Leggi il PDF della recensione di Libero
Transcript
Leggi il PDF della recensione di Libero
Ad Aosta le foto in bianco e nero di Freed dedicate all’Italia Margaret Atwood vince il premio «Pen Club Harold Pinter» Un importante corpus di cento opere, omaggio alla fotografia internazionale d’autore, è esposto al Centro Saint-Bénin di Aosta fino al 20 settembre, nella mostra «Leonard Freed. Io amo l’Italia», a cura di Enrica Viganò: una ricca selezione di immagini in bianco e nero scattate dal fotografo Usa, membro della celebre agenzia Magnum, in diverse città fra cui Firenze, Milano, Napoli, Roma, Venezia e in piccole località, dalla metà del ’900 agli inizi del nuovo secolo. È la scrittrice canadese Margaret Atwood la vincitrice dell’edizione 2016 del Pen Club Harold Pinter Prize. L’autrice riceverà il riconoscimento il 13 ottobre durante una cerimonia alla British Library di Londra. Nell’occasione, Atwood sarà in Inghilterra per un tour di presentazione del suo nuovo romanzo Hag-Seed. Il premio, fondato nel 2009, è attribuito a scrittori che hanno «la forza intellettuale e la determinazione di raccontare la verità della realtà della società in cui vivono». Un mito fatto a pezzi Una gnocca al giorno toglie Freud di torno Nel romanzo di Bianchi l’amore appare più curativo delle sedute psicanalitiche: per superare la depressione meglio un giro, anche casto, per i night che il lettino di un dottore con la barba ::: GIORDANO TEDOLDI Fondata a Belgirate ■■■ Se si scrive un romanzo in Un’Associazione per tenere vive le idee di Oneto cui il protagonista soffre di disturbi psichici, in particolare dell’incursione nel quotidiano di episodi depressivi che lo sopraffanno, gli accostamenti letterari a Giuseppe Berto, a Ottiero Ottieri e anche al Tiziano Sclavi romanziere (un nome che non sfigura affatto con i due precedenti) sono inevitabili. Paolo Bianchi, firma delle pagine culturali di Libero, nel suo L’intelligenza è un disturbo mentale (Cairo, pp. 180, euro 13), cita di passaggio proprio Ottieri. La scena è di quelle più memorabili dopo la lettura: gli incontri, immancabilmente deludenti, di Emilio Rivolta, il protagonista, con uno degli psicoanalisti da cui cercherà un po’ di sollievo, e se non la guarigione, in cui non crede, una cura. È lo studio del dottor Scheggia: «Lui dietro la scrivania che era una cattedra di scuola, io davanti su una poltroncina. Intorno pareti incombenti di libri, libri di filosofia, soprattutto, io di solito guardavo alla mia sinistra dove c’era la finestra, e i miei occhi incontravano un libro di Ottiero Ottieri, intitolato De morte. Un’altra volta ho notato due libri che non mi piacevano, uno di Moravia e uno di Galimberti. Gliel’ho detto, lui mi ha guardato dietro gli occhiali con la montatura spessa. “Neanche a me piacciono molto”». Il romanzo di Bianchi, che ha una trama, e può essere rapidamente riassunta nella storia di un giornalista freelance,con forti rimpianti per quanto non ha potuto fare, dalla sua adolescenza in avanti, e annessi sensi di colpa, nonostante il trasferimento dalla Città Piccola, in cui è nato, alla Città Grande, in cui ha trovato una professione, e di come questo “vinto”, si scopra in realtà un “Segnato”, e di questa scoperta riesca però a fare di lui tutt’altro che un individuo massificato, imbelle, inerme com’egli teme di essere, non è però la cosa più interessante del libro, che di bellezze ne ha molte. Il romanzo parte piano, sembra che Bianchi stia rimuginando un inizio, ma è dalle nebbie di questa confusione mentale che persiste per alcune facciate, come quella del “poeta” della canzone di Bruno Lauzi, che emerge una lucidità implacabile nelle pagine successive, in cui Emilio, il narratore, diventa una delle voci psicopatologiche più esperte, scaltre e affidabili, davvero degne dei mira- ::: GIANLUCA MARCHI ■■■ Sono passati sette mesi da quando IL PADRINO IN ANALISI Robert De Niro (a sinistra) e Billy Cristal in una scena del film «Terapia e pallottole» (1999) di Harold Ramis. Di fianco, la copertina del romanzo di Paolo Bianchi bili affabulatori di Berto o Ottieri. Così giustamente l’editore, nelle descrizioni editoriali, parla dei rapporti di Emilio con le entraîneuses dei locali che è solito frequentare fino alle luci dell’alba,e dalle quali trae molto più giovamento, quanto a terapia della parola - gli incontri sessuali sono rari ed esitano in una prestazione cui ben corrisponderebbe un calcistico s.v.: senza voto - che non i lettini freudiani o le poltroncine junghiane, ma se il messaggio è quello, di non pochi discepoli ereticidiFreud,come Groddeck e Ferenczi, che l’amore, anche carnale, e sia pure meretricio, è più curativo delle sedute verbali psicoanalitiche; e che a ogni modo meglio è seguire una