivelava ormai inutile: lo Stato segreto
polacco avrebbe dovuto dimostrare che uno Stato esisteva seppur sotto occupazione, che era in un rapporto di contiguità con il governo polacco in esilio e che
quindi attendeva solo il momento giusto per riaffermarsi, ricongiungendo una
storia statuale troncata dall’invasione sovietico-tedesca. Come abbiamo visto, il
fallimento dell’Insurrezione di Varsavia e la sistemazione post-bellica secondo la
logica delle sfere d’influenza concordata dai Grandi per tappe successive fra
Teheran, Postdam e Jalta determinarono il tramonto delle speranze, sia pur tenui,
che erano proprie anche del lucido e consapevole Karski.
Ma per tornare all’immediatezza del libro di Karski, questo offriva, appunto, l’immagine di una Resistenza polacca coesa ed efficiente, in cui la dimensione politica e quella militare andavano di pari passo, in cui i collegamenti fra
governo in esilio, delegato del governo, rete clandestina, rappresentanze di partiti
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
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politici funzionavano, compatibilmente con la situazione, molto bene. Certo,
sappiamo che non tutto fu così lineare, coerente, perfetto come Karski vuol
suggerire, ma l’enfasi sulla regolarità delle riunioni politiche, sulla dimensione
della stampa clandestina di vario orientamento, sulla vita culturale che prosegue,
interrata ma ininterrotta, anche se confligge spesso con quelle che erano le possibilità reali, dimostra quanto Karski volesse essere un portavoce e si ponesse
come un araldo con una missione da compiere. Mettere davanti al mondo il fatto
che la Polonia non era morta e che attendeva solo di riorganizzarsi in piena libertà
con uomini, strutture e così via non distrutte dalla guerra. Del sacrificio dei polacchi si sarebbe dovuto tenere conto al tavolo della pace!
Giustamente Karski è consapevole durante il suo viaggio nel 1943 presso i
maggiorenti britannici che:
la valutazione del contributo polacco allo sforzo bellico cambiava molto a seconda che lo
si osservasse da un gelido covo clandestino di Varsavia o dalla prospettiva londinese. Per
Londra il nostro apporto si riduceva a qualche centinaio di migliaia di soldati, una manciata di navi, un migliaio di aviatori celebrati per il loro eroico sacrificio durante la battaglia d’Inghilterra, ma che erano ben poca cosa rispetto alla sterminata potenza messa in
campo dagli Alleati. Il nostro sforzo bellico si limitava alla breve campagna di settembre e
a qualche atto di resistenza all’invasore.
Insomma che era mai
il sacrificio dei polacchi a fronte dell’incommensurabile eroismo e delle inenarrabili
sofferenze del popolo russo? In che misura i polacchi erano partecipi di quella titanica
impresa? E, soprattutto, chi erano i polacchi?27
Ecco quindi che Karski si sforza nel suo testo del 1944 di trasmettere il
senso e la misura dello sforzo polacco, della coesione morale che porta a rifiutare
compromessi fino a spingersi al martirio. Non c’è un Quisling polacco, ribadisce
Karski, e questo vorrà pur dire qualche cosa. Raphael Lemkin, per esempio,
scrisse nel 1942 che nella Polonia occupata, i tedeschi, a differenza che negli altri
paesi, specialmente quelli occidentali, non avevano guadagnato il favore di alcun
gruppo (come gli industriali): l’ideale del polacco infatti è “la libertà senza compromessi – la volontà di sacrificare ogni cosa per la libertà nazionale e l’onore
27
JAN KARSKI, op. cit., p. 484.
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GIULIA LAMI
STORIA DI UNO STATO SEGRETO
nazionale. Perciò tutte le proposte di avere rapporti d’affari con l’occupante sono
stati declinati con calma dignità28.
Di qui il senso di prostrazione che coglie Karski a Lafayette Square, Washington, dopo il lungo e dettagliato colloquio con Roosevelt, guardando la statua
di Kościuszko con la scritta La libertà gridò allorché Kościuszko cadde29. E abbraccia
brevemente tutte le sue esperienze nella lotta che la Polonia sta compiendo.
Vediamo allora brevemente alcuni punti significativi del suo racconto.
La Resistenza in Polonia è iniziata subito. Non ci hanno messo molto i
polacchi a capire in che trappola fossero finiti. Come nel film Katyń di Andrzej
Wajda, la gente che corre sul ponte è incalzata dai due lati: i russi e i tedeschi. C’è
di che suscitare fantasmi che risalgono a neanche vent’anni prima: di nuovo la
Polonia intera è sotto scacco. Nella parte di Polonia ex-russa, con il centro di
Varsavia, la percezione del pericolo diventa immediatamente memoria storica:
bisogna fare attenzione, cominciare a organizzarsi, tenersi pronti ad agire se
l’occasione si presenterà. Qui le insurrezioni del 1830 e del 1863 sono ricordi di
famiglia, dietro i quali si sa che esiste una lunga abitudine alla clandestinità e alla
cospirazione. A Cracovia forse la percezione del pericolo era inizialmente minore:
70
molti ricorderanno la scena del film di Wajda in cui l’intero senato accademico
viene arrestato, perché i professori rispondono alla convocazione: ma non era più
il tempo dell’Austria...
Quanto sia automatico questo rimando al passato lo dimostra il racconto
dell’arruolamento di Tadek, giovane sulla via della corruzione e del compromesso
che la madre affida a Karski perché lo redima affidandogli dei compiti. Il ragazzo
accetterà, la madre ne è sicura, il traviamento è passeggero: “In famiglia – spiega
la donna – abbiamo una lunga tradizione patriottica. Qualcuno ha sempre combattuto nelle insurrezioni nazionali”: il bisnonno deportato in Siberia per sette
anni, il nonno... “In famiglia ci siamo abituati. Sappiamo che cosa significhi morire per la patria”30. E in effetti il ragazzo risponde alla chiamata. E con lui molti
altri, come spiega Karski in viaggio a Cracovia, a Lublino, a Leopoli per portare
direttive, avere resoconti. E rende anche bene il quadro della diversa situazione
28
RAPHAEL LEMKIN, rec. a SEGAL SIMON, The New Order in Poland, A. Knopf, New York 1942,
in «The American Family in World war II», settembre 1943, pp. 183-184. Per un breve profilo di
Lemkin cfr. GIULIA LAMI, Raphael Lemkin e il male del XX secolo: riflessione sul genocidio,
<www.zatik.com/newsvisita.asp?id=2052>.
29
JAN KARSKI, op. cit., p. 489.
30
IVI, pp. 364-365.
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
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delle varie città31: nel primo biennio bisogna tener conto anche delle differenze
fra zona d’occupazione tedesca e russa. La Gestapo è brutale, ma la GPU molto
più abile: i suoi uomini “impiegano metodi indiscutibilmente superiori: più sofisticati, rodati, scientifici” spiega il professore che egli contatta a Leopoli 32. Si sa
che Karski dovette mettere la sordina sul tema del ruolo dei sovietici, mentre non
incontrava ostacoli nel parlare di quello dei tedeschi, ma che ambedue fossero
contrari alla lotta nazionale polacca e che i sovietici potessero contare su una certa
dose di connivenza e di supporto da parte della popolazione è cosa nota.
Karski insiste giustamente sul tributo di sangue dei polacchi, parlando alla
fine del testo di 5 milioni di vittime.
Il punto cruciale che spiega molte delle perdite polacche risiede proprio
nell’immediatezza della reazione popolare. Come ben spiega Karski “le stime
relative al possibile protrarsi del periodo d’occupazione sono determinanti per
poter creare strutture clandestine”33. Le strutture sono già ben operanti nel primo
biennio del conflitto, ma questo durerà più del doppio: la Resistenza subirà
quindi, nel primo periodo, essendo impostata nell’ottica di una breve durata,
ingenti perdite, non solo perché non era un meccanismo rodato, ma perché la
tattica del breve periodo porta a moltiplicare le azioni per creare caos e destabilizzazione, più che ad attrezzarsi per un colpo significativo in un lontano futuro.
Un altro tema ricorrente nella narrazione di Karski è il peso morale della
scelta. Se “la fatica della cospirazione, monotona, sotterranea, pericolosa” è
enorme, la realtà della clandestinità è spietata: a lui stesso, una volta all’estero,
viene ricordato che c’erano due ordini, quello di metterlo in salvo e quello di liquidarlo se non ci fossero riusciti. Ugualmente il meccanismo delle rappresaglie
non può bloccare l’azione: sarebbe la fine del moto di Resistenza, che agisce
consapevole della ricaduta delle sue azioni, soprattutto se ben riuscite, sui civili,
spesso familiari.
La stessa fuga di Karski dall’ospedale di Nowy Sącz dove era ricoverato
dopo le torture subite dalla Gestapo, in conseguenza del suo arresto in Slovacchia
nel giugno del 1940, costerà la vita ad almeno 32 abitanti, fucilati dai tedeschi il 9
31
Sulla vita quotidiana nella Varsavia occupata dai tedeschi, che spiega anche molti passaggi del
libro di Karski, cfr. TOMASZ SZAROTA, Okupowanej Warszawy dzień powszedni. Studium historyczne, Cyztelnik, Warszawa 2010.
32
JAN KARSKI, op. cit., p. 135. Così, fra gli altri, anche nel romanzo di ANDRZEJ SZCZYPIORSKI, La
bella signora Seidenman, Adelphi, Milano 1988.
33
JAN KARSKI, op. cit., p. 281.
71
GIULIA LAMI
STORIA DI UNO STATO SEGRETO
agosto del 1940 per rappresaglia. Ma anche il salvataggio di Karski a opera della
Resistenza non era avvenuto per ragioni umanitarie, bensì strategiche, per preservarne il ruolo e il silenzio in caso di ulteriori torture. Si è prima strumenti e poi
persone.
Questo vale anche per le staffette – cui Karski dedica un lungo capitolo –
elemento fondamentale, sacrificato spesso per qualche cosa di cui oggi sfugge
l’importanza: la distribuzione della stampa clandestina, a volte più utile per preservare la vita politico-culturale che per fini strettamente legati alla cospirazione.
Anche qui, il rimando all’attività clandestina di stampa dal 1772 alla fine della
Prima guerra mondiale è un consapevole richiamo storico cui ispirarsi. In effetti,
il fronte della guerra psicologica, specialità di Karski, con la propaganda che
l’accompagna, è importante, oggi e in futuro. Lo sanno bene anche i tedeschi che
infieriscono barbaramente sulle staffette pur sapendo che, secondo le auree regole della cospirazione, sono compartimentate e conoscono solo i contatti essenziali. Ma la tortura, con i racconti, le verità e le leggende sulla stessa che circolano, serve a creare il terrore, dovrebbe costituire un deterrente. È una lotta
senza esclusione di colpi. Mi ha posto interrogativi di carattere politico e storio72
grafico la lunga dissertazione che Karski fa sui metodi impiegati dalla Resistenza,
in cui rientra l’infettare i tedeschi invogliandoli a rapporti con prostitute ammalate di sifilide, l’utilizzo di germi di tifo per contaminare cibi e bevande e così via
in un crescendo che Karski in toni severi sanziona come necessario, al pari
dell’azione eclatante che comporta rappresaglie sproporzionate sui civili. Così è
se vi pare. Mi ha colpito che egli insistesse – in un libro rivolto a un pubblico occidentale, a quelle persone che passeggiavano nella piazza Lafayette di Washington
“vestite con eleganza, ben nutrite, soddisfatte di sé”34 – su questi aspetti meno
ortodossi: non temeva di apparire un barbaro dell’est, di suscitare perplessità
presso un mondo così lontano dal suo, forse pronto all’idea dei bombardamenti,
ma non a quella della trappola a sfondo sessuale o dell’epidemia procurata?
Lukas sostiene che già nell’Unione per la Vendetta (Związek Odwetu)
creata nella primavera del 1940 per condurre operazioni di sabotaggio, diversione
e rappresaglia venivano tenuti corsi che istruivano anche sugli aspetti della guerra
chimica, batteriologica e tossicologica35: si può ritenere che avranno fornito co34
35
IVI, p. 489.
RICHARD C. LUKAS, op. cit., p. 63.
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
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noscenze poi fatte proprie dagli organismi ufficiali di organizzazione della lotta
clandestina.
I tedeschi del resto si sentivano vulnerabili alle azioni della Resistenza in
città, come testimoniano, per esempio, le parole di Ludwig Hahn – il consigliere
“politico” del generale delle SS Jürgen Stroop, lo spietato artefice della liquidazione del ghetto –, che confessava di temere l’estensione della rete di informazione clandestina polacca e i rischi derivanti dal contatto, anche inconsapevole,
con membri della Resistenza: “I polacchi riescono a minarci il morale con i mezzi
più disparati: dall’alcol alle bettole, dalle puttane alla demoralizzazione ideologica, dal terrore agli attentati armati in piena strada”36.
Ma per i resistenti polacchi molte operazioni di guerra non ortodossa
dovevano risultare estremamente gravose. Il peso di un’inevitabile doppia morale, o meglio della sospensione delle norme morali usuali fino al soffocamento di
normali sentimenti di umanità, deve essere stato enorme per un cattolico praticante come Karski: solo in nome della patria, solo in un’ottica di guerra “giusta”
poté essere tollerato da lui e da molti suoi compagni di lotta in Europa.
Quando Karski parte per il suo secondo viaggio con uno scapolare datogli
da un prete amico che contiene l’ostia, il prete straniero si stupisce: quando mai si
è vista una pratica del genere? Eppure quando si legge il suo racconto si capisce
che anche questo ha un profondo significato e che il primo a riconoscervisi è lui
stesso, cattolico e polacco.
Senz’altro le pagine più toccanti e sconvolgenti espresse dall’autore sono
quelle che descrivono l’incontro con i rappresentanti del movimento clandestino
ebraico – Menachem Kirschenbaum per i sionisti e Leon Feiner per il Bund: la
disperata cognizione dei suoi interlocutori che era in gioco la sopravvivenza stessa
di tutti gli ebrei polacchi, il presentimento che nessuno sarebbe stato in grado di
salvarli dallo sterminio è resa, nell’atmosfera spettrale dell’incontro, “una serata
da incubo” dice Karski, in modo indimenticabile. Il legato che gli affidano è
semplice ma impossibile:
Moriremo tutti: magari qualcuno riuscirà a salvarsi, ma tre milioni di ebrei polacchi sono
condannati. Lo sono anche altri portati qui da tutta Europa. Nessuno potrà impedirlo, né
il movimento clandestino polacco, né quello ebraico. Faccia in modo che questa re36
KAZIMIERZ MOCZARSKI, Conversazioni con il boia, trad. it. di Vera Verdiani, postfazione Adam
Michnik, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 172.
73
GIULIA LAMI
STORIA DI UNO STATO SEGRETO
sponsabilità ricada sugli Alleati. Faccia in modo che non un solo rappresentante delle
Nazioni Unite possa affermare di non aver saputo che in Polonia ci stavano uccidendo
sistematicamente e che per noi l’unico aiuto poteva venire dall’esterno37.
Sappiamo che il tormento di Karski sarà proprio di non aver potuto incidere sulle decisioni degli Alleati, che già da tempo avevano escluso di poter mutare
strategie e obbiettivi per fermare lo sterminio, che in qualche misura, nonostante
l’evidenza, continuavano in fondo a disconoscere come tale, interpretando che
fosse in atto “solo” l’ennesima persecuzione di Faraone, assolvendosi così dall’incapacità di intervenire con mezzi altrettanto estremi come quelli messi in atto da
Hitler. Ugualmente di un’intensità a tratti intollerabile sono le pagine dedicate
alla visita di Karski nel ghetto e ancor più in quello che allora egli riteneva essere il
campo di Bełżec e che invece era un campo di transito, altrettanto se non più
spaventoso per l’assoluta ferocia delle modalità con cui veniva periodicamente
svuotato dei suoi occupanti, destinati a morire già nei treni per il trasporto, anticipazione delle future camere a gas. Qui il senso di sgomento è accentuato dal
contrasto fra l’umano Karski, in grado di vedere, capire e sentire e l’indifferenza
74
del suo accompagnatore, che nella versione non censurata del libro è un ucraino.
Poco importa oggi la nazionalità di questo accompagnatore: un volonteroso
carnefice dei tanti emersi in Polonia e altrove al momento del bisogno e poi forse
rientrato nel quotidiano da cui la guerra l’aveva purtroppo tratto fuori a dar
prova di sé38.
Brutalmente, il già ricordato generale delle SS Jürgen Stroop, rievocando
la liquidazione del ghetto di Varsavia da lui condotta nel 1943 nelle sue conversazioni con Kazimierz Moczarski, membro dell’AK, con cui divise dopo la guerra
per nove mesi la stessa cella nel carcere di Mokotów, esprime il suo disprezzo per
gli “ascari” – lituani, lettoni, estoni – che non sempre furono in grado d’affiancare
i tedeschi nelle operazioni.
Fra l’antisemitismo professato e la capacità di uccidere indiscriminatamente esisteva una distanza di cui Stroop non riusciva a capacitarsi. Come nel
caso di un lettone che fremeva di entrare nel ghetto, ma poi al dunque si rivelò un
37
JAN KARSKI, op. cit., p. 403.
DANIEL. J. GOLDHAGEN, I volonterosi carnefici di Hitler, Arnoldo Mondadori, Milano 1997.
Sulle tesi di Goldhagen e le polemiche cui hanno dato luogo cfr. MICHAEL BRENNAN, Some Sociological Contemplations on Daniel J. Goldhagen’s Hitler’s Willing Executioners, in «Theory
Culture Society», 18 (4), 2001, pp. 83-109.
38
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“perfetto cretino”, perché una volta dentro, questo nordico dagli occhi azzurri,
piangeva:
Balbettava parole rotte: che “non ce la faceva... che tutto quel sangue, quei cadaveri, quei
bambini...” e roba del genere. Incapace di dominarmi lo colpii in faccia e lo feci buttare
fuori dal ghetto insieme a quegli altri smidollati di “ascari”39.
Ma qui si apre un discorso molto complesso, come ha dimostrato Primo
Levi nel suo I sommersi e i salvati, cercando di delineare i contorni della cosiddetta “zona grigia” dentro e fuori dall’universo concentrazionario40.
Se si può usare il termine zona grigia in senso lato, va da sé che essa variò
da paese a paese, da situazione a situazione, ma senz’altro permise l’espletarsi dei
crimini nazisti. Resta poi sempre la necessità per lo storico di capire quali fossero
le effettive possibilità da parte di una popolazione di interferire con i piani di
sterminio portati avanti sistematicamente dai nazisti e dai loro più determinati
collaboratori.
Vale secondo me la riflessione che conduceva Borejsza a proposito della
polemica innescata da Klaus-Peter Friedrich41:
sulle forme di collaborazione con l’occupante tedesco (a lungo nascoste), l’antisemitismo
e l’anticomunismo della Resistenza polacca, l’atteggiamento verso gli ebrei, l’arrivo dei
Volksdeutch in Polonia, le attività della polizia polacca (PP) e dei polacchi ai servizi di
costruzione (Baudienst)42.
Indicando lo storico tedesco in conclusione che la volontà di lotta e di
resistenza non coinvolse più del 25% della popolazione polacca, in realtà fornisce
una cifra molto alta rispetto alla realtà europea dove Bédarida parlava di un 1 o
2% della popolazione totale coinvolta in forme di resistenza attiva43.
È equilibrato, a mio avviso, lo studio di Lukas che mette sempre in rilievo
la complessità del quadro politico e bellico polacco e fa giustizia di molti stereo39
KAZIMIERZ MOCZARSKI, op. cit., p. 199.
PRIMO LEVI, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986.
41
KLAUS-PETER FRIEDRICH, Über den Widerstandsmythos im besetzten Polen in der Historiographie, in «Zeitschrift fur Sozialgeschichte des 20. und 21. Jahrhunderts», 1.3.1998, pp. 10-60.
42
JERZY W. BOREJSZA, La Resistenza in Polonia, cit., p. 80.
43
Il rimando di Borejsza è: FRANÇOIS BÉDARIDA, Résistants, in 1938-1948. Les années de tourmente. De Munich à Prague. Dictionnaire critique, a cura di Jean-Pierre Azéma, François Bédarida,
Flammarion, Paris 1995, p. 703.
40
75
GIULIA LAMI
STORIA DI UNO STATO SEGRETO
tipi, non nascondendo certo le difficoltà di giungere a una valutazione complessiva dei rapporti fra polacchi ed ebrei nelle condizioni estreme dell’occupazione
nazista. Certo non in tutti i paesi, come in Polonia, la pena per l’aiuto agli ebrei
era quella di morte, né era così difficile prestare un aiuto effettivo a coloro che
erano rinchiusi nel ghetto44. In nessun altro paese d’Europa, del resto, gli ebrei
diedero prova di così grande determinazione e capacità di resistenza armata, se
consideriamo che l’insurrezione durò praticamente dal gennaio al maggio del 1943.
Per tornare alla testimonianza di Stroop, nelle cui pieghe si celano molti
non-detti, dal punto di vista tedesco gli ebrei polacchi erano particolarmente
combattivi sulla scia dell’esempio e dell’insegnamento polacco. Non a caso nei
suoi molti rapporti ai comandi superiori sulle operazioni nel ghetto egli parla
ripetutamente di “banditi” e “terroristi” polacchi, come delle bandiere ebrea e
polacca innalzate insieme in segno di sfida45. Proprio a questo proposito in una
delle conversazioni con Moczarski ricorda come sia stato per lui prioritario cercare di rimuoverle:
La questione delle bandiere rivestiva un profondo significato politico e morale. Faceva
76
presente il problema polacco a centinaia di migliaia di persone, le ispirava, le incitava.
Accomunava tutta la popolazione del Governatorato Generale e, in particolare, creava
un legame fra gli ebrei e i polacchi. Come strumento di lotta, le bandiere e i colori nazionali equivalgono non a uno, ma a mille cannoni a tiro rapido. Lo capivano tutti:
Heinrich Himmler, Krüger, Hahn. Il Reichfürer gridava al telefono: “Senti Stroop: tira
giù quelle due bandiere a qualsiasi costo!”46.
Stroop in più occasioni spende parole d’elogio per le qualità combattenti
degli ebrei, sia di coloro che conducevano la lotta nei boschi, da soli o con gruppi
di resistenti polacchi, sia a proposito degli ebrei che condussero la battaglia nel
ghetto contro le forze tedesche da lui comandate. Parlando a Moczarski di questi
ultimi, Stroop ammette:
44
TERESA PREKEROWA, Konspiracyjna Rada Pomocy Żydom w Warszawie 1942-1945, Państwowy
Instytut Wydawniczy, Warszawa 1982; KAZIMIERZ IRANEK-OSMECKI, Kto ratuje jedno życie...
Polacy i Żydzi 1939-1945, Instytut Pamięci Narodowej, Warszawa 2009. Sul ghetto di Varsavia, le
condizioni di vita al suo interno e i difficili rapporti con l’esterno, nella ormai vasta letteratura,
restano vivida testimonianza EMANUEL RINGELBLUM, Sepolti a Varsavia, Mondadori, Milano
1962; MICHEL BORWICZ, L’insurrection du ghetto de Varsovie, R. Juillard, Paris 1966.
45
Cfr. il rapporto di Jürgen Stroop al generale Krüger del 26 maggio 1943 in GIORGIO VACCARINO, Storia della Resistenza in Europa, cit., pp. 392-393.
46
KAZIMIERZ MOCZARSKI, op. cit., pp. 195-196.
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
5 / 2014
Adesso non avevamo più a che fare con delle masse abuliche. Quella era l’élite sionista,
gente che sapeva perché e per che cosa combatteva. Gente dura, dotata di carattere,
addestrata, approvvigionata. Tenace, astuta, pronta a morire47.
Qui Moczarski, che senza dubbio aveva in mente l’Insurrezione di Varsavia del
1944, non può trattenersi dal chiedergli se non creda che gli insorti del ghetto
“sapessero anche loro che la cosa più importante non è la morte, ma il modo in
cui si muore? Non crede che difendessero la dignità umana e la futura memoria
della loro società?”. E Stroop, che non può contraddire se stesso e le ragioni che
hanno sostenuto la sua vita e la sua azione di boia, appunto, risponde istantaneamente che gli ebrei non hanno, non sono in grado di avere “il sentimento
dell’onore e della dignità. In realtà l’ebreo non è un uomo a pieno titolo. Gli ebrei
sono dei subuomini. Hanno sangue, tessuti, ossa e pensieri diversi da quelli di noi
europei, ‘ariani’ e, soprattutto, da quelli di noi ‘nordici’”48.
Egli sa del resto bene, nella sua astuzia difensiva, che il problema dei
rapporti fra polacchi ed ebrei è destinato a rimanere controverso nel dopoguerra,
per cui a un certo punto delle sue conversazioni/confessioni minaccia in sede
processuale di mentire, di dichiarare cioè “che i polacchi guardavano con indif49
ferenza – anzi con approvazione – la liquidazione degli ebrei” .
In realtà, il governo polacco a più riprese non fece mistero con gli Alleati
delle allarmanti notizie che provenivano dalla Polonia, né si astenne dal chiedere
decisivi interventi da parte loro. Come scrive Lukas:
The policies of the Sikorski government on behalf of the Jews took courage to balance
between two criticisms: Some Poles in the emigration and in the homeland thought the
London Poles paid too much attention to the Jews, while many western Jews, oblivious to
the tragic experiences the poles endured at the hands of the Nazis, believed the Polish
government did not do enough for their kinsmen in Poland50.
E in ogni caso, come ricorda proprio Lukas, non avrebbe dovuto sussistere
più alcun dubbio sullo sterminio degli ebrei nelle menti dei politici occidentali
dopo l’ampio lavoro informativo condotto da Karski a Londra e negli Stati Uniti51.
47
48
49
50
51
IVI, p. 210.
IVI, p. 210-211.
IVI, p. 239.
RICHARD C. LUKAS, op. cit., cfr. in part. il cap. 6, pp. 152-181, p. 161.
IVI, p. 158. Si veda anche il testo molto ricco di informazioni di TADEUSZ BÓR-KOMOROWSKI,
77
GIULIA LAMI
STORIA DI UNO STATO SEGRETO
In ultimo vorrei sottolineare un altro aspetto di questo libro: al di là
dell’intento prettamente politico e a futura memoria da cui era ispirato, è anche
un’opera letteraria. Molti episodi sono senz’altro costruiti con omissioni e inesattezze per ragioni di cautela, altri sembrano inseriti a scopo didascalico o per
esprimere con immagini concrete i sentimenti dell’autore per far fluire la narrazione. Così, come poi conferma Bernardini nella postfazione, l’incontro a Berlino
con i due amici d’anteguerra che esprimono solo odio antisemita davanti al pur
impressionante racconto di ciò che egli ha visto nel campo di transito. Sono figure
paradigmatiche, forse la summa di immagini di amici tedeschi liberali e non ostili
ai polacchi di prima della guerra, sui cui sentimenti nell’ora fatale Karski si sarà
interrogato, vedendo l’agire dei loro connazionali all’opera in Polonia. Nessuna
umanità, empatia, comprensione, ma fedeltà a Hitler o meglio a chi permetteva
loro di esternare sentimenti forse a lungo sopiti.
È una certezza o un timore quello che Karski vuol rappresentare? I tedeschi ne escono perduti. Ma perduto si sentiva anche Karski. Vi è una differenza
fra il Karski letterario del 1944 e il Karski cinematografico dell’intervista a Claude
Lanzmann del 1978. Sono passati decenni di riflessioni, di studi, di confronti di
78
memorie, di rappresentazioni, di racconti52. La visione del Karski anziano è più
complessa, ma più dolente e impietosa. Ricordo le parole citate nel libro che
Gabriele Nissim ha dedicato a Karski. Da un’intervista del 1981:
Ma io sono anche un cristiano ebreo. Io sono un cattolico praticante. Sebbene io non sia un
eretico, la mia fede mi dice che l’umanità ha commesso un secondo peccato originale, con
le sue azioni, con l’omissione di soccorso, con l’indifferenza, con l’insensibilità, con
l’egoismo, con l’ipocrisia e una fredda razionalizzazione. [...] Questo peccato perseguiterà
l’umanità fino alla fine dei tempi. Questo peccato mi perseguita. E io voglio che sia così53.
