Rassegna stampa 8 novembre 2016
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Rassegna stampa 8 novembre 2016
RASSEGNA STAMPA di martedì 8 novembre 2016 SOMMARIO “La più brutta campagna presidenziale del dopoguerra - commenta oggi Vittorio E. Parsi sulla prima pagina di Avvenire - è finalmente alle spalle: non ne sentiremo la mancanza. Alla fine vedremo se i soldi pesano più degli insulti: certo di idee se ne son viste poche dopo l’uscita di scena di Bernie Sanders. Per quello che abbiamo sentito, e per la caratura dei due candidati principali, sembra di essere tornati all’America bucolica, periferica e marginale di due secoli or sono, quella raccontata da Alexis de Tocqueville nel suo capolavoro La democrazia in America. Peccato che oggi ciò che succede nella politica americana influenzi la vita di tutti noi. Eppure, mai come in questa campagna, il mondo è sembrato assente dalla competizione. Non perché non fosse interessato o, per meglio dire, preoccupato. E neppure perché non fosse evocato come luogo da cui provenivano complotti o ingerenze (la Russia, la Cina, l’Arabia Saudita) o perché infestato di popoli da cui occorre proteggersi (i latinos, gli arabi). Ma per la sensazione amara e sgradevole che nessuno dei due intendesse indossare le insegne del 'leader dell’Occidente', più che appagato di poter e voler diventare, semplicemente, 'il capo degli Stati Uniti'. Al di là delle nefandezze di cui Hillary Cinton e Donald Trump si sono accusati negli ultimi mesi, resta un quadro miserevole dello stato di salute della più antica democrazia contemporanea: un processo di selezione sempre più lungo e costoso alla fine ha prodotto questa alternativa francamente deludente. Da un lato, un bislacco miliardario; dall’altro, una ex first lady in cerca di un riscatto anche personale. E l’America sullo sfondo. Se dovesse vincere Trump, la crisi del sistema partitico americano sarebbe definitiva e manifesta, tale da costringere a una sua integrale riforma. La vittoria di Clinton, paradossalmente, potrebbe illudere i democratici di essere ancora 'un partito' e non una confederazione di interessi tenuti insieme, soprattutto, dal denaro rastrellato dalla vincitrice. Di certo, delle due Americhe che si sono confrontate in queste settimane, nessuna appare capace di egemonizzare, sedurre, attrarre l’altra. Alla coalizione arcobaleno di Hillary sembrano sfuggire i millennials, i giovani dal futuro incerto nonostante la sempre più costosa istruzione e il ceto medio bianco e impoverito. Quest’ultimo, che una volta costituiva la spina dorsale del Paese, si è ritrovato in gran parte nei messaggi semplicistici e razzisti di Trump, convincendosi così sempre più di essere ormai solo la minoranza più consistente e, a un tempo, la meno rappresentata e la meno protetta. E i violenti disordini razziali che hanno accompagnato questa campagna sono lì a ricordarci che il rischio di una guerra civile strisciante, di una secessione contea per contea del 'grande Paese' non è per nulla irrealistico. Il nuovo presidente potrebbe così essere avvertito come 'legittimo' solo dai 'suoi', da una parte, ma non da tutti. Intendiamoci, è già capitato e anche a grandi presidenti, che però erano animati da una grande visione, da un progetto, come Abramo Lincoln. Ma sappiamo come andò a finire. Di sicuro, l’immagine della democrazia americana ne esce fortemente appannata e, con lei, della democrazia nel suo complesso. Tutte le democrazie occidentali sono infatti alle prese con una crescente faglia che le attraversa, una spaccatura tra l’establishment e quelli che ne contestano il sempre più marcato arrocco nei propri intollerabili privilegi. Ma non è solo questo a preoccupare. Ciò che ha rappresentato storicamente il punto di forza della democrazia sulle altre forme di governo è stato l’aver depotenziato il momento più rischioso per ogni regime politico: quello della transizione di potere. Il meccanismo delle elezioni competitive tra candidati che si rispettino reciprocamente, infatti, rende meno traumatico questo passaggio, lo trasforma in un momento più ordinario. A condizione però che tutti ne accettino l’esito, senza contestazioni a priori o senza il sospetto che il risultato possa essere stato falsato da brogli o complotti. Tutto ciò è stato messo in dubbio da questa brutta campagna e non sarà privo di conseguenze. Comunque vada a finire, una cosa è sicura: il 45° presidente degli Stati Uniti non godrà certamente di quello 'stato di grazia' nei confronti del mondo che accompagnò Barack Obama per un lungo periodo, ben superiore ai canonici primi 100 giorni della cosiddetta 'luna di miele'. Dovrà risalire il vento e non sarà impresa facile né scontata” (a.p.) 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 4 Seminatori di cambiamento Il Pontefice esorta i movimenti popolari a impegnarsi per contrastare la tirannia del denaro che genera diseguaglianza e violenza. E denuncia la bancarotta dell’umanità che si consuma sulla pelle dei migranti mentre si spendono somme scandalose per salvare le banche Pag 8 Catene spezzate Ai detenuti il Pontefice ricorda che la speranza non deve essere soffocata. Imparando dagli sbagli del passato si può cambiare vita e reinserirsi nella società Pag 8 Grido alla misericordia Con un gruppo di detenuti di Padova Pag 8 Un atto di clemenza Chiesto dal Papa all’Angelus LA REPUBBLICA Pag 42 Quel Dio crudele dei cattolici reazionari di Alberto Melloni Pag 46 Quando Gesù rese libera la Donna di Enzo Bianchi IL FOGLIO Pag 2 “Assurdo criminalizzare il denaro se si vuole il benessere dei poveri” di Matteo Matzuzzi Il Papa e la condanna dei soldi. Parla padre Robert Sirico WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT “In Italia nessuna invasione”. Calano gli immigrati musulmani di Andrea Tornielli La ricerca del Cesnur: sono il 32% contro il 54% dei cristiani. È boom di buddhisti “Dobbiamo essere duri con questa Europa che ci lascia soli” di Andrea Tornielli Vatican Insider intervista il cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, alla vigilia dei suoi 75 anni e dunque della presentazione della rinuncia al Papa. Sull’emergenza immigrati dice: serve un piano Marshall; l’atteggiamento della Ue è «un sintomo molto brutto per il futuro del continente» WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT Venezuela. Come Francesco arriva a salvare una nazione sull'orlo del baratro di Sandro Magister Passo dopo passo, la ricostruzione dell'intervento diretto del papa e dei suoi emissari nella crisi venezuelana. Con l'ex presidente spagnolo Zapatero tra i mediatori 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 3 Economia della condivisione, il futuro è sempre più sociale di Emanuela Citterio Lo scambio di beni e servizi nell’era di Internet. Cos’è veramente la “sharing economy” e come cambierà Pag 3 La disparità servita in mensa di Massimo Calvi L’Italia divisa del pasto a scuola IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IX Si torna ad assumere, Venezia tira la volata Occupazione: la Camera di Commercio stima un aumento di 18mila lavoratori dipendenti a fine anno. Turismo e imprese che innovano ed esportano in prima fila 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pagg 2 – 3 Navi fuori da San Marco. Marghera, sì alla bonifica di Alberto Vitucci Il ministro Delrio a Venezia, illustrati i progetti del governo. Scelto il presidente dell’Autorità portuale, sarà Stefano Corsini CORRIERE DEL VENETO Pag 11 La figlia di Gori: “Ero spensierata, quel giorno è finito tutto” di mo.zi. Incontro a Mestre 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 1 L’autogol delle barricate di Umberto Curi Il no profughi IL GAZZETTINO Pagg 4 – 5 Il Nordest “vota” Hillary, per Trump solo uno su 10 di Natascia Porcellato e Annamaria Bacchin Tre su quattro sceglierebbero l’ex First Lady per la Casa Bianca. Un altro 15% non si esprime Pag 21 Il Nordest vota Hillary perché è cambiata la percezione dell’America di Adriano Favaro … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La dinastia e l’anomalia di Massimo Gaggi America, l’ora della scelta Pag 1 La sfida maschi-femmine di Aldo Cazzullo Pag 1 Le metamorfosi della politica: la cattiveria non è più un tabù di Pierluigi Battista Pag 2 Ma chiunque vinca non risolleverà l’immagine Usa di Ian Bremmer LA REPUBBLICA Pag 1 L’onda da fermare di Mario Calabresi AVVENIRE Pag 1 Risalire il vento di Vittorio E. Parsi Usa: dopo l’orribile disfida Pag 4 I cattolici americani. Una “bussola” personale di Elena Molinari IL GAZZETTINO Pag 1 Ma la sfida europea piace a Palazzo Chigi di Alberto Gentili Pag 1 Il Pd spaccato e la scissione che non ci sarà di Alessandro Campi LA NUOVA Pag 1 Clinton – Trump, in corsa due sfidanti già vecchi di Gigi Riva Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 4 Seminatori di cambiamento Il Pontefice esorta i movimenti popolari a impegnarsi per contrastare la tirannia del denaro che genera diseguaglianza e violenza. E denuncia la bancarotta dell’umanità che si consuma sulla pelle dei migranti mentre si spendono somme scandalose per salvare le banche «Vi chiedo di continuare ad aprire strade e a lottare» perché «questo nostro dialogo, che si aggiunge agli sforzi di tanti milioni di persone che lavorano quotidianamente per la giustizia in tutto il mondo, sta mettendo radici». È l’esortazione rivolta da Papa Francesco ai partecipanti al terzo incontro mondiale dei movimenti popolari, ricevuti in udienza nell’Aula Paolo VI, nel pomeriggio di sabato 5 novembre. Fratelli e sorelle buon pomeriggio! In questo nostro terzo incontro esprimiamo la stessa sete, la sete di giustizia, lo stesso grido: terra, casa e lavoro per tutti. Ringrazio i delegati che sono venuti dalle periferie urbane, rurali e industriali dei cinque continenti, più di 60 Paesi, che sono venuti per discutere ancora una volta su come difendere questi diritti che radunano. Grazie ai Vescovi che sono venuti ad accompagnarvi. Grazie alle migliaia di italiani ed europei che si sono uniti oggi al termine di questo incontro. Grazie agli osservatori e ai giovani impegnati nella vita pubblica che sono venuti con umiltà ad ascoltare ed imparare. Quanta speranza ho nei giovani! Ringrazio anche Lei, Cardinale Turkson, per il lavoro che avete fatto nel Dicastero; e vorrei anche ricordare il contributo dell’ex Presidente uruguaiano José Mujica che è presente. Nel nostro ultimo incontro, in Bolivia, con maggioranza di latinoamericani, abbiamo parlato della necessità di un cambiamento perché la vita sia degna, un cambiamento di strutture; inoltre di come voi, i movimenti popolari, siete seminatori di cambiamento, promotori di un processo in cui convergono milioni di piccole e grandi azioni concatenate in modo creativo, come in una poesia; per questo ho voluto chiamarvi “poeti sociali”; e abbiamo anche elencato alcuni compiti imprescindibili per camminare verso un’alternativa umana di fronte alla globalizzazione dell’indifferenza: 1. mettere l’economia al servizio dei popoli; 2. costruire la pace e la giustizia; 3. difendere la Madre Terra. Quel giorno, con la voce di una “cartonera” e di un contadino, vennero letti, alla conclusione, i dieci punti di Santa Cruz de la Sierra, dove la parola cambiamento era carica di gran contenuto, era legata alle cose fondamentali che voi rivendicate: lavoro dignitoso per quanti sono esclusi dal mercato del lavoro; terra per i contadini e le popolazioni indigene; abitazioni per le famiglie senza tetto; integrazione urbana per i quartieri popolari; eliminazione della discriminazione, della violenza contro le donne e delle nuove forme di schiavitù; la fine di tutte le guerre, del crimine organizzato e della repressione; libertà di espressione e di comunicazione democratica; scienza e tecnologia al servizio dei popoli. Abbiamo ascoltato anche come vi siete impegnati ad abbracciare un progetto di vita che respinga il consumismo e recuperi la solidarietà, l’amore tra di noi e il rispetto per la natura come valori essenziali. È la felicità di “vivere bene” ciò che voi reclamate, la “vita buona”, e non quell’ideale egoista che ingannevolmente inverte le parole e propone la “bella vita”. Noi che oggi siamo qui, di origini, credenze e idee diverse, potremmo non essere d’accordo su tutto, sicuramente la pensiamo diversamente su molte cose, ma certamente siamo d’accordo su questi punti. Ho saputo anche di incontri e laboratori tenuti in diversi Paesi, dove si sono moltiplicati i dibattiti alla luce della realtà di ogni comunità. Questo è molto importante perché le soluzioni reali alle problematiche attuali non verranno fuori da una, tre o mille conferenze: devono essere frutto di un discernimento collettivo che maturi nei territori insieme con i fratelli, un discernimento che diventa azione trasformatrice “secondo i luoghi, i tempi e le persone”, come diceva sant’Ignazio. Altrimenti, corriamo il rischio delle astrazioni, di «certi nominalismi dichiarazionisti (slogans) che sono belle frasi ma che non riescono a sostenere la vita delle nostre comunità» (Lettera al Presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina, 19 marzo 2016). Sono slogan! Il colonialismo ideologico globalizzante cerca di imporre ricette sovraculturali che non rispettano l’identità dei popoli. Voi andate su un’altra strada che è, allo stesso tempo, locale e universale. Una strada che mi ricorda come Gesù chiese di organizzare la folla in gruppi di cinquanta per distribuire il pane (cfr. Omelia nella Solennità del Corpus Domini, Buenos Aires, 12 giugno 2004). Poco fa abbiamo potuto vedere il video che avete presentato come conclusione di questo terzo incontro. Abbiamo visto i vostri volti nelle discussioni su come affrontare “la disuguaglianza che genera violenza”. Tante proposte, tanta creatività, tanta speranza nella vostra voce che forse avrebbe più motivi per lamentarsi, rimanere bloccata nei conflitti, cadere nella tentazione del negativo. Eppure guardate avanti, pensate, discutete, proponete e agite. Mi congratulo con voi, vi accompagno e vi chiedo di continuare ad aprire strade e a lottare. Questo mi dà forza, questo ci dà forza. Credo che questo nostro dialogo, che si aggiunge agli sforzi di tanti milioni di persone che lavorano quotidianamente per la giustizia in tutto il mondo, sta mettendo radici. Vorrei toccare alcuni temi più specifici, che sono quelli che ho ricevuto da voi e che mi hanno fatto riflettere e che ora vi riporto, in questo momento. 1. Il terrore e i muri Tuttavia, questa germinazione, che è lenta - quella alla quale mi riferivo -, che ha i suoi tempi come tutte le gestazioni, è minacciata dalla velocità di un meccanismo distruttivo che opera in senso contrario. Ci sono forze potenti che possono neutralizzare questo processo di maturazione di un cambiamento che sia in grado di spostare il primato del denaro e mettere nuovamente al centro l’essere umano, l’uomo e la donna. Quel “filo invisibile” di cui abbiamo parlato in Bolivia, quella struttura ingiusta che collega tutte le esclusioni che voi soffrite, può consolidarsi e trasformarsi in una frusta, una frusta esistenziale che, come nell’Egitto dell’Antico Testamento, rende schiavi, ruba la libertà, colpisce senza misericordia alcuni e minaccia costantemente altri, per abbattere tutti come bestiame fin dove vuole il denaro divinizzato. Chi governa allora? Il denaro. Come governa? Con la frusta della paura, della disuguaglianza, della violenza economica, sociale, culturale e militare che genera sempre più violenza in una spirale discendente che sembra non finire mai. Quanto dolore e quanta paura! C’è - l’ho detto di recente - c’è un terrorismo di base che deriva dal controllo globale del denaro sulla terra e minaccia l’intera umanità. Di questo terrorismo di base si alimentano i terrorismi derivati come il narco-terrorismo, il terrorismo di stato e quello che alcuni erroneamente chiamano terrorismo etnico o religioso. Ma nessun popolo, nessuna religione è terrorista! È vero, ci sono piccoli gruppi fondamentalisti da ogni parte. Ma il terrorismo inizia quando «hai cacciato via la meraviglia del creato, l’uomo e la donna, e hai messo lì il denaro» (Conferenza stampa nel volo di ritorno del Viaggio Apostolico in Polonia, 31 luglio 2016). Tale sistema è terroristico. Quasi cent’anni fa, Pio XI prevedeva l’affermarsi di una dittatura economica globale che chiamò «imperialismo internazionale del denaro» (Lett. enc. Quadragesimo anno, 15 maggio 1931, 109). Sto parlando dell’anno 1931! L’aula in cui ora ci troviamo si chiama “Paolo VI”, e fu Paolo VI che denunciò quasi cinquant’anni fa, la «nuova forma abusiva di dominio economico sul piano sociale, culturale e anche politico» (Lett. ap. Octogesima adveniens, 14 maggio 1971, 44). Anno 1971. Sono parole dure ma giuste dei miei predecessori che scrutarono il futuro. La Chiesa e i profeti dicono, da millenni, quello che tanto scandalizza che lo ripeta il Papa in questo tempo in cui tutto ciò raggiunge espressioni inedite. Tutta la dottrina sociale della Chiesa e il magistero dei miei predecessori si ribella contro l’idolo denaro che regna invece di servire, tiranneggia e terrorizza l’umanità. Nessuna tirannia si sostiene senza sfruttare le nostre paure. Questo è una chiave! Da qui il fatto che ogni tirannia sia terroristica. E quando questo terrore, che è stato seminato nelle periferie con massacri, saccheggi, oppressione e ingiustizia, esplode nei centri con diverse forme di violenza, persino con attentati odiosi e vili, i cittadini che ancora conservano alcuni diritti sono tentati dalla falsa sicurezza dei muri fisici o sociali. Muri che rinchiudono alcuni ed esiliano altri. Cittadini murati, terrorizzati, da un lato; esclusi, esiliati, ancora più terrorizzati, dall’altro. È questa la vita che Dio nostro Padre vuole per i suoi figli? La paura viene alimentata, manipolata... Perché la paura, oltre ad essere un buon affare per i mercanti di armi e di morte, ci indebolisce, ci destabilizza, distrugge le nostre difese psicologiche e spirituali, ci anestetizza di fronte alla sofferenza degli altri e alla fine ci rende crudeli. Quando sentiamo che si festeggia la morte di un giovane che forse ha sbagliato strada, quando vediamo che si preferisce la guerra alla pace, quando vediamo che si diffonde la xenofobia, quando constatiamo che guadagnano terreno le proposte intolleranti; dietro questa crudeltà che sembra massificarsi c’è il freddo soffio della paura. Vi chiedo di pregare per tutti coloro che hanno paura, preghiamo che Dio dia loro