4-Appunti per una storia dei taxi lagunari

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4-Appunti per una storia dei taxi lagunari
Alcuni appunti per una storia dei motoscafi lagunari.
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La motorizzazione delle imbarcazioni ha salde radici storiche nelle competizioni, per le
quali incominciò la progettazione e la ingegnerizzazione dei motoscafi. Molti nome famosi
di progetti aeronautici di inizio secolo sono legati anche al disegno di motoscafi od
‘idroplani’: Propulsi dai motori più potenti allora disponibili – quelli aeronautici che
raggiungevano a stento i cento cavalli – i primi motoscafi ad inizio secolo raggiungevano
però i 50- 60 nodi in acqua calma, grazie ad una costruzione estremamente leggera, con
tecnologia c.d. ‘lamellare’ e legni ad elevata resistenza, come il mogano. Col crescere
dell’interesse per le competizioni motoristiche, automobilistiche, aeree o nautiche che
fossero, anche la motonautica divenne sempre più popolare.
Il diporto motorizzato cominciò
intorno
al
1920,
un'attività
particolarmente d’elite. Prima di
quegli anni, i motori erano troppo
inaffidabili e pesanti per essere
usati con una minima continuità in
ambiente marino. Naturalmente,
non si parlava di produzione di
serie, il costo di una singola
imbarcazione era proibitivo per la
maggior parte dei comuni mortali.
Perfino il potente Henry Ford
rinunciò
all’idea
di
produrre
motoscafi che avrebbero dovuto montare il famoso ed economico motore Ford modello T.
Negli Stati Uniti, la prima produzione di serie vide la luce nel 1920: un motoscafo da 28
piedi (8.5 m) di lunghezza, con motore da 200 hp e velocità di circa 35 nodi. Costava
come una villetta in campagna. Nel 1922 fu fondata la Chris Craft, che tutt’ora è uno fra i
maggiori produttori mondiali di motoscafi. La Chris Craft, fra il 1926 ed il 1928, produsse
più del doppio delle imbarcazioni prodotte da tutti i suoi competitori messi insieme, e
standardizzò in modo sostanziale il disegno su nuove linee.
La carena aveva linee prodiere concave, con estremità affinata e specchio di poppa tronco
ed arrotondato. Minimo era la levata dei madieri, per esasperare le capacità velocistiche
anche a scapito della tenuta al mare. La propulsione era, senza eccezioni, costituita da un
motore entrobordo sistemato a centro scafo, e spesso erano presenti due pozzetti,
prodiero di guida e poppiero per i passeggeri. Anche se la sistemazione è poco pratica,
data la mancanza di un passaggio fra i due pozzetti, ciononostante quello era lo standard
del tempo. Il governo era meccanico diretto, con volante e trasmissione del moto con assi
rotanti: insieme al timone posto all’estrema poppa, garantiva un eccellente e docile
controllo anche a bassa velocità.
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Il motoscafo classico – la Chris Craft era negli anni Trenta il maggior produttore al mondo
– era quindi un oggetto di lusso, con
finiture costose e rivolto ad un pubblico
esigente e danaroso. Anche se la
Chris-Craft soffrì molto la crisi
economica del 1929 e la seguente
Depressione, il modello tipico del
‘runabout’ potente, con l’inconfondibile
pianta a ferro di cavallo, costruito in
mogano lucidato, fu sostanzialmente
l’unico disegno che ispirò i progettisti
fra il 1930 ed il 1950, anche in Europa.
La Seconda Guerra Mondiale raffreddò ulteriormente il mercato, che stentava già a
riprendersi dalla crisi economica: anche se il governo americano premeva sui produttori
perché mantenessero la produzione ‘civile’, allo scopo di rafforzare il morale, la
produzione bellica assorbì gran parte della capacità inventiva e di sviluppo nel settore.
Con la fine della guerra, comunque, la riconversione fu immediata e la conseguenza fu un
boom di produzione e vendita di costruzioni più economiche, che integravano molte
soluzioni produttive del tempo di guerra, come ad esempio l’uso del compensato marino
invece del mogano.
Questa prosperità generale non avvantaggiò molto il mercato dei motoscafi negli USA: si
affermavano altri modelli, altre tendenze di mercato, come i grandi cabinati ed i piccoli
cabinati detti commuters, più lenti ma più comodi. I cabinati divennero anche per la Chris
Craft la principale linea di prodotto, e di fatto l’unico nuovo modello sviluppato fra il 1950
ed il 1955 era il Chris Craft Cobra del 1955, con la esuberante potenza di 285 hp. Il Cobra
fu il tramonto definitivo del runabout classico in mogano: ne furono costruiti solo 160, e,
comunque, sia il ponte che le grandi
derive decorative erano ormai costruite
in vetroresina.