[«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», 5, 2014, pp. 60-78]
The secret Army, Gollancz ltd, London 1951. Ricco di particolari sulla missione di Karski negli
Stati Uniti è il recente EWA CYTOWSKA-SIEGRIST, Stany Zjednoczone i Polska 1939-1945, Neriton,
Warszawa 2013.
52
Si veda PIETRO MARCHESANI, Echi della rivolta del ghetto di Varsavia nella letteratura polacca
contemporanea, a cura di Laura Quercioli Mincer, in «pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», 2013, pp. 298-316.
53
GABRIELE NISSIM, La bontà insensata. Il segreto degli uomini giusti, Mondadori, Milano 2011,
p. 140.
MACIEJ PODBIELKOWSKI
Lo Stato clandestino polacco
1. La Campagna di settembre e la quarta Spartizione della Polonia
I
l 1° settembre 1939 alle ore 4.45 la Germania dette inizio alle operazioni
belliche contro la Polonia senza alcuna formale dichiarazione di guerra.
Nonostante la superiorità numerica del nemico (più che doppia), l’esercito
polacco resistette oltre un mese. La Polonia, legata da trattati d’alleanza a due
potenze mondiali, la Francia e la Gran Bretagna, non ottenne l’aiuto promesso. I
governi di questi Stati si limitarono soltanto a una formale dichiarazione di guerra
contro Hitler, senza intraprendere alcuna attività bellica.
Il 17 settembre le truppe dell’Armata Rossa oltrepassarono le frontiere
della Polonia. Questo passo fu la conseguenza dell’accordo firmato tra Germania
e Unione Sovietica il 23 agosto 1939, passato alla storia come il trattato Ribbentrop-Molotov. L’accordo politico-militare riguardante le zone d’interesse dei rispettivi paesi in Europa centrale costituiva una clausola segreta del documento.
Il 28 settembre 1939, mentre ancora si registravano combattimenti dovuti
a isolati focolai di resistenza, Germania e Unione Sovietica firmarono un trattato
d’amicizia, accordandosi anche sulla questione dei confini e sulla definitiva spartizione delle terre polacche. L’originaria linea di divisione dei territori occupati,
coincidente con il corso della Vistola, fu spostata lungo il fiume Bug (linea Curzon), come ricompensa per l’ingresso della Lituania nella zona di influenza sovietica1. Nonostante la drammatica piega degli eventi, la Polonia non capitolò.
Nessun politico polacco si disse pronto a collaborare con gli occupanti, a diffe1
Cfr. SŁAWOMIR DĘBSKI, Między Berlinem a Moskwą. Stosunki niemiecko-sowieckie 1939-1941,
Polski Instytut Spraw Międzynarodowych, Warszawa 2007; Geneza paktu Hitler-Stalin. Fakty i
propaganda, a cura di Bogdan Musiał, Jan Szumski, Instytut Pamięci Narodowej, Warszawa 2012.
79
MACIEJ PODBIELKOWSKI
LO STATO CLANDESTINO POLACCO
renza di molti altri Stati che in seguito sarebbero stati sconfitti dalla Germania e
in cui s’instaurarono governi collaborazionisti. Nella notte tra il 17 e il 18 settembre le più alte autorità della Repubblica di Polonia attraversarono il confine,
rifugiandosi nell’alleata Romania. In questo modo allontanavano qualsiasi ipotesi
di capitolazione nei confronti dei tedeschi, garantendo al contempo la continuazione dell’esistenza dello Stato. A causa delle pressioni di Hitler, il governo romeno internò il presidente con i politici al suo seguito. Vista la situazione, il presidente Mościcki ricorse a un particolare iter costituzionale, che gli permetteva di
nominare come suo successore il maresciallo del senato, Władysław Raczkiewicz,
che si trovava in Francia. La nomina di Raczkiewicz fu la prova di una precisa
volontà di giungere a una soluzione di compromesso con l’opposizione. Il 30
settembre, infatti, Raczkiewicz affidava l’incarico di premier e comandante supremo dell’esercito al gen. Władysław Sikorski, leader ufficioso dell’opposizione
che godeva dell’esplicito appoggio della Francia. Il presidente si impegnò a fare
uso delle proprie ampie prerogative di comune accordo col governo. Entrarono a
far parte del nuovo gabinetto i ministri dei quattro principali partiti di opposizione. In questo modo si giunse a un sostanziale mutamento politico al vertice del
80
governo polacco, nonché a una modifica informale della Costituzione2. Tale ordine perdurò fino alla fine del 1944.
2. Due occupazioni
2.1 L’occupazione tedesca
Dopo la Campagna del settembre 1939 iniziò l’occupazione della Polonia,
destinata a durare diversi anni. I tedeschi occuparono i territori polacchi fino ai
fiumi Bug e San. Il territorio a est di questi fiumi era invece occupato dall’Unione
Sovietica.
La maggior parte dei territori conquistati dai tedeschi (Pomerania,
Grande Polonia, Slesia e Masovia settentrionale e occidentale con le città di Łódź,
Płock e Włocławek) furono direttamente annessi al Reich. La popolazione polacca di questi territori fu privata dei diritti civili e di quelli allo studio e alla
cultura, del diritto a scegliersi liberamente un lavoro, di trasferirsi e viaggiare liberamente. Chi non sottostava a queste regole rischiava l’arresto, la deportazione
2
Cfr. JÓZEF GARLIŃSKI, Poland in the Second World War, Macmilan, London 1985.
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
5 / 2014
in un campo di concentramento o la pena capitale. Quasi un milione di abitanti
furono deportati da quelle terre nelle zone interne del paese, dove venne istituito
il Governatorato Generale, sottoposto a un regime di occupazione. Facevano
parte del Governatorato Generale i rimanenti territori occupati dai tedeschi: la
Masovia centrale e meridionale con Varsavia e Radom, nonché la Piccola Polonia
con Cracovia, Kielce e Lublino; a dirigerlo vi era Hans Frank, con il titolo di
governatore generale e con un potere assoluto.
Cracovia era la capitale del Governatorato e il Wawel il luogo di residenza
del governatore. Il territorio occupato era diviso in distretti a capo dei quali erano
stati posti altrettanti governatori. L’amministrazione, la polizia e la giustizia erano
gestite da istituzioni tedesche, mentre ai polacchi fu permesso di ricoprire cariche
esecutive soltanto ai gradi più bassi della gerarchia amministrativa (sindaci, capi
villaggio, borgomastri).
Lo status legale, le condizioni occupazionali e di vita dei polacchi che risiedevano nel Governatorato Generale erano assimilabili a quella di sudditi privati dei più basilari diritti civili. Le autorità tedesche instaurarono un regime di
occupazione più duro di qualsiasi altra occupazione tedesca in atto. Nelle città
vigeva il coprifuoco; l’istruzione era limitata alle sei classi della scuola elementare,
mentre vennero abolite quella secondaria e superiore. Le istituzioni di alta formazione furono chiuse, mentre insegnanti e professori universitari furono arrestati. Fu impedito il funzionamento di grandi istituzioni culturali quali i teatri, le
gallerie, i musei. Fu fatto divieto di eseguire opere di compositori polacchi e di
Chopin in particolare. Quasi immediatamente dopo la conquista e la sottomissione del paese, le autorità tedesche diedero il via a un’operazione segreta dal
criptonimo AB: l’eliminazione fisica dell’élite intellettuale polacca. Morirono
circa 50.000 persone. Solo a Palmiry, nei dintorni di Varsavia, vennero seppellite
più di 2.000 vittime3.
I tedeschi colpirono anche la Chiesa polacca. Nel solo Governatorato
Generale morirono – nelle esecuzioni o nei campi di concentramento – più di
2.500 religiosi. Il simbolo del martirio del clero polacco è San Maksymilian
Kolbe, che sacrificò ad Auschwitz la propria vita accettando di morire di fame al
posto di un altro prigioniero.
3
Cfr. JOCHEN BÖHLER, KLAUS-MICHAEL MALLMANN, JÜRGEN MATTHÄUS, Einsatzgruppen w
Polsce, Bellona, Warszawa 2009; MARIA WARDZYŃSKA, Był rok 1939. Operacja niemieckiej policji
bezpieczeństwa w Polsce. Intelligenzaktion, Instytut Pamięci Narodowej, Warszawa 2009.
81
MACIEJ PODBIELKOWSKI
LO STATO CLANDESTINO POLACCO
Il programma a lungo termine (General Ost-Plan) prevedeva la sopravvivenza della popolazione polacca in proporzioni residuali (tra i cinque e i dieci
milioni di abitanti) come riserva di forza lavoro a basso costo4. Si prese anche in
considerazione il futuro il trasferimento dei polacchi a est (ad es. in Siberia).
L’obbligo all’attività lavorativa scattava al compimento del sedicesimo anno d’età.
Si deportarono in massa operai polacchi nel Reich, ridotti ai lavori forzati nelle
fabbriche o nell’agricoltura. Le autorità limitarono drasticamente le possibilità
della popolazione di fare acquisti, regolamentando il commercio di alimenti quali
la carne, i grassi e lo zucchero. Il commercio di tali alimenti al di fuori del sistema
di razionamento era severamente vietato5.
Leggi draconiane prevedevano la pena di morte o la deportazione persino
per reati relativamente lievi, quali ad es. il contrabbando di generi alimentari.
Speciali tribunali di polizia, di fronte ai quali non v’era possibilità di difesa, emettevano sentenze inappellabili. Inoltre, la maggior parte delle sentenze veniva
emessa in contumacia e in maniera sommaria, cosa che significava un’estrema
velocizzazione del procedimento e una quasi sicura condanna a morte o alla deportazione. Spesso veniva applicato il principio della responsabilità collettiva, in
82
base al quale venivano condannate persone arrestate casualmente come ritorsione
per un danno inflitto alla Germania o alle sue istituzioni6.
2.1.1 La situazione degli ebrei
L’ideologia della Germania nazista era fondata sul razzismo, basato sulla
divisione dell’umanità in razze superiori e inferiori. Al vertice di questa scala gerarchica c’era la razza nordica, i tedeschi, mentre i popoli considerati inferiori
dovevano sottomettersi e servirli. L’odio più intenso era riservato a ebrei e zingari
(Rom), ai quali non veniva nemmeno riconosciuto il diritto di esistere. Fin
4
A questo proposito cfr. GÖTZ ALY, SUSANNE HEIM, Vordenker der Vernichtung. Auschwitz und
die deutschen Pläne für eine neue europäische Ordnung, Hoffmann & Campe, Hamburg 1991;
CZESŁAW MADAJCZYK, Generalny Plan Wschodni: Zbiór dokumentów, Główna Komisja Badania
Zbrodni Hitlerowskich w Polsce, Warszawa 1990; Memoriale del prof. Konrad Meyer-Hetling,
Generalny Plan Wschodni – prawne, gospodarcze i przestrzenne podstawy odbudowy wschodu (ted.
Generalplan Ost – rechtliche, wirtschaftliche und räumliche Grundlagen des Ostaufbaus); TERESA
ŚWIEBOCKA, HENRYK ŚWIEBOCKI, Auschwitz – Rezydencja śmierci, Państwowe Muzeum
Auschwitz-Birkenau, Biały 2007.
5
Cfr. CZESŁAW MADAJCZYK, op. cit.
6
Cfr. TOMASZ SZAROTA, Okupowanej Warszawy dzień powszedni, Wydawnictwo Czytelnik,
Warszawa 2010.
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
5 / 2014
dall’inizio dell’occupazione gli ebrei furono obbligati a portare su di sé un contrassegno particolare: la Stella di David. Successivamente, a cominciare dal 1940,
si iniziò a trasferirli in zone a essi esclusivamente riservate, all’interno delle città
più grandi, nei cosiddetti “ghetti”, dai quali era proibito uscire, pena la morte. La
stessa fine sarebbe toccata ai polacchi che vi fossero entrati, per non parlare di chi
si fosse spinto ad aiutare gli ebrei. Le condizioni di vita nei ghetti erano disumane.
Le persone vivevano in terribili condizioni di affollamento, spesso senza servizi
sanitari e igienici; la fame imperava e si diffondevano le malattie, decimando gli
abitanti. Particolari sofferenze toccarono ai più deboli: bambini, malati, anziani. I
tedeschi infierivano sugli ebrei, umiliandoli e obbligandoli ai lavori pesanti.
L’uccisione di un ebreo non era punita in alcun modo.
A gennaio del 1942, durante la conferenza di Wansee, fu pianificata la
“soluzione finale del problema ebraico” (Endlösung). Si trattava della condanna a
morte per ogni singolo individuo appartenente al popolo ebraico. Gli ebrei polacchi ed europei venivano deportati e massacrati nei campi di sterminio di Auschwitz (Oświęcim), Treblinka, Majdanek, Sobibór, Bełżec e in altri.
Il 19 aprile 1943 scoppiò l’insurrezione nel ghetto di Varsavia. Dopo
averla stroncata, i nazisti rasero al suolo l’intero ghetto7.
2.2 L’occupazione
sovietica
A differenza dei tedeschi, che non nascondevano le loro intenzioni nei
confronti della nazione polacca, l’Unione Sovietica si sforzava di giustificare la
propria politica richiamandosi ad argomenti propagandistici. L’aggressione
dell’Armata Rossa del 17 settembre venne chiamata “aiuto fraterno alle nazioni
bielorussa e ucraina”. Le autorità sovietiche affermarono che era stata necessaria
in considerazione del venir meno dello Stato polacco, ammantando così di una
parvenza di legalità l’annessione all’Unione Sovietica delle terre orientali polacche. Nei territori occupati dall’Armata Rossa fu organizzata una specie di farsa
7
A questo proposito cfr. TIMOTHY SNYDER, Bloodlands: Europe between Hitler and Stalin, Basic
Books, New York 2010; CHRISTOPHER R. BROWNING, The Origins of the Final Solution: The
Evolution of Nazi Jewish Policy, September 1939 – March 1942, University of Nebraska Press,
Lincoln 2004; DAVID CESARANI, Eichmann: His Life and Crimes, Vintage, London 2006;
WŁADYSŁAW BARTOSZEWSKI, ZOFIA LEWINÓWNA, Ten jest z ojczyzny mojej. Polacy z pomocą
Żydom 1939-1945, Świat Książki, Warszawa 2007; STEFAN KORBOŃSKI, Polacy, Żydzi i Holocaust,
Instytut Pamięci Narodowej, Warszawa 2011; TERESA PREKEROWA, Konspiracyjna Rada Pomocy
Żydom w Warszawie 1942–1945, Państwowy Instytut Wydawniczy, Warszawa 1982.
83
MACIEJ PODBIELKOWSKI
LO STATO CLANDESTINO POLACCO
elettorale. Già il 22 ottobre 1939 si impose ai cittadini polacchi di votare liste di
candidati (preparate a Mosca) per le assemblee popolari della “Bielorussia Occidentale” con capitale Białystok e dell’”Ucraina Occidentale” con capitale Leopoli. Questi parlamenti fantoccio inviarono poi la “richiesta” di annessione
all’URSS, cosa che ebbe luogo il 2 novembre 1939.
Allo stesso modo dei tedeschi, i sovietici iniziarono arrestando i rappresentanti dell’intellighenzia polacca e mettendo a morte molti patrioti polacchi,
inclusi appartenenti alla gioventù scoutistica. La forma principale di lotta contro i
polacchi consisteva nel loro trasferimento e deportazione verso campi di lavori
forzati in Siberia, corrispondenti ai campi di concentramento tedeschi; in alternativa capitava anche che essi venissero obbligati a emigrare altrove, lontano dalla
propria regione di origine. Fino al giugno 1941 quasi 900.000 persone furono
deportate a est, in carri bestiame, senza cibo e spesso anche senza acqua. I genocidi più noti sono quelli compiuti a Katyń, Miednoje e Char’kov, dove morirono
più di 22.000 ufficiali e poliziotti, fatti prigionieri nel settembre del 1939. L’ordine
di fucilazione fu firmato da Stalin e da membri del Politbjuro il 5 marzo 19408.
84
3. Lo Stato clandestino polacco
Le prime iniziative per organizzare un’attività cospirativa risalgono già
agli ultimi giorni della difesa di Varsavia nel settembre del 1939. Nacque
un’organizzazione segreta chiamata Servizio per la Vittoria della Polonia [Służba
Zwycięstwu Polski, SZP], con a capo il gen. Michał Karaszewicz-Tokarzewski e il
politico socialista Mieczysław Niedziałkowski.
Il premier Władysław Sikorski aveva invece un’altra concezione di ciò che
doveva essere lo Stato clandestino polacco. Secondo le sue istruzioni, che giunsero nel paese nell’autunno del 1939, si procedette all’organizzazione di strutture
cospirative statali articolate su due settori ben distinti, per quanto tra loro collaboranti: una civile e l’altra militare.
A capo di quello civile si trovava il delegato del governo interno, funzione
ricoperta, in successione, dalle seguenti personalità: Cyryl Ratajski, Jan Piekał8
Cfr. RICHARD C. LUKAS, Zapomniany holokaust. Polacy pod okupacją niemiecką 1939-1944, Dom
Wydawniczy Rebis, Poznań 2012; STANISŁAW CIESIELSKI, WOJCIECH MATERSKI, ANDRZEJ
PACZKOWSKI, Represje sowieckie wobec Polaków i obywateli polskich, wyd. II, Ośrodek Karta,
Warszawa 2002; JANUSZ ZAWODNY, Death in the Forest. The Story of the Katyn Forest Massacre,
University of Notre Dame Press, Notre Dame 1962.
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
5 / 2014
kiewicz, Jan Stanisław Jankowski, Stefan Korboński. Al delegato faceva capo una
delegazione articolata in dipartimenti, corrispondenti a quelli che in tempo di
pace sono i Ministeri: degli Affari Interni, dell’Informazione, della Cultura e Istruzione, del Lavoro, dell’Agricoltura, dell’Industria. Essi si occupavano allo
stesso tempo sia di incombenze immediate (ad es. la creazione di una rete scolastica clandestina, la tutela delle opere d’arte dalla distruzione o dalla requisizione
e trasferimento in Germania, la registrazione dei danni provocati dagli occupanti,
gli aiuti alla popolazione) sia di programmare azioni per la ricostruzione a guerra
finita. Il Dipartimento dell’Agricoltura elaborò un piano per la creazione di
aziende agricole statali che diffondessero moderne tecniche di coltivazione. Il
Dipartimento di Giustizia lavorò invece a un Codice di Moralità Civica, punto di
riferimento per i tribunali dello Stato clandestino, che sulla base di quelle norme
contrastavano qualsiasi accenno di collaborazione col nemico9.
L’aiuto agli ebrei era compito inizialmente di uno specifico reparto
dell’Ufficio Informazione e Propaganda, mentre a partire dal settembre 1942 se
ne occupò Żegota, il Consiglio per l’aiuto agli Ebrei, con a capo Zofia KossakSzczucka, proveniente da una piccola organizzazione cospirativa, il Fronte di
Rinascita della Polonia. Si tratta dell’autrice della famosa Protesta, intesa a rendere consapevole la società delle dimensioni dello sterminio intrapreso nel ‘42, un
appello a reagire alle coscienze di tutto il mondo10.
Accanto al delegato del governo operava il parlamento cospirativo, che
raccoglievano delegati dei partiti politici polacchi che aderivano alla coalizione di
governo: il Partito Socialista Polacco, il Partito Popolare, il Partito Cristiano del
Lavoro, il Partito Nazionale. Esso si chiamò inizialmente Comitato Politico
d’Intesa, poi Rappresentanza Politica Nazionale e dal gennaio 1944 Consiglio di
Unità Nazionale, guidato dal socialista Kazimierz Pużak. Il ramo civile della
struttura cospirativa si occupò anche di organizzare tribunali che giudicassero i
collaborazionisti o condannassero i funzionari tedeschi macchiatisi di delitti particolarmente efferati. Si prepararono anche piani di riforma sociale e politica per
la futura Polonia indipendente.
Il documento più importante promulgato dal Consiglio di Unità Nazionale è quello del 15 marzo 1944, dal titolo Per che cosa combatte la Polonia, che
9
Cfr. STEFAN KORBOŃSKI, The Jews and the Poles in World War II, Hippocrene Books, New
York 1989.
10
Ibidem.
85
MACIEJ PODBIELKOWSKI
LO STATO CLANDESTINO POLACCO
dava una visione futura del paese: la sua collocazione nell’Europa e nel mondo, i
suoi confini postbellici, le alleanze, la conformazione democratica del governo,
della società e dell’economia.
La Polonia, in quanto prima vittima della guerra, s’aspettava un mutamento profondo dei rapporti politici internazionali e ambiva a un’adeguata posizione nel consesso degli Stati liberi e democratici, in considerazione dei meriti
conquistati nella lotta alla Germania nazista e degli innumerevoli sacrifici, incessantemente affrontati fin dall’inizio della guerra. Il Consiglio dichiarò che la
Polonia aderiva ai valori cristiani e umanistici, fondamento della civiltà europea.
Il punto di riferimento per la costituzione del nuovo ordine postbellico doveva
essere la Carta Atlantica, che garantiva a tutti i paesi il diritto all’eguaglianza, alla
sovranità e alla piena libertà, articolata nelle sue strutture sociali.
La Polonia del dopoguerra avrebbe ricercato la propria sicurezza vuoi
nell’alleanza con gli Stati occidentali, vuoi con le organizzazioni internazionali,
vuoi – e questo fu un elemento di novità – aspirando a un federalismo regionale
centro-europeo. L’intenzione era di allargare ai restanti Stati centro-europei la
confederazione ceco-polacca pianificata in precedenza. Essa avrebbe dovuto es86
sere in grado di opporsi efficacemente tanto alla Germania quanto a eventuali
aspirazioni imperialiste dell’URSS. Il fatto che il documento menzionasse lo Stato
lituano equivaleva a un’assunzione di responsabilità da parte della Polonia nei
confronti dei Paesi Baltici, annessi all’URSS nel 1940. Si postulava la necessità di
intrattenere rapporti di pacifico vicinato con l’URSS, escludendo al contempo nel
modo più categorico qualsiasi ingerenza sovietica, soprattutto la possibilità da
parte di quest’ultima di imporre alla Polonia un sistema socialista.
La Terza Repubblica doveva nascere come Stato democratico. Questo riguardava non solo le istituzioni politiche ma anche aspetti essenziali nell’ambito dei
rapporti sociali. L’aspirazione era quella di affidare allo Stato democratico e al
governo indipendente un ruolo predominante nel dirigere la vita economica, sociale e culturale del paese. L’economia era vista come campo d’azione di tre settori:
quello pubblico, amministrato dallo Stato sulla base di una pianificazione e che
avrebbe compreso i settori strategici e più innovativi dell’industria, e i due settori a
esso complementari, quello cooperativo e quello privato. In tutte le tipologie di
impresa doveva instaurarsi un autogoverno dei lavoratori, fornito di propri organi
dirigenti, che promuovesse rapporti democratici tra datore di lavoro e dipendenti.
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
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Fu prevista una radicale riforma della proprietà terriera. Grazie a una
parcellizzazione forzata della grande proprietà sarebbero dovute nascere imprese
agricole a conduzione familiare, capaci di una produzione su grande scala. Lo
Stato avrebbe dovuto impegnarsi a vantaggio dell’istruzione dei cittadini, in particolar modo della classe operaia e contadina, lavorando attivamente per democratizzare l’accesso ai benefici di una cultura di più alto grado e per favorire le
relazioni interpersonali a tutti i livelli della vita sociale.
Nell’ambito delle politiche riguardanti la questione delle nazionalità influì
senz’altro l’esperienza bellica. La Polonia partiva dal presupposto della inamovibilità dei confini orientali, così come erano stati delineati dal trattato di Riga nel
1921, pensando di risolvere il problema delle minoranze concedendo loro
l’autonomia e conservando al contempo l’integrità territoriale del paese. D’altra
parte si consideravano acquisizioni territoriali sicure – a nord e a ovest – la
Prussia Orientale, la Pomerania Centrale, la Slesia Inferiore fino a Opole con il
confine lungo il corso dell’Oder11.
A partire dal dicembre del 1939 la sezione militare dello Stato clandestino
fu chiamata Unione per la Lotta Armata [Związek Walki Zbrojnej, ZWZ], e dal
1942 Esercito Nazionale [Armia Krajowa, AK]. Il cambio di denominazione non
era casuale: quella nuova sottolineava il fatto che l’esercito in questione era parte
delle forze armate polacche impegnate al fianco degli Alleati. Il cambio di denominazione significava anche l’avvenuta unificazione in un’unica struttura di
molte formazioni militari fino ad allora operanti in autonomia, quali i “Battaglioni
Contadini”, i settori delle Forze Armate Nazionali e altre ancora. I soldati e gli
ufficiali dell’AK prestavano giuramento, ricevevano un’istruzione militare e partecipavano ad azioni armate contro i tedeschi. Una parte di essi conduceva una
normale vita civile, mentre altri appartenevano a formazioni partigiane stanziate
nelle foreste e conducevano azioni armate contro il nemico. Per le fila dell’AK
passarono più di 300.000 soldati. A capo dell’esercito era il comandante generale,
nominato dal comandate supremo in esilio. Ricoprirono la funzione di comandante generale, in successione, i generali Stefan Rowecki, pseud. “Grot”, Tadeusz
Komorowski, pseud. “Bór”, Leopold Okulicki, pseud. “Niedźwiadek”. Al comandante era sottoposto il comando generale, i cui reparti specializzati si occu11
STEFAN KORBOŃSKI, W imieniu Rzeczypospolitej, Instytut Literacki, Paryż 1954; ANDRZEJ
FRISZKE, O kształt Niepodległej, Biblioteka Więzi, Warszawa 1989.
87
MACIEJ PODBIELKOWSKI
LO STATO CLANDESTINO POLACCO
pavano dei collegamenti, dell’addestramento militare, dello spionaggio, degli
armamenti, dell’informazione e della propaganda.
Al comando generale rispondevano delle sezioni territoriali: c’erano tre
regioni (Varsavia, Leopoli e quella Occidentale), suddivise in distretti (corrispondenti ai voivodati), a loro volta articolati in circoscrizioni (corrispondenti alle
province) e infine in avamposti (corrispondenti ai comuni). Al livello più basso i
soldati erano organizzati in plotoni, squadre e sezioni. Una sezione era composta
di cinque soldati. La regola basilare della cospirazione era che i soldati dovessero
conoscere esclusivamente i membri della propria sezione e solo per pseudonimo;
il loro comandante a sua volta conosceva soltanto il proprio diretto superiore12.
I compiti dell’esercito si dividevano nella preparazione di un’insurrezione
generale contro i tedeschi e nella messa in atto delle cosiddette “azioni ordinarie”.
La realizzazione dello scopo principale dipendeva dalla situazione globale, ossia
dall’offensiva definitiva degli Alleati e dal collasso delle forze tedesche.
Nella categoria delle “azioni ordinarie” rientravano le azioni di diversione
(attacchi diretti alle forze tedesche), di sabotaggio (attività clandestine a scapito
dell’occupante), di autodifesa, di addestramento militare, di spionaggio, di col88
legamento con i centri dell’emigrazione, di divulgazione a mezzo stampa.
La cospirazione fu attiva persino all’interno dei campi di concentramento.