concreta terapia farmacologica rispetto all’am- biguo affidarsi ai dottor Scheggia che poi se ne vanno in vacanza con la segretaria e, raggiunti telefonicamente durante una crisi, raccomandano di bere, mangiare cibi freschi, magari gelati, e riposare, possiamo dire che Bianchi,appunto, non è il primo a proporcelo. Ma la descrizione di quelle sale d’attesa, di quegli studi e, soprattutto, di quelle facce, che sono costitutive di tutto il mito della psicoanalisi, questo sì, è un inedito in letteratura: «Io pensavo a quelle barbe, quelle barbe che nascondono le facce, che circondano quelle bocche che non parlano mai, non si sbilanciano mai. Non è che avere a che fare con una maschera renda più facile prender confidenza, e poi anche il dottor Tarchetti ce l’aveva avuta la sua, ben curata, corrispondeva al suo carattere accomodante, perché non era un medico. Ma io non smettevo di pensare che ce l’avesse solo perché l’aveva avuta Freud. La barba del dottor Scheggia era più selvaggia per quanto selvaggia in modo ben allestito». Uno scorcio fisiognomico perfetto: la barba per lo psicoanalista è come quegli scrittori che se ne vanno in giro con la biro ben visibile nel taschino, non sia mai che li si scambi per camionisti. L’intonazione di Emilio, solitamente indulgente, si fa a tratti sarcastica: «Hanno la barba perché Freud aveva la barba e Jung aveva i baffi perché aveva litigato con Freud. Lacan invece aveva la faccia sgombra,per questo era più innovativo e il suo nome si pronunciava “Lacòn” con la o nasalizzata. Chi lo pronunciava bene, l’aveva capito bene, ma questa è una cosa che in analisi non ho mai detto, ci sono tante cose che in analisi non ho mai detto nonostante gli anni, ecco perché sono qui a dirla adesso». Poi sì, c’è il plot, di come Emilio condivida le sue esperienze in una terapia di gruppo, e di come si imbarchi, assieme con una sua ex compagna di scuola ritrovata, nel salvataggio di uno dei suoi compagni“picchiatelli”. Ma la novità e la bellezza del romanzo sta nello scoprire l’umanità profonda della depressione, la potenza della sua solidarietà, e la capacità diproiettare in mondi alieni, lunari - bellissima la visione del locale notturno immerso nei campi fuori dalla città, e il passaggio rituale davanti alla “cattedrale”, cioè la raffineria - le virtù animiche di questi Segnati. Gilberto Oneto se n’è andato e domenica scorsa a Belgirate, il piccolo centro sul lago Maggiore (sponda piemontese) dove aveva scelto di vivere, ha mosso i suoi primipassi l’Associazione a luidedicata, un’iniziativa fortemente voluta dalla moglie Daniela Piolini e che riunisce un gruppo di amici, colleghi ed estimatori. Architetto paesaggista, intellettuale, libero pensatore, storico, disegnatore, commentatore:Oneto è stato tutto questo e anche molto di più, e negli ultimi anni della sua vita (stroncata troppo presto da un male incurabile) è stato prezioso collaboratore anche di Libero. A Belgirate circa 200 persone si sono ritrovate per rendere omaggio a un personaggio irripetibile per il mondo indipendentista e autonomista padano, un punto di riferimento anche quando aveva deciso di lasciare la Lega, osteggiato senza sosta da quelli che lui considerava i «leccapiedi» diBossi,i quali temevano la sua straordinaria sintonia col popolo leghista della prima ora, la sua totale libertà di giudizio su qualsiasi argomento, la sua idiosincrasia con l’idea di piegare o ancora peggio rinnegare le proprie idee al servizio di un tornaconto personale. È stato, Gilberto Oneto, un intellettuale organico alle idee di libertà, di autonomia e di autodeterminazione dei popoli, e non certo una mente al servizio di un partito. E nella giornata inaugurale dell’Associazione Gilberto Oneto, che i soci fondatori hanno voluto far presiedere da chi scrive, sul palco sono sfilati gli amici di una vita: Alessandro Vitale, Stefano Bruno Galli, Sergio Salvi, Romano Bracalini, Paolo Gulisano e i colleghi architetti Valerio Cozzi e Paolo Villa. Tutti hanno testimoniato l’unicità e la straordinarietà di questo personaggio, che ha ricevuto anche l’omaggio, via collegamento telefonico, del leader leghista Matteo Salvini, uno dei pochi dirigenti, se non il solo, che non ha avuto responsabilità nell’uscita di Oneto da via Bellerio, al punto che i due hanno mantenuto fino all’ultimo un rapporto personale intenso, che non ha tuttavia impedito a Gilberto di criticare la linea politica voluta dal segretario a partire dal 2015. Domenica è stato presentato anche il volume Gilberto Oneto. L’avventura di un uomo libero, edito da il Cerchio a cura dell’Associazione. Lo si può avere aderendo all’Associazione stessa oppure richiedendolo su www.associazionegilbertooneto.org. © RIPRODUZIONE RISERVATA © RIPRODUZIONE RISERVATA