Anche se il Cobra 1955 incorporava la
vetroresina come elemento di lusso,
modernità e distinzione, non ci vollero
molti anni perché gli scafi costruiti
completamente
in
vetroresina
soppiantassero il costosissimo e
lavoratissimo legno di mogano. Minor
manutenzione, prestazioni migliori,
prezzi incomparabilmente più bassi
spinsero i produttori americani ad abbandonare il legno nel giro di pochi anni, e già ai
principi del 1960 non esistevano particamente più produttori negli Stati Uniti che
utilizzassero il legno di mogano per la costruzione di serie. Tanto la Chris Craft che la
Century, i due maggiori produttori, si convertirono alla vetroresina: l’ultimo cantiere ad
insistere sulla produzione di serie in legno per clientela sofisticata fu Garfield Wood, che
chiuse per fallimento nel 1971.
Negli anni Ottanta, il classico runabout in mogano era diventato un oggetto d’antiquariato
ricercato. Qualche produttore si azzardò allora a costruire limitate serie di replica dei
modelli più famosi – come il Cobra stesso – con rimotorizzazioni moderne ed accorgimenti
per contenere il prezzo. Il legno dell’Honduras ha sostituito il mogano delle Filippine, ha
fatto la comparsa l’elettronica e vengono rispettati gli standard moderni negli impianti
elettrici e nella strumentazione. Tutto quanto invece ‘dava l’impronta’, le sellerie in cuoio,
le ferramenta in bronzo nichelato e soprattutto la forma dello scafo, è rimasto inalterato.
L’unico tentativo noto di riedizione del
runabout tradizionale, il cui disegno rimase
sostanzialmente simile fra la metà degli
anni Venti e la metà degli Cinquanta, fu il
Mahogany di Raymond Hunt, motorizzato da
due MerCruiser per complessivi 800 hp, con
una velocità massima di oltre 40 nodi.
Realizzato su commissione, in unico
esemplare nel 1994 questo motoscafo fu
venduto a quasi mezzo milione di dollari.
In Italia
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Stranamente, mentre negli Stati Uniti negli
anni Cinquanta scompariva la costruzione in
mogano lamellare, la stessa conosceva nuovo
splendore in Italia.
Forte di una tradizione specifica nelle
imbarcazioni veloci per uso militare – i MAS,
erano costruiti originariamente a Venezia fra il
1915 ed il 1918 dalla SVAN, che non a caso
era anche costruttore di aeroplani – la
produzione italiana di imbarcazioni in legno lamellare era rinomata, anche se ben lontana
dalla produzione in serie. L'idea di una piccola unità navale costruita in legno, munita di
motori elettrici ed a scoppio, che, per l'alta velocità e il dislocamento contenuto offrisse un
minimo bersaglio e, nello stesso tempo avesse la possibilità di portare la sua offesa nel
cuore delle basi navali nemiche contro le navi ormeggiate, fu concepita dall'lng. Attilio
Bisio, Direttore del Cantiere Navale di Venezia nel 1914. La concezione originale, si
noterà, era quella velocistica, dei runabouts americani di venti anni dopo. Fra gli anni
Venti e Trenta in Italia il motoscafo (anzi, motòscafo o autoscafo, come si diceva allora)
rimase una stravaganza elitaria. Superate le vicende belliche, riguadagnato un minimo
benessere, anche in Italia si aprì uno spiraglio di mercato, anche se di dimensioni ben
lontane da quello d’oltre oceano.
Un cantiere lombardo sul lago d’Iseo, Riva, a partire dagli anni Cinquanta si era dedicato
alla costruzione di runabouts di chiara ispirazione americana, anzi, su linee e componenti
Chris Craft. Un suo tipico prodotto era il Tritone, lungo circa 8 metri e dotato di due motori
della stessa Chris Craft per
complessivi 360 hp, su due
assi con motori centrali.