Il capitano di cavalleria Witold Pilecki mise in piedi proprio ad Auschwitz una
famosissima cellula, per l’organizzazione della quale si fece arrestare di proposito
dalla Gestapo. Dopo la fuga stilò un esteso rapporto per documentare il genocidio perpetrato dai tedeschi nei confronti di polacchi ed ebrei. A garantire i collegamenti con Londra furono, oltre alle trasmissioni radio, emissari e corrieri. Tra
gli emissari più celebri ricordiamo Jan Kozielewski, pseud. “Jan Karski”, Zdzisław Jeziorański, pseud. “Jan Nowak”, Jerzy Lerski, pseud. “Jur”, e Kazimierz
Leski, pseud. “Bradl”13.
La missione di Karski a cavallo tra il ‘42 e il ‘43 fu preceduta da due
“sopralluoghi” estremamente rischiosi. Il primo fu quello nel ghetto di Varsavia.
Il secondo ebbe luogo in una piccola località, Izbica Lubelska, dove i tedeschi
avevano allestito una sorta di ghetto di transito, da cui partivano i convogli dei
deportati destinati alle esecuzioni di massa. Karski riuscì a penetrarvi indossando
12
Cfr. TOMASZ STRZEMBOSZ, Rzeczpospolita podziemna, Wyd. Krupski i S-ka,Warszawa 2000.
KAZIMIERZ LESKI, Życie niewłaściwie urozmaicone: wspomnienia oficera wywiadu i
kontrwywiadu AK, wyd. 4, Oficyna Wydawnicza, Warszawa 2001.
13
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la divisa di una delle guardie, divenendo così il testimone non solo delle scene di
disperazione di coloro che vi dovevano attendere i convogli della morte, ma anche delle modalità di esecuzione dentro vagoni allestiti a quello scopo14. Dopo un
viaggio di diverse settimane attraverso Francia, Spagna e Gibilterra, giunse in
Occidente. Negli Stati Uniti presentò il suo rapporto al presidente Roosevelt in
persona e ad alcuni altissimi funzionari del governo americano. La relazione fu
accolta con incredulità e non suscitò le reazioni sperate15. Basandosi sul rapporto
di Karski, il 10 dicembre 1942 il ministro degli Esteri della Repubblica di Polonia
in esilio a Londra indirizzò al Consiglio delle Nazioni Unite un’ampia nota,
scrupolosamente documentata, dal titolo Lo sterminio di massa degli ebrei nella
Polonia occupata dalla Germania16.
L’ufficio Informazione e Propaganda dell’AK, diretto dal colonnello Jan
Rzepecki, si occupò di pubblicare stampati in polacco per contrastare la propaganda tedesca. Il più importante giornale della Resistenza polacca era un settimanale, il «Biuletyn Informacyjny», redatto da Aleksander Kamyński, pseud.
“Kamyka”, la cui tiratura nel 1944 superava le 40.000 copie. Il primo numero uscì
già il 5 novembre 1939. La tiratura di tutta la stampa della Resistenza polacca
ammontava a circa 200.000 esemplari. Nella sola Varsavia operavano alcune decine di stamperie clandestine sotto la direzione dell’AK17. Tutte le attività di diversione, sabotaggio, autodifesa e rappresaglia facevano capo alla Direzione della
Diversione dell’AK (Kierownictwo Dywersji Komendy Głównej Armii Krajowej,
KEDYW). Oltre le linee del fronte tedesco-sovietico un’intensa attività di spionaggio, diversione e sabotaggio era invece condotta dal reparto “Wachlarz”
(Ventaglio) agli ordini – tra gli altri – di Remigiusz Grocholski18.
Il risultato delle azioni condotte tra il gennaio 1941 e il giugno 1944 fu il
deragliamento di 700 treni, l’incendio di 400 convogli militari, la distruzione di
più di 4.000 veicoli; furono dati alle fiamme 130 magazzini di armi e rifornimenti
14
In realtà, le modalità di sterminio rilevate da Jan Karski sarebbero state messe in dubbio dallo
storico dell’Olocausto RAUL HILBERG in Recording the Holocaust, intervista rilasciata a Ernie
Meyer, «The Jerusalem Post», International Edition, 1338, 28.06.1986, p. 9 [N.d.C.].
15
Cfr. JAN KARSKI, La mia testimonianza davanti al mondo, a cura di Luca Bernardini, Adelphi,
Milano 2013.
16
Ibidem; EDWARD RACZYŃSKI, W sojuszniczym Londynie, Polish Research Centre, Londyn 1960.
17
GRZEGORZ MAZUR, Biuro Informacji i Propagandy SZP-ZWZ-AK 1939-1945, Instytut
Wydawniczy Pax, Warszawa 1987.
18
CEZARY CHLEBOWSKI, „Wachlarz”. Monografia wydzielonej organizacji dywersyjnej Armii
Krajowej: wrzesień 1941 – marzec 1943, Instytut Wydawniczy PAX, Warszawa 1983.
89
MACIEJ PODBIELKOWSKI
LO STATO CLANDESTINO POLACCO
vari, danneggiati quasi 2.000 vagoni e circa 7.000 locomotive; bruciarono più di
1.000 cisterne di benzina, furono fatti saltare 40 ponti ferroviari, distrutti cinque
pozzi petroliferi, bloccati tre grandi altiforni. Nelle fabbriche di armi si compirono quasi 25.000 atti di sabotaggio. Più di 5.000 funzionari di polizia, soldati e
Volksdeutsche furono vittime di attentati. Vennero anche liberati dei prigionieri
da sedici differenti prigioni.
Tra le azioni di diversione più spettacolari vanno annoverate il blocco del
nodo ferroviario di Varsavia (7-8 ottobre 1942), l’attentato dinamitardo alla stazione del servizio ferroviario metropolitano di Berlino (15 febbraio 1943),
l’attentato a Franz Kutschera, comandante delle SS e della polizia nel distretto di
Varsavia (1 febbraio 1944) 19.
Nell’ambito delle operazioni di autodifesa, vennero sottratti alla Gestapo
alcune centinaia di prigionieri, salvandoli così dagli interrogatori, dalle torture e
dalla morte. Si coprirono di gloria i partecipanti all’Azione Arsenale (tra cui
Tadeusz Zawadzki, pseud. “Zośka”, e Alek Dawidowski, pseud. “Alek”:
quest’ultimo fu l’unico a morire per le ferite riportate). Il 26 marzo 1943 liberarono il loro compagno Janek Bytnar, pseud. “Rudy”, insieme a venticinque altri
90
prigionieri del carcere del Pawiak. L’impresa più incredibile del “Wachlarz” fu la
liberazione dei prigionieri rinchiusi in un carcere della Gestapo a Pińsk, nella
regione dei kresy wschodnie [Confini orientali] 20.
Grazie all’attività di spionaggio dell’AK fu individuato nell’isola di Uznam
il luogo di produzione dei razzi V1 e V2, cosa che permise all’aviazione britannica
di colpirlo e di interromperne così la produzione. Uno dei più grandi contributi
dello Stato polacco alla sconfitta della Germania nazista fu la trasmissione ai
Servizi Segreti britannici del risultato dei lavori di tre matematici polacchi, Marian Rejewski, Jerzy Różycki ed Henryk Zygalski, che ancor prima dello scoppio
della guerra erano riusciti a decifrare i codici della macchina Enigma, impiegata
dai tedeschi per cifrare le proprie trasmissioni.
Dal febbraio 1942 cominciarono a venire accolti in Polonia ufficiali polacchi addestrati in Inghilterra, destinati ad attività di sovversione e spionaggio (i
cosiddetti cichociemni). Ne furono paracadutati complessivamente 316. Fu i19
ANNA BORKIEWICZ-CELIŃSKA, Batalion „Zośka”, Państwowy Instytut Wydawniczy, Warszawa
1990.
20
TOMASZ STRZEMBOSZ, Akcje zbrojne podziemnej Warszawy 1939-1945, PIW, Warszawa 1978;
CEZARY CHLEBOWSKI, op. cit.
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noltre condotta un’azione diversiva di propaganda rivolta ai soldati tedeschi
(l’Azione N). Fino al luglio del 1944 morirono in battaglia, fucilati o torturati in
prigione circa 34.000 soldati dell’AK o di formazioni a esso subordinate21.
Lo scoutismo giocò un ruolo importante nel disegno cospirativo. Durante
la guerra era conosciuto con il nome di Szare szeregi (Schiere grigie). Il loro comandante nel periodo precedente l’insurrezione di Varsavia e durante la stessa
insurrezione fu Stefan Broniewski, pseud. “Orsza”. Gli Szare szeregi suddividevano la gioventù in tre gruppi in base all’età. I più grandi, a partire dai diciotto
anni, prestavano servizio nei reparti d’assalto. I più giovani, dai quindici ai diciassette anni, si formavano nelle scuole militari per venire poi impiegati in azioni
di piccolo sabotaggio, come dipingere il simbolo dell’ancora (la Polonia combattente) o della tartaruga (incitamento al lavoro improduttivo), strappare le
bandiere tedesche, issare quelle polacche nei giorni di festa nazionale. I ragazzi
tra i tredici e i quindici anni entravano a far parte di gruppi il cui patrono era la
celebre figura medievale del cavaliere Zawisza il Nero. Gli Zawiszacy non erano
impiegati direttamente in azioni che ne mettessero a rischio la vita. Sotto la guida
di compagni-istruttori più anziani studiavano la storia, imparavano canzoni patriottiche, apprendevano specifiche capacità da scout che sarebbero tornate utili
nella futura lotta contro i tedeschi22.
Una delle forme più diffuse di Resistenza era l’istruzione clandestina. Rischiando l’arresto e la deportazione nei campi di concentramento, gli insegnanti
organizzavano segretamente lezioni che si tenevano in abitazioni private, messe a
disposizione dai genitori degli alunni. Si studiava in piccoli gruppi di una decina
di persone, spesso cambiando luogo di riunione. Si erano escogitati anche segni
convenzionali per comunicare e assicurarsi che in un dato luogo non fosse in
corso una perquisizione; si facevano anche gli esami di maturità, poi riconosciuti
validi a guerra finita. Le scuole superiori, le università e i politecnici funzionavano
clandestinamente: non solo ci si laureava, ma addirittura ci si addottorava.
21
ANDRZEJ PACZKOWSKI, PAWEŁ SOWIŃSKI, DARIUSZ STOLA, Wkład Polski i Polaków w
zwycięstwo Aliantów w II wojnie światowej Ministerstwo Spraw Zagranicznych, Departament
Promocji,
Warszawa
2005,
<www.ww2.pl/Polski,wysiłek,zbrojny,8.html>;
TOMASZ
STRZEMBOSZ, Akcje zbrojne, cit.; JÓZEF GARLIŃSKI, Intercept. The Enigma War, Charles Scribners
Sons, New York 1980.
22
TOMASZ STRZEMBOSZ, Szare Szeregi jako organizacja wychowawcza, Instytut Wydawniczy
Związków Zawodowych, Warszawa, 1981.
91
MACIEJ PODBIELKOWSKI
LO STATO CLANDESTINO POLACCO
3.1 Lo Stato clandestino e l’evolversi della situazione internazionale
Fino al giugno del 1940 i polacchi fecero affidamento su una rapida vittoria degli Alleati, contro i quali Hitler aveva iniziato a combattere nel maggio del
1940. Dopo sei settimane, il 22 giugno, la Francia capitolò e questo forse fu il
momento più drammatico di tutti i sei anni del conflitto. Restava solo la Gran
Bretagna a combattere contro la Germania: proprio in Gran Bretagna s’era trasferito il governo polacco in esilio, insieme alla maggioranza dei soldati polacchi
evacuati. La situazione politica e militare cambiò nel 1941: il 22 giugno del 1941
Hitler attaccò l’Unione Sovietica. Impreparato e sorpreso, Stalin doveva contare
ora sull’aiuto dell’Occidente. Il 7 gennaio il Giappone attaccò gli Stati Uniti
bombardando lo strategico porto di Pearl Harbour nelle Hawaii. La guerra assunse una dimensione mondiale.
Tutto questo influì sulla situazione polacca. Dopo l’inizio della guerra
tedesco-sovietica i russi divennero indirettamente alleati del governo polacco. A
Londra, il 30 luglio 1941, il premier Sikorski e l’ambasciatore dell’URSS Ivan
Majskij firmarono un trattato con il quale i sovietici riconoscevano nuovamente lo
92
Stato polacco e le sue autorità in esilio, instaurando inoltre con la Polonia rapporti diplomatici; i polacchi inviati in Siberia o imprigionati dovevano riacquistare la libertà. Venne loro riconosciuta la cittadinanza polacca e si permise che si
unissero all’Armata Polacca, costituitasi in URSS sotto il comando del generale
Władysław Anders. Temendo tuttavia che tale esercito si rivelasse un importante
atout nei giochi per il futuro della Polonia, Stalin se ne sbarazzò nel 1942: con le
angherie inflittegli, il cattivo equipaggiamento, le accuse di spionaggio, spinse gli
alti comandi a portare l’esercito fuori dall’Unione Sovietica; gli uomini dovettero
mettersi in marcia attraverso l’Iran per arrivare in Medio Oriente. Dai suoi ranghi
si formò il 2° Corpo delle Forze Armate Polacche in Occidente. Nel 1944 e nel
1945 questi reparti combatterono in Italia (battaglia di Monte Cassino, 18 maggio
1944).
Quando, dopo la vittoria dei russi a Stalingrado (febbraio 1943), le sorti
della guerra iniziarono a mutare chiaramente a svantaggio della Germania, Stalin,
prevedendo di dominare l’Europa centrale, cominciò a mirare non solo alla sottomissione politica e militare di tutti gli Stati che si trovavano in quella zona del
continente, ma soprattutto a imporre loro il totalitarismo comunista. L’esistenza
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
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di un governo polacco in esilio era una minaccia per la realizzazione di simili
propositi, così come lo erano le strutture cospirative dello Stato polacco clandestino nel paese stesso e le unità militari che operavano a fianco degli Alleati.
Nella primavera-estate del ‘43 la situazione internazionale della Polonia
iniziò rapidamente a peggiorare. Nell’aprile del 1943 scoppiò la crisi di Katyń. Il
16 aprile i tedeschi annunciarono la scoperta a Katyń, non lontano da Smolensk,
di fosse comuni di prigionieri polacchi: i prigionieri dei sovietici dal 1939. Il
premier Sikorski non diede credito alle repliche di Stalin, che accusava a sua volta
i tedeschi, rivolgendosi invece alle autorità della Croce Rossa Internazionale in
Svizzera per ristabilire la verità dei fatti. Il dittatore sovietico prese questa mossa a
pretesto per rompere le relazioni diplomatiche con il governo polacco, il 26
aprile.
Nell’estate del 1943 si verificarono due tragici avvenimenti. Il 30 giugno la
Gestapo arrestò a Varsavia il comandante generale dell’AK, gen. Stefan Rowecki,
pseud. “Grot”; il 4 luglio morì in una catastrofe aerea a Gibilterra il premier gen.
Władysław Sikorski, uomo autorevole in patria e presso gli Alleati. Lo sostituì
Stanisław Mikołajczyk del Partito Popolare; comandante supremo divenne il gen.
Kazimierz Sosnkowski, mentre il gen. Tadeusz Komorowski, pseud. “Bór”, venne
nominato comandante generale dell’AK.
Nocquero agli interessi polacchi anche le gravi decisioni assunte durante
la conferenza di Teheran (Iran) tra i leader delle tre superpotenze (Josif Stalin,
Franklin Delano Roosevelt e Winston Churchill). Senza informare gli alleati polacchi, essi si accordarono per l’annessione all’Unione Sovietica dei territori
orientali della Polonia fino alla linea del fiume Bug23.
3.2 L’operazione Burza
L’assenza di rapporti diplomatici tra la Polonia e l’URSS, e le precedenti
esperienze riguardanti la politica di Stalin indussero le autorità del governo polacco in esilio a pianificare un’azione che avesse lo scopo di manifestare all’URSS
il diritto alla sovranità della Polonia su tutto il suo territorio. Questo aveva un
significato particolare nei territori orientali, che Stalin aveva annesso già nel 1939
23
JAN KARSKI, The Great Powers and Poland, 1919-1945: From Versailles to Yalta, Lanham,
Maryland 1985.
93
MACIEJ PODBIELKOWSKI
LO STATO CLANDESTINO POLACCO
in forza del patto Molotov-Ribbentrop. L’operazione, cui fu dato il nome in codice Burza (Tempesta), presupponeva che le formazioni dell’AK prendessero a
collaborare militarmente con l’Armata Rossa allo scopo di respingere i tedeschi
unendo le forze. Allo stesso tempo, le locali autorità civili polacche dovevano
uscire dalla clandestinità, per assumere il ruolo di responsabili per il territorio
nazionale.
Nel gennaio del 1944 l’Armata Rossa attraversò il confine polacco del
1939. I russi si avvalsero dell’aiuto dell’AK per la presa delle città più importanti,
quali Vilna (operazione Ostra Brama) o Leopoli. In seguito internarono gli ufficiali e i soldati dell’AK. I primi furono spediti in campi di concentramento in
Siberia, ai secondi fu data una possibilità di salvarsi, arruolandosi nell’Esercito
Popolare polacco (Ludowe Wojsko Polskie), assoggettato ai sovietici.
Durante l’estate del 1944 la situazione bellica in Europa iniziò a mutare
rapidamente. L’Armata Rossa continuava la sua offensiva verso la linea della Vistola. Il 6 giugno, però, gli Alleati occidentali aprirono un secondo fronte interno
al continente, eseguendo uno sbarco in Normandia (operazione dal criptonimo
Overlord). Il 23 agosto scoppiò un’insurrezione a Parigi, che in capo a qualche
94
giorno portò alla cacciata dei tedeschi24.
Nel frattempo, il 22 luglio i comunisti polacchi votarono per la convocazione, a Chełm (occupata dall’esercito sovietico) nel voivodato di Lublino, di un
Comitato Polacco di Liberazione Nazionale (Polski Komitet Wyzwolenia Narodowego, PKWN). La sua composizione e il manifesto programmatico furono
decisi a Mosca. Il PKWN si arrogò il diritto di governare la Polonia e di rappresentarla nel mondo, proclamando illegale il legittimo governo polacco in esilio.
La propaganda comunista falsò la verità sulla lotta dell’AK, portata avanti
dall’inizio della guerra contro i tedeschi. Sui manifesti apparve l’oltraggioso slogan “AK: il nano sputacchiante della Reazione”. La polizia politica comunista –
chiamata comunemente “UB” (abbreviazione di Urząd Bezpieczeństwa, Dipartimento di Sicurezza) prese ad arrestare le persone legate allo Stato polacco
clandestino25.
24
TOMASZ STRZEMBOSZ, Akcje zbrojne, cit.
TADEUSZ ŻENCZYKOWSKI, Polska lubelska 1944, Editions Spotkania, Paryż 1987, Warszawa
1990.
25
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4. L’insurrezione di Varsavia
4.1 La decisione
Nella situazione in cui i soldati dell’AK venivano arrestati dai sovietici e il
PKWN si dichiarava l’unico governo legittimo, divenne ovvio che Stalin puntasse
alla totale sottomissione della Polonia. I capi dello Stato clandestino polacco si
trovarono di fronte a un quesito drammatico: se convenisse adattarsi passivamente all’inevitabile corso degli eventi o se valesse la pena di fare ancora un
tentativo per invertirne il catastrofico andamento. Ogni scelta portava con sé un
serio rischio e conseguenze difficili da prevedere. Un’attesa passiva dello sviluppo
degli avvenimenti avrebbe significato anche rassegnarsi al dominio sovietico e,
quel che è peggio, avrebbe subordinato il destino della popolazione civile ai piani
bellici tedeschi. Il governatore del distretto di Varsavia, Fischer, intendeva costringere 100.000 uomini a scavare un vallo anticarro, lasciando presagire che i
tedeschi avrebbero difeso la città fino all’ultimo. La propaganda tedesca paragonava cinicamente la situazione attuale al memorabile agosto del 1920, quando
l’Armata Rossa era alle porte della capitale. Adesso i tedeschi esortavano i polacchi alla “difesa comune della città”. La decisione di far scoppiare l’insurrezione a Varsavia fu presa nella cerchia dei più importanti leader dello stato polacco
clandestino, tra cui il comandante in capo dell’AK, il generale Tadeusz Komorowski, pseud. “Bór”, e il delegato del governo per la Polonia occupata, Jan Stanisław Jankowski. L’autorizzazione a questa decisione era stata preventivamente
accordata dal governo polacco in esilio. Quando fu impartito l’ordine di far
scoppiare l’insurrezione, i dirigenti polacchi erano convinti che l’Armata Rossa si
trovasse già quasi ai confini del quartiere Praga, sulla riva destra di Varsavia, e che
sarebbe stata in grado di iniziare immediatamente a combattere per liberare la
città. Oggi è difficile stabilire se le notizie sull’avanzare del fronte fossero attendibili. Sappiamo che i tedeschi riuscirono inizialmente a contenere l’avanzata
sovietica, ma anche che l’Armata Rossa aveva acquisito capacità offensive sin
dalla metà di agosto. Tuttavia per ordine di Stalin fino al 10 settembre non le
impiegò per andare in soccorso di Varsavia in lotta. Vale anche la pena di notare
che i russi stessi avevano sfidato i varsaviani affinché insorgessero, inviando loro
appelli attraverso l’emittente comunista “Kościuszko”26.
26
Cfr. ADAM BORKIEWICZ, Powstanie warszawskie. Zarys działań natury wojskowej, Instytut
95
MACIEJ PODBIELKOWSKI
LO STATO CLANDESTINO POLACCO
4.2 Il premier Mikołajczyk a Mosca
Il premier del governo polacco in esilio si recò a Mosca. Contava sul fatto
che lo scoppio dell’insurrezione avrebbe indotto Stalin a rivedere i suoi rapporti
con la Polonia. Si aspettava in primo luogo che gli venissero accordati aiuti militari, senza i quali la lotta armata dell’AK nella capitale era condannata alla sconfitta. Aveva tenuto conto del fatto che il prezzo politico di un aiuto potesse essere
alto, e prendeva sicuramente in considerazione la necessità di arrivare a un
compromesso. Nemmeno i peggiori precedenti dei tormentati rapporti polaccosovietici potevano far pensare però che il dittatore sovietico intendesse sacrificare
una città di un milione di abitanti collocata nel centro dell’Europa al fine di un
totale assoggettamento dello Stato polacco. Eppure le cose andarono così. Il
dittatore per prima cosa si assicurò di quale fosse lo stato effettivo della situazione
in Polonia. Quando le notizie sugli scontri di Varsavia furono confermate, scelse
di prendere tempo. Al premier Mikołajczyk propose di intraprendere trattative
immediate con i delegati del PKWN, con a capo Bolesław Bierut, convocati in
tutta fretta. Inutili furono gli appelli di Mikołajczyk ai sentimenti patriottici dei
96
funzionari del governo polacco a Lublino. A Bierut infatti premeva più di tutto
dare una prova di fedeltà: nei confronti di Mikołajczyk assunse una posizione più
intransigente dello stesso Stalin. La condizione per giungere a un accordo consisteva nell'abolizione della clausola di obbedienza al presidente e al comandante
supremo dell’esercito, nonché nell’abrogazione della Costituzione di Aprile, ovvero della legittimazione giuridica del governo polacco in esilio. Come contropartita per la metà delle cariche governative concesse al raggruppamento di Mikołajczyk dal Partito Operaio Polacco venne richiesta la rinuncia a ogni diritto sui
voivodati orientali della Repubblica di Polonia. Nelle circostanze attuali questo
avrebbe significato tradire la fiducia di un’intera classe politica, impegnata da
cinque anni nella difesa della sovranità nazionale, se non direttamente la resa
incondizionata a un nuovo occupante. Mikołajczyk tornò pertanto a Londra con
una maggiore consapevolezza di quali fossero i veri piani di Mosca, pur facendo
wydawniczy PAX, Warszawa 1969; NORMAN DAVIES, La rivolta. Varsavia 1944: la tragedia di una
città fra Hitler e Stalin, edizione italiana a cura di Maurizio Pagliano, trad. it. di Caterina Balducci
et al., Rizzoli, Milano 2004; JAN KARSKI, The Great Powers and Poland, cit.; EWA CYTOWSKASIEGRIST, Stany Zjednoczone i Polska, Neriton, Warszawa 2013; ALEXANDRA RICHIE, Warsaw
1944. The Fateful Uprising, Harper Collins Publishing, London 2013.
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ancora affidamento sulla possibilità che le democrazie occidentali fossero in
grado di fornire un aiuto effettivo al suo paese27.
4.3 I combattimenti
Il 1° agosto alle ore 17 oltre 45.000 soldati dell’AK iniziarono a combattere per la liberazione della città e dello Stato polacco. L’AK era un esercito particolare. Si componeva di volontari, arruolatisi spontaneamente. In stragrande
maggioranza si trattava di giovani, di età compresa tra i diciotto e i trent’anni. Il
comando dell’insurrezione aveva previsto che la battaglia sarebbe durata al massimo cinque, sei giorni. Tanti ne permettevano di combattere i modesti armamenti, tra i quali un ruolo predominante ebbero le armi di produzione propria (le
granate ET-40 o “filipinki” e i mitra modello “Sten” e “Błyskawica”). Fino a quel
momento il piano era di impadronirsi dei punti strategici: i forti, le stazioni di
polizia, le stazioni ferroviarie, la centrale elettrica, gli acquedotti, la posta centrale
e, cosa particolarmente importante, i ponti con le arterie di transito. Si supponeva
che in questo modo il nemico avrebbe visto interrotti i collegamenti con i reparti
di prima linea schierati sulla riva orientale della Vistola.
La realtà si rivelò tuttavia ben lontana dalle aspettative degli insorti. Durante i primi giorni essi si impadronirono dei quartieri centrali posti sulla riva
sinistra della Vistola: Śródmieście, Stare Miasto, Powiśle, Czerniaków, quelli che
sarebbero rimasti più a lungo nelle loro mani, nonché di quartieri più periferici,
come Mokotów, Żoliborz, Wola e parte di Ochota. Le parti liberate della città
non costituivano un territorio continuo, attraversate com’erano da zone ancora
sotto il controllo nemico: difficili da conquistare erano le grandi piazze, i tratti
importanti delle strade principali (ad esempio Aleje Ujazdowskie, Aleje Jerozolimskie, Marszałkowska, Krakowskie Przedmieście). La comunicazione tra aree
isolate avveniva attraverso la rete fognaria urbana. Nel quartiere di Praga, dopo
tre giorni di lotta, in certi punti isolati i combattimenti cessarono del tutto.
Inizialmente nelle zone liberate di Varsavia regnò l’entusiasmo. Le persone correvano in strada, liete alla vista dei colori e dei simboli nazionali polacchi,
vietati dal settembre del 1939. Per sessantatre giorni, ovunque combattessero gli
27
JANUSZ ZAWODNY, Powstanie Warszawskie w walce i dyplomacji, Instytut Pamięci Narodowej,
Warszawa 1994; EWA CYTOWSKA-SIEGRIST, op. cit.; NORMAN DAVIES, op. cit.; ALEXANDRA
RICHIE, op. cit.
97
MACIEJ PODBIELKOWSKI
LO STATO CLANDESTINO POLACCO
insorti, era tornata a vivere una repubblica indipendente. I poteri statali presero
ad agire allo scoperto, funzionava l’amministrazione che organizzava la vita quotidiana della popolazione. La carica di sindaco fu affidata a Marceli Porowski. In
certi quartieri principali entrarono in funzione organi di autogoverno spontanei,
che si occupavano degli approvvigionamenti di cibo e acqua, di mantenere
l’ordine, organizzare le azioni di soccorso, spegnere gli incendi. Uscirono numerose testate giornalistiche. Gli scout del gruppo “Zawisza” garantirono il servizio postale, che fu in grado di recapitare circa 10.000 lettere al giorno. Tutto ciò
contribuiva a tenere in vita una Polonia resuscitata su un fazzoletto del suo territorio.