coraggio e che in questo anno della misericordia possa ammorbidire i nostri cuori. La misericordia non è facile, non è facile... richiede coraggio. Per questo Gesù ci dice: «Non abbiate paura» (Mt 14, 27), perché la misericordia è il miglior antidoto contro la paura. È molto meglio degli antidepressivi e degli ansiolitici. Molto più efficace dei muri, delle inferriate, degli allarmi e delle armi. Ed è gratis: è un dono di Dio. Cari fratelli e sorelle, tutti i muri cadono. Tutti. Non lasciamoci ingannare. Come avete detto voi: «Continuiamo a lavorare per costruire ponti tra i popoli, ponti che ci permettano di abbattere i muri dell’esclusione e dello sfruttamento» (Documento Conclusivo del II Incontro mondiale dei movimenti popolari, 11 luglio 2015, Santa Cruz de la Sierra, Bolivia). Affrontiamo il terrore con l’amore. Il secondo punto che voglio toccare è: l’Amore e i ponti. Un giorno come questo, un sabato, Gesù fece due cose che, ci dice il Vangelo, affrettarono il complotto per ucciderlo. Passava con i suoi discepoli per un campo da semina. I discepoli avevano fame e mangiarono le spighe. Niente si dice del “padrone” di quel campo... soggiacente è la destinazione universale dei beni. Quello che è certo è che, di fronte alla fame, Gesù ha dato priorità alla dignità dei figli di Dio su un’interpretazione formalistica, accomodante e interessata della norma. Quando i dottori della legge lamentarono con indignazione ipocrita, Gesù ricordò loro che Dio vuole amore e non sacrifici, e spiegò che il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato (cfr. Mc 2, 27). Affrontò il pensiero ipocrita e presuntuoso con l’intelligenza umile del cuore (cfr. Omelia, I Congreso de Evangelización de la Cultura, Buenos Aires, 3 novembre 2006), che dà sempre la priorità all’uomo e non accetta che determinate logiche impediscano la sua libertà di vivere, amare e servire il prossimo. E dopo, in quello stesso giorno, Gesù fece qualcosa di “peggiore”, qualcosa che irritò ancora di più gli ipocriti e i superbi che lo stavano osservando perché cercavano una scusa per catturarlo. Guarì la mano atrofizzata di un uomo. La mano, questo segno tanto forte dell’operare, del lavoro. Gesù restituì a quell’uomo la capacità di lavorare e con questo gli restituì la dignità. Quante mani atrofizzate, quante persone private della dignità del lavoro! Perché gli ipocriti, per difendere sistemi ingiusti, si oppongono a che siano guariti. A volte penso che quando voi, i poveri organizzati, vi inventate il vostro lavoro, creando una cooperativa, recuperando una fabbrica fallita, riciclando gli scarti della società dei consumi, affrontando l’inclemenza del tempo per vendere in una piazza, rivendicando un pezzetto di terra da coltivare per nutrire chi ha fame, quando fate questo state imitando Gesù, perché cercate di risanare, anche se solo un pochino, anche se precariamente, questa atrofia del sistema socio-economico imperante che è la disoccupazione. Non mi stupisce che anche voi a volte siate sorvegliati o perseguitati, né mi stupisce che ai superbi non interessi quello che voi dite. Gesù che quel sabato rischiò la vita, perché, dopo che guarì quella mano, farisei ed erodiani (cfr. Mc 3, 6), due partiti opposti tra loro, che temevano il popolo e anche l’impero, fecero i loro calcoli e complottarono per ucciderlo. So che molti di voi rischiano la vita. So - e lo voglio ricordare, e la voglio ricordare - che alcuni non sono qui oggi perché si sono giocati la vita... Per questo non c’è amore più grande che dare la vita. Questo ci insegna Gesù. Le 3-T, il vostro grido che faccio mio, ha qualcosa di quella intelligenza umile ma al tempo stesso forte e risanatrice. Un progetto-ponte dei popoli di fronte al progetto-muro del denaro. Un progetto che mira allo sviluppo umano integrale. Alcuni sanno che il nostro amico il Cardinale Turkson presiede adesso il Dicastero che porta questo nome: Sviluppo Umano Integrale. Il contrario dello sviluppo, si potrebbe dire, è l’atrofia, la paralisi. Dobbiamo aiutare a guarire il mondo dalla sua atrofia morale. Questo sistema atrofizzato è in grado di fornire alcune “protesi” cosmetiche che non sono vero sviluppo: crescita economica, progressi tecnologici, maggiore “efficienza” per produrre cose che si comprano, si usano e si buttano inglobandoci tutti in una vertiginosa dinamica dello scarto... Ma questo mondo non consente lo sviluppo dell’essere umano nella sua integralità, lo sviluppo che non si riduce al consumo, che non si riduce al benessere di pochi, che include tutti i popoli e le persone nella pienezza della loro dignità, godendo fraternamente la meraviglia del creato. Questo è lo sviluppo di cui abbiamo bisogno: umano, integrale, rispettoso del creato, di questa casa comune. Un altro punto è: Bancarotta e salvataggio. Cari fratelli, voglio condividere con voi alcune riflessioni su altri due temi che, insieme alle “3-T” e all’ecologia integrale, sono stati al centro dei vostri dibattiti degli ultimi giorni e sono centrali in questo periodo storico. So che avete dedicato una giornata al dramma dei migranti, dei rifugiati e degli sfollati. Cosa fare di fronte a questa tragedia? Nel Dicastero di cui è responsabile il Cardinale Turkson c’è una sezione che si occupa di queste situazioni. Ho deciso che, almeno per un certo tempo, quella sezione dipenda direttamente dal Pontefice, perché questa è una situazione obbrobriosa, che posso solo descrivere con una parola che mi venne fuori spontaneamente a Lampedusa: vergogna. Lì, come anche a Lesbo, ho potuto ascoltare da vicino la sofferenza di tante famiglie espulse dalla loro terra per motivi economici o violenze di ogni genere, folle esiliate l’ho detto di fronte alle autorità di tutto il mondo - a causa di un sistema socioeconomico ingiusto e delle guerre che non hanno cercato, che non hanno creato coloro che oggi soffrono il doloroso sradicamento dalla loro patria, ma piuttosto molti di coloro che si rifiutano di riceverli. Faccio mie le parole di mio fratello l’Arcivescovo Hieronymos di Grecia: «Chi vede gli occhi dei bambini che incontriamo nei campi profughi è in grado di riconoscere immediatamente, nella sua interezza, la “bancarotta” dell’umanità» (Discorso nel Campo profughi di Moria, Lesbos, 16 aprile 2016). Cosa succede al mondo di oggi che, quando avviene la bancarotta di una banca, immediatamente appaiono somme scandalose per salvarla, ma quando avviene questa bancarotta dell’umanità non c’è quasi una millesima parte per salvare quei fratelli che soffrono tanto? E così il Mediterraneo è diventato un cimitero, e non solo il Mediterraneo... molti cimiteri vicino ai muri, muri macchiati di sangue innocente. Nei giorni di questo incontro - lo dite nel video - quanti sono i morti nel Mediterraneo? La paura indurisce il cuore e si trasforma in crudeltà cieca che si rifiuta di vedere il sangue, il dolore, il volto dell’altro. Lo ha detto il mio fratello il Patriarca Bartolomeo: «Chi ha paura di voi non vi ha guardato negli occhi. Chi ha paura di voi non ha visto i vostri volti. Chi ha paura non vede i vostri figli. Dimentica che la dignità e la libertà trascendono la paura e trascendono la divisione. Dimentica che la migrazione non è un problema del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale, dell’Europa e della Grecia. È un problema del mondo» (Discorso nel Campo profughi di Moria, Lesbos, 16 aprile 2016). È, veramente, un problema del mondo. Nessuno dovrebbe vedersi costretto a fuggire dalla propria patria. Ma il male è doppio quando, davanti a quelle terribili circostanze, il migrante si vede gettato nelle grinfie dei trafficanti di persone per attraversare le frontiere, ed è triplo se arrivando nella terra in cui si pensava di trovare un futuro migliore, si viene disprezzati, sfruttati, e addirittura schiavizzati. Questo si può vedere in qualunque angolo di centinaia di città. O semplicemente non si lasciano entrare. Chiedo a voi di fare tutto il possibile; e di non dimenticare mai che anche Gesù, Maria e Giuseppe sperimentarono la condizione drammatica dei rifugiati. Vi chiedo di esercitare quella solidarietà così speciale che esiste tra coloro che hanno sofferto. Voi sapete recuperare fabbriche dai fallimenti, riciclare ciò che altri gettano, creare posti di lavoro, coltivare la terra, costruire abitazioni, integrare quartieri segregati e reclamare senza sosta come la vedova del Vangelo che chiede giustizia insistentemente (cfr. Lc 18, 1-8). Forse con il vostro esempio e la vostra insistenza, alcuni Stati e Organizzazioni internazionali apriranno gli occhi e adotteranno le misure adeguate per accogliere e integrare pienamente tutti coloro che, per un motivo o per un altro, cercano rifugio lontano da casa. E anche per affrontare le cause profonde per cui migliaia di uomini, donne e bambini vengono espulsi ogni giorno dalla loro terra natale. Dare l’esempio e reclamare è un modo di fare politica, e questo mi porta al secondo tema che avete dibattuto nel vostro incontro: il rapporto tra popolo e democrazia. Un rapporto che dovrebbe essere naturale e fluido, ma che corre il pericolo di offuscarsi fino a diventare irriconoscibile. Il divario tra i popoli e le nostre attuali forme di democrazia si allarga sempre più come conseguenza dell’enorme potere dei gruppi economici e mediatici che sembrano dominarle. I movimenti popolari, lo so, non sono partiti politici e lasciate che vi dica che, in gran parte, qui sta la vostra ricchezza, perché esprimete una forma diversa, dinamica e vitale di partecipazione sociale alla vita pubblica. Ma non abbiate paura di entrare nelle grandi discussioni, nella Politica con la maiuscola, e cito di nuovo Paolo VI: «La politica è una maniera esigente - ma non è la sola - di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri» (Lett. ap. Octogesima adveniens, 14 maggio 1971, 46). O questa frase che ripeto tante volte, e sempre mi confondo, non so se è di Paolo VI o di Pio XII: “La politica è una delle forme più alte della carità, dell’amore”. Vorrei sottolineare due rischi che ruotano attorno al rapporto tra i movimenti popolari e politica: il rischio di lasciarsi incasellare e il rischio di lasciarsi corrompere. Primo, non lasciarsi imbrigliare, perché alcuni dicono: la cooperativa, la mensa, l’orto agroecologico, le microimprese, il progetto dei piani assistenziali... fin qui tutto bene. Finché vi mantenete nella casella delle “politiche sociali”, finché non mettete in discussione la politica economica o la politica con la maiuscola, vi si tollera. Quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli, mi sembra a volte una specie di carro mascherato per contenere gli scarti del sistema. Quando voi, dal vostro attaccamento al territorio, dalla vostra realtà quotidiana, dal quartiere, dal locale, dalla organizzazione del lavoro comunitario, dai rapporti da persona a persona, osate mettere in discussione le “macrorelazioni”, quando strillate, quando gridate, quando pretendete di indicare al potere una impostazione più integrale, allora non ci si tollera, non ci si tollera più tanto perché state uscendo dalla casella, vi state mettendo sul terreno delle grandi decisioni che alcuni pretendono di monopolizzare in piccole caste. Così la democrazia si atrofizza, diventa un nominalismo, una formalità, perde rappresentatività, va disincarnandosi perché lascia fuori il popolo nella sua lotta quotidiana per la dignità, nella costruzione del suo destino. Voi, organizzazioni degli esclusi e tante organizzazioni di altri settori della società, siete chiamati a rivitalizzare, a rifondare le democrazie che stanno attraversando una vera crisi. Non cadete nella tentazione della casella che vi riduce ad attori secondari o, peggio, a meri amministratori della miseria esistente. In questi tempi di paralisi, disorientamento e proposte distruttive, la partecipazione da protagonisti dei popoli che cercano il bene comune può vincere, con l’aiuto di Dio, i falsi profeti che sfruttano la paura e la disperazione, che vendono formule magiche di odio e crudeltà o di un benessere egoistico e una sicurezza illusoria. Sappiamo che «finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali della inequità, non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema. L’inequità è la radice dei mali sociali» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 202). Per questo, l’ho detto e lo ripeto, «il futuro dell’umanità non è solo nelle mani dei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite. È soprattutto nelle mani dei popoli; nella loro capacità di organizzarsi ed anche nelle loro mani che irrigano, con umiltà e convinzione, questo processo di cambiamento» (Discorso al II incontro mondiale dei movimenti popolari, Santa Cruz de la Sierra, 9 luglio 2015). Anche la Chiesa può e deve, senza pretendere di avere il monopolio della verità, pronunciarsi e agire specialmente davanti a «situazioni in cui si toccano le piaghe e le sofferenze drammatiche, e nelle quali sono coinvolti i valori, l’etica, le scienze sociali e la fede» (Intervento al vertice di giudici e magistrati contro il traffico di persone e il crimine organizzato, Vaticano, 3 giugno 2016). Questo è il primo rischio: il rischio di lasciarsi incasellare e l’invito a mettersi nella grande politica. Il secondo rischio, vi dicevo, è lasciarsi corrompere. Come la politica non è una questione dei “politici”, la corruzione non è un vizio esclusivo della politica. C’è corruzione nella politica, c’è corruzione nelle imprese, c’è corruzione nei mezzi di comunicazione, c’è corruzione nelle chiese e c’è corruzione anche nelle organizzazioni sociali e nei movimenti popolari. È giusto dire che c’è una corruzione radicata in alcuni ambiti della vita economica, in particolare nell’attività finanziaria, e che fa meno notizia della corruzione direttamente legata all’ambito politico e sociale. È giusto dire che tante volte si utilizzano i casi di corruzione con cattive intenzioni. Ma è anche giusto chiarire che quanti hanno scelto una vita di servizio hanno un obbligo ulteriore che si aggiunge all’onestà con cui qualunque persona deve agire nella vita. La misura è molto alta: bisogna vivere la vocazione di servire con un forte senso di austerità e di umiltà. Questo vale per i politici ma vale anche per i dirigenti sociali e per noi pastori. Ho detto “austerità” e vorrei chiarire a cosa mi riferisco con la parola austerità, perché può essere una parola equivoca. Intendo austerità morale, austerità nel modo di vivere, austerità nel modo in cui porto avanti la mia vita, la mia famiglia. Austerità morale e umana. Perché in campo più scientifico, scientifico-economico, se volete, o delle scienze del mercato, austerità è sinonimo di aggiustamento... Non mi riferisco a questo, non sto parlando di questo. A qualsiasi persona che sia troppo attaccata alle cose materiali o allo specchio, a chi ama il denaro, i banchetti esuberanti, le case sontuose, gli abiti raffinati, le auto di lusso, consiglierei di capire che cosa sta succedendo nel suo cuore e di pregare Dio di liberarlo da questi lacci. Ma, parafrasando l’ex-presidente latinoamericano che si trova qui, colui che sia affezionato a tutte queste cose, per favore, che non si metta in politica, che non si metta in un’organizzazione sociale o in un movimento popolare, perché farebbe molto danno a sé stesso, al prossimo e sporcherebbe la nobile causa che ha intrapreso. E che neanche si metta nel seminario! Davanti alla tentazione della corruzione, non c’è miglior rimedio dell’austerità, questa austerità morale, personale; e praticare l’austerità è, in più, predicare con l’esempio. Vi chiedo di non sottovalutare il valore dell’esempio perché ha più forza di mille parole, di mille volantini, di mille “mi piace”, di mille retweets, di mille video su youtube. L’esempio di una vita austera al servizio del prossimo è il modo migliore per promuovere il bene comune e il progetto-ponte delle “3-T”. Chiedo a voi dirigenti di non stancarvi di praticare questa austerità morale, personale, e chiedo a tutti di esigere dai dirigenti questa austerità, che - del resto - li farà essere molto felici. Care sorelle e cari fratelli, la corruzione, la superbia e l’esibizionismo dei dirigenti aumenta il discredito collettivo, la sensazione di abbandono e alimenta il meccanismo della paura che sostiene questo sistema iniquo. Vorrei, per concludere, chiedervi di continuare a contrastare la paura con una vita di servizio, solidarietà e umiltà in favore dei popoli e specialmente di quelli che soffrono. Potrete sbagliare tante volte, tutti sbagliamo, ma se perseveriamo in questo cammino, presto o tardi, vedremo i frutti. E insisto: contro il terrore, il miglior rimedio è l’amore. L’amore guarisce tutto. Alcuni sanno che dopo il Sinodo sulla famiglia ho scritto un documento che ha per titolo “Amoris laetitia” - la “gioia dell’amore” - un documento sull’amore nelle singole famiglie, ma anche in quell’altra famiglia che è il quartiere, la comunità, il popolo, l’umanità. Uno di voi mi ha chiesto di distribuire un fascicolo che contiene un frammento del capitolo quarto di questo documento. Penso che ve lo consegneranno all’uscita. E quindi con la mia benedizione. Lì ci sono alcuni “consigli utili” per praticare il più importante dei comandamenti di Gesù. In Amoris laetitia cito un compianto leader afroamericano, Martin Luther King, il quale sapeva sempre scegliere l’amore fraterno persino in mezzo alle peggiori persecuzioni e umiliazioni. Voglio ricordarlo oggi con voi; diceva: «Quando ti elevi al livello dell’amore, della sua grande bellezza e potere, l’unica cosa che cerchi di sconfiggere sono i sistemi maligni. Le persone che sono intrappolate da quel sistema le ami, però cerchi di sconfiggere quel sistema [...] Odio per odio intensifica solo l’esistenza dell’odio e del male nell’universo. Se io ti colpisco e tu mi colpisci, e ti restituisco il colpo e tu mi restituisci il colpo, e così di seguito, è evidente che si continua all’infinito. Semplicemente non finisce mai. Da qualche parte, qualcuno deve avere un po’ di buon senso, e quella è la persona forte. La persona forte è la persona che è capace di spezzare la catena dell’odio, la catena del male» (n. 118; Sermone nella chiesa Battista di Dexter Avenue, Montgomery, Alabama, 17 novembre 1957). Questo lo ha detto nel 1957. Vi ringrazio nuovamente per il vostro lavoro, per la vostra presenza. Desidero chiedere a Dio nostro Padre che vi accompagni e vi benedica, che vi riempia del suo amore e vi difenda nel