Naturalmente, il Tritone, che
era in sostanza la copia
italiana del runabout Chris
Craft degli anni Trenta, era
costruito in mogano lamellare,
e conobbe un buon successo
di mercato. Nel 1962, il
Tritone venne sottoposto a
quello che ora si chiamerebbe restyling, un ringiovanimento delle linee, ed il nuovo
modello fu chiamato Aquarama. Complice un favorevole momento di boom economico, la
gradevolezza delle linee ed il lusso delle rifiniture, nonché la reputazione che Riva s’era
conquistato presso la clientela sofisticata, il Riva Aquarama fu immediatamente adottato
come simbolo della dolce vita da quello che allora si chiamava jet set.
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Il Riva Aquarama è ancora ritenuto il
più bel motoscafo mai realizzato al
mondo. Assolutamente elitario – negli
anni migliori ne venivano prodotti una
trentina all’anno solamente – era fra i
motoscafi quello che le Ferrari e le Roll
Royce erano separatamente fra le auto,
un concentrato di eleganza, buon
gusto, potenza ed esclusività.
L’Aquarama fu costruito fino al 1972 in
circa 300 esemplari, con lunghezze fra
gli 8 m originali ed gli 8.7 m degli ultimi
esemplari. Le potenze andavano dai
370 hp di inizio serie, fino ai 440 hp di
fine serie, per velocità intorno ai 42 nodi
Di fatto, non esistettero due Aquarama
identici: data la limitata produzione, e la cura maniacale per i dettagli, il disegno originale
degli Aquarama era in perpetua evoluzione. Quasi immediatamente l’Aquarama fu
affiancato dal SuperAquarama e
dall’Aquarama Special, di identica
lunghezza ma motorizzazione più
potente, fra i 580 hp dell’inizio serie ed
800 hp a fine serie, nel 1996.
Complessivamente ne furono costruiti
circa 800, contesi ora da collezionisti ed
amatori con quotazioni intorno ai 350
milioni di lire ad esemplare.
Fino all’ultimo, però, la motorizzazione
rimase nella classica sistemazione su
due assi tradizionali e motori al centro.
Il successo dello stile Riva naturalmente
creò emuli ed imitatori: lo stesso
cantiere
Riva
produsse
modelli
analoghi, di minori pretese, che però
riprendevano le caratteristiche principali
dell’ammiraglia. Ad esempio, il famoso
Ariston
degli
anni
’70
con
motorizzazione da 270 hp, che anche
conobbe un buon successo di vendita.
Tutto questo successo non sufficiente a Carlo Riva, che agli inizi degli anni Settanta fu
costretto a cedere il cantiere ad una azienda americana, che a sua volta in pochi anni
cedette nuovamente l’azienda al gruppo italiano Ferretti, ormai convertita alla produzione
in vetroresina.
Fra gli anni Trenta e Cinquanta, nella
laguna di Venezia i motoscafi di trasporto
passeggeri pubblici e privati utilizzavano
prevalentemente linee da motolancia
(motorlaunch), cioè carene tonde in legno
lamellare od a klinker, con unico motore a
prua e cabina passeggeri poppiera. Nella
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navigazione lagunare, questa configurazione era particolarmente indicata, perché le
esigenze di velocità erano forzatamente limitate.
Il tipico esemplare aveva la poppa tonda, la cabina passeggeri coperta, di forma che
ricordava il felze delle gondole – che al tempo era ancora in uso - e, naturalmente, la
cabina del pilota scoperta, come nelle auto di dieci anni prima e nelle carrozze a cavalli.
Il trasporto lagunare motorizzato conobbe nel
secondo dopoguerra una drastica necessità di
sviluppo e rinnovo del parco mezzi, e così, in
mancanza di alternative, si affermarono negli
anni Cinquanta i modelli runabout Chris Craft
od analoghi, originali o nelle copie allora
disponibili sul mercato italiano. Queste barche
assommavano un’apparenza di sportività
all’eleganza, ed erano gradite all’utente
medio, turista danaroso, in cerca di svago e di
esperienze gratificanti. Erano, come visto,
costruzioni esclusivamente in mogano
lamellare, con carene a V, basso angolo di levata dei madieri, motore al centro e potenze
esuberanti per velocità elevate, da 28 a 35 nodi.
La motorizzazione era naturalmente a
benzina, come d’obbligo allora, per motivi di
peso, su tutti i runabouts con pretese di
velocità. Assi ed eliche erano tradizionali.
Tendenzialmente il modello ‘tipo taxi’ era uno
scafo da 8-9 metri di lunghezza, con 100-150
hp, anche su un unico asse.