Il prezzo pagato per questa piccola “porzione di libertà” fu enorme. Sessantatre giorni di combattimenti costarono la vita di 25.000 soldati polacchi e di
circa 150.000 civili. I soldati e i civili non perivano solo in combattimento. Trovavano la morte tra le fiamme degli incendi, restavano sepolti dalle rovine delle
case distrutte, cadevano sotto i proiettili delle carabine o le bombe dell’artiglieria
pesante e dell’aviazione. Molti morirono per deperimento, malattie e fame.
Nei giorni tra il 5 e il 7 agosto i tedeschi, su ordine di Hitler, intrapresero
98
massacri inauditi nei quartieri riconquistati di Wola e Ochota. Nel corso di esecuzioni di massa sterminarono tutti gli abitanti degli stabili evacuati, concentrandoli nelle piazze o nei cortili. Non vennero risparmiati nemmeno i pazienti, i
medici e le infermiere negli ospedali. Così morirono oltre 50.000 abitanti: lo
stesso destino sarebbe toccato all’intera città.
Prima che le formazioni tedesche prendessero Wola, gli insorti ottennero
in quella parte della città una vittoria importante. I soldati del battaglione “Zośka” presero il campo di concentramento tedesco di Gęsiówka. La struttura fu
occupata grazie all’impiego di un carro armato tedesco Panther conquistato ai
tedeschi. Nel campo si trovavano più di trecento ebrei costretti ai lavori forzati.
Molti di loro, in un gesto di solidarietà, si unirono all’insurrezione e la sostennero
combattendo nelle file di reparti ausiliari.
Dopo la presa di Wola da parte dei tedeschi, gli insorti e i civili sopravvissuti si rifugiarono a Stare Miasto. Volendo aprirsi un varco che gli permettesse
di raggiungere Praga attraverso il Ponte Kierbedzia (oggi Śląsko-Dąbrowski), i
tedeschi attaccarono con violenza l’antico centro cittadino. Alla fine di agosto la
situazione degli insorti in quella parte della città divenne disperata. Tormentati
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dai continui bombardamenti aerei, dai lanciarazzi (conosciuti come “armadi” o
“vacche”28) e da artiglieria ferroviaria pesante, gli esausti difensori di Stare Miasto
non furono in grado di opporre ulteriore resistenza. Nella notte tra il 31 agosto e
il 1 settembre gli insorti tentarono di sfondare le linee nemiche a Śródmieście.
L’attacco fu sventato tuttavia dal fitto fuoco delle mitragliatrici. Solo un piccolo
reparto sotto la guida di Ryszard Białous, pseud. “Jerzy”, riuscì ad arrivare alla
chiesa di Sant’Antonio in via Senatorska. Di lì, vestiti con tute mimetiche di preda
bellica, i polacchi attraversarono i Giardini Sassoni occupati dai tedeschi. I reparti rimasti dovettero ritirarsi in direzione di Śródmieście per l’unica via possibile: attraverso i canali fognari. I soldati intrapresero una marcia di molte ore
verso le zone ancora libere della città in condizioni straordinariamente difficili.
Marciavano piegati in due, sguazzando in ginocchio nelle acque nere. Erano sotto
il costante pericolo rappresentato dall’esplosione di granate e dai gas asfissianti
gettati nelle fogne attraverso i tombini.
Nelle rovine occupate di Stare Miasto si ripeterono – in misura non molto
minore – le scene già viste a Wola di esecuzione in massa della popolazione civile.
Śródmieście era un quartiere posto al centro della città, a lungo difeso
dagli attacchi in massa del nemico, che prima aveva dovuto procedere alla presa
delle zone più periferiche. Chi vi giungeva ritirandosi da altri quartieri era colpito
da un ordine relativo e dalla pace che vi regnava, si sorprendeva alla vista dei vetri
delle finestre intatti, si stupiva per le condizioni sanitarie tutto sommato accettabili.
A causa della passività dell’esercito sovietico, il destino dell’insurrezione
lasciata a sé stessa era comunque compromesso. I governi degli Stati Uniti e della
Gran Bretagna non si decidevano a fare nessuna pressione energica su quello
sovietico. Il loro modesto apporto nella lotta insurrezionale furono i lanci di armi,
munizioni e rifornimenti effettuati dall’aeronautica alleata. Le loro quantità erano
tuttavia simboliche. A determinarne la scarsità fu il rifiuto di Stalin di permettere
scali oltre la linea sovietica del fronte. In simili condizioni, gli aerei dovevano
percorrere i duemila chilometri che dividevano Varsavia dagli aeroporti nell’Italia
meridionale (o in Inghilterra) sia all’andata che al ritorno. Contrariamente a
quanto stabilito in precedenza, non furono inviati a Varsavia come rinforzi per
28
Entrambi i nomi si riferiscono a mortai e lanciarazzi multipli tedeschi di tipo Nebelwerfer
[N.d.T.].
99
MACIEJ PODBIELKOWSKI
LO STATO CLANDESTINO POLACCO
l’insurrezione i soldati della 1a Brigata Aerotrasportata Indipendente del generale
Stanisław Sosabowski. Invece che per prestare aiuto all’insurrezione, le truppe
aerotrasportate polacche furono impiegate nell’operazione effettuata dagli eserciti alleati ad Arnhem (in Olanda) nei giorni tra il 21 e il 26 settembre. Nonostante
combattimenti accaniti, l’operazione – conosciuta col nome in codice Market
Garden – si concluse con una disfatta.
Il dittatore sovietico decise di avanzare verso Praga il 9 settembre. Stalin
permise anche lo sbarco di piccoli reparti del 1° Corpo d‘Armata polacco del
generale Zygmunt Berling. I soldati polacchi, non preparati ai combattimenti in
città, attraversarono la Vistola nei giorni tra il 15 e il 18 settembre, attestandosi
nella testa di ponte di Czerniaków, senza peraltro che gli fosse stato assicurato un
appoggio di artiglieria. Lo sbarco tanto atteso dagli insorti, che contavano
sull’arrivo di rinforzi rilevanti, si concluse con una sconfitta e con pesanti perdite.
Vista la situazione, il comando dell’AK prese la decisione di trattare la
resa. I negoziati, tenutisi a Ożarów, fuori Varsavia, si conclusero il 2 ottobre con
un accordo per il cessate il fuoco29.
100
5. Dopo l’Insurrezione
Solo l’armistizio riconobbe ai soldati che combattevano nell’AK lo status
di combattenti. Ciò significava che, contrariamente a quanto avvenuto all’inizio
dell’insurrezione, non sarebbero stati puniti per aver preso parte ai combattimenti, ma sarebbero finiti in campi di prigionia (ad es. Langwasser, Oberlangen e
molti altri). I soldati furono accompagnati lungo la strada verso la prigionia dal
comandante dell’AK, gen. Bór-Komorowski. La popolazione civile, che contava
circa 150.000 persone, abbandonò la città e fu inviata verso il campo di transito di
Pruszków, fuori Varsavia. Molti di loro finirono in campi di concentramento
(Oświęcim) o ai lavori forzati all’interno del Reich. Una parte fu deportata nel
Governatorato Generale o si disperse volontariamente.
29
NORMAN DAVIES, op. cit.; ANDRZEJ LEON SOWA, Historia polityczna Polski 1944-1991,
Wydawnictwo Literackie, Kraków 2011; PAWEŁ UKIELSKI, Spór o Powstanie Warszawskie, in
«Biuletyn IPN», 8-9 (103-104), sierpień-wrzesień 2009; NIKOŁAJ IWANOW, Powstanie
warszawskie widziane z Moskwy, Znak, Kraków 2010.
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5.1 Mikołajczyk di nuovo a Mosca
Durante la terza settimana di ottobre il premier Mikołajczyk si trovò
nuovamente nella capitale dell’URSS. Accompagnò in questa occasione il premier
Winston Churchill, che fece appello ai sentimenti di responsabilità e di realismo
politico del capo del governo polacco. I negoziati con i comunisti avrebbero
rappresentato l’ultima possibilità di salvare l’indipendenza della Polonia, il cui
futuro, dopo il fallimento dell’insurrezione, appariva in tinte ancora più fosche.
Gli interlocutori di Mikołajczyk adesso parlavano da una posizione di
forza. L’NKVD sgominava con grande brutalità i reparti dell’AK che uscivano
dalla clandestinità. In modo analogo a quanto era avvenuto nel sec. XIX dopo la
sconfitta insurrezionale, venne il tempo della repressione post-insurrezionale. La
ricompensa per anni di lotta eroica ai tempi dell’occupazione tedesca e per la
collaborazione dell’AK con l’Armata Rossa nella lotta contro Hitler furono gli
internamenti, le condanne a morte, le deportazioni di massa in Siberia.
Durante le trattative vennero a galla anche gli accordi di Teheran.
L’Occidente, senza informare gli alleati polacchi, aveva ceduto a Stalin oltre il
cinquanta per cento del territorio antebellico della Repubblica di Polonia, ratificando in un certo senso quanto deliberato dal patto Molotov-Ribbentrop30.
5.2 Il governo Arciszewski
Il capo del governo polacco rifiutò le condizioni dell’accordo. Era tuttavia
conscio che il livello delle aspettative politiche andava commisurato a condizioni
drammaticamente peggiorate. La posta in gioco pertanto non era una ripartizione
delle cariche piuttosto che un’altra, ma la conservazione stessa della Polonia come
Stato e dell’identità nazionale. Con simili presupposti, le posizioni politiche nel
campo dell’indipendenza polacca subirono una brusca polarizzazione.
In novembre, Mikołajczyk si dimise dalla carica di premier. Con lui lasciarono il governo tutti i membri del Partito Popolare. Fu eletto primo ministro
Tomasz Arciszewski del Partito Socialista Polacco che, insieme al Partito dei
Lavoratori e al Partito Nazionale, si dichiarò a favore di un’inflessibile rivendi30
JANUSZ KAZIMIERZ ZAWODNY, Powstanie Warszawskie w walce i dyplomacji, Instytut Pamięci
Narodowej, Warszawa 2006; IDEM, Nothing but Honour. The Story of Warsaw Uprising 1944,
Hoover Institution Press, 1978.
101
MACIEJ PODBIELKOWSKI
LO STATO CLANDESTINO POLACCO
cazione dei diritti della Polonia alla piena sovranità e integrità territoriale. Mikołajczyk aveva scelto la difficile strada del compromesso, irta di pericoli, pagandola con l’incomprensione e perfino con accuse di tradimento31.
6. Jalta
Nei primi giorni del febbraio del 1945 ebbe luogo a Jalta, in Crimea, la
conferenza delle potenze alleate con la partecipazione di Stalin, del presidente
USA Roosevelt e del premier della Gran Bretagna Churchill. Si accordarono per
revocare il riconoscimento diplomatico al governo polacco in esilio e accettare la
nomina del Governo Provvisorio di Unità Nazionale. La composizione di
quest’ultimo si sarebbe basata sul Governo Provvisorio comunista, come si
chiamava dal gennaio 1945 quello che fino ad allora era stato il PKWN. Il compromesso (o un suo succedaneo) sarebbe consistito in due concessioni:
l’inserimento nella compagine governativa di un gruppo di politici democratici
provenienti dalla Polonia e dall’emigrazione, e la promessa di libere elezioni
democratiche32.
102
6.1 Il processo dei Sedici
Le strade degli insorti iniziarono a dividersi a partire dalla sconfitta. I
soldati e gli ufficiali finirono nei campi di prigionia. Con i civili, lasciarono Varsavia Jan Stanisław Janowski, il delegato del governo per la Polonia, Kazimierz
Pużak, presidente del Consiglio di Unità Nazionale, il gen. Leopold Okulicki,
pseud. “Niedźwiadek”, neo-nominato comandante generale dell’AK e il gen.
August Fieldorf, pseud. “Nil”, capo dell’organizzazione rigorosamente segreta
“NIE”. I sovietici si servirono dell’“ampliamento”, già previsto a Jalta, del Governo Provvisorio33, per eliminare i dirigenti dello Stato polacco clandestino. Attirati in una trappola con la proposta di trattative per il futuro della Polonia, furono condotti a Mosca. A seguito del processo dei Sedici, tenutosi nel 1945, furono giustiziati – benché fossero stati formalmente condannati solo a una lunga
31
ANDRZEJ LEON SOWA, op. cit.
Cfr. JAN KARSKI, The Great Powers and Poland, cit.; GREGOR DALLAS, Poisoned Peace 1945.
The War That Never Ended, Yale University Press, Yale 2005.
33
ANDRZEJ LEON SOWA, op. cit.
32
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prigionia – Leopold Okulicki, Jan Stanisław Jankowski e Stanisław Jasiukowicz.
Solo Antoni Pajdak, sostituto del delegato del governo per la Polonia, fu inviato a
Vladimir sulla Kljaz’ma, da cui tornò in patria dopo sei anni. Dei rimanenti dodici, graziati e liberati da Stalin nel 1945, si sarebbe occupata in Polonia la “giustizia popolare”34.
7. La Seconda Cospirazione
Dopo l’arresto dei sedici, la dirigenza della Delegazione di Governo in
Polonia fu assunta da Stefan Korboński, ex capo del Direttorato di Resistenza
Civile (Kierownictwo Walki Cywilnej), mentre alla guida del Consiglio di Unità
Nazionale andò Jerzy Braun, del Partito del Lavoro. Lo scioglimento dell’AK e la
revoca del giuramento militare da parte del generale Okulicki il 19 gennaio del
1945 non posero fine alle cospirazioni militari. Il compito di integrare i reparti
dispersi dell’AK fu affidato alla Delegazione delle Forze di Difesa con a capo il
colonnello Jan Rzepecki. Quei tempi vengono chiamati col nome di Seconda
Cospirazione. Quello fu anche il primo apogeo della repressione comunista. Gli
organi dello Stato polacco clandestino furono dichiarati illegali, e l’appartenenza
all’AK veniva perseguita e punita35.
7.1 L’esperimento di Mikołajczyk
Parallelamente al processo dei Sedici ebbero luogo a Mosca le trattative in
merito al Governo Temporaneo di Unità Nazionale con la partecipazione di
Stanisław Mikołajczyk, ex premier del governo a Londra e capo del Partito Popolare Polacco. Alla base della sua strategia vi erano le elezioni democratiche
garantite dagli Alleati. Il 2 luglio del 1945 Mikołajczyk entrò nel Governo Provvisorio di Unità Nazionale.
Condizione per la collaborazione con i comunisti era la soluzione del
problema dello Stato clandestino. L’amnistia dell’agosto 1945 prometteva la fine
delle persecuzioni. Si esigeva tuttavia l'uscita dalla clandestinità, cosa che sem34
NORMAN DAVIES, op. cit.
ANDRZEJ LEON SOWA, op. cit.; Słownik Historii Polski 1939-1948, a cura di Andrzej Chwalba,
Tomasz Gąsowski, Anna Wiekluk, Księgarnia Akademicka, Kraków 1996; HENRYK KOZŁOWSKI,
12 Miesięcy przez wiele lat. Wspomnienia z AK i inne, Bellona, Warszawa 2010.
35
103
MACIEJ PODBIELKOWSKI
LO STATO CLANDESTINO POLACCO
brava essere foriera di ulteriori misure repressive, solo rimandate nel tempo. Fu
l’appello di “Radosław” che convinse tanti soldati a correre un simile rischio. Lo
si ascoltò, anche se l’accordo di cui l’appello di faceva latore era stato ratificato in
carcere. L’esperimento di Mikołajczyk diede fin dall’inizio notevoli risultati. Il
PSL aveva 800.000 iscritti, e il congresso del partito promulgò un programma
politico corrispondente alla visione della Repubblica resuscitata concepita dal
parlamento clandestino polacco. Alla guida del partito fu posto il rappresentante
della Delegazione del Governo in Polonia, Stefan Korboński. Riprese le sue attività anche il Partito del Lavoro, di stampo democristiano. Uno degli esponenti
più impegnati fu Jerzy Braun, autore del Testamento della Polonia in lotta e redattore del «Tygodnik Warszawski». Dopo la liquidazione della rivista, avvenuta
nel 1947, Braun fu condannato all’ergastolo per aver tentato di rovesciare il regime popolar-democratico. Fu Kazimierz Kobylański, sottoposto al processo dei
Sedici, ad adoperarsi affinché uscisse allo scoperto anche il Partito Nazionale. Il
Memoriale del 23 agosto indirizzato a Bierut fu firmato, tra gli altri, anche da
Kazimierz Stojanowski, dello “Stato Nazionale” dell’insurrezione. Si concluse
con un fiasco il tentativo di creare un Partito Socialdemocratico Polacco. Kazi104
mierz Pużak, il nestore dei socialisti polacchi, fu condannato a dieci anni di detenzione. Durante il quarto anno di prigionia sarebbe caduto dalle scale, procurandosi traumi mortali. I testimoni riferirono di un’agonia protrattasi diverse ore
senza alcun soccorso medico. Non arrivò al processo Antoni Zdanowski. Fu restituito alla famiglia in agonia. Józef Dzięgielewski, condannato a nove anni, morì
di tubercolosi nel 1952, scarcerato prima della decorrenza dei termini. Tadeusz
Szturm de Strzem (condannato a dieci anni) e Stefan Zbrożyń (condannato a sei
anni) sarebbero invece riusciti a vedere il disgelo insieme a Władysław Gomułka36.
7.2 Il giro di vite o “la seconda tappa della costruzione del socialismo”
L’elezione di Bolesław Bierut alla carica di presidente della nuova Repubblica fu festeggiata con una serie di processi dimostrativi “ai nemici della
democrazia popolare”. Nel primo di questi, furono condannati alla pena di morte
per spionaggio Waldemar Baczaków, pseud. “Arne”, del reggimento “Baszta”,
36
KRYSTYNA KERSTEN, Narodziny systemu władzy. Polska 1943-1948, Wydawnictwo “Gama”,
Warszawa 1990; MAREK LATYŃSKI, Nie paść na kolana. Szkice o opozycji lat czterdziestych, Polonia
Book Fund, Londyn 1985.
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ferito per ben cinque volte durante i combattimenti a Mokotów, Witold Karlicki
e Ksawery Grocholski, nipoti del comandante di “Wachlarz”. Le condanne furono eseguite prima della proclamazione dell’amnistia nel marzo del 1947. Questa fu invece applicata agli imputati del processo al primo comando della formazione Libertà e Indipendenza (Wolność i Niezawisłość, WiN). Il dirigente Jan
Rzepecki tentò di salvare i suoi sottoposti, rivelando la struttura del comando e
facendo autocritica in tribunale. La tattica ebbe successo. Le condanne già
emesse furono abbreviate e i condannati ottennero la libertà.
Alla conferenza segreta dei partiti comunisti a Szklarska Poręba nel settembre del 1947 il rappresentante di Stalin, Andrej Ždanov, comunicò la necessità di un passaggio alla “fase successiva della costruzione del socialismo”. Le
conseguenze si fecero immediatamente tangibili per gli imputati nel processo del
2° comando di WiN. Il vice capo Franciszek Niepokólczycki, ex vice dirigente del
KEDYW, fu condannato alla pena di morte. Rifiutò di denunciare i commilitoni
e di consegnarli nelle mani dell’UB. Tuttavia la pena gli fu scontata e Niepokólczycki fu rilasciato nel dicembre del 1956. Il 1948 iniziò con il crimine giudiziario
ai danni del capitano di cavalleria Witold Pilecki, condannato a morte per spionaggio a favore degli stranieri.
Alla vigilia di Natale del 1948 ebbero inizio gli arresti dei primi insorti del
battaglione “Zośka”, ammantato di leggenda. Il primo a essere fermato fu Jan
Rodowicz, allora studente del Politecnico di Varsavia, intorno al quale orbitava
qualche decina di amici e amiche coinvolti nell’insurrezione. Documentavano la
storia di “Zośka”, studiavano, si divertivano, si innamoravano e mettevano su
famiglia. Usciti dalla clandestinità nel 1945, non avevano alcuna fiducia nel potere. Nascondevano delle armi come ricordo. Tutte queste “colpe” finirono negli
atti di accusa. La loro vita sociale fu bollata come spionaggio, le escursioni in
montagna fatte passare per esercitazioni in campi di addestramento, le lettere tra
amici come le prove dell’esistenza di una rete cospirativa. All’inizio di gennaio
1949 “Kmita” incontrò “Anoda” in un corridoio dei locali di sicurezza presso via
Koszykowa: Henryk Kozłowski era ancora in forma, scherzava. Il 7 gennaio era
già morto. Secondo gli inquirenti sarebbe deceduto saltando dalla finestra aperta
dal quarto piano della sede del Ministero di Pubblica Sicurezza. “Kmita” aveva
davanti a sé ancora un anno di istruttoria (pestaggi, ore trascorse in piedi davanti
a una finestra aperta d’inverno, cella di punizione), un processo di due giorni, una
105
MACIEJ PODBIELKOWSKI
LO STATO CLANDESTINO POLACCO
pena di morte comminatagli quattro volte e la lunga attesa dell’esecuzione. Tutto
si concluse con un’esecuzione simulata, il passatempo in voga presso i sadici
carcerieri di via Rakowiecka. Bierut si avvalse del diritto di concedergli la grazia37.
7.3 Non bis in idem
Le successive sorti degli amnistiati negli anni 1945-1947 o dei condannati
“inadeguatamente” furono sottoposte senza sosta a verifica. Il capo del controspionaggio del comando generale dell’AK, Bernard Zarzewski, aveva già trascorso in carcere un anno, dal febbraio del 1946 al marzo del 1947, ma nel 1954
fu emessa nei suoi confronti una nuova sentenza a quindici anni di detenzione.
Nonostante la successiva riabilitazione giudiziaria, non gli fu concesso di tornare
alla pratica dell’avvocatura. A Kazimierz Leski, che sotto le spoglie del “colonnello Bradl” della Wermacht si era procurato e aveva trasmesso agli Alleati i piani
delle fortificazioni tedesche in Normandia, nel 1951 vennero inflitti ulteriori dieci
anni di carcere per presunta “collaborazione con l’occupante”. Il redattore di
«Wiadomości Powstańcze», Kazimierz Moczarski, venne condannato nel 1945 a
106
dieci anni di detenzione. Nel 1948 il suo caso venne riesaminato. Detenuto nello
stesso locale col carnefice del ghetto di Varsavia, Jürgen Stroop, nel 1952 egli
venne sottoposto al cosiddetto “processo in cella” e condannato a morte. La notizia della commutazione della pena in ergastolo giunse all’interessato solo nel
1955. Kazimierz Pluta-Czachwowski, vicecapo di stato maggiore presso il comando generale dell’AK, nel 1945 venne deportato in Kazachstan dall’NKVD, ma
in patria lo attendeva un ulteriore processo. Il 7 dicembre del 1953 fu condannato a
quindici anni di prigionia e rinchiuso nella famigerata prigione di Rawicz38.
Il più alto ufficiale dell’AK assassinato dal regime fu il comandante del
KEDYW, generale August Emil Fieldorf. All’inizio del 1945, fermato per caso
dall’NKVD, fu inviato in un campo negli Urali, senza che ne fosse stata accertata
l’identità. Tornò in Polonia nel 1948, senza unirsi alla cospirazione. Quando nel
1951 decise di uscire dalla clandestinità, fu immediatamente arrestato. Rifiutò
37
JOANNA WIELICZKA-SZARKOWA, Żołnierze wyklęci. Niezłomni bohaterowie, Wydawnictwo
AA, Kraków 2013; HENRYK KOZŁOWSKI, op. cit.
38
KAZIMIERZ LESKI, op. cit.; ZDZISŁAW A. ZIEMBA, Prawo przeciwko społeczeństwu. Polskie
prawo karne w latach 1944-1956, Katedra Socjologii Moralności i Aksjologii Ogólnej, Inst.
Stosowanych Nauk Społecznych, Uniw. Warszawski, Warszawa 1997.
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con sdegno l’offerta di aver salva la vita a patto di collaborare con gli agenti infiltrati in ciò che rimaneva del movimento cospirativo. Nel 1952 venne condannato a morte per “collaborazione” con la Gestapo. Il Consiglio di Stato della
Repubblica di Polonia, sotto la guida di Aleksander Zawadzki, decise di non
avvalersi del diritto di grazia. La condanna fu eseguita il 23 febbraio del 1953.
Stalin sarebbe morto il 5 marzo... 39.
Il servizio in un reparto civile dello Stato clandestino era equiparato alla
partecipazione alla lotta armata. Durante l’occupazione tedesca, il destino del
delegato del governo Jan Piekałkiewicz, trucidato nel Pawiak, fu condiviso da
decine di funzionari di strutture a lui afferenti. Nonostante molti di loro optassero per un comportamento “pragmatico”, la Polonia Popolare li trattò con sospetto e nel tempo regolò duramente i conti con loro. Marceli Porowski, sindaco
di Varsavia ai tempi dell’insurrezione, divenne vicedirettore del Dipartimento per
l’autogestione nel Ministero dell’Amministrazione. Dopo l’allontanamento del
PSL dal governo, Porowski fu sistematicamente dimissionato e nel 1951 costretto
ad andare in pensione. Il 10 febbraio del 1952, dopo un’indagine durata un anno,
fu condannato alla pena capitale per spionaggio. Bierut si avvalse del diritto di
grazia. Poi, la consueta “routine”: ergastolo, liberazione anticipata nel 1956, riabilitazione. Porowski morì nel 1963. Un altro membro del governo clandestino
polacco, Witold Maringe, decise di mettere a disposizione delle nuove autorità i
risultati delle ricerche effettuate dal suo dicastero dell’Agricoltura durante la fase
cospirativa. A suscitare il loro interesse era stata infatti l’idea di organizzazioni
agricole statali basate su moderni criteri di gestione, da affidarsi a un’apposita
istituzione esecutiva. Nel 1949 Maringe venne arrestato e nel 1951 condannato
all’ergastolo in base all’assurda accusa di spionaggio e sabotaggio della rete di
imprese agricole da lui stesso creata.
Nel 1950 venne processato il Capo-Giovane Esploratore della Repubblica
di Polonia Zbigniew Heidrich, ex comandante supremo dell’Unione Scoutistica
Polacca, nella Delegazione di Governo per la Polonia, impiegato alla sezione
controlli. Non gli furono d’aiuto i consigli che aveva elargito nel dopoguerra per
la riattivazione di numerosi stabilimenti industriali. Sarebbe finito in prigione per
sette anni. Liberato con la condizionale dopo il compimento di metà della pena, si
39
STANISŁAW MARAT, JACEK SNOPKIEWICZ, Zbrodnia. Sprawa generała Fieldorfa-Nila, Wyd.
Alfa, Warszawa 1989; TADEUSZ KRYSKA-KARSKI, STANISŁAW ŻURAKOWSKI, Generałowie Polski
Niepodległej, Editions Spotkania, Warszawa 1991.
107
MACIEJ PODBIELKOWSKI
LO STATO CLANDESTINO POLACCO
dedicò al lavoro scientifico. In uno degli ultimi processi per spionaggio a favore
degli USA e del Vaticano fu condannato a sei anni anche Jan Stamler, vicedirettore del Dipartimento dell’Informazione e della Propaganda.
[Traduzione dal polacco di Francesco Cabras (dal paragrafo La
Campagna di settembre e la quarta Spartizione della Polonia al paragrafo Lo Stato clandestino e l’evolversi della situazione internazionale
incluso) e di Alessandra Angelini (dal paragrafo Operazione Burza
fino alla fine). Revisione e cura di Luca Bernardini]
[«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», 5, 2014, pp. 79-108]
108
EWA WIERZYŃSKA
La memoria resuscitata.