cammino dandovi in abbondanza la forza che ci mantiene in piedi e ci dà il coraggio per rompere la catena dell’odio: quella forza è la speranza. Vi chiedo per favore di pregare per me, e quelli che non possono pregare, lo sapete, pensatemi bene e mandatemi una buona onda. Grazie. Pag 8 Catene spezzate Ai detenuti il Pontefice ricorda che la speranza non deve essere soffocata. Imparando dagli sbagli del passato si può cambiare vita e reinserirsi nella società «C’è poca fiducia nella riabilitazione, nel reinserimento nella società. Ma in questo modo si dimentica che tutti siamo peccatori e, spesso, siamo anche prigionieri senza rendercene conto»: è quanto denunciato da Papa Francesco durante la messa celebrata domenica mattina, 6 novembre, nella basilica vaticana, in occasione del giubileo dei carcerati. Ecco la sua omelia. Il messaggio che la Parola di Dio oggi vuole comunicarci è certamente quello della speranza, di quella speranza che non delude. Uno dei sette fratelli condannati a morte dal re Antioco Epifane dice: «Da Dio si ha la speranza di essere di nuovo da lui risuscitati» (2 Mac 7, 14). Queste parole manifestano la fede di quei martiri che, nonostante le sofferenze e le torture, hanno la forza di guardare oltre. Una fede che, mentre riconosce in Dio la sorgente della speranza, mostra il desiderio di raggiungere una vita nuova. Allo stesso modo, nel Vangelo, abbiamo ascoltato come Gesù con una semplice risposta, ma perfetta, cancelli tutta la banale casistica che i sadducei gli avevano sottoposto. La sua espressione: «Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui» (Lc 20, 38), rivela il vero volto del Padre, che desidera solo la vita di tutti i suoi figli. La speranza di rinascere a una vita nuova, quindi, è quanto siamo chiamati a fare nostro per essere fedeli all’insegnamento di Gesù. La speranza è dono di Dio. Dobbiamo chiederla. Essa è posta nel più profondo del cuore di ogni persona perché possa rischiarare con la sua luce il presente, spesso turbato e offuscato da tante situazioni che portano tristezza e dolore. Abbiamo bisogno di rendere sempre più salde le radici della nostra speranza, perché possano portare frutto. In primo luogo, la certezza della presenza e della compassione di Dio, nonostante il male che abbiamo compiuto. Non esiste luogo nel nostro cuore che non possa essere raggiunto dall’amore di Dio. Dove c’è una persona che ha sbagliato, là si fa ancora più presente la misericordia del Padre, per suscitare pentimento, perdono, riconciliazione, pace. Oggi celebriamo il Giubileo della Misericordia per voi e con voi, fratelli e sorelle carcerati. Ed è con questa espressione dell’amore di Dio, la misericordia, che sentiamo il bisogno di confrontarci. Certo, il mancato rispetto della legge ha meritato la condanna; e la privazione della libertà è la forma più pesante della pena che si sconta, perché tocca la persona nel suo nucleo più intimo. Eppure, la speranza non può venire meno. Una cosa, infatti, è ciò che meritiamo per il male compiuto; altra cosa, invece, è il “respiro” della speranza, che non può essere soffocato da niente e da nessuno. Il nostro cuore sempre spera il bene; ne siamo debitori alla misericordia con la quale Dio ci viene incontro senza mai abbandonarci (cfr. Agostino, Sermo 254, 1). Nella Lettera ai Romani, l’apostolo Paolo parla di Dio come del «Dio della speranza» (Rm 15, 13). È come se volesse dire anche a noi: “Dio spera”; e per paradossale che possa sembrare, è proprio così: Dio spera! La sua misericordia non lo lascia tranquillo. È come quel Padre della parabola, che spera sempre nel ritorno del figlio che ha sbagliato (cfr. Lc 15, 11-32). Non esiste tregua né riposo per Dio fino a quando non ha ritrovato la pecora che si era perduta (cfr. Lc 15, 5). Se dunque Dio spera, allora la speranza non può essere tolta a nessuno, perché è la forza per andare avanti; è la tensione verso il futuro per trasformare la vita; è una spinta verso il domani, perché l’amore con cui, nonostante tutto, siamo amati, possa diventare nuovo cammino... Insomma, la speranza è la prova interiore della forza della misericordia di Dio, che chiede di guardare avanti e di vincere, con la fede e l’abbandono in Lui, l’attrattiva verso il male e il peccato. Cari detenuti, è il giorno del vostro Giubileo! Che oggi, dinanzi al Signore, la vostra speranza sia accesa. Il Giubileo, per la sua stessa natura, porta con sé l’annuncio della liberazione (cfr. Lv 25, 39-46). Non dipende da me poterla concedere, ma suscitare in ognuno di voi il desiderio della vera libertà è un compito a cui la Chiesa non può rinunciare. A volte, una certa ipocrisia spinge a vedere in voi solo delle persone che hanno sbagliato, per le quali l’unica via è quella del carcere. Io vi dico: ogni volta che entro in un carcere mi domando: “Perché loro e non io?”. Tutti abbiamo la possibilità di sbagliare: tutti. In una maniera o nell’altra abbiamo sbagliato. E l’ipocrisia fa sì che non si pensi alla possibilità di cambiare vita: c’è poca fiducia nella riabilitazione, nel reinserimento nella società. Ma in questo modo si dimentica che tutti siamo peccatori e, spesso, siamo anche prigionieri senza rendercene conto. Quando si rimane chiusi nei propri pregiudizi, o si è schiavi degli idoli di un falso benessere, quando ci si muove dentro schemi ideologici o si assolutizzano leggi di mercato che schiacciano le persone, in realtà non si fa altro che stare tra le strette pareti della cella dell’individualismo e dell’autosufficienza, privati della verità che genera la libertà. E puntare il dito contro qualcuno che ha sbagliato non può diventare un alibi per nascondere le proprie contraddizioni. Sappiamo infatti che nessuno davanti a Dio può considerarsi giusto (cfr. Rm 2, 1-11). Ma nessuno può vivere senza la certezza di trovare il perdono! Il ladro pentito, crocifisso insieme a Gesù, lo ha accompagnato in paradiso (cfr. Lc 23, 43). Nessuno di voi, pertanto, si rinchiuda nel passato! Certo, la storia passata, anche se lo volessimo, non può essere riscritta. Ma la storia che inizia oggi, e che guarda al futuro, è ancora tutta da scrivere, con la grazia di Dio e con la vostra personale responsabilità. Imparando dagli sbagli del passato, si può aprire un nuovo capitolo della vita. Non cadiamo nella tentazione di pensare di non poter essere perdonati. Qualunque cosa, piccola o grande, il cuore ci rimproveri, «Dio è più grande del nostro cuore» (1 Gv 3, 20): dobbiamo solo affidarci alla sua misericordia. La fede, anche se piccola come un granello di senape, è in grado di spostare le montagne (cfr. Mt 17, 20). Quante volte la forza della fede ha permesso di pronunciare la parola perdono in condizioni umanamente impossibili! Persone che hanno patito violenze o soprusi su loro stesse o sui propri cari o i propri beni... Solo la forza di Dio, la misericordia, può guarire certe ferite. E dove alla violenza si risponde con il perdono, là anche il cuore di chi ha sbagliato può essere vinto dall’amore che sconfigge ogni forma di male. E così, tra le vittime e tra i colpevoli, Dio suscita autentici testimoni e operatori di misericordia. Oggi veneriamo la Vergine Maria in questa statua che la raffigura come Madre che tiene tra le braccia Gesù con una catena spezzata, la catena della schiavitù e della prigionia. Ella rivolga su ciascuno di voi il suo sguardo materno; faccia sgorgare dal vostro cuore la forza della speranza per una vita nuova e degna di essere vissuta nella piena libertà e nel servizio al prossimo. Pag 8 Grido alla misericordia Con un gruppo di detenuti di Padova Nel pomeriggio di domenica 6 novembre, presso la residenza di Santa Marta, Papa Francesco ha incontrato un gruppo di detenuti della casa circondariale “Due Palazzi” di Padova. Uno di loro, Armand, ha rivolto al Pontefice le seguenti parole. Caro Papa Francesco, noi, umili carcerati, siamo qui davanti a te certi di rappresentare anche chi non c’è. Essere vicini a te è un dono, è una grande felicità per tutti noi. Oggi sarà, sicuramente, una giornata indimenticabile del nostro vivere da cristiani. Tu che hai percorso tante strade, ardue, dolorose e soprattutto con grande coraggio e semplicità, ci sei di esempio. Tu che hai portato la parola di Dio nei posti più infelici della terra, sei per noi un punto di riferimento. Tu, oggi, sei qui con noi e, ascoltandoci, inviti la nostra speranza di vivere la vita in maniera più serena, ci fai sentire in compagnia di nostro Signore che ha scelto te Francesco come suo rappresentante per farci capire quanto importante è la parola di Dio e quanto importanti siamo per Lui, noi, umili figli peccatori. Dalle nostre celle la domenica ti vediamo e preghiamo con te e per te. Nel mondo ci sono tanta sofferenza e tante atrocità che l’essere umano continua ad alimentare. Il tuo grido alla misericordia è quello di aiutare i più deboli, è da tanti accolto, ma troppi sordi, egoisti e senza fede non hanno orecchie. Tu, Papa Francesco, continua a parlare dalla tua finestra, noi ti ascoltiamo e preghiamo con te perché le persone cambino e si convertano. Noi carcerati conoscevamo il male, sappiamo cosa significa e per questo chiediamo perdono. Oggi abbracciati tutti insieme, noi carcerati ti chiediamo di guidarci e amarci come figli, nel nostro lungo percorso, per le nostre famiglie che insieme hanno sofferto in silenzio e ci hanno sorretto. Papa Francesco, oggi i nostri cuori ne formano uno, grande e pieno d’amore, ma mai come il tuo. Grazie per tutto quello che rappresenti e ci trasmetti. Pag 8 Un atto di clemenza Chiesto dal Papa all’Angelus «Sottopongo alla considerazione delle competenti autorità civili di ogni Paese la possibilità di compiere, in questo anno santo della misericordia, un atto di clemenza verso quei carcerati che si riterranno idonei a beneficiare di tale provvedimento». Lo ha chiesto il Papa all’Angelus recitato con i fedeli presenti in piazza San Pietro il 6 novembre dopo la celebrazione della messa per il giubileo dei detenuti. Prima della preghiera mariana il Papa ha commentato il vangelo domenicale. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! A pochi giorni di distanza dalla solennità di Tutti i Santi e dalla Commemorazione dei fedeli defunti, la Liturgia di questa domenica ci invita ancora a riflettere sul mistero della risurrezione dei morti. Il Vangelo (cfr. Lc 20, 27-38) presenta Gesù a confronto con alcuni sadducei, i quali non credevano nella risurrezione e concepivano il rapporto con Dio solo nella dimensione della vita terrena. E quindi, per mettere in ridicolo la risurrezione e in difficoltà Gesù, gli sottopongono un caso paradossale e assurdo: una donna che ha avuto sette mariti, tutti fratelli tra loro, i quali uno dopo l’altro sono morti. Ed ecco allora la domanda maliziosa rivolta a Gesù: quella donna, nella risurrezione, di chi sarà moglie (v. 33)? Gesù non cade nel tranello e ribadisce la verità della risurrezione, spiegando che l’esistenza dopo la morte sarà diversa da quella sulla terra. Egli fa capire ai suoi interlocutori che non è possibile applicare le categorie di questo mondo alle realtà che vanno oltre e sono più grandi di ciò che vediamo in questa vita. Dice infatti: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito» (vv. 34-35). Con queste parole, Gesù intende spiegare che in questo mondo viviamo di realtà provvisorie, che finiscono; invece nell’aldilà, dopo la risurrezione, non avremo più la morte come orizzonte e vivremo tutto, anche i legami umani, nella dimensione di Dio, in maniera trasfigurata. Anche il matrimonio, segno e strumento dell’amore di Dio in questo mondo, risplenderà trasformato in piena luce nella comunione gloriosa dei santi in Paradiso. I “figli del cielo e della risurrezione” non sono pochi privilegiati, ma sono tutti gli uomini e tutte le donne, perché la salvezza portata da Gesù è per ognuno di noi. E la vita dei risorti sarà simile a quella degli angeli (cfr. v. 36), cioè tutta immersa nella luce di Dio, tutta dedicata alla sua lode, in un’eternità piena di gioia e di pace. Ma attenzione! La risurrezione non è solo il fatto di risorgere dopo la morte, ma è un nuovo genere di vita che già sperimentiamo nell’oggi; è la vittoria sul nulla che già possiamo pregustare. La risurrezione è il fondamento della fede e della speranza cristiana! Se non ci fosse il riferimento al Paradiso e alla vita eterna, il cristianesimo si ridurrebbe a un’etica, a una filosofia di vita. Invece il messaggio della fede cristiana viene dal cielo, è rivelato da Dio e va oltre questo mondo. Credere alla risurrezione è essenziale, affinché ogni nostro atto di amore cristiano non sia effimero e fine a sé stesso, ma diventi un seme destinato a sbocciare nel giardino di Dio, e produrre frutti di vita eterna. La Vergine Maria, regina del cielo e della terra, ci confermi nella speranza della risurrezione e ci aiuti a far fruttificare in opere buone la parola del suo Figlio seminata nei nostri cuori. Al termine dell’Angelus, il Papa ha lanciato l’appello per il provvedimento di grazia ai detenuti, quindi ha parlato della conferenza di Marrakech sul clima, ha ricordato la beatificazione dei martiri albanesi e ha salutato i vari gruppi presenti. Cari fratelli e sorelle, in occasione dell’odierno Giubileo dei carcerati, vorrei rivolgere un appello in favore del miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri in tutto il mondo, affinché sia rispettata pienamente la dignità umana dei detenuti. Inoltre, desidero ribadire l’importanza di riflettere sulla necessità di una giustizia penale che non sia esclusivamente punitiva, ma aperta alla speranza e alla prospettiva di reinserire il reo nella società. In modo speciale, sottopongo alla considerazione delle competenti Autorità civili di ogni Paese la possibilità di compiere, in questo Anno Santo della Misericordia, un atto di clemenza verso quei carcerati che si riterranno idonei a beneficiare di tale provvedimento. Due giorni fa è entrato in vigore l’Accordo di Parigi sul clima del Pianeta. Questo importante passo avanti dimostra che l’umanità ha la capacità di collaborare per la salvaguardia del creato (cfr. Laudato si’, 13), per porre l’economia al servizio delle persone e per costruire la pace e la giustizia. Domani, poi, comincerà a Marrakech, in Marocco, la nuova sessione della Conferenza sul clima, finalizzata, tra l’altro, all’attuazione di tale Accordo. Auspico che tutto questo processo sia guidato dalla coscienza della nostra responsabilità per la cura della casa comune. Ieri a Scutari, in Albania, sono stati proclamati Beati trentotto martiri: due vescovi, numerosi sacerdoti e religiosi, un seminarista e alcuni laici, vittime della durissima persecuzione del regime ateo che dominò a lungo in quel Paese nel secolo scorso. Essi preferirono subire il carcere, le torture e infine la morte, pur di rimanere fedeli a Cristo e alla Chiesa. Il loro esempio ci aiuti a trovare nel Signore la forza che sostiene nei momenti di difficoltà e che ispira atteggiamenti di bontà, di perdono e di pace. Saluto tutti voi pellegrini, venuti da diversi Paesi: le famiglie, i gruppi parrocchiali, le associazioni. In particolare, saluto i fedeli di Sydney e di San Sebastián de los Reyes, il Centro Académico Romano Fundación e la Comunità cattolica venezuelana in Italia; come pure i gruppi di AdriaRovigo, Mendrisio, Roccadaspide, Nova Siri, Pomigliano D’Arco e Picerno. A tutti auguro una buona domenica. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci! LA REPUBBLICA Pag 42 Quel Dio crudele dei cattolici reazionari di Alberto Melloni La volgarità di un frate domenicano - che dai microfoni di Radio Maria ha letto il terremoto come una punizione ed è stato licenziato dopo una presa di posizione vaticana - ha aperto un piccolo squarcio su una religiosità integrista, solitamente invisibile. È un sottosuolo cattolico opaco e apprensivo, fatto di sentimenti reazionari: nell'eraFrancesco è spesso antipapale, da sempre è teologicamente approssimativo. Riprende il ritornello dell'intransigentismo dell'Otto-Novecento: per cui la modernità produce ribellioni contro le quali un Dio crudele, irriconoscibile alla fede biblica, reagisce mandando flagelli pedagogici. Quel pensiero antimoderno s'è sempre dotato di media "moderni" come i giornali, i movimenti, la radio, la tv. Nel mondo dell'ipercomunicazione questo pulviscolo integrista è diventato più invisibile. Siti e antenne, blog e social, somministrano paure su misura: le paure su quel che si insegna a scuola per i movimenti pro-vita, quelle dei preti tradizionalisti che danno alla xenofobia leghista profumo d'incenso, quelle del radicalismo familista che manifestano verso l'amore omosessuale il risentimento degli irrisolti. Basta ascoltare Radio Maria: che inculca in dosi quotidiane sospetti e inimicizie, con il suo leader, padre Livio Fanzaga che ogni giorno spiega leggendo i giornali dove sono i pericoli, chi sono gli avversari e soprattutto "smaschera" i traditori. Il tutto inframmezzato da momenti spirituali - per chi guida la notte o aspetta l'alba in ospedale, il rosario o l'ufficio divino sono meglio di Isoradio dietro ai quali traluce la pretesa di essere gli unici battaglieri in una chiesa molle, gli unici fedeli in una chiesa di codardi, gli unici cattolici in una chiesa di apostati. Le fantasticherie antibergogliane di Antonio Socci lì non suscitano compassione, ma ammirazione: la tesi del giornalista, nelle ore del terremoto, era che un vero pontefice avrebbe consacrato l'Italia alla Vergine Maria; e che Francesco non l'aveva fatto perché era un gesto "troppo cattolico" per un papa che egli ritiene grosso modo un usurpatore. È un mondo agli antipodi della autentica pietà popolare: essa è il modo in cui una comunità espropriata della liturgia dal protagonismo clericale trova spazi e linguaggi che nascono da quell'intuito credente che la dottrina cristiana chiama "sensus fidei". In questo mondo di mezzo, invece, la partita è molto politica. Anche se non sono ancora diventati la variante cattolica delle chiese televisive americane - il cui peso elettorale sul voto americano di oggi è stato ben stimato dal Pew Center - i fans dei blog e delle radio integriste esprimono sono una potenzialità politica perché nel mondo delle disaffezioni politiche rappresentano una fidelizzazione. La minaccia contro Renzi del raduno familista di Adinolfi - che giurava la vendetta della legge sulle unioni nelle urne del referendum era solo una di queste possibili declinazioni. Che però potrebbero