La disposizione interna complessiva, su due
pozzetti, e la mancanza di una cabina chiusa
erano punti negativi del runabout da diporto
dal punto di vista del trasporto passeggeri, e
molto presto si innestarono modifiche
funzionali per una miglior efficienza. La cabina chiusa fu il primo passo, seguito dalla
creazione verso poppa di un giardinetto aperto: rapidamente alcuni costruttori veneziani
(Celli, De Pellegrini) iniziarono una produzione in proprio, ovviamente su basi assai più
economiche degli esemplari originali da diporto a cui si ispiravano. La crescita di potenza
installata va di pari passo, fra il Cinquanta ed il Settanta, con l’evoluzione motoristica e con
l’offerta dei produttori, e si passa dai 100-150 hp iniziali ai 200-220 hp, fino a 300 in alcuni
casi. Nel 1974, con il brusco aumento del prezzo della benzina conseguente al primo
shock pretrolifero, l’invecchiamento della prima generazione di mototaxi e la disponibilità
sul mercato di motori entrobordo diesel di peso accettabile, spinse alla ricerca di
alternative. Cominciò la progressiva rimotorizzazione da benzina a diesel, con numerosi
problemi di adattamento: i motori diesel pesano comunque di più, spostano il centro di
gravità appruando la barca e creando problemi di governo. Inoltre, sono assai più
rumorosi, anche se consumano meno e di un combustibile meno costoso.
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Fondamentale fu l’uscita sul mercato, pochi anni prima, del ‘piede poppiero’
entrofuoribordo, costruito dalla americana Mercury (con il nome MerCruiser) e dalla
svedese Volvo Penta (con il nome Aquamatic), che iniziò ad apparire sul mercato italiano
nei primi anni Settanta. A Venezia, per ragioni principalmente commerciali si impose il
modello Volvo Penta. Era la soluzione che molti aspettavano, un complesso unico
elica+timone+riduttore+motore, disponibile sia diesel che benzina, che riduceva gli spazi
occupati dall’apparato motore in modo molto efficace, allontanando la fonte di rumore dai
passseggeri e liberando l’intera parte centrale dello scafo per la cabina.
Alla fine degli anni Settanta, di conseguenza, il disegno complessivo si stabilizzò su uno
scafo a V in compensato marino, lamellare o fiberglass, poppa a specchio, gruppo
entrofuoribordo Volvo da 120-180 hp, cabina centrale chiusa con giardinetto, ma con la
distribuzione dei pesi completamente diversa ed il modo di costruzione, la carena non ha più
nulla a che fare con quella lunga e filante dei runabouts, per non parlare di quella tonda
dei motorlaunchs. I taxi acquei in planata sono notevolmente sgraziati, perché
eccessivamente appoppati; in navigazione a lento moto, la prua troppo piena e corta è
manifestamente inadatta. Hanno in generale, per disegno, scarsa tenuta al mare, ma
questo non è in genere un difetto sentito; fra i pregi, rispetto ai runabouts, sono invece
molto più manovrabili, malgrado le dimensioni, anche per l’elevato rapporto potenza/dislocamento.
La progressiva e costante ricerca di economie nei costi di costruzione limitò sempre più
l’uso del costoso lamellare in mogano, e cominciò ad apparire il ben più economico
compensato marino. Le forme si semplificarono, il legno via via abbandonato nella
produzione corrente a favore della vetroresina – prima nella costruzione dello scafo, poi
nella coperta e nelle sovrastrutture - ormai trent’anni dopo che negli Stati Uniti lo si era
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abbandonato per ragioni identiche. Con i primi anni Ottanta la costruzione in vetroresina si
impose, su forme molto semplificate per facilitare il distacco della stampata dallo stampo,
specie nella zona di prua. Un disegno teoricamente tradizionale rimane nell’opera morta,
se si vuol definire tradizionale una linea elegantemente datata metà anni Sessanta, ma
che di tradizionale ha poco altro. Si conservano il caldo, elegante ed opulento legno
satinato originale come materiale di costruzione o di rifinitura, ma non la propulsione, e
neppure le linee di carena tonde ‘a goccia’. Va ricordato come i motoscafi da diporto loro
nonni erano in verità barche abbastanza poco marine, con potenze eccessive e spesso
mal sfruttate. Anche l’Aquarama, splendido oggetto di ebanisteria, dal punto di vista
idrodinamico è abbastanza scadente, come ben si vede in tutte le foto che lo ritraggono in
velocità. Non per nulla è più spesso fotografato da fermo.