Il programma “Karski: una missione incompiuta” (2010-2014)
L
a memoria collettiva è un fenomeno strano, soggetto a disturbi sorprendenti, tra cui Alzheimer politici o amnesie sciovinistiche. Potrei sicuramente proseguire con la metafora, visto che la memoria della Seconda
guerra mondiale in Polonia sembra essere colpita da diverse patologie di questo
tipo. Peraltro, almeno da questo punto di vista, la Polonia non è certo isolata.
Spero pertanto che il tentativo di inserire la vicenda di Jan Karski nella narrazione
popolare della guerra possa servire d’esempio anche ad altre nazioni o popoli alle
prese con problemi analoghi nel raccontare la propria storia.
Ho incontrato per la prima volta Jan Karski a Chicago nel 1986. Vi abitavo dal 1985, esule politica dalla Polonia del gen. Wojciech Jaruzelski. Karski era
ormai stato “scoperto” dal cineasta francese Claude Lanzmann. Il monumentale
documentario Shoah, lungo ben nove ore e mezza, comprendeva una parte di
quasi un’ora in cui Karski ricostruiva le sue due visite nel ghetto di Varsavia. La
scena iniziale è difficile da dimenticare: Karski vorrebbe “tornare indietro nel
tempo”, ma non può. È la sua stessa memoria, così a lungo repressa, a impedirglielo. Karski ha una crisi di pianto e si allontana dalla cinepresa. Lanzmann fortunatamente insiste e grazie alla sua risolutezza abbiamo un documentario capolavoro, di cui la parte dedicata a Karski è probabilmente la testimonianza più
appassionante di un non ebreo sulla messa in atto della soluzione finale nella
Polonia occupata dai nazisti.
Il 1985 era l’anno in cui Karski, per molti anni professore della Georgetown University, dove godeva di grande popolarità (pur senza aver mai fatto
parola delle sue esperienze durante la guerra) aveva pubblicato il suo opus magnum
109
EWA WIERZYŃSKA
LA MEMORIA RESUSCITATA
scientifico sulla storia della diplomazia, The Great Powers and Poland, 1919-1945.
From Versailles to Yalta1. Come uomo e come accademico aveva lavorato per anni
a quel libro, la sua più grande opera, nel tentativo di restituire un senso a quella
Storia di cui era stato uno dei protagonisti.
Nella sua patria, in Polonia, il nome di Karski era finito sulla lista nera del
regime comunista insediatosi dal 1945 fino al 1989. Il suo nome, come quello di
altri eroi anticomunisti che avevano combattuto durante la Seconda guerra
mondiale, non poteva essere menzionato. Occorre anche tener presente che durante il comunismo la storia dell’Olocausto era stata distorta e riscritta fino a essere resa irriconoscibile. Libri di testo e luoghi della memoria erano caduti vittime
di un’“amnesia ufficiale” e anche in ambiente accademico, pur vigendo una
qualche libertà di ricerca, si veniva scoraggiati dall’affrontare “i temi controversi
della Seconda guerra mondiale” a causa della nota ipersensibilità in questo campo
dei capi sovietici degli apparatchiki comunisti polacchi.
Il cosiddetto drugi obieg, il “secondo circuito” dell’editoria (ossia le pubblicazioni edite e distribuite clandestinamente dagli ambienti della dissidenza) –
grazie al quale in Polonia uscirono libri di enorme rilevanza per la storia nazio110
nale, pubblicati all’estero da scrittori emigrati o da storici stranieri – permise che
anche The Great Powers venisse pubblicato in patria, senza riscuotere però il
successo che meritava, probabilmente perché si trattava di una versione ridotta,
dai caratteri piccolissimi, priva di note a piè di pagina e della bibliografia2. Nel
1990 Karski esprimerà, in un’intervista a «Rzeczpospolita», la sua estrema gratitudine agli editori, ma anche tutta la propria delusione3.
Quella stessa intervista ricordò al pubblico polacco l’esistenza di Jan
Karski, com’era del resto già accaduto nel 1987 con «Tygodnik Powszechny».
Diversamente da «Tygodnik Powszechny», settimanale cattolico rivolto a un
pubblico piuttosto ristretto di intellettuali e pertanto meno soggetto a ingerenze
da parte della censura4, «Rzeczpospolita» era un quotidiano a larga tiratura. Vale
1
JAN KARSKI, The Great Powers and Poland, 1919-1945. From Versailles to Yalta, University Press
of America, Lanham 1985, poi Rowman & Littlefield Publishers, Lanham 2014 [N.d.C.].
2
IDEM, Wielkie mocarstwa a Polska, Część 1: Od Wersalu do Września; Część II: Od Września do
Jałty, Wydawnictwo Społeczne KOS, Warszawa 1987; IDEM, Wielkie mocarstwa wobec Polski,
1914-1945. Od Wersalu do Jałty, Wydawnictwo Poznańskie, Poznań 2014 [N.d.C.].
3
Cfr. Własna racja stanu. Rozmowa z profesorem Januszem [sic!] Karskim, rozmawiała Justyna
Duriasz, «Rzeczpospolita», 16.04.1990, pp. 5-6 [N.d.C.].
4
Cfr. ibidem [N.d.C.].
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
5 / 2014
la pena di ricordare che – nonostante la precedente intervista sul «Tygodnik
Powszechny», a causa della persistente assenza di informazioni su di lui – il suo
sottotitolo era Conversazione con il prof. Janusz Karski, e non Jan, come ci si sarebbe dovuti aspettare. L’intervistatrice, Justyna Duriasz, una giovane studentessa di storia che si trovava negli Stati Uniti grazie a una borsa di studio, era ben
decisa a far sì che la Polonia riscoprisse Jan Karski. Fu lei a curare la redazione
dell’intervista, annotata in una splendida calligrafia, assicurandosi che ogni dichiarazione corrispondesse al pensiero di Karski e redigendola nel miglior polacco
possibile. Quando rientrò in Polonia, per Natale Karski le inviò un pacco dono con
del prosciutto in scatola e della frutta: la Polonia soffriva ancora di una grave penuria di generi alimentari e la vita all’epoca non era davvero tutta rose e fiori.
Nel 1986, quando lo incontrai per la prima volta, Jan Karski stava promuovendo il suo libro, e io fui una dei fortunati che ebbero la possibilità di sentirlo parlare di quegli anni fatali tra il 1919 e il 1945, in un confortevole appartamento con vista sul lago Michigan.
Vestito in modo impeccabile e piuttosto inavvicinabile nel suo contegno,
Karski parlò a lungo delle circostanze che avevano fatto sì che dalla fine della
Seconda guerra mondiale la Polonia, come i Paesi Baltici e altri Stati dell’Europa
orientale, fosse finita sotto lo spietato tallone d’acciaio di Stalin. Karski si dimostrò loquace: era un oratore affascinante, un attore eccellente. Ormai ero al corrente della sua figura e del suo eroico passato come esponente di punta dello
Stato clandestino polacco, il più esteso e ramificato tra tutti i movimenti della
Resistenza antinazista europea, e mi aspettavo una specie di eroe romantico: con
mia gran sorpresa, il conferenziere impartì al suo pubblico una lezione di lucido
realismo politico.
“Come hanno potuto il presidente Franklin Delano Roosevelt e il primo
ministro Winston Churchill tradire la nazione che ha combattuto dal primo
all’ultimo giorno di guerra, sacrificando la generazione dei suoi figli migliori?”,
chiese qualcuno dalla sala. “Come hanno mai potuto i leader del mondo libero
infrangere la promessa fatta al popolo polacco e consegnare quel paese insanguinato, quel fedele alleato, a Stalin?”. Era un interrogativo pesante.
Karski non batté ciglio: “Occorre comprendere che Roosevelt non era il
presidente della Repubblica di Polonia, bensì degli USA”. Il tono della sua voce
era quasi sarcastico, mentre sottoponeva a disamina le decisioni politiche e di-
111
EWA WIERZYŃSKA
LA MEMORIA RESUSCITATA
plomatiche degli Alleati, arrivando ad affermare che l’enorme quantità di sangue
versato dalla Polonia, la distruzione della sua capitale, il sacrificio della generazione dei suoi figli migliori, erano stati ritenuti fattori di scarsa rilevanza. Sottolineò che a risultare decisivi per le sorti di quel terribile conflitto erano state le
decine di migliaia di carri armati, aeroplani, navi insieme al resto dell’arsenale
bellico degli Alleati e non certo la volontà polacca di combattere.
Tempo dopo, durante gli anni Novanta, ci eravamo trasferiti a Washington
e mio marito, giornalista, aveva fatto amicizia con Jan Karski, registrando decine
di ore di conversazioni con lui, ormai in pensione e da poco vedovo (la moglie,
Pola Nireńska, ebrea, si era suicidata nel 1992 gettandosi dal loro appartamento
all’undicesimo piano).
Le interviste registrate da mio marito Maciej venivano trasmesse in Polonia dall’emittente «Voice of America». Mio marito era rimasto profondamente
colpito dall’originalità del pensiero di Jan Karski, dal carattere spesso provocatorio delle sue idee. Man mano che registrava nuove conversazioni, i suoi supervisori alla radio iniziarono ad avere qualche perplessità. In una verifica del programma gli venne chiesto come mai la sezione polacca di «Voice of America»
112
dedicasse tante risorse per registrare “una figura ignota”. Soltanto nell’inverno
del 1999 il settimanale «Time» avrebbe inserito Karski nella lista delle cento
personalità più rilevanti del XX secolo: Maciej riuscì comunque a difendere il suo
progetto e a continuare le registrazioni 5. Così come continuarono le visite di
Karski a casa nostra. Il professore, ormai anziano, non aveva la patente, e capitava
che mi chiedesse di portarlo da qualche parte. Per me era un grande onore.
Nel 2005 sono tornata in Polonia dagli USA, dopo aver trascorso ventuno
anni all’estero, e ho trovato completamente assente ogni ricordo di Jan Karski. È
stato un vero shock. Nessuna menzione di Karski nei libri di testo scolastici.
Nessun libro di Karski in commercio. Nessun articolo per gli anniversari della sua
morte. Nessuna replica dei numerosi documentari in cui compariva. Il pubblico
in preda a un’amnesia totale. Persino gli accademici non sembravano farci gran
caso, presi com’erano dalla riscoperta del passato ebraico e dei brutali atti di violenza, spesso dimenticati, compiuti dai polacchi “etnici” nei confronti dei loro
concittadini ebrei. Ma cosa era andato storto?
5
Una trascrizione delle conversazioni tra Jan Karski e Maciej Wierzyński è stata pubblicata nel
2012, cfr. JAN KARSKI, MACIEJ WIERZYŃSKI, Emisariusz własnymi słowami, PWN, Warszawa
2012 [N.d.C.].
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
5 / 2014
Vorrei avere una risposta. D’altra parte, Karski non era certo l’unico a
essere finito nel dimenticatoio. La stessa sorte era spettata ad altri, primo fra tutti
a Witold Pilecki, il “volontario di Auschwitz”: l’averlo “infiltrato” in quel celebre
campo era stato uno dei molti tentativi delle organizzazioni clandestine polacche
di dare vita alla Resistenza nei lager e di ricevere resoconti di prima mano su che
cosa vi stesse avvenendo. Un altro eroe dimenticato era Henryk Sławik, un operatore sociale slesiano a capo delle attività clandestine nei campi di internamento
ungheresi dove si trovavano i soldati polacchi dopo il settembre 1939. Sławik
aveva salvato numerosi ebrei, fra cui tantissimi bambini, grazie alla sua capacità di
procurarsi documenti con identità fittizie.
Dei tre, sicuramente il più noto nel mondo era Jan Karski, grazie all’epico
documentario di Claude Lanzmann e al conseguente ruolo di testimone non
ebreo che aveva messo in allarme il mondo sullo sterminio degli ebrei quando
ancora sarebbe stato possibile salvare milioni di persone.
La narrazione dell’Olocausto elaborata da intellettuali e scrittori prevalentemente ebrei, soprattutto da storici quali Raul Hilberg e Walter Laqueur6,
nonché dai musei dell’Olocausto sorti un po’ dappertutto in America del Nord e
in Europa, hanno inserito Karski al centro della trama della storia ebraica della
Shoah. La storia di Karski e della sua testimonianza sono divenute un elemento
centrale di quella narrazione, dal momento che sollevano una questione cruciale: i
leader della potenze alleate, coloro che erano a capo delle diverse istanze militari,
sociali, politiche e intellettuali, le loro rispettive comunità sapevano che era in
corso uno sterminio sistematico, ma non avevano fatto nulla. Perché?
La ragione dell’assenza di Karski dal panorama polacco non è così scontata. Certo, si potrebbe affermare che dopo il 1989 i polacchi erano troppo impegnati a costruire una democrazia per guardarsi indietro. E quando si guardavano indietro, lo facevano per motivi pratici, per cercare ispirazione o per tentare
di costruire il mito di un’eccezionalità polacca. Un altro noto emigrato, Jan
Nowak-Jeziorański, godeva di grande consenso e di un’enorme popolarità presso
i media, perché aveva sempre una risposta per ogni quesito, anche il più difficile.
Non solo, ma i suoi programmi alla “Vogliamoci bene”, pieni di saggi consigli per
6
Cfr. RAUL HILBERG, The Destruction of the European Jews, Holmes and Meier, London 1985;
IDEM, Perpetrators, Victims, Bystanders. The Jewish Catastrophe 1939-1945, Harper Collins, New
York 1992; WALTER LAQUEUR, The Terrible Secret. An Investigation into the Suppression of Information about Hitler’s ‘Final Solution’, Weidenfeld and Nicolson, London 1980 [N.d.C.].
113
EWA WIERZYŃSKA
LA MEMORIA RESUSCITATA
un popolo che stava conoscendo tutti i problemi di un periodo di transizione,
sembravano fatti apposta per trasmettere al pubblico ciò di cui aveva più bisogno:
la speranza in un domani migliore.
Da questo punto di vista gli studi polacchi sull’Olocausto sono risultati un
elemento a sé stante. E infatti non sono mancate le opinioni critiche, quando le
ricerche si sono incentrate sui particolari più scabrosi e soprattutto sull’indubbia
débâcle morale dei cristiani polacchi in circostanze come quella di Jedwabne
durante la guerra, di Kielce dopo la guerra e in tante altre occasioni in altri luoghi7. Karski, l’eroe dell’Olocausto, non era visto di buon occhio all’interno di una
simile cerchia, dal momento che sembrava fornire una sorta di cortina fumogena
per i critici di quell’importante campo di indagine. A preoccuparli era infatti la
possibilità che venissero allo scoperto questioni come la collaborazione dei polacchi con gli occupanti tedeschi nel tentativo di estirpare la comunità ebraica, dal
momento che simili rivelazioni avrebbero compromesso l’immagine della Polonia
nel mondo. Usare la storia di Jan Karski per dimostrare come i polacchi fossero la
più nobile tra le nazioni, e che lo Stato clandestino polacco fosse la più nobile e
splendida organizzazione – irremovibile a qualsiasi cedimento antisemita – po114
teva sicuramente corroborarci, ma contraddiceva tanto la verità storica quanto lo
stesso complesso messaggio di Jan Karski, per il quale la Shoah aveva rappresentato un “secondo peccato originale” e in nessun caso era lecito porre a confronto la sorte dei polacchi, per quanto tragica fosse stata, con quella degli ebrei
durante la Seconda guerra mondiale.
Quali che siano state le ragioni di un simile fenomeno, la storia di Jan
Karski ha avuto delle difficoltà a mettere radici in Polonia. A molti dei sostenitori
del programma quadriennale incentrato sulla figura dell’Emissario è sembrato
evidente che fosse necessario resuscitare la memoria di Jan Karski nel suo paese,
la Polonia. Non solo perché la sua storia era interessante, non solo perché avevamo a che fare con una fonte inesauribile di materiali documentari, ma soprattutto perché nessuna nazione può permettersi il lusso di ignorare una simile vicenda e un tale eroe. Come ha detto Zbigniew Brzeziński, Karski appartiene alla
prima fila degli eroi nazionali polacchi, accanto a Tadeusz Kościuszko e Józef
Piłsudski.
7
Sul massacro di Jedwabne e il pogrom di Kielce si veda, in italiano: JAN T. GROSS, I carnefici della
porta accanto. 1941: il massacro della comunità ebraica di Jedwabne in Polonia, Mondadori, Milano
2002 [N.d.C.].
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
5 / 2014
Questo è il motivo per cui come Museo della Storia della Polonia abbiamo
dato vita al programma educativo quadriennale chiamato Jan Karski. Una missione incompiuta (Jan Karski. Niedokończona misja), collocandolo tra due date: il
decimo anniversario della sua morte, il 13 luglio 2010, e il centenario della nascita, il 2014. La decisione del parlamento polacco di proclamare il 2014 “Anno
di Jan Karski”, annunciata il 6 novembre 2013, è stata il coronamento di tre anni
di iniziative in questo senso.
Oggi, nel quarto anno del programma, possiamo vantarci di aver dato vita
o collaborato a centocinquanta eventi pubblici, compresi le undici Giornate di Jan
Karski in altrettante città polacche, congressi, incontri, dibattiti, libri, pubblicazioni, dozzine di inaugurazioni di mostre, una bella biografia fotografica, una
graphic novel in italiano, diversi progetti cinematografici e produzioni teatrali, e
un’infinita serie di articoli e programmi radio e TV in Polonia e nel mondo. Possiamo dire senza timori di smentite che siamo riusciti a riportare Jan Karski sotto
il tetto polacco e che egli è destinato a rimanervi. Sarà una memoria di lunga
durata? Difficile dirlo con certezza, ma per come la vedo io, credo sia stato superato quel punto di non ritorno per cui sarà difficile che la fiamma del ricordo
possa spengersi. La “questione Karski” è stata posta. E bisogna dire che la giornata di studi tenutasi a Milano, l’inaugurazione delle mostre nella stessa città, a
Roma, Udine e Cesena, hanno svolto un ruolo importante negli sforzi compiuti
per renderla sempre più una questione condivisa.
[Traduzione dall’inglese di Luca Bernardini]
[«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», 5, 2014, pp. 109-115]
115
GIOVANNA TOMASSUCCI
Pola Nireńska, la moglie dell’“ebreo cristiano” Jan Karski
1. Un ritratto “invisibile”
I
n uno dei frammenti non utilizzati della lunga intervista di Lanzmann a Jan
Karski, oggi accessibile sul sito internet dell’Holocaust Memorial Museum
(<www.ushmm.org>), la cinepresa inquadra fugacemente un suo ritratto un
po’ zingaresco. Pola ci sorride mestamente, vestita di rosso, con un barboncino
nero sulle ginocchia, a destra del divano su cui Jan Karski – con una tensione che
116
lo attraversa come una scarica elettrica – narra la sua visita clandestina nel campo
di concentramento di Bełżec.
Compare solo per un istante e solo in effigie… Perché in quell’inverno del
1978 Paula Nirensztajn Karski (in arte Pola Nireńska, 1910-1992), dopo aver
tentato inutilmente di assistervi, fuggiva da quelle strazianti riprese a casa loro,
che ridavano corpo ai fantasmi della sua famiglia sterminata.
Pochi sanno che Karski aveva sposato in seconde nozze una coreografa e
danzatrice di fama internazionale, nata a Varsavia da una famiglia borghese di
origine ebraica. Fin dai primi anni della sua carriera, anche per non creare imbarazzo ai parenti, aveva mutato il cognome nel più slavo Nireńska e il nome in
Pola, diminutivo diffuso tra molte ebree della sua generazione: richiamo anche al
mondo della cultura e dello spettacolo polacco (si pensi all’attrice Pola Negri e
alla scrittrice Pola Gojawiczyńska).
Karski l’aveva già vista danzare a Londra, per caso, all’epoca della loro
giovinezza, alla fine degli anni Trenta. Nel decennio successivo la guerra e la
Shoah li avrebbero fatti entrambi approdare negli Stati Uniti. Altrettanto per
caso, nei primi anni Sessanta, a Washington, lui venne a sapere che si esibiva in
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
5 / 2014
una sinagoga e volle rivederla: la leggenda narra che per poterla contattare e invitarla a colazione ricorse alla mediazione del rabbino1…
Lei aveva un bel corpo sottile, un’eleganza particolare nei movimenti, un
volto dall’aria esotica, zigomi sporgenti, una bocca grande e sensuale, un naso forte
e soprattutto degli occhi neri, molto penetranti, dalle sopracciglia arcuate. Aveva
superato i cinquant’anni e aveva quattro anni più di lui, ma era ancora molto bella e
affascinante. Si sposarono nel luglio 1965. Pola, che sapeva bene il polacco (i suoi
genitori, anche se ebrei, le avevano fatto frequentare una scuola cattolica, fatto
all’epoca non infrequente), si rifiutava tuttavia di parlarlo con Jan: comunicavano
solo in inglese, che nessuno dei due sapeva alla perfezione. Nutriva verso i polacchi
il doloroso rancore di tanti ebrei sopravvissuti ed esiliati (durante la guerra aveva
perso gran parte dei parenti, settantaquattro persone). Spesso si rifiutava di accompagnare il marito durante le sue conferenze sulla Seconda guerra mondiale,
rimproverandogli di fare propaganda sciovinistica filo-polacca2.
Tra di loro c’era una sorta di patto non scritto, non parlavano della
Shoah e in genere non mettevano in contatto i loro due diversi mondi: l’insegnamento universitario alla Georgetown di lui, la carriera di danzatrice e coreografa
di lei. Pola seguì il marito solo per una serie di conferenze tenute nel ‘67 in vari
paesi del Mediterraneo, dell’Asia e dell’Africa: non lo accompagnò neanche
quando lui si recò in Polonia, nel ‘74. Come molti ebrei polacchi sopravvissuti,
aveva deciso di non tornare mai più nella terra in cui tanti suoi cari erano morti
così atrocemente.
Quando si erano sposati, Jan l’aveva spinta a convertirsi al cattolicesimo e
a frequentare la chiesa assieme a lui: una scelta da lei condivisa con un’apparente
leggerezza, in nome del fatto che anche la madre di Gesù era ebrea, ma che poi
l’aveva tormentata, aumentandone i già penosi sensi di colpa.
Invecchiando, soffriva di forti dolori alle ossa. Come ricorda Kaya MireckaPloss, sua vecchia amica e, dopo la sua morte, nuova compagna di Karski, il 25
luglio 1992 salì su uno sgabello appositamente acquistato il giorno prima e volò
giù dal balcone dell’undicesimo piano della loro casa, a Bethesda, nei pressi di
Washington. Era il suo sesto tentativo di suicidio: dai cinque precedenti, in cui
1
Cfr. JOANNA LESZCZYŃSKA, Jan Karski: bohater z poczuciem winy?, in «Dziennik Łódzki»,
18.06.2012, <tinyurl.com/qgfefoo>.
2
ALEKSANDRA KLICH, Jak katolik został Żydem, in «Gazeta Wyborcza», 13.07.2010, <wyborcza.
pl/1,76842,8132619,Jak_katolik_zostal_Zydem.html?as=4>.
117
GIOVANNA TOMASSUCCI
POLA NIREŃSKA
aveva ingerito dei sonniferi, Jan l’aveva sempre salvata3. Avrebbe compiuto 82
anni tre giorni dopo.
“Nella mia vita c’è stato un cambiamento doloroso: mia moglie non c’è
più e io sono solo – imparo la solitudine. […] La sua tomba mi aspetta”4, scriverà
Jan, disperato. Ventotto anni prima anche Marian Kozielewski, suo fratello
maggiore, detenuto politico sopravvissuto al campo di concentramento di Auschwitz, si era ucciso, probabilmente perché non riusciva ad ambientarsi nella
nuova realtà statunitense.
Nel 1981, un anno prima che di essere proclamato Giusto tra le nazioni,
Karski aveva preso parte alla conferenza Concentration Camps Liberators, organizzata a Washington da Elie Wiesel. Rompendo il suo tradizionale riserbo, nel
suo discorso aveva fatto cenno al ruolo del suo rapporto con la moglie:
Il Signore mi ha assegnato il compito di parlare e scrivere durante la guerra, quando, così
mi sembrava, la cosa poteva essere di aiuto. Io non l’ho fatto. Per me, oggi, 28 ottobre
1981, il sipario è ormai calato. Il teatro è vuoto. Inoltre, verso la fine della guerra, ho
appreso che il governo, i leader, gli studiosi e gli scrittori non avevano idea di cosa fosse
accaduto agli ebrei. Per loro tutti fu una sorpresa. L’assassinio di sei milioni di innocenti
118
era un segreto, un “terribile segreto”, come lo ha chiamato Laqueur. Così io sono divenuto un ebreo. Anche tutti gli ebrei assassinati sono divenuti la mia famiglia, allo stesso
modo della famiglia di mia moglie, perita interamente nei ghetti, nei campi di concentramento, nelle camere a gas. Ma io sono un ebreo cristiano. Io sono un cattolico praticante5.
Quel terribile segreto c’era stato anche tra lui e Pola.
2. La danza che cambia la vita
Nireńska era figlia di un’agiata famiglia di un fabbricante di cravatte di
Varsavia che commerciava con la Germania. Era dotata per la musica, la ginnastica, il canto e il disegno (quello scientifico in particolare) e aveva scoperto la
danza a 9 anni, durante un campo estivo. Così, all’insaputa dei suoi, aveva iniziato
a prendere lezioni (a Varsavia esisteva da tempo un corpo di ballo di alto livello,
3
Cfr. l’intervista di Kaya Mirecka-Ploss, ibidem.
Lettera di Jan Karski, 30.11.1992, <www.karski.org.pl/karski/zona>. [Tutte le traduzioni contenute in questo saggio sono mie, G.T.].
5
Cit. in Voices From the Holocaust, a cura di Harry James Cargas, University Press of Kentucky,
Lexington 2013, pp. 64-65.
4
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
5 / 2014
con rapporti internazionali con la Russia, la Francia e l’Italia), scoprendo in breve
tempo la sua vera passione, la danza moderna.
Come tante ragazze europee ribelli e coraggiose (tra cui molte di origine
ebraica), Pola era attratta dalla libertà e dall’anticonformismo delle danzatrici
moderne. A 17 anni ideò la sua prima coreografia, sulle note della Danse macabre di
Saint-Saën, e la interpretò per la sorella, nella cucina di casa loro: aveva ormai
chiaro che voleva dedicare la sua vita alla danza. I genitori erano contrari, ma lei
riuscì ad averla vinta – come amava raccontare ad amiche e allieve – rinchiudendosi
in camera e facendo lo sciopero della fame e della sete per tre giorni. Loro cedettero: per spingerla a uscire le fecero scivolare da sotto la porta il suo passaporto6.
La sua lotta per danzare ricalca quella di altre ballerine di origine borghese, come Ida Rubinstein, Katya Delakova o Valeska Gert, o della sua connazionale, anch’essa di origine ebraica, Judit Berg, interprete del personaggio della
Morte nel film Il Dybbuk (1937).
Pur ponendo la condizione che non si esibisse mai in pubblico, la sua famiglia la aiutò a trovare un posto a Dresda, nella scuola di Mary Wigman, un’artista
frequentatrice del caffè Voltaire e dei circoli del Bauhaus. Per finanziarsi il soggiorno e gli studi, la diciassettenne Pola impegnò l’intera somma della propria dote,
mentre il padre le devolse gli introiti dell’affitto di uno stabile a Berlino7.