domani trovare inattese convergenze nel grillismo, la cui cultura, tutta e solo di destra, non ignora che c'è sempre un cattolicesimo opportunista, pronto a "dialogare" con ogni potere disposto a farsene patrono. Che ad una voce onestamente minore come quella del padre Cavalcoli abbia reagito la Santa Sede in persona (non è usuale che il regista della politica italiana, il Sostituto, prenda la parola in modo così netto e categorico) dice che la chiesa di Bergoglio non sottovaluta quel che c'era di "politico" in quelle parole. Che il disastro naturale possa dar adito a questioni filosofiche l' Europa lo sa dal 1755, quando il terremoto di Lisbona permise a Voltaire di polemizzare con i virtuosismi della "teodicea", che giustificava Dio davanti alle catastrofi del mondo: ma onestamente padre Cavalcoli non è in quell'alveo... Appartiene piuttosto alla deriva che agitando temi reazionari ha fatto scivolare le chiese verso posizioni pericolose: come quelle della omonima Radio Maria polacca, che allarmò perfino Benedetto XVI nel 2006, quando i deliri antisemiti di quella emittente furono sanzionati, anche se senza grande successo. Oggi con la casa natale di san Benedetto patrono d'Europa che si sbriciola mentre si sbriciola l'Europa, la Santa Sede ha dato un segnale molto cristiano e molto politico. Là dove viene meno il buonsenso umano e il buoncuore cattolico, si annida un bisogno di odio: che è l'aria che si respira in questo paese lacerato e vulnerabile. Che ha pensato per molto tempo di potersi scegliere i suoi grandi problemi - la disoccupazione, la denatalità, le migrazioni, il terrorismo, la crisi economica - e l'ordine in cui affrontarli. Anziché chiedersi quanta umiltà e quanta coesione servono per essere pronti quando ciò che incombeva accade, presentando al domani il conto di molti ieri. Pag 46 Quando Gesù rese libera la Donna di Enzo Bianchi Gesù andò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio, e tutto il popolo veniva da lui; e sedutosi, insegnava loro. Ora, gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala in mezzo, gli dicono: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora, Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu dunque che ne dici?». Dicevano questo per metterlo alla prova, per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi giù, scriveva per terra con il dito. Ma poiché continuavano a interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma essi, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Ora, Gesù, alzatosi, le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ella disse: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch'io ti condanno. Va' e d'ora in poi non peccare più». Questo brano ha conosciuto una sorte particolarissima, che attesta il suo carattere scandaloso e imbarazzante: è stato infatti "censurato" dalla Chiesa! È assente nei manoscritti più antichi, è ignorato dai padri latini fino al IV secolo, per cinque secoli non è stato proclamato nella liturgia e non ci sono commenti a esso da parte dei padri greci del primo millennio. Al termine di un lungo e travagliato migrare tra i manoscritti è stato inserito nel vangelo secondo Giovanni, dopo il settimo capitolo e prima del versetto 15 dell'ottavo. Non è una scena insolita: spesso i vangeli annotano che gli avversari di Gesù tentano di metterlo in contraddizione con la Legge di Dio, per poterlo accusare di bestemmia, di disobbedienza al Dio vivente. A quegli scribi e farisei, in realtà, non importava nulla della donna, per loro era importante trovare motivi di condanna contro Gesù: non volevano lapidare l'adultera, ma far lapidare Gesù! Questi uomini religiosi fanno irruzione nell'uditorio di Gesù, portano davanti a lui una donna sorpresa in flagrante adulterio, la collocano in mezzo a tutti e si affrettano a dichiarare: «Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa». Tale dichiarazione sembra formalmente ineccepibile, perché cita la Legge; a uno sguardo attento, però, si coglie che il loro ricorso alla Torah è parziale. La Legge, infatti, prevedeva la pena di morte per entrambi gli adulteri e attestava la stessa pena, mediante lapidazione, mentre se erano già sposati allora si ricorreva allo strangolamento. Resta però altamente significativo che solo lei sia stata catturata e portata davanti a Gesù, mentre l'uomo che ha commesso adulterio con lei, e secondo la Legge è colpevole come lei, non risulta né imputato né condotto in giudizio! Cerchiamo di sostare per un momento su questa scena. Ci sono alcuni che hanno portato a Gesù una donna, perché sia condannata. Ma Gesù inizia a rispondere agli accusatori parlando con il corpo, non con parole: si china, abbassandosi, rompe il cerchio della «violenza mimetica» (René Girard), spezza il faccia a faccia con quei farisei e si mette a scrivere per terra, in assoluto silenzio. Dalla posizione di chi è seduto passa a quella di chi si china verso terra; di più, in questo modo si inchina di fronte alla donna che è in piedi davanti a lui! Poiché però gli accusatori insistono nell'interrogarlo, dopo quel lungo e per loro fastidioso silenzio riempito solo dal suo mimo profetico, Gesù si alza e non risponde direttamente alla questione postagli, ma fa un'affermazione che contiene in sé anche una domanda: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». Poi si china di nuovo e torna a scrivere per terra. Così una parola di Gesù, una parola sola ma incisiva (al punto da essere divenuta proverbiale) e autentica, una di quelle domande che ci scuotono e ci fanno leggere in profondità noi stessi, impedisce a quegli uomini di fare violenza in nome della Legge. Solo Dio, e quindi solo Gesù, potrebbe condannare quella donna. Ebbene, qui Gesù - mi si permetta di dire - "evangelizza" Dio, cioè rende Dio Vangelo, buona notizia per quella donna. Gesù, l'unico uomo che ha raccontato in pienezza di Dio, che ne è stato l'esegesi vivente, afferma che di fronte al peccatore, alla peccatrice, Dio ha un solo sentimento: non la condanna, non il castigo, ma il desiderio che si converta e viva. Gesù, inviato da Dio «non per condannare il mondo, ma per salvare il mondo» anche qui agisce come aveva annunciato all'inizio del suo ministero: «Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori». Solo quando tutti se ne sono andati egli si alza in piedi e sta di fronte alla donna. Lei, posta lì in piedi in mezzo a tutti, ora è finalmente restituita alla sua identità di donna e vede Gesù in piedi davanti a sé: così è possibile l'incontro vero. Infine, Gesù conclude questo incontro con un'affermazione straordinaria: «Neanch'io ti condanno. Va' e d'ora in poi non peccare più». Sono parole assolutamente gratuite e unilaterali. Ecco la gratuità di quella assoluzione: Gesù non condanna, perché Dio non condanna, ma con questo suo atto di misericordia preveniente offre a quella donna la possibilità di cambiare. Non sappiamo se questa donna perdonata dopo l'incontro con Gesù abbia cambiato vita; sappiamo solo che, affinché cambiasse vita e tornasse a vivere, Dio, che non vuole la morte del peccatore, l'ha perdonata attraverso Gesù e l'ha inviata verso la libertà: «Va', va' verso te stessa e non peccare più». Le persone religiose vorrebbero che a questo punto Gesù avesse detto alla donna: «Ti sei esaminata? Sai cosa hai fatto? Ne comprendi la gravità? Sei pentita della tua colpa? La detesti? Prometti di non farlo più? Sei disposta a subire la giusta pena?». Queste omissioni nelle parole di Gesù scandalizzano ancora, oggi come ieri! Nessuna condanna, solo misericordia: qui sta la grandezza e l'unicità di Gesù. Questo incontro tra Gesù e la donna sorpresa in adulterio non ci rivela solo la misericordia di Gesù, ma anche la sua capacità di difendere la donna da un cerchio di uomini, sempre pronti a giustificare se stessi e a condannare le donne. Purtroppo tutta la storia dei credenti, dell' antica come della nuova alleanza, testimonierà questo «occhio spione, esigente e condannante» degli uomini religiosi nei confronti delle donne, ritenute colpevoli per la loro condizione - dicono gli uomini - di creature sempre tentatrici e facili alla tentazione. Questo esempio di Gesù sarà poco compreso e ancor meno vissuto, ma sarà comunque memorizzato nel vangelo e vi saranno sempre lettori che vi troveranno una buona notizia. IL FOGLIO Pag 2 “Assurdo criminalizzare il denaro se si vuole il benessere dei poveri” di Matteo Matzuzzi Il Papa e la condanna dei soldi. Parla padre Robert Sirico Roma. "E' del tutto assurdo criminalizzare il denaro se la propria sincera preoccupazione è il benessere dei poveri. L'obiettivo finale della compassione morale non deve essere il continuare a lamentarsi della situazione dei meno abbienti. Per migliorare la loro condizione, almeno a un livello materiale, serve produrre ricchezza". Padre Robert Sirico è il presidente dell' Acton Institute for the study of religion and liberty, think tank americano che ha come finalità quella di "promuovere una società libera, virtuosa e umana". Con il Foglio commenta il lungo discorso pronunciato sabato dal Papa davanti ai movimenti popolari, riuniti in Vaticano per il loro terzo incontro mondiale. In quella sede, Francesco aveva rilanciato il j'accuse contro il denaro, "idolo che regna invece di servire, tiranneggia e terrorizza l'umanità". Denaro che, aveva proseguito il Papa, "governa con la frusta della paura, della diseguaglianza, della violenza economica, sociale, culturale e militare che genera sempre più violenza in una spirale discendente che sembra non finire mai. C'è un terrorismo di base che deriva dal controllo globale del denaro sulla terra e minaccia l'intera umanità". Da qui - aveva aggiunto - "il fatto che ogni tirannia sia terroristica. E quando questo terrore, che è stato seminato nelle periferie con massacri, saccheggi, oppressione e ingiustizia, esplode nei centri con diverse forme di violenza, persino con attentati odiosi e vili, i cittadini che ancora conservano alcuni diritti sono tentati dalla falsa sicurezza dei muri fisici o sociali". Certo, osserva Sirico, "si può abusare della ricchezza, sia nella sua produzione sia nel suo uso, e su questo non c'è dubbio. Ma ciò può accadere con tanti altri doni affidati all' essere umano. La ricchezza può avere un'origine e una finalità morale, come la sessualità, che se va nella direzione voluta da Dio diventa sacramento. Vorrei pensare che il Santo Padre non è in disaccordo con questo, anche perché per criminalizzare un tale processo dovrebbe abbandonare coloro che sono economicamente vulnerabili". L'attacco di Bergoglio è stato duro riguardo il sistema capitalistico in sé: "Cerco chiarimenti - dice il nostro interlocutore - e li trovo nell'enciclica Centesimus annus, al punto 42, dove Giovanni Paolo II scrive che 'se per capitalismo si intende' la libera economia radicata su princìpi morali e religiosi e situata in un contesto giuridico, allora il capitalismo è positivo". Il problema, semmai, è di conciliare l'idea di una libera economia con la dottrina sociale della chiesa. Il presidente dell' Acton Institute pensa che l'impresa sia ardua poiché "c'è confusione su ciò che significa, soprattutto se si ha a che fare non con attori economici liberi ma con uomini d' affari che non mettono al centro delle loro preoccupazioni l'essere umano. Questa è 'l'economia che uccide', non i mercati competitivi. Quando non si comprendono l'economia e il sistema dei mercati, risulta facile assicurare che i soggetti economici di successo diventino ricchi a scapito di altri. Questo è noto, in termini economici, come 'la fallacia della somma zero'". La dottrina sociale della chiesa è altra cosa, osserva Sirico, ma il fatto rilevante è che "a volte la gente ama così tanto le proprie politiche pur sapendo che queste produrranno più povertà". Il rischio è di guardare il problema in modo sbagliato, da una prospettiva non corretta se si dice, ad esempio, che il fondamentalismo è una conseguenza dell'idolatria del denaro. "Se si parte dal presupposto che tutti i mercati globali per loro stessa natura 'escludono le persone' e che questo è immorale e deve essere condannato, ebbene, questa allora è idolatria del denaro. Vi sono, tuttavia, altre due forme di ciò che potrebbe a ragione essere definito fondamentalismo economico. Ciò si ha quando, da un lato, si demonizza qualcuno per il semplice fatto che ha successo o, dall'altro lato, si canonizzano i poveri solo perché tale successo non l'hanno avuto. La prima forma è conosciuta come il Vangelo della prosperità, la seconda come Teologia della liberazione. Io preferisco - dice Robert Sirico - l'intuizione avuta da Madre Teresa di Calcutta, secondo cui noi non pensiamo di avere diritto di giudicare i ricchi. Non vogliamo la lotta di classe, ma un incontro fra le classi, nel quale il ricco salva il povero e il povero salva il ricco". WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT “In Italia nessuna invasione”. Calano gli immigrati musulmani di Andrea Tornielli La ricerca del Cesnur: sono il 32% contro il 54% dei cristiani. È boom di buddhisti Gli immigrati di fede islamica che arrivano o sbarcano in Italia non sono affatto in aumento. Anzi, diminuiscono leggermente rispetto all’anno scorso. Lo afferma il sociologo Massimo Introvigne, direttore del Centro Studi sulle nuove religioni (Cesnur), in una ricerca curata con PierLuigi Zoccatelli, che sarà presentata domani a Roma nell’ambito del convegno «Dall’Islam in Europa all’Islam europeo», organizzato dal mensile Confronti presso la Biblioteca Centrale del Cnr. «Senza volere entrare in dibattiti di carattere politico - scrivono i due studiosi - rileviamo che, contrariamente a opinioni diffuse, gli immigrati musulmani in Italia non sono in aumento ma in lieve diminuzione». Gli islamici erano infatti 1.613.500 nel 2015 e sono 1.609.000 nel 2016, spiegano i sociologi del Cesnur. «La maggioranza degli immigrati - aggiungono - è cristiana: sul totale degli immigrati i cristiani sono il 53,8% contro il 32% dei musulmani. La percentuale dei musulmani sul totale degli immigrati a sua volta non aumenta dal 2015 al 2016 ma scende leggermente, dal 32,2% al 32%. È vero che, per effetto delle acquisizioni di cittadinanza, sono per converso aumentati i musulmani cittadini italiani: erano 245.621 l’anno scorso, sono 302.090 quest’anno. Ma soltanto in poche migliaia di casi si tratta di conversioni, nella stragrande maggioranza riguarda la conclusione di un lungo iter burocratico per la cittadinanza espletato da chi già da anni risiede nel nostro Paese. «Se però vogliamo parlare di vere e proprie conversioni religiose e non di fenomeni dovuti a pratiche burocratiche - osservano Introvigne e Zoccatelli -, il fenomeno più spettacolare di crescita riguarda non i musulmani, ma i buddhisti, e in particolare la Soka Gakkai». Questa, sulla base delle stime offerte dal dossier statistico sull’immigrazione della Caritas, è la ripartizione degli immigrati per appartenenza religiosa: ortodossi, 1.541.000 (30,7%), cattolici 908.000 (18,1%); protestanti e altri cristiani 255.000 (5,0%); musulmani 1.609.000 (32,0%); ebrei 7000 (0,1%); induisti 149.000 (3,0%); buddhisti 111.000 (2,2%); altre religioni orientali 78.000 (1,6%); atei e agnostici 227.004 (4,5%); religioni tradizionali 56.000 (1,1%); altri 85.000 (1,7%). Facendo le somme, l’insieme degli immigrati cristiani delle diverse confessioni è pari a 2.704.000 (53,8%), oltre un milione in più di quelli di fede islamica. I dati presentati dagli studiosi smentiscono una percezione popolare, talvolta alimentata dai social media, che presenta quella musulmana come «un’invasione» del nostro Paese. Alla fine del 2014 l’agenzia britannica Ipsos Mori aveva pubblicato una puntuale ricerca demoscopica sulle «false percezioni» in merito a varie tematiche, tra le quali l’immigrazione e la presenza islamica, in 14 Paesi del cosiddetto «primo mondo». Secondo quella ricerca l’italiano medio riterrebbe che il 30% della popolazione sia composta da immigrati (in realtà la percentuale si attesta tra l’8 e il 9%) e che il 20% dei residenti sia musulmano (sono invece tra il 2 e il 3%). E più piccola è la percentuale di immigrati presenti sul suolo nazionale di un Paese europeo, più grande appare la sopravvalutazione del fenomeno. A proposito delle altre religioni, coloro che manifestano un’identità religiosa diversa dalla cattolica in Italia sono circa 1.781.807 unità se si prendono in esame i cittadini italiani, e circa 5.672.807 unità se si aggiungono gli immigrati non cittadini, «il che ha rilievo principalmente per il mondo islamico e secondariamente per un’immigrazione cristiano-ortodossa dall’Est europeo di proporzioni notevoli». “Dobbiamo essere duri con questa Europa che ci lascia soli” di Andrea Tornielli Vatican Insider intervista il cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, alla vigilia dei suoi 75 anni e dunque della presentazione della rinuncia al Papa. Sull’emergenza immigrati dice: serve un piano Marshall; l’atteggiamento della Ue è «un sintomo molto brutto per il futuro del continente» Lunedì 7 novembre, il cardinale Angelo Scola, dal 2011 arcivescovo di Milano, compie 75 anni e come tutti i vescovi è tenuto a presentare la rinuncia al Papa. Lo incontriamo a casa sua, in piazza Fontana, in una grigia mattinata autunnale. Perché ha invitato il Papa a Milano e che cosa si aspetta dalla sua visita? «Il compito del Papa è confermare i fratelli nella fede. Ne abbiamo un gran bisogno anche come diocesi di Milano. Confermare nella fede significa aiutarci ad affrontare la realtà così com’è, verificare la nostra capacità di essere Chiesa in uscita verso le periferie, nella vita quotidiana di ogni uomo. Sto facendo la visita pastorale: è commovente nel popolo il continuo riferimento al Papa. Sono sicuro che da Francesco riceverà impulso anche l’azione nella società civile: i Dialoghi di vita buona; il Fondo per individuare nuovi posti di lavoro per chi l’ha perduto; l’immigrazione; la lotta contro l’emarginazione che a Milano è molto più diffusa di quanto non sembri. Chiederemo al Papa indicazioni pastorali basate anche sulla sua esperienza di Cardinale latinoamericano». Qualche anticipazione sul programma? «Ci sarà una grande messa con i fedeli di tutta la Lombardia, un incontro con i sacerdoti e i religiosi e le religiose, la visita a una periferia e ad un carcere». La Chiesa italiana si è sintonizzata con Francesco dopo tre anni di pontificato? «Nel popolo, certamente. Basterebbe il dato dell’incremento delle