L’insegnamento della Wigman, basato sulla tecnica dell’Ausdruckstanz
(danza di espressione) prevedeva anche lo studio dell’arte, della storia delle religioni, della filosofia e della teosofia. Pola rivelò anche un notevole talento musicale, in particolare nelle percussioni (che continuerà a utilizzare nella sua carriera)
e si diplomò nel ‘32 come miglior allieva. La Wigman la chiamò a partecipare a
una tournée della sua compagnia negli USA. Al loro ritorno, due anni dopo,
Hitler era salito al potere: Pola verrà cacciata insieme agli altri collaboratori di
origine ebraica della scuola (quasi la metà dello staff), nell’estate del ‘34. Lo ricorderà anni dopo in un’intervista:
Fuori dell’edificio era appesa una svastica. La segretaria, che conoscevo da quattro anni,
stava seduta nello studio vestita con un’uniforme da truppa d’assalto. Mi fu detto che non
potevo vedere la Wigman, perché era impegnata con altri. Restai nei paraggi per due
giorni, sperando di incontrare Mary, ero venuta da lontano ed ero molto povera. Alla fine
6
Cfr. <http://kulturaenter.pl/choreografie-nieobecnosci/2014/06/>.
SUSAN MANNING, Ecstasy and the Demon: Feminism and Nationalism in the Works of Mary
Wigman, University of California Press, Berkeley 1993, p. 299.
7
119
GIOVANNA TOMASSUCCI
POLA NIREŃSKA
Gretl Kurt mi disse che Mary Wigman voleva affidarmi un corso estivo. Le risposi: “Mary
si è dimenticata che io sono ebrea”, feci le valige e ripartii8.
Rientrò per un anno a Varsavia, a insegnare al conservatorio. Una borsa di
studio del governo polacco le permise anche di perfezionarsi e formare una piccola compagnia. Le sue esibizioni solistiche, vicine all’arte del mimo e all’estetica
espressionista della Wigman, erano sempre più apprezzate. Nel ‘33, al Festival
della Danza nella capitale polacca, un critico scrisse: “Nireńska, Polonaise, représente un type fort, décidé, sûr de soi, de ses moyens et de son but. Son Cri a
ému l’assistance”9.
Proseguì gli studi a Vienna con la morava Rosalia Chladek, anch’essa
pioniera dell’Ausdruckstanz, aggiudicandosi il 1° premio per la coreografia e il 2°
per le sue interpretazioni solistiche all’importante Festival Internazionale di
Danza del ‘34 (in Polonia un giornale della destra nazionalistica antisemita gridò
allo scandalo perché un’ebrea osava interpretare danze folcloristiche polacche)10.
L’anno dopo si esibì al teatro Josestadt, uno dei più importanti della città.
Il premio la impose all’attenzione internazionale: Angiola Sartorio, nota
120
ballerina e coreografa italo-tedesca (collaboratrice del Sogno di una notte di mezza
estate di Max Reinhardt a Firenze), la invitò a danzare per il Maggio Musicale
Fiorentino. Fu un soggiorno breve, durante il quale Pola si esibì nell’Aida e insegnò senza entusiasmo nella scuola della Sartorio11. Ma fu a Firenze che incontrò
il connazionale Artur Rubinstein, che per primo le suggerì l’idea di emigrare negli
Stati Uniti.
Di lì a poco, nel ’35, si trasferirà invece a Londra12, per sposare un giovane
pilota della RAF di origini argentine: era il conte John Justinian de Ledesma,
attore meglio noto con lo pseudonimo di John Justin (protagonista anche del film
Il ladro di Bagdad, 1940), più giovane di lei di sette anni. Pola partecipava a
spettacoli nelle basi militari della RAF e dell’Armata Polacca in esilio: come già in
8
POLA NIREŃSKA, Intervista a Suzan Moss, 18.02.1986, Pola Nirenska Collection, Library of
Congress, cit. in KAREN A. MOZINGO, Crossing the Borders of German and American Modernism:
Exile and Transnationalism in the Dance Works of Valeska Gert, Lotte Goslar, and Pola Nirenska,
Tesi di Dottorato, The Ohio State University, p. 123.
9
ST[ANISŁAW] GŁOWACKI, Premier concours de la dance artistique a Varsovie, Archives Internationales de la Dance, juillet 1933, p. 106.
10
ALEKSANDRA KLICH, Jak katolik został Żydem, cit.
11
DAVID LYMAN, An Old World Modernist Working in the Present, in «Washington Dance
View», 1987, pp. 5-9.
12
Cfr. KAREN A. MOZINGO, op. cit., p. 124.
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Germania e Austria, si trattava anche di danze del folclore polacco (nella rivista
It’s in the Bag e in un musical su Chopin, Waltz Without End): le sue interpretazioni venivano trasmesse anche alla tv britannica. Riuscì a fondare un proprio
studio e a collaborare con danzatori di grande fama, quali i tedeschi Kurt Jooss e
Sigud Leeder (formatisi anch’essi nell’ambito dell’Ausdruckstanz) o con la fondatrice del prima compagnia di danza contemporanea in Inghilterra, Dame Marie
Rambert, anch’essa ebreo-polacca. Lavorò anche come indossatrice e posò per il
noto scultore Jacob Epstein, un angloamericano dalle radici ebraico-polacche (di
una sua testa in bronzo, da lui scolpita nel ‘37, si sono purtroppo perse le tracce).
Durante la guerra venne a sapere dello sterminio di buona parte della sua
famiglia, tra cui una sorella amatissima, catturata dai nazisti perché nessuno le
aveva porto aiuto. Solo nella primavera ‘47, durante una tournée a Gerusalemme
e Tel Aviv, poté finalmente riabbracciare i genitori e il fratello, emigrati in Palestina negli anni Trenta.
Dopo aver divorziato, nell’autunno del ‘49, grazie all’invito di Ted Shawn
al Jacob’s Pillow Dance Festival, si trasferì a New York. Fu un salto coraggioso,
che le creò non poche difficoltà: non aveva denaro, nemmeno per nutrirsi, arrivò
a pesare 47 chili. Lavava i piatti di notte in un ristorante italiano per potersi
mantenere e studiare con i più importanti esponenti della danza contemporanea,
Doris Humphrey, José Limón e Louis Horst.
La favoriva il fatto di aver studiato e collaborato con la scuola Wigman:
molti suoi ex colleghi e studenti si erano rifugiati negli USA durante il nazismo ed
erano tuttora attivi a New York, Hollywood, Washington. Tra di loro c’erano la
più giovane Erika Thimey e Jan Veen (già Hans Weiner), fondatore del Boston
Conservatory Dance Program. Grazie a lui Pola potrà fare il suo debutto americano, nel ‘50 a Boston, presentando i suoi assolo e le danze ispirate al folklore
polacco. Portavano titoli eloquenti: Eastern ballad, St. Bridget, Stained-glass
Window, Sarabande for the Dead Queen, La puerta del vino, Peasant Lullaby, Mad
Girl, Dancer’s Dilemma e Unwanted child. In A Scarecrow Remembers (19461957) Nireńska interpretava uno spaventapasseri che, quando ricordava un passato felice e definitivamente perduto, si trasformava in un elegante signore con un
bastone da passeggio.
Nel ‘51 la nota ballerina Evelyn de la Tour la invitò a collaborare con il
Dance Workshop di Georgetown. Pola vi si trasferì, anche per sfuggire alla forte
121
GIOVANNA TOMASSUCCI
POLA NIREŃSKA
concorrenza tra i danzatori newyorkesi, ma la sua vita era ancora precaria, alloggiava nello stabile della scuola, dove il bagno era “condiviso con gli scarafaggi”.
Ciò malgrado ebbe la possibilità di dedicarsi meno all’insegnamento (necessario a
sopravvivere), per concentrarsi sulla ricerca coreografica che la appassionava.
Nel ‘56, ottenuta la cittadinanza americana, riuscirà finalmente a fondare
una sua compagnia, la Nirenska Dance Company. In quegli anni cercò di prendere le distanze dalla danza espressionistica, assecondando i critici americani che
la invitavano ad assimilare le nuove tendenze nordamericane. Nel 1960 aprì un
suo studio, con un notevole successo, in un edificio da lei progettato. Nel 1968,
tre anni dopo il matrimonio con Karski, a causa di forti crisi depressive, purtroppo destinate a intensificarsi, si ritirerà dalle scene. Si dedicherà alla fotografia,
in particolare ai ritratti, esperienza che lascerà echi nelle sue successive coreografie, e alla progettazione della sua casa a Georgetown.
Dal 1977, alcuni amici e collaboratori la convinsero a riprendere alcuni
suoi progetti. Ritornò a insegnare al Dance Exchange con l’ex allieva Liz Lerman,
e al Glen Echo Dance Theater di Jan Tievsky. Un riconoscimento importante fu il
Metropolitan Dance Award.
122
3. La danza resuscita la memoria
L’assolo Eternal Insomnia of Earth (risalente all’ultimo periodo prima del
suo ritiro dalle scene, nel ‘68) si svolgeva sopra e attorno a un’enigmatica grande
scatola nera, su uno sfondo altrettanto nero e impenetrabile. I movimenti della
ballerina, prima lenti, poi sempre più convulsi, esprimevano le sofferenze di un
corpo percorso da tensioni interiori. I “tumulti”, che Nireńska chiamava “insonnia della terra” (una terra inquieta, ma costretta a rimanere ancorata alla
propria orbita), sono condivisi anche da chi cerca di distaccarsi dal proprio destino e dalle proprie radici. In questa metafora autobiografica, il corpo, sottoposto a rotazioni e torsioni, scomode e problematiche, è come sospeso a mezz’aria,
in un’alienante oscurità magmatica. Anche in un altro assolo, Exits, interpretato
da Liz Lerman, l’angoscia assume le forme di una lotta con la disperazione: il
corpo della ballerina assume le posizioni più varie sopra, accanto e dietro una
sedia da salotto borghese, in una tenebra angosciosa e in un tempo sospeso, come
immobilizzato in una sequenza di fotogrammi. I temi sono quelli caratteristici di
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
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Pola, legati alla perdita, all’assenza, al lutto. Essi sono suggeriti anche dai richiami
a una celebre poesia di Dylan Thomas, Do Not Go Gentle into That Good Night,
che rievoca la “furia contro il morire della luce”, l’impossibilità di andare “docili
in quella buona notte” e di considerare “giusta” la tenebra.
Come Pola, anche molti suoi amici e collaboratori erano di origine
aschenazita e mettevano in scena spettacoli di danza su temi ebraici: lei stessa
aveva creato nell’84 la Jewish song (The old and the new). Ciò nonostante, per
buona parte della sua carriera aveva evitato ogni riferimento alla Shoah, divenuta
una sorta di tabù. Alcuni episodi nella vita del marito la spinsero tuttavia a un
ritorno creativo a quel tema. Nel ‘78 il presidente Carter lo aveva designato a
formare una commissione sull’Olocausto, presieduta da Elie Wiesel, la stessa che
avrebbe indetto la già citata conferenza Liberators. In quello stesso anno, dopo
molte esitazioni, Karski accetterà di rilasciare a Claude Lanzmann la sua lunga
intervista.
Questa trasgressione del mutuo patto di silenzio con Pola stimolò la nascita della sua ultima coreografia, nota come la Holocaust tetralogy (sottotitolo: In
memoria di coloro che amavo e che non ci sono più). Composta dolorosamente in
un lungo arco di tempo (1982-1990), era divisa in quattro sezioni: Life (Whatever
begins also ends), Dirge, Shout e The train.
Più di ogni altro suo spettacolo, essa rappresentò per Nireńska la possibilità di recuperare le varie esperienze della sua intensa carriera (per la sua enfasi
ed espressività la critica la definì una sorta di “resurrezione” dell’estetica della
Ausdruckstanz) e della sua drammatica biografia, narrando esplicitamente il suo
distacco dalla famiglia, l’esilio, la guerra e la morte delle persone a lei più care.
In Vita (1983) appare una famiglia composta di sole donne: una madre
con le sue cinque figlie, che si manifestano affetto e tenerezza. La madre è vestita
lugubremente di nero, è statica o si muove in maniera trattenuta, ma le figlie,
piene di vita e giovinezza, non colgono ancora questo segno premonitore di distruzione e morte.
Nella seconda sezione, Lamento (1982), composta sulla musica del Concerto grosso n. 1 di Ernest Bloch, le donne cercano di riformare la catena degli
affetti, ma i legami sono spezzati e i movimenti ora rallentati, ora enfatizzati. La
terza e quarta parte sono un crescendo di angoscia. In Grido (1986), unico assolo
del ciclo, dallo stesso titolo di una sua interpretazione degli anni Trenta, risuo-
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GIOVANNA TOMASSUCCI
POLA NIREŃSKA
nano terrore e disperazione e un urlo silente. In Treno (1990) assistiamo alla
morte atroce e disperata di tutte e sei le donne. Ognuna di loro lotta convulsamente, annaspando contro l’invisibile porta del treno o della camera a gas,
ognuna osserva impotente le altre morire: l’ultima è la madre, disperata, che
perisce inveendo contro un Dio assente, davanti a un mucchio esanime di corpi.
Attraverso la ripetizione o variazione di passaggi, con una diversa velocità
e intensità (caratteristiche della sua estetica), la Tetralogia rappresenta la rottura
degli affetti familiari e del mondo di origine e la solitudine angosciosa e incondivisibile di vittime e sopravvissuti...
Lo spettacolo è stato accostato ai cosiddetti yizker bikher (in yiddish: libri
della memoria), che raccoglievano testimonianze del passato della comunità
aschenazita distrutta nella Shoah. Proprio quel tentativo di rievocare e condividere la sua dolorosa storia, si trasformò per Pola in una sorta di vaso di Pandora.
Lei, che chiedeva ai suoi interpreti solisti di andare in profondità delle proprie
emozioni, non riuscì a sfuggire ai suoi fantasmi. Durante le prove dell’ultima sezione, in cui venivano rievocate la deportazione e le camere a gas, ebbe delle crisi
psicotiche e Karski dovette far sospendere lo spettacolo al Kennedy Center.
124
L’intera Tetralogia verrà rappresentata solo nel luglio del ‘90, al Dance
Place, in occasione del suo ottantesimo compleanno, da allievi e collaboratori13.
Dopo il suo tragico suicidio, verrà reinterpretata nel ‘94 da una giovane amica di
famiglia, Laura Schandelmeier: più recentemente la sua seconda sezione è stata
ricostruita, con il titolo polacco Lament, dallo Śląski Teatr Tańca di Bytom.
Benché l’intera carriera di Nireńska abbia narrato l’angoscia, la memoria e
la perdita (era vissuta e aveva lavorato in ben quattro diversi paesi, oltre che in
Polonia), solo verso la fine della vita riuscì a fondere assieme le diverse componenti della sua lunga esperienza.
Aveva ereditato dalla Wigman l’eclettismo e la cura della preparazione
musicale dei ballerini, cui lasciava comunque un’ampia libertà di collaborazione e
improvvisazione. Per le sue coreografie ricorreva spesso a materiale musicale
eterogeneo: alla musica classica (da Bach ai maestri del Novecento), al folk dei più
vari paesi, alle canzoni, ai contemporanei (Philip Glass) o al jazz (ad esempio
Miles Davis, Ella Fitzgerald e Duke Ellington nella Tetralogia). I critici ricordano
13
RIMA FABER, Nirenska: A Pioneer of Modern Dance in DC, <www.bourgeononline.com/ 2008/
01/rima-faber-on-pola-nirenska>.
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come le sue coreografie, scarne ma ricolme di richiami emotivi, creassero sorta di
una massiccia e pesante scultura tridimensionale14.
Pola amava la vita e invitava a fondere tutte le suggestioni nella danza:
ripeteva ai suoi interpreti: “guardati attorno, osserva la gente, gli edifici, per poter
imprimere tutte le tue reazioni nella coreografia”15. Oggi è considerata una matriarca della danza moderna americana e una delle interpreti più coraggiose del
tema dell’ Olocausto. Nel fondo depositato alla Library of Congress si trova la sua
ampia corrispondenza (1934-1992) con i più grandi esponenti della danza europea e americana, tra cui Mary Wigman, Rudolf Laban, Martha Graham, Louis
Horst, Doris Humphrey, Kurt Jooss, Jan Tievsky, Jan Veen, accanto a fotografie,
documenti, registrazioni video e DVD.
Poco dopo la sua morte, nel 1993 Karski le intitolò un premio (che in
seguito porterà anche il suo nome), assegnato ogni anno dall’YIVO a studiosi
delle tradizioni culturali degli ebrei polacchi: tra di loro vi sono stati ProkopJaniec, Ficowski, Grynberg, Tomaszewski, Adamczyk Garbowska.
La lapide della tomba di Pola e Jan, nel cimitero di Mount Olivet, ricorda
in maniera semplice e assolutamente paritaria i loro nomi e le loro date di nascita
e di morte. Nonostante Karski fosse sempre stato contrario a ogni tipo di monumento funebre, nel novembre del 2012 il ministro degli Esteri Sikorski, in visita a Washington, ha dichiarato l’intenzione del governo polacco di far scolpire
entro il 2014 (centenario della sua nascita) un bassorilievo che ne ricordasse
l’eroismo durante la guerra. Il progetto, che ignorava del tutto la figura di Nireńska, è stato bloccato tra le proteste della famiglia e di parte dell’opinione
pubblica in Polonia16.
14
Cfr. JENNIFER DUNNING, Pola Nirenska, a Choreographer and Teacher, is a Suicide at 81, in
«The New York Times», 31.07.1992.
15
Biographical Sketch, in Pola Nirenska Collection. Guides to Special Collections in the Music Division of the Library of Congress, <http://socialarchive.iath.virginia.edu/xtf/view?docId=nirenska
-pola-cr.xml>.
16
ALEKSANDRA KLICH, Tylko dzieci, Janku, odkupią winy, in «Gazeta Wyborcza», 161,
13.07.2010, p. 12, <www.jankarski.org/mediateka/materialy/material/photos//26/>.
125
GIOVANNA TOMASSUCCI
POLA NIREŃSKA
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[«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», 5, 2014, pp. 116-127]
127
MARCO RIZZO
Jan Karski, l’eroe dei fumetti
1. Dall’idea al fumetto
1.1 Il primo incontro
S
pesso le scoperte più belle avvengono per caso. Sono incappato nella storia
di Jan Karski casualmente quando, sfogliando le pagine culturali del quotidiano «La Repubblica» del 10 luglio 2011, mi imbattei in un articolo di
Andrea Tarquini dal bel titolo L’infiltrato nell’orrore, che raccontava la rocam128
bolesca vita di Jan Kozielewski. L’occasione era la pubblicazione in Germania –
per la prima volta – di Story of a Secret State, il racconto autobiografico giunto in
Italia qualche tempo dopo con il titolo La mia testimonianza davanti al mondo1.
Mi precipitai a documentarmi sul personaggio, mettendo da parte quella cartella
del giornale che dedico a spunti narrativi e documentazioni ancora senza una
destinazione nel mio lavoro. Mi chiedevo come mai nessuno avesse finora prodotto un film su quella vita avventurosa e tragica, né tantomeno un fumetto.
Contattai immediatamente Lelio Bonaccorso, disegnatore con cui ho la fortuna di
intrattenere una collaborazione lunga e solida, e trovai in lui lo stesso entusiasmo
e la stessa curiosità che mi avevano riempito la testa di idee. Jan Karski era un
personaggio universale: un eroe – senza alcun timore nell’usare questo termine –
o ancor meglio un eroe scomodo, dai valori universali come la solidarietà e la
fratellanza, un senso di giustizia e del dovere oggi forse incredibili. Come incredibile era la sequela di peripezie cui era scampato e la sorte della sua testimonianza dopo la morte. Raccontare Jan Karski equivaleva a raccontare una pagina
poco nota del passato di noi europei, ma meritevole di visibilità. Inevitabilmente,
1
JAN KARSKI, La mia testimonianza davanti al mondo, a cura di Luca Bernardini, Adelphi, Milano
2013.
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
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sapevo che non avremmo potuto “vendere” il nostro progetto a un editore come
un semplice libro sull’Olocausto, tenendo conto degli inarrivabili capolavori del
fumetto che trattano lo stesso tema, come il pluripremiato Maus di Art Spiegelman. A tutti gli effetti, un libro su Jan Karski non sarebbe stato il solito libro sulla
Shoah, né si sarebbe concentrato sul racconto di un singolo fatto, di una singola
tragedia. Era mia intenzione, sin da subito, raccontare anche il lato avventuroso
dei viaggi di Jan Karski e l’epicità e la tragicità della Resistenza polacca, in un
crescendo di tensione e drammaticità fino alla scoperta finale: l’infiltrazione
prima nel ghetto di Varsavia poi nel lager di Izbica Lubelska. Alla sfortuna del
suo racconto e della sua figura avremmo dedicato un epilogo amaro. Di certo,
l’editore avrebbe intuito l’importanza della storia che volevamo narrare, così
come le inevitabili potenzialità di mercato. Da parte nostra, la possibilità di raccontare a fumetti un personaggio di tale caratura, oltre ad affascinarci, conquistarci e appassionarci, dal punto di vista editoriale ci garantiva per esperienza una
facile diffusione nelle scuole. Con un fumetto dal titolo eloquente ed efficace
come Jan Karski. L’uomo che scoprì l’Olocausto avremmo potuto rompere il muro
di diffidenza tra i più giovani e promettere ai lettori (di tutte le età) una lettura
avvincente.
1.2 La documentazione
Il primo problema da affrontare una volta valutata la fattibilità e
l’appetibilità del progetto, è stato trovare le fonti. Per fortuna, l’edizione britannica di Story of a Secret State è venuta in mio soccorso2. Ad essa ho affiancato Un
testimone inascoltato di Yannick Haenel3, riassunto forse discutibile dell’autobiografia di Karski nonché della sua lunga intervista a Claude Lanzmann per il
monumentale documentario Shoah. Proprio Shoah è stato fondamentale sia per lo
studio della biografia di Karski sia per la possibilità di vederlo in azione. I movimenti, i tic, i gesti tipici di Karski fanno parte del personaggio quanto le sue
esperienze, e in un medium come il fumetto, così improntato all’uso
dell’immagine, erano fondamentali. I video di Shoah e le varie interviste disponibili su Youtube, per lo più estratti dalla stessa opera e da The Karski Report,
sempre di Lanzmann, sono stati fondamentali per il disegnatore. Il faro, in fase di
2
3
JAN KARSKI, Story of a Secret State. My report to the World, Penguin Books, London 2011.
YANNICK HAENEL, Un testimone inascoltato, Ugo Guanda Editore, Milano 2010.
129
MARCO RIZZO
JAN KARSKI, L’EROE DEI FUMETTI
sceneggiatura, è stato Story of a Secret State, a cui si è aggiunta ben presto
l’edizione italiana, dato che al momento della pubblicazione del libro per Adelphi, nell’aprile del 2013, eravamo ancora al lavoro sul fumetto. Il contatto nato
quasi per caso con il professore Luca Bernardini, docente di Lingua e Letteratura
Polacca all’Università degli Studi di Milano, è stato fondamentale per entrare tra
le pieghe della Storia, come dimostrato nella sua stessa opera di adattamento del
testo di Karski. Man mano che gli mostravamo le tavole in lavorazione, raccoglievamo suggerimenti, appunti e consigli di natura storica. La lettura della versione italiana di Story of a Secret State mi ha permesso di mettere ordine tra le
varie incongruenze nelle fonti, dato il ricco apparato di note. Alle documentazioni sulla vita di Karski si è aggiunto lo studio del contesto, sia ai fini della sceneggiatura che del disegno. Mentre Lelio studiava divise, armi, mezzi da guerra,
auto, palazzi, costumi, il sottoscritto era impegnato in apparenti amenità come il
calcolo della distanza tra due città teatro degli eventi, la scala gerarchica delle
Shutzstaffen o i termini usati nell’esercito polacco. Non essendo mai stato in Polonia, lo studio delle architetture e di varie nozioni storiche e geografiche è stato
cruciale per dettagliare al meglio la sceneggiatura, passata poi al disegnatore.
130
1.3 Un compromesso con la Storia
Una volta raccolta la documentazione, è giunta la parte più difficile, ossia
la selezione necessaria nel marasma di informazioni raccolte. È stata una fase
molto delicata, non solo perché comprendeva la rinuncia di alcuni elementi, ma
perché sapevo che mi avrebbe potuto esporre a critiche. Consapevole che il mestiere del narratore è diverso da quello dello storico o dello studioso, mi sono
sempre posto l’obiettivo della verosimiglianza più che della verità, tenendo conto
innanzitutto delle necessità e delle richieste imposte dal medium del fumetto, poi
delle richieste possibili di un lettore occasionale. Come già scritto nella postfazione in coda al volume, la lunga e complessa storia di Jan Karski era impossibile
da condensare in un centinaio di pagine di fumetto. Abbiamo operato tagli e
sintesi, omettendo alcuni passaggi, approfondendo certi momenti più di altri. In
alcuni casi abbiamo anche condensato in un unico personaggio più figure presenti nella storia di Jan. Seguendo le regole non scritte del racconto romanzato,
abbiamo creato un “nemico” con il dottor Fischer, un “interesse amoroso” con
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
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Joanna (sintesi delle numerose staffette partigiane raccontate e incontrate da
Karski nella propria odissea), oltre a un “cast di comprimari”, personaggi ricorrenti, realmente esistiti nella vita del partigiano. A volte, alcune figure hanno fatto
spazio ad altre, come l’ambasciatore polacco in Usa Jan Ciechanowski, che accompagnò Karski all’incontro con Roosevelt ma che nella nostra storia cede il
posto al giudice della Corte Suprema Felix Frankfurter, uno dei contatti che aiutò
Jan in America. Lo stesso Frankfurter viene utilizzato come escamotage narrativo
nel finale per creare un dialogo con Jan che sia “conclusivo” e chiuda i nodi in
sospeso, svelando determinati retroscena cruciali. Si tratta sempre di scelte dure,
di certo sofferte da parte del narratore poiché pongono chi scrive in imbarazzo
nei confronti della Storia. D’altro canto vorremmo che il nostro fumetto fosse
letto tenendo conto di tutti i suoi diversi piani di lettura: dal dramma reale
all’avventuroso romanzo di formazione. Nella succitata postfazione scrivevo:
Quella di Jan è una vicenda tragica e commovente, ma anche un avvincente susseguirsi di
fatti incredibili. È la storia di un eroe per caso, ma anche di un uomo comune sballottato
dagli eventi. Alcuni compromessi sono dovuti alla necessità di semplificare la vicenda di
Jan, costellata da mille peregrinazioni e peripezie. Esemplare è l’incontro con quella sorta
di “governo ombra” polacco che lo incaricò di visitare il campo, un incontro avvenuto a
Londra, e non in Polonia. Altre scelte sono legate a questioni più tecniche. Per esempio, il
settembre 1939 in cui i tedeschi invasero la Polonia è ricordato come uno dei mesi più caldi
della prima metà del XX secolo. Nella nostra versione abbiamo inserito la neve fin dai
primi momenti dell’invasione, per comunicare il tempo decorso dal bombardamento della
stazione di Oświęcim (città che diventerà tristemente celebre, come Auschwitz) all’arrivo
dei russi. Ma è anche la citazione di un grande capolavoro del fumetto, L’Eternauta, e della
sua metafora per raccontare la dittatura. Un’altra scelta “tecnica”, compiuta in seguito alla
consultazione delle nostre fonti, è stata quella di mostrare le tipiche divise da campo di
sterminio in quello che, con tutta probabilità, era un campo da dove poi sarebbero stati
smistati i prigionieri sopravvissuti. Negli anni, anche se nei propri diari Karski affermò di
avere visitato il campo di Bełżec, alcuni storici sono giunti alla conclusione che si fosse infiltrato in un Durchgangslager (una sorta di punto di snodo) a metà strada tra Bełżec e
Lublino. Quelle divise sono un’immagine forte, evocativa, che inevitabilmente richiama il
setting e le suggestioni comunicate in tanti film, documentari, foto, graphic novel e libri che
hanno scosso il nostro animo. Per le pagine più intense, il vero climax del libro, ossia la visita al ghetto di Varsavia e quella nel campo, mi sono affidato il più possibile ai diari di
Karski. Nella sequenza nel campo sono le sue parole, nella traduzione di Luca Bernardini, a
incorniciare la visione della tragedia illustrata da Lelio. Per quella forma di rispetto di cui
sopra, ho pensato che solo lui potesse tornare a essere, ancora una volta, testimone della
131
MARCO RIZZO
JAN KARSKI, L’EROE DEI FUMETTI
Storia davanti al mondo. Qua e là, nelle pagine precedenti, le parole dello stesso Jan sono
riprese da interviste e suoi testi e inserite nei testi dei balloon, così come i discorsi e le testimonianze autentiche delle persone da lui incontrate. Ci siamo offerti come mediatori di
una complessa e ricca storia, come portavoce di una figura ingiustamente dimenticata
(almeno nel nostro Paese) e che merita di essere scoperta o riscoperta4.
1.4 La proposta e la pubblicazione
Prassi vuole che per la proposta di un progetto a fumetti a un editore si
presenti una pitch, una raccolta di testi e immagini che possano suggestionare e
convincere l’editore. Solitamente si allegano al soggetto esteso e a una sinossi
breve una decina di tavole (ossia pagine). Per arricchire la proposta, abbiamo
allegato alcune immagini in bianco e nero e a matita, studi dei personaggi e delle
atmosfere. La proposta è stata girata in tempi brevi all’editore Rizzoli Lizard,
branca del gruppo RCS molto prestigiosa, specializzata nella pubblicazione di
fumetti, e con cui avevamo già collaborato. Rizzoli Lizard pubblica fumetti molto
celebri, come la saga di Corto Maltese di Hugo Pratt e Lo Sconosciuto di Magnus.
132
L’idea ha affascinato immediatamente la casa editrice, che ha accettato la nostra
proposta di osare un volume a colori. Evidentemente i costi di produzione sarebbero stati maggiori, e gli sforzi di realizzazione più intensi. Lelio Bonaccorso
ha raccolto attorno a sé una squadra di coloristi: Chiara Arena, Claudio Naccari e
Giulio Rincione. Il loro lavoro sulle atmosfere e quella che in termini cinematografici potremmo chiamare “fotografia” ha contribuito a trasformare il nostro
fumetto in un volume graficamente appetibile, dove gli sfondi, le ambientazioni
con i loro dettagli, diventano protagonisti al pari dei personaggi. Per la sceneggiatura ho scelto un ritmo sincopato, con accelerazioni e rallentamenti nella
narrazione a seconda dei passaggi narrati, dialoghi secchi e brevi, scene mute di
“atmosfera” che si alternano a dialoghi serrati. L’effetto, combinato con inquadrature originali e la suddetta forma di colorazione, è “cinematografico”: il fumetto ha il sapore di un film su carta, un genere di approccio derivato dai comic
book americani e molto apprezzato trasversalmente dal pubblico.
Di concerto con l’editore, abbiamo stabilito la possibile data di uscita,
fissandola a gennaio 2014. La concomitanza con la Giornata della Memoria, per
4
MARCO RIZZO, Un compromesso con la Storia in MARCO RIZZO, LELIO BONACCORSO, Jan
Karski, l’uomo che scoprì l’Olocausto, Rizzoli Lizard, Milano 2014, p. 141-142.
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quanto frutto di una riflessione forse cinica, avrebbe garantito una maggiore attenzione dei media generalisti verso la nostra opera. Per di più, le scadenze autoimposte dal ritmo di lavoro coincidevano in ogni caso con una possibile pubblicazione a fine gennaio. Nelle fasi di lavorazione finale, le tavole sono state
completate da Maurizio Clausi nel ruolo di letterista: a lui il compito di disegnare
con dei programmi ad hoc le nuvolette e le didascalie e di riportarvi all’interno i
dialoghi che avevo preparato in sceneggiatura.
2. Sugli scaffali
2.1 Il debutto
In occasione dell’uscita del volume, «La Lettura», supplemento culturale
de «Il Corriere della Sera», dedicò due pagine alla tragedia della Shoah, occupando la parte superiore delle due pagine con un fumetto realizzato ad hoc. Su
richiesta dell’editore, per «La Lettura» abbiamo realizzato una tavola a sviluppo
orizzontale in cui narravamo quanto avevamo volutamente omesso nel libro, lasciandolo nel mistero: l’incontro tra Jan Karski e Franklin Delano Roosevelt. È
servito da prologo e da lancio del volume, arrivato sugli scaffali tre giorni dopo il
supplemento domenicale. Sono seguite numerose recensioni e segnalazioni su
diverse testate («La Repubblica», «Il Venerdì di Repubblica», «D», «L’Unità», la
«Gazzetta del Sud», «L’Arena di Verona», «il Tirreno», «Pagine Ebraiche»,
<espresso.repubblica.it>, <linkiesta.it>, <wired.it>, <fanpage.it>, <msn.it>,
<gazzettadellosport.it>,) oltre a importanti passaggi televisivi come alla rubrica
Do Re Ciak Gulp del Tg1 e radiofonici come a Pagina 3 di Radio Rai e Pagine in
Frequenza di GR RAI, Virgin Radio e RadioLab. In maniera del tutto autonoma e
sorprendente, la pubblicazione ha fatto sentire la suo eco fino in Polonia, dove
diversi giornalisti si sono interessati alla curiosa circostanza che ha visto due fumettisti italiani occuparsi di Karski. Il lancio del volume è coinciso con le prime
due presentazioni al pubblico: un incontro all’Istituto Polacco di Roma il 25 gennaio (accompagnato da una mostra dedicata a Karski, comprendente anche stampe
delle tavole) e uno al Museo della Resistenza di Torino l’indomani, a cui sono seguiti fino a febbraio incontri a Rimini, Palermo, Trapani e Messina. Nei giorni
dell’uscita è stato distribuito su Youtube anche un book-trailer, realizzato animando e doppiando alcune pagine del fumetto e mescolandole a filmati d’epoca.
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MARCO RIZZO
JAN KARSKI, L’EROE DEI FUMETTI
2.2 La critica e le vendite
Le vendite del fumetto si sono dimostrate subito positive, portando a un
esaurimento della prima tiratura nei primi due mesi e all’immediata pubblicazione di una ristampa, che più che tale andrebbe definita “riedizione” visto che
contiene alcune correzioni ai disegni e ai testi. La critica ha continuato a commentare il volume anche a settimane dall’uscita. Riportiamo alcuni esempi:
Marco Rizzo, giornalista e sceneggiatore, e Lelio Bonaccorso, illustratore, hanno magistralmente riesumato la storia di Karski, praticamente assente dai libri scolastici. Seppur
operando dei tagli, per pura esigenza narrativa essendo un fumetto, i due autori hanno
comunque saputo ricostruire i passaggi salienti dell’eroica vita del protagonista, accendendo un riflettore su un personaggio a molti ignoto. Karski non è mai stato raccontato
neppure dal cinema, che di eroi che salvarono gli ebrei ne ha raccontati tanti 5.
Probabilmente leggerò altro sulla storia di Jan Karski e il merito sarà ancora di questo
bellissimo libro a fumetti. Mi ha fatto scoprire pezzi di storia che ignoravo, ricordandomi
quale nobiltà d’animo e di principi sia servita per sconfiggere il nazifascismo. Il fondamento di un sistema di valori che hanno reso l’Europa post-fascista capace di settanta
134
anni di convivenza pacifica6.
È difficile non accorgersi della passione e dell’entusiasmo con i quali il romanzo grafico è
stato realizzato. I testi di Marco Rizzo sono crudi e immediati, ma lasciano spesso spazio
alla riflessione tra le righe. L’autore dà nuovamente prova delle sue capacità narrative,
unite a una spiccata sensibilità; doti necessarie per potersi confrontare con opere di
questa importanza. I disegni di Lelio Bonaccorso, nonostante lo stile fortemente caricaturale, si sposano perfettamente con le atmosfere e le dinamiche espresse o sottese a
questa magnifica storia. L’artista dimostra anche una naturale inclinazione alla rappresentazione storica e un’attenta cura per i dettagli7.
La fortuna del fumetto sembra pronta a replicarsi anche all’estero. A
poche settimane dall’uscita, in Polonia i diritti per il volume sono stati riservati
dall’editore Alter, in Spagna da Norma Editorial, in Francia da Steinkis Editions8,
5
MANUELA CASERTA, Jan Karski. L’uomo che scoprì l’Olocausto, in «L’Espresso», 20.02.2014,
<caserta.blogautore.espresso.repubblica.it/2014/02/20/jan-karski-luomo-che-scopri-lolocausto>.
6
ENRICO COLAIACOVO, Il mio nome sarà Jan Karski, <autori.fanpage.it/il-mio-nome-sara-jan-karski>.
7
Recensione di GIAMPIERO BRONZETTI a Jan Karski. L’uomo che scoprì l’Olocausto, <www.ilbar
delfumetto.com/index.php?action=show&id=1594>.
8
La pubblicazione in Polonia e Francia è prevista per novembre 2014, in Spagna per fine 2015.
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mentre sono in corso trattative con editori di altri paesi. A oggi risulta essere il
fumetto firmato dal sottoscritto con più edizioni estere, quasi a riprova di quanto
avevo intuito anni fa, con quella casuale lettura del sunto biografico di Jan Karski:
è una storia potente, portavoce di valori universali, è come se scalpitasse per farsi
conoscere. Da parte nostra, abbiamo fatto il possibile perché, con il rispetto per il
personaggio che ci eravamo prefissati – come è nostra prassi nei lavori di adattamento –, la vita di Karski raggiungesse un pubblico il più ampio possibile. E
perché no, anche il più giovane.
[«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», 5, 2014, pp. 128-135]
135
INSERTO
DOCUMENTARIO
The Jewish Mass Executions. Account by an Eye-Witness, in ALEXEI TOLSTOY, A
POLISH UNDERGROUND WORKER, THOMAS MANN, Terror in Europe. The Fate of
the Polish Jews, National Committee for Rescue from Nazi Terror, London s.d.
[1943], pp. 9-10.
The Polish Underground State, in «Polish Fortnightly Review», 82, 15.12.1943,
London, pp. 1-6
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INSERTO DOCUMENTARIO
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THE JEWISH MASS EXECUTIONS
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JAN KARSKI
Shoah (Sterminio)*
A
metà ottobre di quest’anno [1985, N.d.T.] sono stato invitato ad assistere a una proiezione riservata del film Shoah, assieme ad altre persone:
il monsignor George Higgins, professore di teologia cattolica, Richard
Davies, ex ambasciatore degli Stati Uniti a Varsavia, sincero amico dei polacchi, e
Abraham Bumberg, apprezzato scrittore, anche lui simpatizzante della Polonia.
Il film dura oltre nove ore. Non vi sono attori, ma solo interviste con le
vittime dell’inferno dell’Olocausto, con i suoi diretti carnefici o con i testimoni
150
oculari. Vengono mostrati anche documenti originali e rapporti tedeschi. Alcune
interviste (con i tedeschi) sono state filmate di nascosto. Vengono anche mostrati
i lager, le camere a gas, i villaggi e le cittadine che si trovavano nei pressi dei
campi, sia come apparivano durante la guerra, sia nel loro stato attuale.
Claude Lanzmann, il regista, è francese. Ha girato il suo film in Polonia,
Cecoslovacchia, Grecia, Olanda, Israele, Svizzera, Romania e America. Per realizzarlo ha impiegato quasi quindici anni della sua vita.
Shoah è certamente il più grande film sulla tragedia degli ebrei girato dopo
la Seconda guerra mondiale. Nessuno è riuscito a rappresentare lo sterminio degli
ebrei durante la guerra con altrettanta profondità e brutalità, con altrettanta
mancanza di pietà verso lo spettatore, a cui si gela il sangue nelle vene. D’altro
canto la stessa struttura del film – con le sue connessioni tra eventi, persone, il
passato e la natura – emana una poesia magica. La rasserenante bellezza degli
alberi cresciuti sopra i luoghi dei supplizi, l’immacolato specchio d’acqua che cela
*
JAN KARSKI, Shoah (Zagłada), pubblicato originariamente in «Kultura» [Parigi], 11, novembre
1985, pp. 121-124 (versione parziale in francese: «Esprit», febbraio 1986). Pubblichiamo la presente traduzione per gentile concessione de «L’ospite ingrato. Rivista online del Centro Studi
Franco Fortini».
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le ceneri degli ebrei arsi vivi, i prati e i filari che nascondono i segreti atroci dei
campi di concentramento, una processione che esce dalla chiesa dove erano stati
rinchiusi gli ebrei deportati, le toccanti preghiere dei sopravvissuti in una sinagoga, un’anziana donna sopravvissuta che canta una canzone di quei tempi…
Tutto ciò non solo sconvolge e atterrisce, ma affascina anche con la sua bellezza.
È disumanamente atroce e indicibilmente innocente. Chi ha visto questo film non
sarà mai capace di dimenticarlo.
Venuto a sapere di Shoah, durante un’udienza pontificia a ex membri
della Resistenza francese e belga, il papa l’ha voluto lodare per il suo significato
morale e la coscienziosità del suo autore.
Il film narra le indicibili sofferenze e lo sterminio di ebrei inermi, tra i
quali oltre tre milioni di cittadini polacchi di origine o religione ebraica. Nulla
più. Non descrive i retroscena degli anni di guerra, la conquista da parte del
Terzo Reich di quasi tutta l’Europa o le crudeltà nei confronti dei popoli soggiogati. Non parla delle sofferenze delle popolazioni non ebraiche in Polonia,
Russia, Grecia o Serbia. La sua ferrea struttura non lo permette.
Lo scopo di Lanzmann è di rendere consapevoli che lo sterminio degli
ebrei è stato un fenomeno unico, non paragonabile a nessun altro. In questo ha
indubbiamente ragione. Il voler paragonare lo sterminio degli ebrei alle sofferenze delle popolazioni civili non ebraiche – anche se comprensibile dal punto di
vista emotivo – è un errore. Naturalmente tutti i popoli hanno riportato perdite
maggiori o minori, ma quelle tra gli ebrei sono state totali. Di questo Lanzmann
non si dimentica neanche per un istante: lo intuisce chiaramente chiunque veda il
suo film.
Una così drastica delimitazione tematica desta l’impressione che gli ebrei
siano stati abbandonati dall’intera umanità e che l’intera umanità sia rimasta insensibile alla loro sorte. Si tratta invece di un’impressione inadeguata, oltretutto
demoralizzante, in particolare per le generazioni di ebrei nati dopo la guerra e per
quelle a venire. Gli ebrei sono stati abbandonati dai governi, da coloro che detenevano un potere materiale o spirituale, non dall’umanità. In Europa alcune
centinaia di migliaia di ebrei sono stati salvati, in Polonia alcune decine di migliaia. Chi nascondeva un ebreo rischiava la pena di morte insieme alla propria
famiglia. Anche in Europa occidentale – sebbene le pene non fossero altrettanto
dure – nascondere o aiutare un ebreo esponeva a rischi estremi. Ciò nonostante
151
JAN KARSKI
SHOAH (STERMINIO)
centinaia di migliaia di contadini, operai, intellettuali, sacerdoti, suore hanno
aiutato gli ebrei in ogni paese d’Europa, mettendo a repentaglio la propria vita e
quella delle persone loro vicine. Quanti tra di loro siano periti, questo lo sa solo
Iddio.
In Polonia era sorta un’organizzazione clandestina, il cui compito precipuo era di aiutare e nascondere gli ebrei. Il suo capo, Władysław Bartoszewski1,
vive a Varsavia. A Łódź vive invece l’eroico comandante dell’insurrezione del
ghetto di Varsavia, Marek Edelman. Altri risiedono fuori dalla Polonia: avrebbero dovuto essere almeno ricordati nel film. Indipendentemente dalla struttura
di Shoah, credo che sarebbe stato necessario rendere consapevoli gli spettatori, in
particolare le giovani generazioni di ebrei e non ebrei, che persone del genere
sono esistite. Gli ebrei hanno bisogno di saperlo per non perdere fede nell’umanità e nel proprio posto in mezzo a essa. I non ebrei per poter comprendere a cosa
possano condurre la mancanza di tolleranza, il razzismo, l’antisemitismo e l’odio,
e cosa invece possa fare l’amore per il prossimo. Questo è ben più importante di
qualsivoglia struttura. Soprattutto se si tratta di un film tanto grande e potente da
condizionare lo spettatore.
152
La tecnica di Shoah si fonda su interviste, programmate o casuali, a persone sconosciute a Lanzmann. Tra questi alcuni polacchi, abitanti dei paesi o
delle città prossime ai campi di concentramento. Alcune dichiarazioni testimoniano della loro compassione e bontà di cuore, altre – la maggioranza – sono invece sconvolgenti.
Ecco delle donne di piccole cittadine che, alla domanda su cosa pensino
dello sterminio degli ebrei, rispondono che dopo di esso la loro vita è migliorata:
sono andate ad abitare nelle case appartenute agli ebrei, più lussuose di quelle in
cui stavano prima della guerra. Una donna di un altro gruppo, senza essere stata
interpellata, fa invece la predica a Lanzmann: quello che è capitato agli ebrei è
stata una punizione divina per aver mandato a morte Cristo. Siamo nei pressi di
una chiesa davanti a cui sfila una processione: evidentemente i precetti del Con1
Per una bibliografia in italiano e in francese sull’organizzazione Żegota, alla quale lo stesso
Karski era affiliato, cfr. WŁADYSŁAW BARTOSZEWSKI, Le sang versé nous unit (sur l’histoire de
l’aide aux juifs en Pologne pendant l’occupation), Interpress, Varsovie 1970; TERESA PREKEROWA,
Żegota: commission d’aide aux Juifs, Éditions du Rocher, Monaco 1999; CARLA TONINI, Il tempo
dell’odio e il tempo della cura, Silvio Zamorani editore, Torino 2005. Nonostante Bartoszewski
avesse dichiarato la sua disponibilità a essere intervistato in Shoah, Lanzmann si rifiutò di incontrarlo [N.d.T.].
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cilio Vaticano II – che hanno bollato come peccato un simile atteggiamento – non
sono mai giunti fino a quella parrocchia. Ed ecco un intellettuale di città, che di
sua iniziativa esce dalla folla per dichiarare davanti alla camera da presa e a
Lanzmann quello che avrebbe visto un suo amico: un rabbino avrebbe spiegato
agli ebrei destinati alla deportazione che quella loro sorte era la conseguenza di
ciò che avevano fatto i loro progenitori: mandando a morire Cristo avevano fatto
ricadere il suo sangue sui propri discendenti. L’intellettuale però non spiega che
gli ebrei e il rabbino erano circondati da SS armate di pistole e manganelli. Viene
poi chiesto a un contadino se non gli dispiaccia che non ci siano più ebrei e lui
con un sorrisetto risponde che un po’ sì, un po’ no, che quando era giovane le
ebree gli piacevano, ora che è vecchio la cosa gli è indifferente. Un altro polacco
nei dintorni di Treblinka racconta di aver visto un trasporto di ebrei dall’Europa
occidentale: alla stazione finale prima di Treblinka arrivavano carrozze-pullman,
dentro c’erano corpulenti ebrei ed ebree pettinate di tutto punto. Sui tavolini
delle carrozze c’erano “flaconi di profumi”, dice di aver visto valigie piene d’oro.
Alla stazione uno degli ebrei era sceso dal treno e si era recato al buffet della
stazione a comprarsi qualcosa, le porte del vagone non erano controllate, si poteva uscire a piacimento…. A due passi da Treblinka… Mio Dio!
Nel film c’è anche un’intervista con me. Le circostanze in cui è stata
concepita fanno intuire il metodo di Lanzmann e le limitazioni da lui previste per
Shoah. Lanzmann mi venne a trovare nel 1977, portandomi del materiale che lo
riguardava: le sue qualifiche, i suoi precedenti film, le recensioni positive ecc. Mi
parlò del suo progetto: aveva sentito parlare e letto di me. Sosteneva che era mio
dovere rilasciargli un’intervista. All’inizio rifiutai, mi ero lasciato dietro il mio
passato di guerra e per oltre trent’anni non vi ero più tornato. Alla fine accettai,
chiedendo che mi ponesse delle domande per iscritto, per potermi preparare.
Lanzmann era contrario: niente risposte già pronte, mi avrebbe chiesto solo
quello che concerneva il suo film, io dovevo raccontare ciò che ricordavo. Accettai, a condizione che non mi coinvolgesse in alcun dibattito, valutazione o
conclusione di carattere politico: lui disse che questo non rientrava affatto nelle
sue intenzioni.
L’intervista ebbe luogo nel 1978 a casa mia: fu girata in due giorni, in tutto
circa otto ore. Lanzmann è un uomo difficile, passionale, totalmente votato al
proprio lavoro, intransigente nell’indagare e stabilire i fatti. Io ebbi più volte un
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JAN KARSKI
SHOAH (STERMINIO)
cedimento nervoso, a lui capitò una volta. Mia moglie, non potendo sopportare
tutto ciò, dovette uscire di casa2.
Delle otto ore della mia intervista, sullo schermo ho visto una quarantina
di minuti, in cui venivano descritte le sofferenze degli ebrei nel ghetto di Varsavia,
le proteste e le disperate richieste di aiuto dei dirigenti ebrei clandestini ai governi
occidentali. Il tempo riservato alla mia relazione e la costruzione di Shoah avevano
costretto Lanzmann a omettere la parte dell’intervista su quella mia “missione
ebraica” della fine 1942, a mio parere la più importante. Altri avevano già parlato
– per oltre sette ore – delle sofferenze degli ebrei, molti lo avevano certamente
fatto meglio di me. A mio parere il fulcro dell’intervista era il fatto di essere
passato in Occidente, informando della tragedia e delle richieste degli ebrei ben
quattro membri – primo di tutti Eden – del Gabinetto di Guerra britannico, il
presidente Roosevelt con tre significativi membri del governo americano, il nunzio apostolico a Washington, alcuni dirigenti ebraico-americani e importanti
scrittori e commentatori politici. Senza dubbio nessun altro oltre a me avrebbe
potuto parlare di questo nel film, mostrando come i governi alleati – gli unici in
grado di aiutare gli ebrei – li avevano invece abbandonati al loro destino3.
154
Se in Shoah si fosse assemblato questo materiale e si fosse fornita un’informazione generale sui tentativi di venire in aiuto agli ebrei, si sarebbe rappresentato il loro sterminio in una prospettiva storica certamente più adeguata. Sono
stati i capi delle nazioni e i governi più potenti a deciderlo o a prendervi direttamente parte o ancora a rimanere indifferenti di fronte ad esso. La gente, la gente
normale, migliaia di persone, è stata solidale con gli ebrei o li ha aiutati.
L’arte potente, la potente volontà e la crudele verità di Shoah e questa sua
stessa autolimitazione rendono necessario un altro film – altrettanto potente, altrettanto vero – che possa rappresentare quell’altra realtà dello sterminio. I governi, le organizzazioni sociali, le chiese, la gente di talento e di cuore dovrebbero
2
Su Pola Nireńska, la moglie di Karski, si veda il testo di Giovanna Tomassucci pubblicato in
questo stesso numero di «pl.it» alle pp. 116-127 [N.d.T.].
3
In un’intervista rilasciata ad Anna Bikont nell’ottobre del 1997 e apparsa su «Gazeta Wyborcza»,
Claude Lanzmann ha giustificato i tagli dell’intervista a Karski, nella parte relativa alla sua missione
a Londra e a Washington, definendola più aneddotica e priva di quella tensione presente invece nel
resoconto della sua visita al ghetto. L’appello di Karski (e di altri intellettuali polacchi) per
un’integrazione al materiale presentato in Shoah è stato accolto da Lanzmann solo dopo la morte di
Karski nel 2010, quando, dopo aver depositato nel 1996 presso l’Holocaust Memorial Museum di
Washington una copia integrale dell’intervista, il regista ha finalmente montato un nuovo documentario, basato sulle parti eliminate, Il rapporto Karski, trasmesso dal canale TV Arte [N.d.T.].
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individuare le forme di un impegno comune per poter produrre un’opera del
genere. Non per smentire quello che ha mostrato Shoah: per integrarlo.
Le terribili sofferenze della Seconda guerra mondiale pesano come un
anatema sull’umanità.
[Traduzione dal polacco di Giovanna Tomassucci]
[«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», 5, 2014, pp. 150-155]
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MARIA KUNCEWICZOWA
Lo sconosciuto*1
I
membri del Comitato non si conoscevano tutti tra loro, perciò si guardavano
intorno di soppiatto per individuare in mezzo agli sconosciuti il volto
dell’uomo venuto da laggiù. Un attimo dopo, molti dei presenti sofferma-
rono la loro attenzione su un uomo minuto, dai lineamenti scavati e lo sguardo
nevrastenico. Le donne gli sorridevano di sottecchi chinando il capo, gli uomini
invece distoglievano lo sguardo. Alla fine il ministro si sedette alla scrivania, gli
altri sprofondarono nelle poltrone, fecero stridere le sedie, tossicchiarono…
“Signore e signori” disse il ministro “permettetemi di dare il benvenuto a
156
un così gradito ospite. Ho avuto già diverse volte il piacere di parlare con lui. Ma
sono convinto di interpretare il vostro pensiero esprimendo ancora una volta la
gioia di avere tra noi l’emissario del Paese…”.
Mentre il ministro parlava in questo modo, gli sguardi di molti dei presenti corsero con deferenza verso l’uomo magro. Nel frattempo, su una sedia vicina alla scrivania del ministro qualcuno si mosse con energia e solo allora si poté
constatare che era lì, e non altrove, che era seduto colui che nessuno conosceva.
Era giovane, alto, scuro, era vestito talmente bene che l’abito e la cravatta
passavano inosservati. Né il colore, né il taglio si discostavano dalla buona impressione generale. Con un foglio in mano sedeva sulla sua sedia con garbo e
compostezza, come se non volesse rubare spazio o attenzione ai presenti. Teneva
le palpebre abbassate, le ampie sopracciglia esprimevano calma. Quando gli
sguardi di tutti caddero su di lui, quelle sopracciglia non tremarono e le palpebre
non si sollevarono. Il ministro continuò a parlare, spiegando lo scopo della con1
MARIA KUNCEWICZOWA, Nieznajomy, pubblicato originariamente in «Nowa Polska», fasc. 3,
marzo 1943; poi in W oczach pisarzy. Wybór opowieści wojennych, a cura di Gustaw HerlingGrudziński, Instytut Literacki, Rzym 1947 [N.d.T.].
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
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ferenza e il tema della relazione dell’ospite. Nel farlo, protese il braccio verso di
lui con fare ospitale. “È pronto?”, chiese infine. Lo sconosciuto sollevò le palpebre. I suoi occhi erano grandi, azzurri, quasi immobili. “Sì”, rispose, “posso
accostarmi alla scrivania? Vorrei cancellare via via dagli appunti le cose che dirò”.
Sul volto gli balenò un sorriso infantile. E come in un bambino, il sorriso, una
volta svanito, non lasciò traccia di alcuna emozione sul suo viso.