confessioni per il Giubileo. In Duomo non ci sono state pause, neanche in estate. Certo, poi ci sono alcuni che si assumono la responsabilità di avanzare delle riserve sul Papa, anche se in Italia mi sembra che siano molto minoritari. Il Papa è un dono grande, soprattutto per noi europei che di cambiamento avevamo un gran bisogno. Dobbiamo evitare di ridurre la sua azione a slogan e non dobbiamo scimmiottarlo, anche noi vescovi: ognuno sia se stesso come il Papa ci chiede. Non è una cosa facile, richiede atteggiamento di conversione». Lunedì 7 novembre lei compie 75 anni, l’età in cui in vescovi presentano la rinuncia. Quando lascerà? E come vive questo momento? «Lo vivo con serenità. Invecchiando, una cosa si fa sempre più evidente: si vive al cenno di un Altro. Del futuro non so ancora nulla, qualsiasi cosa il Papa decida, sono pronto. Sono tranquillo e... non mi mancherà il lavoro». Ci sarà lei ad accogliere Francesco il 25 marzo? «Penso proprio di sì, questo credo di poterlo dire». Una difficoltà che ha vissuto di questi anni a Milano? «In una mega-diocesi come questa si fa fatica a vivere i rapporti faccia a faccia. Da questo punto di vista ammiro molto il modo di muoversi del Papa. Ho trovato grande consolazione nelle 46 assemblee decanali già svolte per la visita pastorale, perché lì il faccia a faccia si realizza». Che cosa dovrebbero fare le Chiese europee di fronte alla secolarizzazione? «Bisogna farla finita con la mistica depressiva sui “lontani” e sulle strategie dei cristiani per raggiungerli. Gesù è venuto a condividere il quotidiano, nessuno è “lontano” dall’esperienza umana del lavoro o degli affetti. Bisogna vivere la propria vita secondo i sentimenti e il pensiero di Gesù, e comunicarlo con semplicità, senza affidarsi a progetti astratti fatti a tavolino e senza pararsi dietro al “si è sempre fatto così”». Come vede oggi la città di Milano il suo arcivescovo? «Vedo una decisa volontà di cambiamento. Ci sono fattori interessanti che provengono dalla società civile. Penso a Expo, al manifestarsi di nuove forme di lavoro o alla ripresa di un certo gusto a trovarsi insieme: guardiamo per esempio, al fenomeno della Darsena. Qualcosa di simile avveniva negli anni Sessanta: mi ricordo che alle sette di sera piazza Duomo si riempiva di gente che discuteva di qualsiasi cosa. C’è voglia di una nuova Milano. Resta però sempre il rischio di lasciar da parte la questione del “senso del vivere” che, per noi cristiani, è la questione della fede». E la politica, a Milano e in Italia? «C’è da chiedersi che cosa sia la politica oggi. A partire da “casa nostra”. Sono personalmente convinto che il cattolicesimo politico sia finito. Questo si lega alla crisi dei partiti. I cattolici devono inventare altre modalità di partecipazione». Quali forme? «Il tema della dignità della persona, dei suoi diritti e dei suoi doveri, le leggi connesse a questi diritti, delle libertà realizzate, della solidarietà, della sussidiarietà... Sono tanti lampioni accesi. Però è come se non fossero accesi ai bordi di una strada tracciata. Gli strumenti per renderli praticabili sono in mano al pulviscolo delle associazioni di volontariato che rappresentano la vera ricchezza della società civile milanese. Ma non si vedono ancora all’orizzonte forme di politica adeguate a questo cambiamento». Che cosa pensa delle reazioni di rifiuto dei migranti che si sono verificate nelle ultime settimane? «Noi educhiamo e spieghiamo troppo poco, così diventiamo preda di strumentalizzazioni. Siamo di fronte a un processo storico, i dati Onu ci parlando di decine di milioni di esseri umani in movimento in tutto il pianeta. La storia non ci domanda il permesso di innescare i processi. Ci chiede però di intervenire per orientarli. È questione di responsabilità». Come risponde la Chiesa? «Con l’atteggiamento del Buon Samaritano, nell’immediato: arrivi e ti aiuto. Diverso è il compito della politica. Serve una sorta di piano Marshall almeno a livello europeo per affrontare il problema, sia nei paesi di partenza come nei nostri. A Milano sperimentiamo l’accoglienza diffusa: 4 o 5 persone per parrocchia o associazione. Questo rende tutto più praticabile. Parrocchie, associazioni e Caritas ne accolgono circa 3.000. Il nostro popolo di fronte al bisogno si mobilita. Ho fiducia in questi percorsi di integrazione, anche se chiederanno tempo. Le reazioni scomposte sono inevitabili, ma non vedo una deriva razzista nella nostra gente». Che cosa pensa dell’atteggiamento della Ue? «Noi italiani dobbiamo essere molto duri con questa Europa perché ci sta lasciando soli. È un sintomo molto brutto per il futuro del continente, non vorrei che fosse il sintomo di una malattia mortale. La crisi dell’Europa è clamorosa». Che cosa può dire dell’emarginazione nascosta che esiste a Milano? Si parla di 13 mila poveri... «Credo siano purtroppo molti di più. Nella prima grande periferia non c’è parrocchia senza un nucleo emarginato. Non ci sono le favelas, ma c’è comunque gente che non riesce a mettere insieme due pasti al giorno. Oppure ci sono situazioni come quella che ho visto alle Case Bianche, con anziani immobilizzati al nono piano perché l’ascensore non funziona. Questo ha fatto fiorire un volontariato generoso. Penso a situazioni di degrado in quartieri come San Siro o Turro. Tanta gente che si impegna. Il Banco alimentare, ad esempio: milioni di persone che usufruiscono del cibo recuperato. Il popolo di fronte al bisogno si mobilita, ma occorre anche essere educati, ad esempio, a non sprecare il cibo. Il sindaco Cacciari mi disse che il Comune senza l’aiuto della Chiesa non potrebbe garantire un welfare sufficientemente articolato. Ma il nesso carità-cultura ancora non si vede. È spesso generosità che fa fatica a diventare mentalità». I recenti terremoti hanno fatto dire a qualcuno che si tratta di una punizione divina. Che cosa risponde? «Gesù ha già dato una risposta, parlando del crollo della torre di Siloe, che uccise 18 persone: “Credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No...”. Non sostituiamoci a Dio nel ruolo del giudice. Queste terribili occasioni sono chiamate a generare comunione cristiana e amicizia civica. Sono una provocazione a porci le domande vere, alla conversione personale, comunitaria e sociale. Un motivo di maggiore abbandono al mistero divino. Tocca a noi chiederci se viviamo bene il nostro rapporto con Dio, con gli altri, con noi stessi, con il creato. Mi ha colpito la generosità dei milanesi: le parrocchie hanno raccolto un milione mezzo di euro, più mezzo milione la Caritas». Ha visto le prime puntate di «The young Pope»? Che cosa ne pensa? «Ho guardato qualche spezzone. È un film di fantasia. Ci sono luoghi comuni ben celati da una fantasia sbrigliata e da una straordinaria tecnica filmica». WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT Venezuela. Come Francesco arriva a salvare una nazione sull'orlo del baratro di Sandro Magister Passo dopo passo, la ricostruzione dell'intervento diretto del papa e dei suoi emissari nella crisi venezuelana. Con l'ex presidente spagnolo Zapatero tra i mediatori Misteri dell'informazione vaticana. "L'Osservatore Romano" è giustamente apprezzato per la copertura amplissima che fornisce ogni giorno dei fatti di tutto il mondo. Ma per sapere che papa Francesco la sera del 24 ottobre ha incontrato a Santa Marta il presidente del Venezuela, Nicolás Maduro Moros, i suoi lettori hanno dovuto aspettare il 3 novembre, e apprenderlo dalle parole stesse del papa, dette durante il volo di ritorno dalla Svezia a Roma e riportate sull'ultima pagina del quotidiano. "L'Osservatore" – come pure il bollettino ufficiale della Santa Sede – ha mantenuto un silenzio totale anche sul ruolo del Vaticano nell'avviare i colloqui tra il regime di Maduro e l'opposizione, iniziati proprio dopo l'inatteso incontro tra il papa e il presidente venezuelano. In effetti, dal 24 ottobre in poi "L'Osservatore Romano" ha pubblicato ogni giorno corrispondenze molto dettagliate sugli avvenimenti del Venezuela. Ma senza una sola riga su ciò che più faceva notizia, cioè appunto l'impegno diretto nella vicenda venezuelana della Santa Sede e del papa, con suoi emissari sul posto. E allora ricostruiamo questa storia. A partire dagli antecedenti. Un primo tentativo di dialogo tra governo e opposizione, con presente al tavolo dei colloqui il nunzio in Venezuela Aldo Giordano, risale all'aprile del 2014 e anche allora papa Francesco si espose in prima persona nel sostenerlo, in particolare con un messaggio rivolto al presidente Maduro, ai membri del governo, ai rappresentanti dell'opposizione e ai membri dell'Unione delle Nazioni Sudamericane, in sigla UNASUR. Il tentativo s'interruppe sul nascere e a nulla valse, nel settembre di quello stesso 2014, un secondo appello del papa, letto dal nunzio Giordano durante un incontro interreligioso per la pace promosso a Caracas dal consiglio nazionale dei laici del Venezuela. Devono passare due anni prima che un lumino si riaccenda, mentre il Venezuela precipita in una crisi sempre più devastante. Il 25 luglio 2016 il segretario generale di UNASUR, l'ex presidente colombiano Ernesto Samper Pizano, scrive una lettera al papa, a nome anche di altri tre ex presidenti: lo spagnolo José Luis Rodríguez Zapatero, il panamense Martín Torrijos e il dominicano Leonel Fernández. Nella lettera i quattro chiedono che la Santa Sede entri a far parte del gruppo dei "facilitadores" del dialogo tra governo e opposizione in Venezuela. Alla lettera risponde non papa Francesco ma il suo segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, che il Venezuela lo conosce bene, essendovi stato nunzio dal 2009 al 2013. Nella sua risposta del 12 agosto Parolin dichiara la disponibilità della Santa Sede, a condizione che siano le parti interessate, il governo e l'opposizione, a rivolgere l'invito e a mostrarsi "recettive ad accogliere gli eventuali suggerimenti". Tra i vescovi del Venezuela, però, molti sono scettici. "Un governo che non provvede cibo e medicine ai cittadini e proibisce alle organizzazioni religiose e sociali di operare per alleviare le sofferenze della popolazione manca dell'autorità morale per invocare dialogo e pace", ha detto lo scorso luglio l'arcivescovo di Cumaná Diego Padrón Sanchez, presidente della conferenza episcopale. E ancor più critico nei confronti del regime di Maduro è l'arcivescovo di Mérida, Baltazar Enrique Porras Cardozo. Che papa Francesco ha incluso il 9 ottobre tra i prossimi nuovi cardinali. La sera del 24 ottobre, colpo di scena. Maduro fa scalo a Roma di ritorno da un giro tra alcuni Stati petroliferi del Medio Oriente, ed è ricevuto a Santa Marta da papa Francesco. L'incontro è privato e non ne esistono foto né comunicati ufficiali. Ma la presidenza venezuelana e vari organi di stampa – tra cui la Radio Vaticana e il blog paravaticano "Il Sismografo" – lo pubblicizzano con le immagini della precedente udienza di Maduro del 2013, questa sì ufficialissima e avvenuta nel Palazzo Apostolico, come ad avvalorare una nuova "benedizione" del papa al suo ospite. In Venezuela, tra i critici del regime, le prime reazioni sono perciò di sconcerto, accresciuto dall'arrivo, a Caracas, il 25 ottobre, di un inviato del papa nella persona del nunzio in Argentina Emil Paul Tscherrig, col mandato di avviare un dialogo proprio mentre "il paese è allo stremo" e il "muro contro muro" tra Maduro e l'opposizione è al suo acme, come titola intanto "L'Osservatore Romano". Il neocardinale Baltazar Porras dichiara di non essere stato informato dell'arrivo di un inviato della Santa Sede. Mentre il nunzio a Caracas Giordano tace, apparentemente scavalcato dal suo collega arrivato da Buenos Aires su mandato del papa. Tscherrig invece parla e agisce. Incontra separatamente esponenti del governo e dell'opposizione, col rifiuto però di una parte di questa, e annuncia per il 30 ottobre una prima tornata di colloqui sull'isola di Margherita. La tensione raggiunge il massimo venerdì 28 ottobre, col paese paralizzato da uno sciopero generale e ormai "sull'orlo del baratro", come titola, di nuovo, "L'Osservatore Romano". Ma poi, piano piano, alcuni pezzi tornano a posto. Tscherrig esce di scena e al suo posto arriva da Roma il "vero" emissario del papa, l'arcivescovo Claudio Maria Celli già presidente del disciolto pontificio consiglio per le comunicazioni sociali, ma soprattutto diplomatico di lunga esperienza internazionale, dalla Cina al Sudamerica. Celli arriva a Caracas con in mano una lettera "en nombre del Papa Francisco" indirizzata a tutte le parti in causa. Nella lettera, Celli esorta a non squalificare nessuno come un "nemico assoluto ed eterno", perché anche "il nemico mortale di oggi può convertirsi in un compagno indispensabile nel cammino verso il futuro". E di nuovo "a nome di papa Francesco" chiede che "si concordino" all'inizio di questo processo "alcuni gesti concreti che dimostrino la buona volontà di ambo le parti". In effetti proprio questo accade. La Mesa de la Unidad Democrática, la coalizione antiregime che in parlamento ha la maggioranza, sospende il procedimento per destituire il presidente Maduro e cancella la marcia di protesta in programma per il 3 novembre verso il palazzo presidenziale. Mentre da parte sua Maduro rimette in libertà un piccolo numero degli oltre cento prigionieri politici detenuti nelle carceri venezuelane. E così, domenica 30 ottobre, le parti per la prima volta si incontrano. Non nell'isola di Margherita, come previsto inizialmente per ragioni di sicurezza, ma a Caracas, nel museo Alejandro Otero. Cinque gli esponenti dell'opposizione presenti, tra cui il presidente della Mesa de la Unidad Democrática, Jesus Torrealba. Assenti invece i rappresentanti di Voluntad Popular, il cui leader, Leopoldo López, è il più famoso dei prigionieri politici tuttora in cella. Le parti si lasciano con l'impegno di tornare a incontrarsi l'11 novembre e di avviare quattro tavoli di discussione specifici: sul rispetto dello stato di diritto, sui risarcimenti alle vittime, sulla tabella di marcia elettorale, sulla situazione economica del Paese. Al primo incontro – e così avverrà nel successivo – hanno preso parte, col ruolo di "facilitadores", i quattro ex presidenti Samper, Zapatero, Torrijos e Fernández, assieme all'emissario vaticano Celli. Ma su tutti aleggia la presenza decisiva di papa Francesco, come ha sottolineato lo stesso Celli in un'intervista alla Radio Vaticana: "Questa era la consapevolezza comune e la stessa opposizione me l’ha ripetuto varie volte: 'Noi siamo qui unicamente perché c’è lei!', e cioè: il ruolo che gioca la figura di papa Francesco in questo contesto è fondamentale. Gli stessi quattro ex presidenti hanno tutti sottolineato che se non ci fosse stata la Santa Sede in questo cammino e con la sua presenza, questo cammino non sarebbe neanche iniziato. Questo lo posso dire con molta serenità. Lo stesso ex primo ministro Zapatero, spagnolo, di cui tutti conosciamo il percorso e la storia, ha riconosciuto ufficialmente, in pubblico, che tutto questo si deve alla presenza di papa Francesco e quindi alla presenza della Santa Sede che accompagna questo processo di dialogo". Anche la presidenza della conferenza episcopale si associa all'avvio di dialogo, con un appello alle parti di "totale adesione al Santo Padre nei suoi sforzi a favore del popolo venezuelano". Ed è a questo punto che Francesco in persona parla della vicenda. Lo fa il 1 novembre sul volo di ritorno a Roma dalla Svezia, dove si era recato per celebrare i cinquecento anni della Riforma luterana. Interpellato dalla giornalista spagnola Eva Fernández riguardo all'udienza a Maduro e all'avvio dei colloqui, il papa risponde testualmente: "Il presidente del Venezuela ha chiesto un incontro e un appuntamento perché lui veniva dal Medio Oriente, dal Qatar, dagli altri Emirati e faceva scalo tecnico a Roma. Aveva chiesto un’incontro prima. È venuto nel 2013; poi aveva chiesto un altro appuntamento, ma si è ammalato e non è potuto venire; e ha chiesto questo. Quando un presidente chiede, lo si riceve, per di più era a Roma, in scalo. L’ho ascoltato, mezz’ora, a quell’appuntamento; l’ho ascoltato, io gli ho fatto qualche domanda e ho sentito il suo parere. È sempre bene sentire tutti i pareri. Ho ascoltato il suo parere. "In riferimento al secondo aspetto, il dialogo è l’unica strada per tutti i conflitti. Per tutti i conflitti! O si dialoga o si grida, ma non ce n’è un’altra. Io col cuore ce la metto tutta nel dialogo e credo che si debba andare su quella strada. Non so come finirà, non so, perché è molto complesso, ma la gente che è impegnata nel dialogo è gente di statura politica importante. Zapatero, che è stato due volte presidente del governo della Spagna, e Restrepo [e tutte le parti] hanno chiesto alla Santa Sede di essere presente nel dialogo. E la Santa Sede ha designato il nunzio in Argentina monsignor Tscherrig, il quale credo sia lì, al tavolo del negoziato. Ma il dialogo che favorisce il negoziato è l’unica strada per uscire dai conflitti, non ce n’è un’altra. Se il Medio Oriente avesse fatto questo, quante vite sarebbero state risparmiate!". Prese alla lettera, queste parole del papa farebbero pensare che egli non fosse in quel momento a conoscenza della già avvenuta sostituzione di Celli a Tscherrig, quest'ultimo a lui noto ed amico, in quanto nunzio in Argentina quando Jorge Mario Bergoglio era ancora arcivescovo di Buenos Aires. E questo equivoco, assieme agli stupefacenti silenzi de "L'Osservatore Romano", potrebbe essere segno di un non oliato rapporto tra Santa Marta e la segreteria di Stato, ossia tra il papa e il cardinale Parolin, nella gestione dell'intera operazione. Ma ciò non toglie che sul Venezuela papa Francesco e la Santa Sede hanno ora puntato fortissimo, dopo averlo a lungo trascurato. E curiosamente, l'hanno fatto in coincidenza con la nomina a nuovo superiore generale della Compagnia di Gesù, alla quale il papa appartiene, di un gesuita del Venezuela, padre Arturo Marcelino Sosa Abascal, versatissimo nelle scienze della politica e oggi salomonicamente critico sia del "chavismo" dittatoriale di Maduro, sia della debolezza democratica delle opposizioni. "Audacia dell'impossibile" è la parola d'ordine del nuovo generale dei gesuiti. Molto appropriata per un'impresa davvero ai confini dell'impossibile come la pacificazione e la rinascita del Venezuela. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 3 Economia della condivisione, il futuro è sempre più sociale di Emanuela Citterio Lo scambio di beni e servizi nell’era di Internet. Cos’è veramente la “sharing economy” e come cambierà Il car sharing non lo è, anche se contiene la parola 'sharing', condivisione. Le piattaforme web che forniscono autista con conducente nemmeno. Da escludere sono anche i servizi che recapitano il cibo a casa su ordinazione tramite applicazioni. Dopo i primi anni di euforia, c’è chi prova a fare chiarezza intorno alla sharing economy, che ha bisogno più che mai di trovare la sua giusta collocazione rispetto a furbe operazioni di marketing e sopravvalutazioni. Negli ultimi tre anni la cosiddetta 'economia della condivisione' è cresciuta in tutto il mondo sia come fenomeno culturale e sociale che in termini di fatturato. Piattaforme on line e applicazioni hanno inaugurato un nuovo modo di spostarsi, di viaggiare e persino di lavorare. Oggi si può visitare una città in qualsiasi nazione del mondo affittando alla velocità di un clic una stanza o un appartamento messi a disposizione da un privato, scegliendo un’opzione diversa e spesso più conveniente rispetto al soggiorno in albergo; dall’altra parte, c’è chi in questo modo è riuscito a ottenere un reddito integrativo affittando per brevi periodi uno spazio non utilizzato. Condividere i passaggi in auto con applicazioni come BlaBlaCar è diventato un modo economico per viaggiare per molte persone, giovani e non solo. Il moderno autostop. Ma i siti di sharing economy hanno anche favorito una nuova socialità: ci sono i portali di crowdfunding che permettono di unirsi per finanziare un progetto, quelli di social eating dove ci si trova per organizzare cene a partire da un interesse comune, siti come Time Republik dove le persone possono scambiare liberamente il proprio talento e le proprie competenze. E si potrebbe continuare: secondo l’ultima rilevazione curata da Collaboriamo.org, in Italia ci sono 186 piattaforme collaborative, divise in 13 diversi settori, dal crowdfunding (69), ai trasporti (22), al turismo (17, di cui 8 che mettono in contatto viaggiatori e guide locali che propongono una visita alternativa del territorio), passando per lo scambio di beni di consumo (18), i servizi alle persone (9), la cultura (9). Del futuro di questa nuova economia collaborativa si parlerà il 15 e 16 novembre a Milano a Sharitaly: due giorni di incontri, dibattiti e gruppi di lavoro dedicati al tema 'Impatto sharing'. Ma cos’è davvero sharing economy e cosa invece non lo è? Ivana Pais, docente di sociologia economia dell’Università Cattolica di Milano, insieme a Marta Mainieri fondatrice del portale Collaboriamo.org, ha elaborato dei criteri. «Sul web fioriscono nuove aziende digitali e piattaforme che forniscono beni e servizi a pagamento e c’è bisogno di fare chiarezza» afferma Pais. «Non si tratta di dividere buoni e cattivi, ma di distinguere fra modelli diversi di integrazione fra economia e società». Delineare i contorni di un fenomeno nuovo, però, è tutt’altro che facile. «Possiamo dire che una piattaforma di sharing economy è davvero tale se c’è uno scambio di beni e servizi fra pari» continua Pais. «A dettare il prezzo dei beni e dei servizi offerti o scambiati, devono essere inoltre gli stessi utenti. Il principio è che deve trattarsi di una negoziazione fra pari, un gioco contrattuale tra le parti in campo e non diretto da organizzazioni esterne». Non c’entrano nulla con la sharing economy, di conseguenza, aziende che forniscono servizi on line a pagamento, dal car sharing all’affitto di auto con conducente al food delivery, ovvero la consegna a domicilio di cibo ordinato via web o con un’applicazione. Eppure la confusione è ancora tanta. Lo scorso ottobre ha fatto scalpore il caso di Foodora, start up tedesca nata a Monaco nel 2014 che recapita cibo a domicilio a trenta minuti dall’ordine, effettuato attraverso il sito o l’apposita app. A consegnare sono ciclisti o motociclisti in giacca rosa che girano per la città con il proprio mezzo a due ruote. A Torino 140 di loro hanno denunciato condizioni inique: paga a cottimo di 2,70 euro a consegna, contratto di collaborazione co.co.co senza coperture per le malattie, utilizzo dei propri mezzi senza rimborso. La trattativa fra lavoratori e azienda è in corso, ma nel frattempo c’è chi ha parlato di «sogno infranto della sharing economy», accusando l’intero comparto di usare i linguaggi della condivisione e della sostenibilità per saltare a piè pari le regole e i diritti dei lavoratori. Proprio il caso di Foodora, dall’altra parte, ha obbligato i media a usare un linguaggio più preciso per definire le diverse forme di economia nate sul web. I più accurati, parlando della start-up tedesca, hanno usato il termine di 'gig economy' (economia dei piccoli lavoretti) o di 'on demand economy' (aziende digitali che forniscono beni e servizi ai consumatori attraverso il web). Fare distinzione è importante anche per regolare tutta una serie di attività economiche nate sul web. Mettere dei paletti rigidi, però, è difficilissimo. Anche perché i tentativi per aggirarli ci sono, eccome. Di recente Federalberghi ha puntato il dito contro AirBnb, il portale on line che mette in contatto persone che cercano un alloggio o una camera per brevi periodi con persone che dispongono di uno spazio extra da affittare. Ogni inserzionista ha un profilo personale. Ma è capitato che a una stessa persona, Bettina, siano riconducibili ben 366 appartamenti. Bettina è una dipendente della società immobiliare Halldis Italia, che ha sfruttato il sito di sharing economy per incrementare il suo business. Capita però anche il contrario: chi vuole avere tutte le carte in regola fatica a districarsi fra leggi e procedure, che in Italia variano di regione in regione e si stanno adattando a un fenomeno nuovo. Carlotta Bianchini ha creato il sito www.hostitaliani.it e un gruppo Facebook per rispondere ai dubbi di chi offre accoglienza tramite AirBnb: «Le domande più frequenti riguardano le tasse da pagare, se sia necessario o no far firmare un contratto, se si debba o meno rilasciare una ricevuta, quale sia la procedura per la registrazione della struttura presso la questura» afferma. «Quando ci si reca negli uffici comunali o regionali per avere informazioni capita di non ottenere informazioni univoche e spesso gli stessi funzionari non sono consapevoli delle normative vigenti». Q uella delle tasse è una questione in sospeso anche, e soprattutto, per le aziende che hanno creato le piattaforme. A livello internazionale, AirBnb ha continuato a crescere, ricevendo costantemente nuovi round di finanziamento, fino ad essere quotata 24 miliardi, eppure in Italia paga solo 46 mila euro di tasse perché la sede legale del gruppo è in Irlanda. C’è però una grossa differenza fra le piattaforme nate in questi anni negli Usa, come AirBnb, e quelle italiane. «Quelle americane sono state pesantemente finanziate da fondi di venture capital e, se questo ha portato al loro successo, dall’altra parte ha drogato la crescita dell’economia della condivisione via web creando distorsioni» fa notare Marta Mainieri, fondatrice del portale Collaboriamo.org dedicato alla sharing economy italiana. «In Italia i capitali investiti sono inferiori ma c’è il problema opposto: le piattaforme collaborative non riescono a decollare e a professionalizzarsi». L’impatto della sharing economy in Italia è quindi stato sopravvalutato? «In un momento di crisi questo tipo di economia collaborativa ha fatto da paracadute – afferma Pais –. In un auspicato scenario di ripresa potrebbe o non servire più o professionalizzarsi, diventando, più che la panacea di tutti i mali, un’opzione possibile per persone interessate alla dimensione sociale e alla sostenibilità ambientale nello scambio di beni e servizi». Tra distorsioni, furbe operazioni di marketing e letture che l’hanno presentata come la soluzione alla crisi, l’economia della condivisione sta insomma ancora cercando la sua strada. Il riuso o lo scambio in rete in una negoziazione tra pari - «Sharing Economy» significa «economia della condivisione». Il concetto di fondo è lo scambio di beni e servizi attraverso siti internet o applicazioni per cellulari e tablet in modo da sostenere il riuso degli oggetti o l’accesso a un servizio in luogo della proprietà. Per i ricercatori dell’Università Cattolica una piattaforma di sharing economy è tale se c’è uno scambio di beni e servizi fra pari, mentre il prezzo dei beni e dei servizi offerti o scambiati deve essere deciso dagli stessi utenti. Una negoziazione fra pari, cioè, non diretta da organizzazioni esterne. Pag 3 La disparità servita in mensa di Massimo Calvi L’Italia divisa del pasto a scuola Quando si parla di politiche familiari o di aiuti ai figli il discorso cade solitamente su questioni come gli incentivi alla natalità, gli asili nido, i bonus, e via dicendo. Raramente si parla di mense scolastiche. Ed è un errore. Perché se si solleva il coperchio del pentolone mense in Italia, è difficile non notare come la diversità di trattamento da città a città raggiunga livelli così elevati da rappresentare un potente fattore di disparità sociale. Su 'Avvenire' lo abbiamo scritto più volte, parlando anche di «tassa occulta» a carico delle famiglie a seconda del Comune in cui abitano. E l’ultimo rapporto di Save The Children dedicato proprio alle mense lo dimostra in modo netto, arrivando a definire «preoccupante» il modo con cui il federalismo distorto della ristorazione scolastica produca nuove e inedite categorie di poveri. Il problema di partenza è il tempo pieno a scuola. Dove questa opportunità non è offerta, e dove non è possibile abbinare un servizio di refezione, i tassi di dispersione scolastica sono più elevati. Una condizione che riguarda soprattutto il Sud, ma non solo. In Italia il 40% delle scuole non ha un servizio mensa, e dove c’è non esiste una regola uniforme. Ci sono città in cui non sono previste esenzioni specifiche in base al reddito o al numero di figli e altre in cui esistono scale di esenzione fin troppo elaborate e raffinate; città in cui il terzo figlio non paga nulla e altre in cui paga la tariffa piena; città in cui la tariffa minima è 2 euro e altre in cui la massima è ancora 2 euro. E poi Comuni in cui gli sconti si fondano sulla dichiarazione Isee, altri dove si guarda anche al numero di figli, alla presenza di disabili o a condizioni sociali particolari. Una regola non esiste, al punto che la stessa famiglia potrebbe trovarsi a pagare il triplo se dovesse trasferirsi ad esempio da Catania a Livorno o da Milano a un Comune più povero dell’hinterland. La realtà di famiglie numerose e non ricche che si trovano a spendere molto di più rispetto a famiglie benestanti solo per il fatto di ricadere nei confini sbagliati non è così infrequente. E non è solo una questione di sconti. In alcune realtà si paga a consumo, in altre a forfait, in certi contesti chi non versa la quota si trova il figlio escluso dal servizio, in altri no, per non parlare delle scuole che hanno aperto al pranzo portato da casa dividendo i bambini in sale separate. Di fronte a una disparità di trattamento così elevata, il dibattito sul 'panino' portato da casa, o della milanese schiscetta (il portapranzo), di cui si è tanto parlato negli ultimi tempi, rischia di far perdere di vista il cuore del problema. La mensa coi compagni non è solo un luogo in cui i bambini mangiano, ma è una formidabile occasione di educazione civica, ambientale, alimentare oltre che di convivialità. Uno studio condotto per il Ministero della Salute rivela come il 49% delle madri di figli sovrappeso consideri il proprio bambino nella norma e il 75% ritenga che la quantità di cibo assunta sia giusta. Per contro, un bambino ogni 20 in Italia non consuma nemmeno un pasto proteico al giorno. È anche per questo che parlare di mense e di un criterio per unire il Paese nel modo di nutrire i bambini significa fare politica familiare e sociale allo stesso tempo. L’obiettivo di un pasto gratuito per i veri poveri, e di condizioni uniformi nel modo di far pagare il servizio alle famiglie, come nel concedere loro le giuste agevolazioni, non è fuori dalla portata di una buona politica. La vera fascia del bisogno oggi non si trova nella categoria che riceve una rendita fissa e garantita ogni mese, ma nei ceti popolari e in quelli medi impegnati a crescere e nutrire i propri figli. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IX Si torna ad assumere, Venezia tira la volata Occupazione: la Camera di Commercio stima un aumento di 18mila lavoratori dipendenti a fine anno. Turismo e imprese che innovano ed esportano in prima fila Perfino più del Veneto. Se a livello regionale in questo 2016 le previsioni di assunzione segneranno un +8 per cento, a Venezia si arriverà addirittura ad un +13%, con 18mila lavoratori dipendenti in più. E, a tirare la volata, sono il turismo e le imprese che esportano e che realizzano innovazioni. Sono gli ultimi dati forniti dalla Camera di commercio Delta Lagunnare, sulla base del monitoraggio del sistema Excelsior realizzato da Unioncamere in collaborazione con il Ministero del Lavoro. Balza agli occhi che quasi un quarto delle imprese veneziane (il 23,2%) ha effettuato o effettuerà assunzioni nel 2016, soprattutto aziende del terziario, che producono per l'estero o che innovano (oltre il 40%). Il tasso di assunzione'' nel 2016 è pari al 9,3%, un dato nettamente superiore rispetto al 7,8% del 2014 e all'8,3% del 2015, «collocando Venezia al secondo posto della graduatoria regionale, dopo Belluno, due province dove l'incidenza del turismo è altissima» sottolineano alla Camera di commercio. Delle 18mila assunzioni stimate il 20% sarà a tempo indeterminato (in diminuzione di 3 punti rispetto alle previsioni 2015, e questo è l'unico dato negativo), il 72% a tempo determinato, 4% in apprendistato e 3% con altre tipologie di contratto. Il 30% delle assunzioni riguarda i giovani, il 17% le donne e il 24% i lavoratori immigrati. Ma, se queste sono le cifre, l'indagine della Camera di commercio si sofferma soprattutto sui settori dove si registra una maggiore richiesta. «Fra i settori in difficoltà a reperire risorse vi sono le industrie meccaniche (30%), tessile e abbigliamento (22%), turismo e ristorazione (22%)» si legge nell'analisi che mette al primo posto delle professioni più ricercate quelle qualificate in attività ricettive e ristorazione (4.350 unità), seguite da quelle non qualificate nel commercio e nei servizi (3.600 unità) e, al terzo, le professioni qualificate nel commercio (2.410 assunzioni previste). Fra i livelli di studio richiesti, il 41,6% delle imprese cerca figure con diploma superiore prevalentemente di indirizzo turistico-enogastronomico, amministrativo-finanziario, marketing, meccanica-meccatronica ed energia; il 20,1% con formazione o diploma professionale in ristorazione, benessere, accoglienza e meccanico, il 7,2% con livello universitario. «Per far fronte ai problemi di reperimento è fondamentale incentivare l'incontro fra mondo del lavoro e scuole medie superiori commenta Roberto Crosta, segretario generale della Camera di commercio -. L'obiettivo è mantenere nel nostro territorio i ragazzi al termine del loro percorso di studi ed abbattere così i tassi disoccupazione». Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pagg 2 – 3 Navi fuori da San Marco. Marghera, sì alla bonifica di Alberto Vitucci Il ministro Delrio a Venezia, illustrati i progetti del governo. Scelto il presidente dell’Autorità portuale, sarà Stefano Corsini Venezia. Un manager alla guida del Porto. Il via libera alla bonifica di Marghera e al primo stralcio del progetto off-shore. Le grandi navi “fuori” dalla laguna. Milioni di investimenti per la Tav e gli aeroporti. Il ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, porta qualche certezza in laguna. Soddisfa molti e raffredda qualche entusiasmo. «La strategìa Paese non è la strategìa di Venezia», scandisce, «Venezia è una realtà insostituibile ma sarà sempre un punto debole se non c’è un sistema che funziona. La sua bellezza non la salverà». Ieri Delrio era a Tessera per inaugurare la nuova porta d’acqua dell’aeroporto Marco Polo e il tapis roulant di collegamento con l’aerostazione che era atteso da oltre dieci anni. Realizzato con i fondi recuperati dai soci privati che governano Save anche grazie alla detassazione dei biglietti aerei. Platea di politici, manager e imprenditori. Gran via vai della vecchia e della nuova politica, sul palco il pesidente della Save Enrico Marchi, il sindaco Luigi Brugnaro e il direttore dell’Enac Vito Riggio, l’assessora Erika De Berti al posto del governatore Zaia che ha dato forfait. E il ministro ne ha approfittato per chiarire il suo pensiero sulle “strategie” delle infrastrutture. Aeroporto. «L’economia aeroportuale è la vera risorsa di questo Paese», attacca Delrio, annunciando altri 500 milioni di investimenti. «Dove vengono fatte le cose per bene le cose funzionano», dice, «qui a Tessera, ma anche a Napoli. Dove le cose non vanno le società le lasciamo fallire, non badiamo alle interrogazioni parlamentari». Porto. Il benservito a Paolo Costa, presidente dell’Autorità portuale negli ultimi otto anni, arriva nel mezzo del discorso ufficiale. «Il mio amico Paolo Costa ha fatto benissimo», scandisce Delrio, «ma adesso abbiamo scelto un manager. Il nome lo comunicheremo nei prossimi giorni». Quello più accreditato sembra essere Stefano Corsini, 58 anni, dirigente del Cipe e della presidenza del Consiglio. «Nomi fuori dalla politica, questa è la linea», dice il ministro, Off shore. Delrio annuncia che «come d’accordo con il presidente Costa» il governo ha inviato al Cipe che darà presto il via libera, la prima fase dei lavori del progetto Voops (Venice off-shore on-shore port system) con i lavori nell’area dell’ex Syndial a Marghera. «Sulla seconda fase, la piattaforma vera e propria del costo di oltre due miliardi di euro, c’è ancora da fare una riflessione. Una discussione molto tecnica e accurata che avverrà nelle prossime settimane». Marghera. «Sbloccheremo subito la bonifica di Marghera», ha detto il ministro alla fine dell’inaugurazione in aeroporto. Poi il sopralluogo di quattro ore a Fusina e Marghera accompagnato dal sindaco Brugnaro. «Caro Luigi», gli ha detto più volte, «i problemi di Venezia li abbiamo ben presenti». Alta velocità. 