Iniziò la sua relazione da alcune osservazioni. Elencò una serie piuttosto
lunga di questioni di primaria importanza che non intendeva affrontare. Delimitò
con precisione l’ambito entro cui era possibile fargli domande. Per escludere a
priori qualunque incomprensione, stabilì la terminologia politica, sottolineando
che erano denominazioni “brutali” che mal si attagliavano ai contenuti di fenomeni che, nel paese occupato, avevano perso da tempo il significato che avevano
prima della guerra. Si capiva che aveva difficoltà a trovare le parole. Prima di
pronunciare una frase, osservava con sguardo severo qualcosa di ovvio per lui, ma
invisibile al resto dei presenti. Era evidente che stava cercando di adeguare la sua
terminologia a eventi remoti di cui subiva il condizionamento. Aggiunse a definizioni ormai comuni l’aggettivo “cosiddetto”. Il “cosiddetto” Paese. La “cosiddetta” società. La “cosiddetta” Destra o Sinistra. Definendo la connotazione attuale di
quei fenomeni (la definizione riguardava una ristretta gamma di questioni affrontate nella sua relazione), sembrava contemplarne il nuovo significato, sconosciuto
al mondo libero. Da quell’obbligo a trasporre una realtà ancora senza nome nel
linguaggio di convenzioni superate scaturiva la sua difficoltà a parlare.
Lo sconosciuto si esprimeva in modo cauto e impersonale. Non usava
aggettivi per le azioni del nemico, né per quelle di chi lo combatteva in condizioni
ridicole rispetto a un consueto confronto di forze. Parlava di denaro o condanne
a morte con la stessa identica intonazione. Disse ad esempio, senza alcun pathos e
interrompendosi solo quel tanto che gli serviva per respirare: “Le persone incaricate di fornire un bollettino radio comprensibile vengono retribuite in modo
adeguato e regolare. Le condanne a morte per chi ascolta la radio sono eseguite
senza possibilità di appello. Le probabilità di non essere scoperti mentre si ascolta
la radio sono infinitesimali. I comunicati londinesi vengono stampati in extenso.
L’opinione pubblica ne è immediatamente informata”. Nelle sue parole non c’era
alcuna affettazione. C’era solo logica. Mostruosa per il mondo libero, naturale per
quello asservito.
157
MARIA KUNCEWICZOWA
LO SCONOSCIUTO
Ciò che riferì doveva in qualche modo costituire una ratifica dell’operato
dell’Emigrazione. La ratifica non ebbe successo.
“Lì vogliono conoscere la verità”, disse. “E la vengono a sapere. Ma sono
costretti a cercarla per vie traverse. Attraverso i paesi neutrali. Attraverso l’Overseas Service. Perché da qui non arriva. Da qui arrivano l’ottimismo, l’incoraggiamento, le rassicurazioni… Tutte cose inutili. Cose per cui non vale la pena morire”.
Pronunciò di nuovo la parola “morire” nello stesso modo in cui qui si
diceva “pagare”. Nella sua interpretazione le due azioni si equivalevano: si paga
con la vita, si paga col denaro. A equivalersi erano anche i beni in vendita: qui, un
pranzo, un vestito… Là, la sopravvivenza di una nazione, l’onore di un uomo…
Lo sconosciuto si rendeva chiaramente conto del significato effimero e
paradossale di una simile equivalenza. Gli seccava essere costretto a suggerire
equivalenze in un contesto in cui la sorte non aveva ancora obbligato tutti a cercarle. Con gli occhi, con il portamento lasciava intendere di apprezzare gli sforzi
di quell’uditorio per comprendere un mondo anormale e di scusarsi con il mondo
normale per tali difficoltà.
Una volta sola la cortesia del relatore vacillò sotto l’onda dell’emozione.
158
“Quegli aerei abbattuti dai nostri”, disse, e il suo sguardo avvampò.
“Quell’Orzeł, quel Sokół, quel Wilk…”1.
S’interruppe. Nella sua mente stava sicuramente salutando coloro che
anche nel mondo normale pagano con la vita l’acquisto di beni immateriali.
Successivamente passò alle richieste politiche del paese occupato. Precisò
le differenze tra i programmi dei partiti. Mentre presentava con tono accorato le
richieste della “cosiddetta” Destra, “per dirla in modo brutale”, un signore in
abito verde borbottò: “È di Destra”. Subito dopo l’ospite formulò le istanze della
“cosiddetta” Sinistra, “per dirla in modo brutale”, e un signore in abito grigio si
chinò verso il vicino: “Incredibile, è di Sinistra”. Poiché le idee della Sinistra
trovavano in lui un commentatore non meno eloquente… “Forse è di Centro?”,
sussurrò una biondina. Ma del Centro non si faceva parola in quel resoconto da
laggiù, dove le sentenze di vita sono più pesanti delle sentenze di morte.
Dunque tra Destra e Sinistra esistevano differenze come in passato. Ma
erano differenze “per così dire”, giacché dal rapporto emergeva che laggiù sia i
1
Si tratta dei sommergibili Orzeł (Aquila), Sokół (Falco) e Wilk (Lupo) della Marina da guerra
polacca, che nel 1939 erano riusciti a riparare in Gran Bretagna e a continuare le azioni belliche
contro i tedeschi [N.d.C.].
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seguaci della Sinistra sia quelli della Destra morivano per la stessa cosa: la libertà.
Resi edotti di un simile fatto, i presenti vennero a sapere – senza che la cosa potesse ormai stupirli – che né la Sinistra né la Destra erano inclini a fare concessioni
a favore delle potenze confinanti.
In chiusura l’ospite riportò ancora una richiesta del “cosiddetto” Paese. Il
“cosiddetto” Paese non voleva che la propaganda lo definisse sofferente. Voleva
essere chiamato combattente.
Seguì la parte informale della serata: le domande. Le persone si rianimarono. Desideravano da tempo uscire dalle questioni di massima, superare la distanza ufficiale, parlare normalmente con un compatriota. Non erano interessate
tanto al comunicato, quanto alle indicazioni personali che giungevano da laggiù,
alle informazioni che potevano ottenere qui. Erano interessate a stabilire un
contatto. E anche – chissà se non più di ogni altra cosa – a chiarirsi a vicenda
perché loro erano qui, quelli erano laggiù e quali sarebbero potute essere le possibilità comuni.
Qualcuno si alzò persino dalla sedia, avviandosi in direzione dell’ospite
con l’intenzione di stringergli la mano. Ma l’emissario continuava a rimanersene
seduto con grande compostezza, le mani giunte sulle ginocchia, il foglio di carta
piegato in quattro, tenuto tra dita placide e sottili. Se ne stava seduto come se
fosse capitato lì per caso, di passaggio… Qualcuno che non aveva senso conoscere di persona. L’uditorio tornò al suo posto. Il segretario annotava chi voleva
prendere la parola, il ministro la concedeva. Il primo a fare una domanda su una
questione tecnica fu il direttore di un’agenzia governativa. Mentre balbettava e
arrossiva, l’emissario lo guardò come un istante prima aveva guardato la scrivania
e prima ancora le proprie unghie: con attenzione e senza emozioni. Non rispose
subito. Soppesò qualcosa tra sé, o forse stava ricordando, scegliendo qualcosa…
“Non è di pertinenza del mio reparto”, disse infine, “può ottenere queste
informazioni per altre vie”.
Liquidò tutte le domande di questo tipo allo stesso modo, sempre dopo
un attimo di riflessione.
Dalle sue risposte spirava una grande freddezza. Una freddezza non di
questo mondo. Le spiegazioni che gli venivano chieste non avrebbero violato
alcun Segreto, per fornirle sarebbe stato sufficiente un piccolo sforzo di memoria,
un errore non avrebbe provocato danni. L’emissario si rifiutava di fare quel
159
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LO SCONOSCIUTO
piccolo sforzo o quell’errore sia pur irrilevante. Era una questione che sapeva di
ferite, di prigione e di morte – domande poste da persone libere, accolte per una
via “diversa”, sotterranea, da persone senza libertà – per lui era solo a partire da
una tale questione che sarebbe stato possibile affrontare sforzi ed errori… Aveva
la parte inferiore del viso coperta da piccole cicatrici bluastre. Forse una volta,
all’estero, aveva dovuto ingoiare una domanda e non aveva voluto spalancare la
mascella, quando il torturatore gli aveva traforato i denti con uno strumento
aguzzo e improvvisato.
Una cosa era certa: il prezzo della libertà di tutti lo aveva pagato di persona, nell’anno del Signore 1943, ma non aveva mai comprato la libertà per sé.
Quindi si era disabituato ai regali. Si era disabituato anche agli errori per i quali
non si rischia un’esecuzione collettiva.
“Che significa?” bisbigliò qualcuno. “Perché non vuole parlare?”.
Qualcun altro fece spallucce: “Una psicosi”.
Nel frattempo l’emissario aveva rotto il silenzio.
“Il Paese si stupisce”, disse “che ci chiediate così poche informazioni. In
realtà di materiali ve ne inviamo, ma poi le radio di tutto il mondo non li tra160
smettono. Perciò se ora del nostro Paese non si parla, visto che la sua situazione
nel mondo è così meravigliosa, è evidente che i nostri materiali non sono ciò che
serve. E allora perché nessuno da qui chiede i materiali giusti?”
Calò il silenzio. Il ministro socchiuse ostentatamente gli occhi, qualcuno
arrossì, altri impallidirono, qualcuno fece un sibilo imbarazzato, qualcun altro si
chiese ad alta voce: “Che cosa? Una situazione meravigliosa?”
L’ospite, dopo aver fatto la sua domanda, sembrava un po’ più sicuro sulla
sua sedia, leggermente curvato in avanti.
“Sì, una situazione meravigliosa”, ripeté, “il contributo militare e politico
del paese alla guerra è enorme”.
Sui volti dei presenti baluginò un sorriso un po’ folle, un po’ scaltro. Le
teste scattarono all’indietro, le palpebre si chiusero, i respiri si fermarono, come
capita ai passeggeri di un treno in corsa che scorgono sullo stesso binario un altro
treno che gli viene incontro a tutta velocità. Un treno rosso di sangue, un treno
fantasma… “Non abbiamo stipulato un armistice, non abbiamo un Quisling”,
sbuffava quel treno in modo sempre più chiaro, sempre più vicino, sempre più
forte.
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I passeggeri londinesi si fecero piccoli piccoli. “Non avete stipulato un
armistice, non avete un Quisling” dicevano ai passeggeri dalla Polonia, “sappiamo
qual è stato il vostro contributo: il martirio degli inermi, l’incorruttibilità degli
affamati, la generosità dei miserabili. Onore a voi. Ma fermatevi prima di venirci
addosso. Perché alle nostre spalle c’è un precipizio. Il precipizio senza fondo del
mondo normale”.
“Dunque Lei crede”, disse il ministro, “che le radio di Ankara, Zurigo,
Stoccolma, per non parlare ovviamente di Londra, Washington e Mosca, aspettino solo i materiali che mi mandano da laggiù?”.
L’ospite si girò lentamente verso la poltrona del Presidente. Era come se
quella poltrona, completamente occupata dal grasso ministro barbuto, fino a quel
momento gli fosse apparsa vuota, visto che inarcò leggermente le ampie sopracciglia con un’espressione di stupore. Un attimo dopo rivolse lo sguardo alla lampada,
in silenzio. Furono le persone in sala, fino ad allora indifferenti, a reagire subito.
Ridacchiavano, si scambiavano occhiatine, l’ostilità prese a concentrarsi
ora a un’estremità della sala, ora all’altra… Lo sconosciuto non seguiva l’evolversi
della faida locale. Apriva e chiudeva il suo foglio. Impenetrabile, aspettava.
Calò di nuovo il silenzio. L’uomo che sedeva in mezzo a loro non aveva
dunque alcun interesse per le questioni locali? Non intendeva indovinare o scoprire nulla? Non voleva approfittare di nulla? Alla fin fine chi era? Un intellettuale? Sì. Ma l’accento con cui pronunciava i verbi era duro, quasi campagnolo.
Dita lunghe e sottili? Sì. Ma quando parlava delle speranze del “popolo”, la sua
voce assumeva una sfumatura proletaria. Un abito impeccabile? Sì. Ma il colletto
della camicia era logoro. L’inflessione non era orientale, ma neanche occidentale,
o meridionale. E il lessico non era né ricco, né povero. Era giovane, ma aveva la
calma di un vecchio. Era calmo, ma forte, come qualcuno che non conosce la
vecchiaia.
Che cosa sapeva davvero? Che si aspettava? Da che casa era uscito,
quand’era andato a scuola per la prima volta? Com’era la madre che lo coccolava?
Com’era il padre che lo puniva? Dov’erano quella città e quel villaggio che avevano formato la sua visione del mondo? E da dove aveva preso la forza (da Dio o
da Satana?) per tramutarsi – lui, un ragazzo – in una figura mitologica, emissario
di onnipotenti miserabili presso ministri impotenti, per divenire il messaggero del
Segreto?
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LO SCONOSCIUTO
“Altre domande?”, chiese educatamente.
Un signore dai capelli castani si alzò di scatto dalla sedia, arrossì, il petto
ansimante, fece un brusco movimento con la mano, aprì la bocca e rimase bloccato in quella posizione. Un attimo dopo, senza aver detto una parola, si rimise a
sedere.
Finalmente, da un angolo della sala, da dietro le spalle di altre persone, si
levò timida una voce.
“La prego, non mi risponda, se non può farlo. Ma voglio chiederle due
cose: chi sarà ad avere la meglio nel Paese, la Sinistra o la Destra? E il Paese che
cosa vuole, una guerra lunga o una guerra breve?”.
Per la prima volta nel corso della serata, lo sconosciuto si mostrò agitato.
Arretrò sulla sedia, gli tremarono le labbra. Fissò lo sguardo su un punto lontano.
“Chi avrà la meglio?”, ripeté lentamente, “chi…”, rifletté, e all’improvviso, come
destandosi da un sogno, disse quasi gridando: “Non lo so! Nessuno lo sa …”.
S’interruppe. Di nuovo s’immerse nei suoi pensieri e di nuovo ne riemerse, turbato.
“Per quanto riguarda la guerra… Il Paese ovviamente lo sa. Sa che dal
162
punto di vista storico la ragione di Stato richiede una guerra lunga. Ma dal punto
di vista biologico, la ragione di Stato richiede una guerra breve”.
Un’ombra attraversò gli occhi dell’emissario, le pupille gli si fecero scure e
spente. Terminò a bassa voce:
“Il prima possibile”.
Fu spaventoso. L’ombra passò dagli occhi dell’emissario alla sala intera, si
fece nera e densa. In quell’oscurità si poteva scorgere soltanto l’altra estremità del
mondo, la regione degli assenti, da cui correva incontro a questo mondo il treno
fantasma col suo carico di “materiali”: cadaveri di civili, bluastri, verdi o bianchi
come nebbia, corpi di uomini e donne mutilati dalle torture, dal gelo, dalla fame,
milioni di scheletri di bambini, mandrie di madri impazzite, masse di prigionieri
coperti di fango che fuggivano attraverso gallerie sotterranee, milioni di cervelli
rinsecchiti, di ventri gonfi, di cuori impavidi. Il treno correva da solo, senza
macchinista, senza fuochista, come un razzo interstellare scagliato dai terresti
verso i marziani. Sfrecciava in alto, sfrecciava veloce, sfrecciava infallibile, e i
terrestri, che avevano scagliato in cielo il loro “contributo”, avevano pur sempre il
diritto di ritenere che la situazione fosse “meravigliosa”.
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I membri del Comitato lo capirono, e fu spaventoso… Ma nei ristoranti
londinesi era giunta l’ora del dinner: l’incontro doveva terminare.
“Quindi il Paese lo sa”, disse quella stessa timida voce. “E lo sappiamo
anche noi. Che conclusione possiamo trarne? Quale ragione è più importante:
quella storica o quella biologica? E noi qui che dobbiamo fare?”.
Lo sconosciuto si alzò. Si alzò come il giorno sorge dalla notte: misteriosamente, potendo significare tutto o non significare nulla.
“Non c’è alcuna conclusione”, disse. “Cosa ancora più importante, questo
non lo sa nessuno né qui, né laggiù. Che cosa dovete fare? Fate le vostre cose.
Forse un giorno le due strade si incontreranno, da qualche parte”.
Il pubblico si avviò all’uscita, senza presentarsi all’ospite e senza salutarlo.
I cognomi di qui, le convenzioni di qui, laggiù non avevano alcuna importanza.
Lui invece non aveva un cognome o una formula da poter impiegare qui.
I londinesi uscirono in fretta. Sulla porta dell’ascensore c’era quell’uomo
minuto, dai lineamenti scavati e lo sguardo nevrastenico, che sulle prime una
parte del pubblico aveva scambiato per l’emissario. Ancora più di prima aveva
l’aspetto di Cristo. Le donne si intenerirono di colpo e lo attorniarono. Qualcuna,
sussurrando, disse il proprio nome. “Noi ancora non ci conosciamo”. Un amico
gli chiese: “Allora, lo Sconosciuto ti ha portato notizie di tua moglie?”. L’uomo
magro si asciugò una lacrima. “No, nessuna notizia”. Le donne gli strinsero la
mano. Finalmente qualcuno soffriva e parlava in modo comprensibile.
[Traduzione dal polacco di Alessandro Amenta]
[«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», 5, 2014, pp. 156-163]
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INSERTO
ICONOGRAFICO
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Jan Kozielewski alla sua scrivania, Varsavia, 1935. Foto del Museo di Storia della
Polonia, per gentile concessione (Hoover Institution Archives, Register of the Jan
Karski Papers, box 25 folder 2).
INSERTO ICONOGRAFICO
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Jan Kozielewski, San Silvestro del 1938. Foto del Museo di Storia della Polonia,
per gentile concessione (Hoover Institution Archives, Register of the Jan Karski
Papers, box 25 folder 2).
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Jan Karski, anni ‘40 del XX sec. Foto del Museo di Storia della Polonia, per gentile
concessione (Hoover Institution Archives, Register of the Jan Karski Papers, box
25 folder 2).
INSERTO ICONOGRAFICO
168
Pola Nireńska e Jan Karski nel giorno del loro matrimonio (1965).
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Jan Karski. Per gentile concessione (Copyright: © Photograph by Carol Harrison).
INSERTO ICONOGRAFICO
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Il professor Jan Karski alla Georgetown University, 1985. Foto del Museo di Storia
della Polonia, per gentile concessione (Copyright: © Photograph by Carol Harrison).
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Jan Karski, Washington, 2000. Foto del Museo di Storia della Polonia, per gentile
concessione (Copyright: © Photograph by Carol Harrison).
INSERTO ICONOGRAFICO
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8
In alto: La tomba di Pola Nireńska e Jan Karski.
In basso: Il cippo dedicato a Jan Karski nel Giardino dei Giusti di Varsavia, eretto il
5 giugno 2014. L’iscrizione recita: “A Jan Karski (1914-2000), emissario della Polonia
clandestina, che si appellò affinché venisse fermato lo sterminio degli ebrei e che
definì la passività degli Alleati il ‘secondo peccato originale dell’umanità’”.
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
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La cerimonia in onore di Jan Karski nel Giardino dei Giusti presso il parco del Monte
Stella, tenutasi a Milano il 7 aprile 2011. Da sinistra: l’allora sindaco di Milano Letizia Moratti, l’interprete Amedeo Poggi, Ewa Wierzyńska del Museo di Storia della
Polonia; in seconda fila: l’allora console della Repubblica di Polonia in Milano Krzysztof Strzałka e Gabriele Nissim, fondatore di Gariwo. Per gentile concessione dell’associazione Gariwo, la foresta dei Giusti onlus.
INSERTO ICONOGRAFICO
174
Il 21 agosto è giunto a Milano il raid motociclistico Varsavia-Angers, effettuato dal
Warsaw Chapter of Harley Owners Group (HOG) lungo l’itinerario della prima missione di Jan Karski come emissario del governo clandestino polacco. Il raid è stato
organizzato dal Centrum Dialogu im. Marka Edelmana di Łódź e dal Warsaw Chapter HOG per celebrare il centesimo anniversario della nascita di Jan Karski,. Ha toccato Košice, Lubiana, Milano, Angers. A Milano, i partecipanti al raid e i membri di
alcuni chapter lombardi dell’HOG sono stati ricevuti dalla viceconsole Zuzanna
Schnepf Kołacz presso il Giardino dei Giusti, al parco del Monte Stella, dove si trovano gli alberi dedicati a Jan Karski e Marek Edelman.
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
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MARCO RIZZO, LELIO BONACCORSO, Jan Karski. L’uomo che scoprì l’Olocausto,
Rizzoli Lizard, Milano 2014, p. 58. Per gentile concessione.
INSERTO ICONOGRAFICO
176
MARCO RIZZO, LELIO BONACCORSO, Jan Karski. L’uomo che scoprì l’Olocausto,
Rizzoli Lizard, Milano 2014, p. 89. Per gentile concessione.
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
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MARCO RIZZO, LELIO BONACCORSO, Jan Karski. L’uomo che scoprì l’Olocausto,
Rizzoli Lizard, Milano 2014, p. 106. Per gentile concessione.
INSERTO ICONOGRAFICO
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MARCO RIZZO, LELIO BONACCORSO, Jan Karski. Człowiek, który odkrył Holokaust,
Wydawnictwo Alter, Kraków 2014, p. 7. Per gentile concessione
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI
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MARCO RIZZO, LELIO BONACCORSO, Jan Karski. Człowiek, który odkrył Holokaust,
Wydawnictwo Alter, Kraków 2014, p. 30. Per gentile concessione.
INSERTO ICONOGRAFICO
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MARCO RIZZO, LELIO BONACCORSO, Jan Karski. Człowiek, który odkrył Holokaust,
Wydawnictwo Alter, Kraków 2014, p. 65. Per gentile concessione
Gli autori di questo numero
LUCA BERNARDINI
È professore associato di Slavistica e insegna Letteratura e cultura polacca all’Università degli
Studi di Milano. Ha scritto una monografia sui Viaggiatori e i residenti polacchi a Firenze e curato l’edizione italiana di opere di Tadeusz Borowski, Miron Białoszewski, Wisława Szymborska,
Adam Zagajewski. Ha scritto saggi e articoli sulle rappresentazioni della Shoah nella letteratura
polacca ed è il curatore de La mia testimonianza davanti al mondo. Storia di uno Stato clandestino, Adelphi, Milano 2013, edizione italiana di Jan Karski, Story of a Secret State, Boston 1944.
MARCELLO FLORES
Insegna Storia comparata e Storia dei diritti umani all’Università di Siena, dove dirige anche lo
European Master in Human Rights and Genocide Studies. Ha compiuto soggiorni di studio e
periodi d’insegnamento a Berkeley, Cambridge, Parigi, Mosca e Varsavia, dove è stato per due
anni addetto culturale presso l’Ambasciata italiana. Dal 2006 al 2011 è stato Assessore alla Cultura del Comune di Siena. Tra i suoi lavori: Storia dei diritti umani (2008), La fine del comunismo (2011), Il genocidio degli armeni (2006), 1917. La rivoluzione (2007), Tutta la violenza di un
secolo (2005), Il secolo-mondo. Storia del Novecento (2001).
KONSTANTY GEBERT
È nato a Varsavia nel 1953 e lavora come reporter per «Gazeta Wyborcza», il più importante
quotidiano polacco. Negli anni Settanta del XX sec. ha fatto parte dell’opposizione democratica
al regime comunista, negli anni Ottanta ha iniziato a lavorare come giornalista clandestino (con
lo pseudonimo di Dawid Warszawski). È stato uno dei fondatori dell’Università ebraica volante
e del periodico di pensiero polacco-ebraico «Midrasz». Ha scritto una dozzina di libri, ad es. sui
negoziati tra potere politico e opposizione polacca tenutisi presso la cosiddetta “Tavola Rotonda”, sulla guerra nella ex Jugoslavia, sulla storia di Israele, nonché diversi commenti alla Torah.
GIULIA LAMI
È professore ordinario di Storia dell’Europa orientale presso l’Università degli Studi di Milano.
Membro di molte commissioni e associazioni internazionali, le sue pubblicazioni riguardano la
storia e la storiografia dell’Europa centro-orientale in epoca moderna e contemporanea. Tra
queste, oltre a vari articoli e saggi, si possono ricordare le monografie La questione ucraina fra ‘800
e ‘900 (2005), Ucraina 1921-1956 (2008), L’Europe centrale et orientale au XIXe siècle d’après les
voyages du romancier et journaliste suisse Victor Tissot (2013).
181
MACIEJ PODBIELKOWSKI
Nato a Varsavia nel 1962, si è laureato in Storia all’Università di Varsavia nel 1987; ha lavorato
come assistente (adjunkt) presso l’Istituto di Storia dell’Università di Varsavia dal 1988 al 1996.
Successivamente, dal 1996 al 2006, è stato insegnante di storia nei licei; dal 2006 lavora al Museo
dell’Insurrezione di Varsavia (1944) come specialista della didattica e guida per i visitatori.
MARCO RIZZO
È
giornalista, scrittore e sceneggiatore. Ha scritto per «L’Unità», «Wired», «Il Corriere della Se-
ra» e altre testate. Autore del libro inchiesta Supermarket mafia. A tavola con cosa nostra e della
fiaba L’invasione degli scarafaggi. La mafia spiegata ai bambini, è noto soprattutto per le numerose graphic novel, tra cui Peppino Impastato. Un giullare contro la mafia, vincitore del Premio
Giancarlo Siani, Ilaria Alpi. Il prezzo della verità, vincitore del Premio Micheluzzi, e Jan Karski.
L’uomo che scoprì l’Olocausto. I suoi libri sono stati pubblicati in Polonia, Francia, Spagna, Stati
Uniti e Olanda e tavole da suoi fumetti sono state esposte a Parigi, Seoul e al MAR di Ravenna.
PAWEŁ STASIKOWSKI
Laureato in Filologia italiana all’Università Jagellonica di Cracovia, ha iniziato a lavorare in diplomazia nel 1995. Negli anni 1996-2001 è stato prima viceconsole e poi console presso il Consolato della Repubblica di Polonia in Milano, quindi Consigliere presso il Cerimoniale Diplomatico MAE a Varsavia. Dal 2006 al 2010 è stato vicedirettore dell’Istituto Polacco di Roma. Nel
2010 rientra a Varsavia al Cerimoniale Diplomatico MAE e ne diviene il vicedirettore. Capo del
182
“protocollo della presidenza” durante la presidenza della Polonia nel Consiglio dell’UE nel
2011. A febbraio del 2013 assume a Roma la carica di Direttore dell’Istituto Polacco e Primo Consigliere per gli affari culturali dell’Ambasciata della Repubblica di Polonia. Fino al 31 dicembre
2015 presidente del Cluster EUNIC Roma (European Union National Institutes for Culture).
GIOVANNA TOMASSUCCI
È professore associato di Letteratura polacca all’Università di Pisa. Nella sua attività di ricerca
ha affrontato i temi della cultura del Rinascimento, Barocco, Romanticismo, della letteratura tra
le due guerre e del secondo Novecento in Polonia. È autrice di oltre un centinaio fra contributi
critici e traduzioni dal polacco. Ha curato, fra gli altri: Julian Tuwim, Noi ebrei polacchi (2009);
Tadeusz Borowski, Da questa parte, per il gas (2009); Hanna Krall, Il dibbuk e altre storie (1997).
Tra i suoi progetti, un libro dedicato agli scrittori ebrei polacchi della prima metà del Novecento.
EWA WIERZYŃSKA
Lavora al Museo di Storia della Polonia di Varsavia come addetta alle relazioni internazionali ed
è la responsabile del programma educativo Jan Karski. Una missione incompiuta. È stata la vicedirettrice del Museo della Storia degli Ebrei Polacchi. Laureata alla Szkoła Główna Handlowa e
all’Università di Varsavia, è autrice di numerosi libri e articoli nel campo della divulgazione storica. Emigrata dalla Polonia nel 1984 per motivi politici, ha trascorso vent’anni negli Stati Uniti,
lavorando come giornalista freelance, nel campo delle pubbliche relazioni e della pubblicità. Tra
il 1992 e il 2000 ha abitato a Washington, dove ha conosciuto Jan Karski. Dal suo ritorno in Polonia nel 2005 ha dedicato gran parte del suo tempo a mantenere vivo il ricordo di Karski.

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