15 milioni di euro sono stati già stanziati per la progettazione del tratto di Alta velocità ferroviaria che interessa il Veneto. Ci sarà una fermata a Tessera e tra breve, a inizio 2017, ha detto il ministro, «partiranno i lavori per la tratta Brescia-Verona per proseguire poi fino a Vicenza. 400 milioni di investimenti per collegare le principali città in due ore». «La strategia complessiva è quella di rendere Venezia accessibile, su acqua, su gomme e su rotaia. Il deficit logistico ci costa 12-13 miliardi di euro l’anno. Con la logistica tedesca saremmo la prima manifattura europea. Grandi navi. «Le grandi navi stanno fuori il più possibile dalla laguna», attacca il ministro, «dobbiamo salvare la Marittima e puntare sul traffico delle navi medie e grandi. Ma nel medio e lungo periodo le grandi navi dovranno stare fuori dalla laguna». Un annuncio che gela i tanti imprenditori presenti in sala. Fa esultare gli ambientalisti e il senatore Felice Casson, seduto i prima fila. «Ma no! el se gà sbaja...», commenta sicuro il sindaco Brugnaro, «forse si è confuso non ha visto la cartina». Puntuale, poco dopo, arriva la precisazione del ministro: «Fuori della laguna non vuol dire in mare. Ma lontano da San Marco». Progetti alternativi. Il ministro non scende nei dettagli sulle principali alternative per spostare le navi da San Marco e dalla Giudecca. «Posso confermare», dice, «che all’esame della commissione Via ci sono i progetti Duferco e lo scavo delle Tresse. Ci sono dei tempi necessari per valutare, poi decideremo». Nessun accenno sulla proposta ventilata dalle compagnie di crociera di spostare il terminal a Marghera, nell’area interessata dal progetto off-shore. «Meno male», tirano il fiato i fautori dell’off shore, in testa il sindaco Brugnaro. «Dobbiamo salvare 5 mila posti di lavoro, questo abbiamo detto al ministro», sintetizza, «abbiamo avuto risposte positive, altre su cui attendiamo chiarezza. Sul lungo termine per le grandi navi non abbiamo problemi: basta che non occupino le aree di Syndial destinate alla logistica». Venezia. Un manager alla guida del Porto. Il via libera alla bonifica di Marghera e al primo stralcio del progetto off-shore. Le grandi navi “fuori” dalla laguna. Milioni di investimenti per la Tav e gli aeroporti. Il ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, porta qualche certezza in laguna. Soddisfa molti e raffredda qualche entusiasmo. «La strategìa Paese non è la strategìa di Venezia», scandisce, «Venezia è una realtà insostituibile ma sarà sempre un punto debole se non c’è un sistema che funziona. La sua bellezza non la salverà». Ieri Delrio era a Tessera per inaugurare la nuova porta d’acqua dell’aeroporto Marco Polo e il tapis roulant di collegamento con l’aerostazione che era atteso da oltre dieci anni. Realizzato con i fondi recuperati dai soci privati che governano Save anche grazie alla detassazione dei biglietti aerei. Platea di politici, manager e imprenditori. Gran via vai della vecchia e della nuova politica, sul palco il pesidente della Save Enrico Marchi, il sindaco Luigi Brugnaro e il direttore dell’Enac Vito Riggio, l’assessora Erika De Berti al posto del governatore Zaia che ha dato forfait. E il ministro ne ha approfittato per chiarire il suo pensiero sulle “strategie” delle infrastrutture. Aeroporto. «L’economia aeroportuale è la vera risorsa di questo Paese», attacca Delrio, annunciando altri 500 milioni di investimenti. «Dove vengono fatte le cose per bene le cose funzionano», dice, «qui a Tessera, ma anche a Napoli. Dove le cose non vanno le società le lasciamo fallire, non badiamo alle interrogazioni parlamentari». Porto. Il benservito a Paolo Costa, presidente dell’Autorità portuale negli ultimi otto anni, arriva nel mezzo del discorso ufficiale. «Il mio amico Paolo Costa ha fatto benissimo», scandisce Delrio, «ma adesso abbiamo scelto un manager. Il nome lo comunicheremo nei prossimi giorni». Quello più accreditato sembra essere Stefano Corsini, 58 anni, dirigente del Cipe e della presidenza del Consiglio. «Nomi fuori dalla politica, questa è la linea», dice il ministro, Off shore. Delrio annuncia che «come d’accordo con il presidente Costa» il governo ha inviato al Cipe che darà presto il via libera, la prima fase dei lavori del progetto Voops (Venice off-shore on-shore port system) con i lavori nell’area dell’ex Syndial a Marghera. «Sulla seconda fase, la piattaforma vera e propria del costo di oltre due miliardi di euro, c’è ancora da fare una riflessione. Una discussione molto tecnica e accurata che avverrà nelle prossime settimane». Marghera. «Sbloccheremo subito la bonifica di Marghera», ha detto il ministro alla fine dell’inaugurazione in aeroporto. Poi il sopralluogo di quattro ore a Fusina e Marghera accompagnato dal sindaco Brugnaro. «Caro Luigi», gli ha detto più volte, «i problemi di Venezia li abbiamo ben presenti». Alta velocità. 15 milioni di euro sono stati già stanziati per la progettazione del tratto di Alta velocità ferroviaria che interessa il Veneto. Ci sarà una fermata a Tessera e tra breve, a inizio 2017, ha detto il ministro, «partiranno i lavori per la tratta Brescia-Verona per proseguire poi fino a Vicenza. 400 milioni di investimenti per collegare le principali città in due ore». «La strategia complessiva è quella di rendere Venezia accessibile, su acqua, su gomme e su rotaia. Il deficit logistico ci costa 12-13 miliardi di euro l’anno. Con la logistica tedesca saremmo la prima manifattura europea. Grandi navi. «Le grandi navi stanno fuori il più possibile dalla laguna», attacca il ministro, «dobbiamo salvare la Marittima e puntare sul traffico delle navi medie e grandi. Ma nel medio e lungo periodo le grandi navi dovranno stare fuori dalla laguna». Un annuncio che gela i tanti imprenditori presenti in sala. Fa esultare gli ambientalisti e il senatore Felice Casson, seduto i prima fila. «Ma no! el se gà sbaja...», commenta sicuro il sindaco Brugnaro, «forse si è confuso non ha visto la cartina». Puntuale, poco dopo, arriva la precisazione del ministro: «Fuori della laguna non vuol dire in mare. Ma lontano da San Marco». Progetti alternativi. Il ministro non scende nei dettagli sulle principali alternative per spostare le navi da San Marco e dalla Giudecca. «Posso confermare», dice, «che all’esame della commissione Via ci sono i progetti Duferco e lo scavo delle Tresse. Ci sono dei tempi necessari per valutare, poi decideremo». Nessun accenno sulla proposta ventilata dalle compagnie di crociera di spostare il terminal a Marghera, nell’area interessata dal progetto off-shore. «Meno male», tirano il fiato i fautori dell’off shore, in testa il sindaco Brugnaro. «Dobbiamo salvare 5 mila posti di lavoro, questo abbiamo detto al ministro», sintetizza, «abbiamo avuto risposte positive, altre su cui attendiamo chiarezza. Sul lungo termine per le grandi navi non abbiamo problemi: basta che non occupino le aree di Syndial destinate alla logistica». CORRIERE DEL VENETO Pag 11 La figlia di Gori: “Ero spensierata, quel giorno è finito tutto” di mo.zi. Incontro a Mestre Mestre. «Mi spiace che sia finita così. Io adoravo vivere a Mestre, avevo tanti progetti insieme al mio papà, ero felice e spensierata. Tutto è finito con una telefonata quel mattino del 29 gennaio. Del giorno dei funerali ricordo ben poco, ho passato quasi tutto il tempo con la faccia nascosta nel cappotto di mia zia. Non volevo vedere... Era finita la mia giovinezza ed era iniziata l’epoca della sopravvivenza». È uno dei passaggi della lettera che ha preparato Barbara Gori, figlia dell’ingegnere Sergio Gori che fu ucciso a Mestre dalle Brigate Rosse il 29 gennaio 1980. L’ha scritta per l’incontro che oggi alle 18 si terrà al Laurentianum in piazza Ferretto, a pochi giorni dalla chiusura dell’Anno giubilare straordinario della Misericordia. Si chiama «La difficile misericordia. Gli anni del terrorismo a Mestre riletti dalle voci dei testimoni» e per la prima volta porterà tutte insieme le testimonianze dei familiari delle vittime: quella di Teresa Friggione Albanese vedova del commissario Alfredo Albanese ucciso dalle BR il 12 maggio 1980 - di Cesare Taliercio - figlio di Giuseppe, ingegnere e direttore del Petrolchimico ucciso il 5 luglio 1981 dopo 46 giorni di rapimento – e la voce scritta di Barbara Gori saranno il fulcro dell’incontro col giornalista Adriano Favaro, il sociologo Gianfranco Bettin e il parroco del Duomo Gianni Bernardi. Il tema è la misericordia, quel difficile equilibrio di fede che rimette in prospettiva gli errori dell’umano per andare oltre. Come dice Barbara Gori: «Di una cosa sono fiera: nonostante gli episodi e il clima di violenza che hanno caratterizzato la mia giovane vita, ha prevalso in me il sentimento dell’amore e non quello dell’odio. Ai giovani di adesso - così presi dalla “tecnologia” che li porta lontani da quei valori oramai in parte perduti - dico di non cedere mai alla violenza per imporre le proprie idee - continua Gori - perché essa genera altra violenza, e di non fare mai l’errore di pensare “tanto non è successo a me”». Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 1 L’autogol delle barricate di Umberto Curi Il no profughi «C’è una donna incinta». «Non ce ne frega un c...». Questo il concitato scambio di battute fra il graduato dei carabinieri che annunciava l’arrivo di un pullman con dodici donne e otto bambini migranti, e alcuni cittadini di Goro. Menare scandalo per questa agghiacciante testimonianza di mancanza di solidarietà rischia di essere ipocrita. Più onesto intellettualmente sarebbe riconoscere che quelle parole, apparentemente tanto spietate, corrispondono ad un sentire molto più diffuso di quanto ci piacerebbe pensare. Ha torto, infatti, il ministro Alfano quando afferma che non Goro, ma Lampedusa e Napoli, dove i migranti vengono accolti perfino con il Welcome, sono la vera Italia. Malauguratamente, è vero proprio il contrario. Il dottor Bartolo che passa le sue notti sul molo di Lampedusa per accogliere i barconi, o i giovani napoletani accorsi ad aiutare i soccorritori di tante persone in difficoltà – loro sì sono eccezioni, anche se non completamente isolate. La regola è un’altra. La regola è quella compendiata nell’acronimo forgiato dagli Americani: Nimby, «non nel mio giardino». Fino a che i migranti vengono ospitati in centri che assomigliano a campi di concentramento, o vengono collocati in strutture di accoglienza gestite da organizzazioni del terzo settore, nulla da dire. Ma se si profila l’ipotesi che – donne o uomini che siano – arrivino a due passi da casa mia, o (come nel caso di Goro o, più recentemente di Ficarolo) si insedino in una casa contigua al bar del paese, allora anche cittadini per altri aspetti pacifici e remissivi diventano inflessibili custodi del mondo in cui vivono. E’ successo in alcuni paesi del delta del Po. E’ accaduto ad Abano Terme e a Capalbio. Nella zona termale presso Padova si sono addirittura costituiti comitati permanenti per il no all’accoglienza. Anche in presenza di minori non accompagnati, di donne incinte, o di bambini, la risposta è la stessa: «non ce ne frega un c...». Almeno per una volta, smettiamola con la solita tiritera: bisogna capirli, hanno anche loro sacrosanti diritti, il governo e gli amministratori locali non sono all’altezza della situazione, ecc. Smettiamola non perché queste affermazioni non siano vere. Ma perché quella frase urlata in faccia al carabiniere è sintomo di qualcosa che non può essere confuso con una generica espressione di ribellione. Non è soltanto testimonianza di una esasperazione legittima, dovuta all’innegabile quanto macroscopica inadeguatezza della politica ad affrontare questa emergenza. E’ sintomo di qualcosa di molto più profondo, diffuso e allarmante. Se di fronte ad una richiesta di solidarietà si urla «non ce ne frega un c…», vuol dire che si sono dissolti i principi basilari sui quali è costruita una comunità. Quella frase urlata dice esattamente l’opposto del motto latino – nihil humani a me alienum puto – «non vi è nulla riguardante l’uomo che io consideri essermi estraneo». Al contrario, stabilisce che l’unica dimensione dell’umano di cui mi interessi è quella che riguarda me, i miei interessi, i miei bisogni, i miei appetiti. Qui è necessaria la massima attenzione, onde evitare di lasciarsi inghiottire da una visione moralistica. Che il punto di riferimento privilegiato a cui ciascuno di noi riconduce le sue azioni e il suo comportamento sia costituito dalle proprie necessità, è un dato incontestabile. Si potrebbe arrivare a dire che non solo si tratta di qualcosa di «naturale» (e cioè connesso a ciò che siamo per nascita), ma anche di qualcosa che non è di per sé moralmente censurabile. Immaginare un mondo popolato da individui solleciti del bene altrui, piuttosto che anzitutto mossi dall’amor sui, equivarrebbe a cancellare – o a deformare – ciò che ci insegna la storia plurimillenaria dell’umanità. Il punto dunque non è questo, con buona pace delle tante prediche fastidiosissime che abbiamo ascoltato in questi giorni. Il punto vero è un altro. Tenendo fermo che la stella fissa a cui guardo nel determinare le mie scelte sul piano pratico non può che essere il mio «naturale» interesse, dovrebbe essere altrettanto evidente che nella tutela dei miei bisogni rientra a pieno titolo, e con molta forza, il prendersi carico delle esigenze degli altri miei simili. Non per «bontà», appunto. Ma perché la mia stessa sopravvivenza è legata all’esistenza di una comunità, senza la quale da solo non potrei farcela. Ma non c’è bisogno di scomodare Thomas Hobbes per sapere che una comunità, o uno Stato, può reggersi solo se ciascuno degli individui contraenti del patto sociale rinuncia ad alcuni diritti «naturali», proprio allo scopo di beneficiare della propria sicurezza. Tutto ciò implica consequenzialmente che, proprio in vista del proprio egoismo, e non in contraddizione con esso, nessuno possa dire «non me ne frega un c…», perché al contrario ciò che accade agli altri è fondamentale precisamente per il suo proprio interesse. Nel momento in cui hanno eretto barricate contro l’arrivo di donne e bambini in cerca di protezione, i cittadini di Goro o di Abano hanno inconsapevolmente dimostrato che a loro «non frega un c…» di se stessi, prima ancora che di altri esseri umani innocenti. IL GAZZETTINO Pagg 4 – 5 Il Nordest “vota” Hillary, per Trump solo uno su 10 di Natascia Porcellato e Annamaria Bacchin Tre su quattro sceglierebbero l’ex First Lady per la Casa Bianca. Un altro 15% non si esprime Nella sfida per la Casa Bianca, i nordestini sembrano avere pochi dubbi: secondo i dati elaborati da Demos per l'Osservatorio sul Nordest, a Donald Trump (10%) gli intervistati preferiscono in maniera piuttosto netta Hillary Clinton (75%). Appaiono consistenti le componenti di quanti non esprimono una preferenza tra i due contendenti (6%) o che non rispondono al quesito (9%). Al di là della contesa elettorale in corso, Veneto, FriuliVenezia Giulia e la provincia di Trento continuano a guardare con favore agli Stati Uniti. Tre intervistati su quattro, infatti, esprimono un'opinione (molto o abbastanza) positiva sugli Stati Uniti, mentre è il 20% giudicarli negativamente. Ieri si sono ufficialmente conclusi gli 8 anni del 44° Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. La sua elezione, avvenuta nel 2008, aveva da subito sollevato una speranza di cambiamento planetaria tanto alta da fargli assegnare il Premio Nobel per la Pace nel 2009. Anche nel Nordest la sua elezione non era passata inosservata. Se guardiamo ai giudizi espressi sugli Stati Uniti nel corso del tempo, emerge chiaramente come la presidenza Obama abbia segnato in positivo l'immagine del Paese tra i nordestini. Tra il 2003 e il 2008, prima della vittoria di Barack Obama, i giudizi positivi oscillavano tra il 43 e il 58%, mentre quelli negativi variavano tra il 32 e il 43%. Nel 2009, invece, cambiano repentinamente gli orientamenti: i giudizi positivi si fanno molto più ampi, arrivando al 74%, mentre i critici si riducono al 20%. Queste valutazioni, inoltre, persistono lungo tutti gli otto anni di presidenza Obama e arrivano sostanzialmente inalterate fino ad oggi. È da sottolineare, poi, come l'opinione sugli Stati Uniti sia positiva per la maggioranza di (quasi) tutti i settori sociali considerati nell'analisi. Tuttavia, il favore con cui viene guardato il Paese tende a crescere in misura maggiore tra gli anziani con oltre 65 anni (83%), gli operai (86%), le casalinghe (79%) e i pensionati (80%). Politicamente, invece, sono i sostenitori di Partito Democratico (87%) e Forza Italia (82%) a guardare con maggior favore agli Stati Uniti. Al contrario, lo scetticismo verso gli Stati Uniti tende a farsi più consistente tra i giovani (15-34 anni, 27-38%) e tra le persone di età centrale (45-54 anni, 31%). Guardando alla categoria socio-professionale, segnaliamo che è tra i disoccupati (49%) che emerge il malumore maggiore verso gli Stati Uniti, ma anche tra imprenditori, studenti, liberi professionisti e impiegati sembra trasparire un distacco (compreso tra il 24 e il 26%) più ampio rispetto alla media dell'area. Dal punto di vista politico, poi, la distanza dagli Stati Uniti tende a crescere soprattutto tra gli elettori dei partiti minori (41%), oltre che -seppur in misura minore- tra quanti sono vicini al Movimento 5 Stelle (24%). Anche questo presidente cambierà gli orientamenti dei nordestini come fece l'elezione di Barack Obama? È decisamente presto per dirlo. Per ora, possiamo limitarci a constatare come, per questa competizione, il favore degli intervistati penda in maniera decisa verso l'esponente del Partito Democratico statunitense. Il candidato Repubblicano Donald Trump, infatti, viene preferito dal 10% degli intervistati, mentre Hillary Clinton attira il favore di 3 nordestini su 4. Pag 21 Il Nordest vota Hillary perché è cambiata la percezione dell’America di Adriano Favaro Il Nordest americano. Nella terra di pragmatismo istintivo e di naturale efficienza il voto di Veneto e Friuli Venezia Giulia promuove una donna alla Casa Bianca. Per quattro anni ogni volta che apparirà Hillary si sentirà da Trebaseleghe a Contarina fino ad Amaro l'inno The Star Spangled Banner, La bandiera adorna di stelle. Stop. Al fantasmagorico Donald resterà la consolazione che uno su dieci di quelli che parlano veneto o friulano, con mille accenti, sarà dispiaciuto di non vederlo giurare con la mano sul cuore. Poiché nessuno degli intervistati però vota per eleggere uno dei due candidati (a dir la verità gli americani eleggono i delegati che poi sceglieranno il presidente) si può anche pensare che questi risultati in salsa Nordest contino zero. Invece no. Perché dentro questo plebiscito pro Hillary ci sono alcuni motivi che fanno riflettere. Il primo: se va bene una donna democratica presidente Usa il Veneto e il Friuli V.G. quando rivoteranno per i loro presidenti dovranno ancora trovarsi necessariamente davanti ad un blocco maschilista? Centro destra o centro sinistra poco conta qui. I cambi delle società avvengono anche per simboli. Quelli del potere politico del Nordest sono sempre stati fortemente e decisamente al maschile, anche se non maschilisti. Importa poco che ci sia stata una candidatura femminile nelle ultime regionali venete: bisogna vedere i nomi dei sindaci delle grandi città; quelli dei vertici dei consigli di amministrazioni delle aziende, delle banche, delle fondazioni. Rispondere Hillary, per il Nordest, è anche dire di sì a un potere che ha bisogno di risorse forti (e nuove), energie, competenze, solidità, esperienze, continuità. Donna Hillary, che qualche qualità la possiede, era stata battuta alle primarie democratiche da Obama: un attimo dopo collaborava con lui. E con lei ha collaborato Bennie Sanders, il senatore socialista battuto proprio dalla Clinton. Il secondo. Il Nordest era stato visibilmente anche amerikano, cioè antipatizzante per non dire ostile. Dalla base vicentina, ai tormenti di Aviano le genti di Veneto e Friuli V.G. (in parte) hanno costantemente guardato con sottile diffidenza le presenze americane nel loro territorio. Poi, dal 2009 c'è stato un innamoramento per gli Usa di Obama. A quella data ostili e amici degli Usa erano divisi a metà. Dopo Obama la visione positiva del Nordest verso gli Stati Uniti è schizzata al 74/76 per cento. E ci è rimasta. Nel 2004 , quando comincia la seconda parte dell'era di George W. Bush i consensi verso gli Usa erano del 58% contro il 40 degli ostili. Uno scenario cambiato. Enormemente. Da amerikano ad americano questo Nordest ha scelto attraverso il filtro delle stelle e strisce impresa, sicurezza, ideali, forza del fare. Il terzo. Il partito più yankee in terra Nordest appare il Pd, seguito da Forza Italia e Lega Nord. In coda, anche se staccati di pochi punti il M5S. Vuol dire che il Paese guardiano del mondo non è più visto come l'oppressore invasore (e certo i tempi sono cambiati) di qualsiasi regione dove fossero minacciati gli interessi Usa. Alleati degli Stati Uniti ricreati da Obama dunque; così come si è sempre guardata con benevolenza la presenza americana. Basti dare un'occhiata alle pagine del Gazzettino (la mostra è adesso alla Fenice) quando a Pellestrina, devastata dall'alluvione del 1966, arriva in visita Ted Kennedy, uno degli angeli del fango di Firenze. La visita di un cuginone grande e buono della cui solidità e solidarietà c'è da fidarsi. Stavolta quella figura indossa (qualche volta) una gonna e si chiama Hillary. È uno dei massimi esperti italiani di storia americana, già docente di Storia e istituzioni degli Stati Uniti, giornalista e scrittore, Massimo Teodori, proprio quest'anno ha pubblicato Obama il Grande (Marsilio ed.). Un libro dedicato al Presidente statunitense uscente, in cui l'autore analizza gli otto anni di Barack Obama alla Casa Bianca, tracciando così un primo bilancio sul suo operato: dalla politica estera al sistema sanitario nazionale, dalle questioni razziali alla finanza. Una narrazione approfondita, quella del doppio mandato del primo Presidente di colore degli Stati Uniti che, nella seconda parte, conduce invece il lettore in un percorso di comprensione e conoscenza della macchina delle elezioni presidenziali del paese a stelle e strisce. Da sempre appassionato studioso delle questioni d'oltreoceano dell'americanista ricordiamo anche i best seller Maledetti americani, Destra, sinistra e cattolici: storia del pregiudizio antiamericano (2002) e Benedetti americani: Dall'Alleanza atlantica alla guerra al terrorismo(2003), quindi Il sistema politico americano (2003), Raccontare l'America. Due secoli di orgogli e pregiudizi (2005). E per chi, come Teodori, ha raccontato in modo così intenso e profondo il Nuovo Mondo, il sondaggio di questa settimana in cui si definisce nitido un Nordest incline ad un giudizio favorevole rispetto agli Stati Uniti, lo storico commenta come «Si tratti di una proiezione piuttosto fedele alle opinioni e, soprattutto, alle teorie diffuse dai mezzi di comunicazione statunitensi specie negli ultimi otto anni». Dall'insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca nel 2008, in effetti, la curva dei favori a Nordest punta verso l'alto raggiungendo quasi un raddoppio dei consensi. «Evidentemente, ripeto, l'approvazione per il presidente Obama, per il suo impegno su molti fronti, quelli che racconto anche nel libro Obama il Grande, ha superato i confini statunitensi e, chiaramente, ha raggiunto l'opinione pubblica del Nordest e di tutto il mondo». Ed anche quando si parla dei successori di Obama, il Nordest si esprime in modo più che netto. A vincere è la Clinton per più' di sette persone su dieci. «Anche in questo caso veneti, friulani e trentini propongono un giudizio che riflette quello che, quotidianamente, emerge nei sondaggi americani e che danno maggior possibilità di successo e vittoria alla candidata democratica». Poche parole per descrivere i candidati. Un suo giudizio? «Hillary Clinton è la classica candidata democratica che guarda ai diritti globali, Trump il candidato repubblicano che parla in particolare alla classe media bianca che teme un po' l'emarginazione, impaurita dall'ascesa dei non-bianchi». Una volta eletto il nuovo presidente, l'America divisa in due dalle elezioni dovrà trovare una sua unità. «In caso di vittoria della Clinton, Donald Trump ha già anticipato che non riconoscerà il risultato, alludendo ad elezioni truccate, brogli elettorali e media di parte. C'è poca unità in queste dichiarazioni, ma staremo a vedere cosa accadrà. Di certo è una posizione che non ha precedenti». Quali gli aspetti più significativi sul fronte della politica internazionale dei due candidati? «Hillary Clinton si inserisce in una politica di continuità con quella di Barack Obama, mentre Donald Trump si muove verso un concetto di isolazionismo; una prospettiva negativa perchè allude ad una sottrazione del Paese alle sue responsabilità a livello internazionale. Impensabile però per gli Stati Uniti, per il peso della sua leadership e per il ruolo strategico nel mondo». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La dinastia e l’anomalia di Massimo Gaggi America, l’ora della scelta Un Paese abituato da sempre a considerarsi giovane e a guardare al futuro, vota oggi di malavoglia scegliendo tra due opzioni diversamente vecchie: Hillary Clinton, espressione della dinastia che da un quarto di secolo domina il vecchio establishment democratico, e Donald Trump, abile e moderno nel catturare gli umori antisistema che scuotono l’America, ma vecchio nello scegliere come sua base, nella frantumazione della società post ceto medio, una comunità con gli occhi fissi su un passato fatto di prosperità e certezze che non tornerà: quella dei bianchi non laureati e impoveriti. Il candidato repubblicano ha molte altre controindicazioni che lo hanno reso inviso anche ai leader del suo stesso partito - la sua impreparazione, l’assenza di un sia pur generico programma, la xenofobia, lo scarso rispetto per le regole della democrazia, oltre che per le donne e le minoranze - ma è soprattutto il tentativo di presentare questo imprenditore dall’indole rapace e protezionista come un fattore di novità ad essere fuorviante. Contro di lui Hillary avrebbe dovuto avere un’autostrada spalancata. E, invece, i democratici arrivano al giorno del voto col fiato sospeso. Fin qui rimasto in disparte, alla fine si è mosso anche Bruce Springsteen per cercare di galvanizzare in extremis un popolo di sinistra per nulla eccitato dopo una bruttissima campagna elettorale: progressista ma anche lui voce dell’America bianca e impoverita, quella dei colletti blu che non ce l’hanno fatta e ora guardano a Trump più per delusione che per convinzione, l’interprete di «Born in the Usa» è salito ieri sera sul palco del comizio finale di Hillary Clinton, arrivata al traguardo in debito d’ossigeno, come già accadde a Barack Obama quattro anni fa. Allora il presidente democratico si fece trascinare verso la vittoria da Bruce e da Stevie Wonder. Hillary ha chiamato a trainarla, a cantare in palcoscenico al suo fianco, gli idoli dei giovani (da Katy Perry a Miley Cyrus), quelli degli afroamericani (Jay-Z, Beyoncè, Wonder) e tante altre voci popolarissime in America, da Bon Jovi a James Taylor. Alla fine l’ex Segretario di Stato dovrebbe spuntarla, ma questa mobilitazione dice quanto debole sia la sua figura che non è mai riuscita e emergere in modo nitido in questa melmosa campagna elettorale, nonostante tutti gli errori e gli autogol di Donald Trump. Una campagna elettorale diversa da tutte le altre non solo per la presenza di un candidato anomalo e antisistema, ma anche per interferenze esterne di un’intensità mai sperimentata in passato: dall’intervento di potenze straniere (la Russia secondo i servizi segreti Usa), nel trafugare informazioni su Internet, manipolarle, amplificarne l’impatto attraverso i social network, all’intervento a gamba tesa dell’Fbi di dieci giorni fa, probabilmente frutto di una faida politica interna tra gli investigatori federali. L’altra sera l’Fbi ha fatto marcia indietro: nessun motivo per incriminare il candidato democratico. Sollievo per Hillary, ma comunque il nuovo capitolo dell’«emailgate» ha cambiato il corso della campagna elettorale e non solo perché 43 milioni di americani hanno votato prima del dietrofront dei federali: la Clinton dovrebbe farcela comunque, ma dieci giorni fa la sortita dei detective del Federal Bureau of Investigation bloccò anche il recupero in atto dei democratici candidati alla Camera e al Senato, sull’onda della vittoria della ex First lady nei tre dibattiti televisivi con Trump. Troppo tardi per recuperare: il Congresso resterà comunque, almeno in parte, in mani repubblicane. Il presidente che verrà eletto stasera avrà davanti a sé una sfida proibitiva: restaurare la leadership di un Paese non più determinante su tutti gli scacchieri mondiali e ridare fiducia a un popolo che, come ha detto Jonathan Safran Foer al Corriere , ha visto morire l’ american dream davanti ai suoi occhi. Chi, come l’Europa, era abituato a contare sull’ombrello politico e militare Usa, dovrà imparare a contare di più sulle sue forze. In politica, in campo militare e anche nella battaglia dell’informazione. I prossimi attacchi, dice l’ intelligence Usa, riguarderanno le votazioni in Europa: Germania, Francia, Italia. Pag 1 La sfida maschi-femmine di Aldo Cazzullo Sarà la più grande partita maschi contro femmine della storia. Se votassero solo gli uomini, Trump sarebbe eletto trionfalmente, con il 47 per cento contro il 42. Se poi votassero solo i bianchi, vincerebbe con percentuali bulgare. Ma la maggioranza dei votanti sono donne. E tra le donne Hillary Clinton prevale con il 53% contro il 38. Tra le nere, poi, arriva al 95%: praticamente tutte coloro che andranno a votare, tranne le due che ieri sono salite sul palco in North Carolina con la figlia di Trump. Non è solo un dato statistico. Sono due idee opposte del mondo e del futuro a scontrarsi. Un’America femmina, all’apparenza distesa, sorridente, come quella che Hillary ha evocato nell’ultimo spot, dove veste di beige e promette con toni suadenti di riunificare il Paese; e l’America virile e maschilista cui Trump si è rivolto sino a tarda notte urlando da sotto un berrettino rosso. Ma l’immagine simbolo di questa campagna elettorale resterà quella di ieri sera a Filadelfia, Pennsylvania, Stato democratico, ora in bilico. Il programma prevedeva una riunione delle due famiglie, gli Obama e i Clinton. È diventata la passerella di due uomini del passato, l’ex presidente Bill e il presidente in uscita Barack, e di due donne al centro della scena: Hillary, che affronta la notte elettorale da favorita; e Michelle, che avrebbe vinto senza problemi se fosse stato il suo turno, e ballava felice nella notte con Springsteen e Bon Jovi. L’aspirante «primo marito» Bill era scomparso a lungo. Troppo legato alla memoria di molestie e scandali sessuali, cui Trump ha alluso senza affondare davvero il colpo, memore di quando andavano insieme a giocare a golf e a parlare di femmine. Si è vista di più Michelle, che ha ripetuto sino alla noia l’invito a mobilitarsi contro il macho in parrucchino arancione accusato di voler cancellare le conquiste di Obama, a cominciare dalla prima: il Lily Ledbetter Act, la legge che il presidente firmò il 29 gennaio 2009, appena entrato alla Casa Bianca, per vietare alle aziende di pagare le donne, i neri, gli ispanici meno degli uomini bianchi. Trump ha condotto la sua campagna in solitudine, con rare e disastrose apparizioni della moglie Melania e altre più efficaci della figlia prediletta Ivanka. Ha fatto della distanza dall’establishment repubblicano un vantaggio. Ha irriso per mesi il «moscio» Jeb Bush. Ha trascinato sul proprio terreno l’altro candidato del partito, Marco Rubio, che ha accusato The Donald di averlo piccolo. La Cnn, ormai schierata con i democratici quasi quanto la Fox lo è con i repubblicani, ieri ha mandato in onda tre volte lo scontro tra Trump e la giornalista (della Fox) Megyn Kelly, che gli rinfacciava le ingiurie rivolte alle donne. Meghan McCain, la figlia di John, è scatenata contro Trump che ha ironizzato sui sei anni passati dal padre nelle carceri di Hanoi. E un altro boss del partito, Jason Chaffetz, ha preso le distanze con questa motivazione: «Ho una figlia di quindici anni. Come posso guardarla negli occhi e dirle che appoggio Donald Trump?». Non hanno simili scrupoli né Rudolph Giuliani, il sindaco della tolleranza zero, né Chris Christie, il governatore sovrappeso del New Jersey, che quattro anni fa aveva appoggiato Obama. E anche Michael Moore - odiatissimo dai repubblicani ma pur sempre maschio, bianco e figlio del Michigan postindustriale -, pur sostenendo Hillary, sotto sotto dà l’impressione di tifare Trump: «La sua vittoria sarebbe il più grande vaffanculo di sempre». In realtà gli attacchi e gli scandali degli ultimi tempi non avranno un impatto decisivo. Trump e Clinton entrano ogni giorno nelle case degli americani da 25 anni. Si sa, o si crede di sapere, tutto di loro. Anche per questo fuori dalle rispettive tifoserie sono così impopolari. L’allarme Trump può servire a Hillary per mobilitare la propria coalizione: le minoranze e appunto le donne. Resta da capire come potrà riunificare l’America una candidata eletta da uno schieramento definito dal sesso e dall’etnia. E come reagirà l’America bianca, che ha espresso il presidente per secoli e ora è all’opposizione da otto anni: gli uomini avevano votato in maggioranza per McCain nel 2008 e per Romney nel 2012. Lily Ledbetter era una manager dell’Alabama. Figlia di un meccanico, si era laureata e aveva lavorato alla Goodyear, unica donna in un ufficio di quindici uomini. Guadagnava 3.700 dollari al mese. I colleghi ne prendevano tra 4.200 e 5.200. Dopo vent’anni lasciò l’azienda e la portò in tribunale. Il caso arrivò alla Corte Suprema, che diede torto a Lily con questa motivazione: «Doveva dirlo prima». Si espresse in dissenso Ruth Bader Ginsburg, seconda donna nella storia a entrare alla Corte; poi Obama nominò Sonia Sotomayor, figlia di un operaio e di una centralinista portoricani, ed Elena Kagan, ebrea, ex preside a Harvard. Ora Lily Ledbetter appoggia Hillary. La legge sul diritto alla parità di salario porta il suo nome. La Goodyear non l’ha mai risarcita. Nel 1973 il giovane costruttore Donald Trump finì sotto processo, con l’accusa di non voler affittare le sue case a neri, portoricani e donne sole. Due anni dopo patteggerà un risarcimento. Ieri Hillary ha citato uno dei miti della sua giovinezza: Margaret Chase Smith, prima donna a essere eletta sia alla Camera sia al Senato; con i repubblicani. E ha annunciato la morte - «She passed away» - di Janet Reno, prima donna procuratore generale degli Stati Uniti, la carica che John Kennedy aveva affidato al fratello Robert. Janet era stata nominata da Bill Clinton. Tra il vecchio e il nuovo gli americani hanno sempre scelto il nuovo; che ora sembra avere il volto di un outsider miliardario, contrapposto a un simbolo delle élites, oggettivamente screditato: il che spiega l’incertezza di queste ore. Ma i rapporti di forza, la logica, la mentalità che l’outsider rappresenta sono vecchissimi. Tra poco sapremo se le donne avranno coronato la loro storica ascesa con l’ingresso di Hillary alla Casa Bianca, come indicano tutti i sondaggi. O se invece i sondaggi sbagliano, e l’antico potere maschile avrà resistito dietro la maschera del tutto inedita e imprevedibile di Donald Trump. Pag 1 Le metamorfosi della politica: la cattiveria non è più un tabù di Pierluigi Battista Matteo Renzi lo ha confessato in tv: «Sono troppo cattivo». Come il protagonista del film d’animazione Cattivissimo me. Che poi nel film il cattivissimo si redime e diventa buono, come l’avaro Ebenezer Scrooge nel racconto natalizio di Dickens. Ma con la cattiveria si rischia, nota Oscar Farinetti, di risultare antipatici. Cosa che alla sinistra è accaduto spesso nel passato. Non sarà che la cattiveria, così candidamente confessata e rivendicata dal premier rischia di diventare il principale handicap per la sua già brillantissima carriera politica? Di certo il cattivismo è l’antitesi del buonismo, una delle categorie politico-antropologiche cruciali della Seconda Repubblica. «Cattivissimo me»? Sì, certo. Ma non è il titolo di un celebre film d’animazione, è piuttosto la confessione di Matteo Renzi intervistato da Giovanni Minoli: «Sono troppo cattivo». Che poi nel film il cattivissimo si redime e diventa buono, come l’avaro Ebenezer Scrooge nel racconto natalizio di Charles Dickens. Questa è un’altra storia. E che poi con tutta questa cattiveria si rischia, come predica il fido Oscar Farinetti, di risultare antipatici. Cosa che alla sinistra è accaduto spesso nel recente passato, tanto da suggerire il titolo di un saggio di Luca Ricolfi, Perché siamo antipatici, dove si spiega perché il «complesso dei migliori», quel misto di saccenteria, disprezzo per il popolo, snobismo, superbia elitaria, abbia creato una pellicola di diffidenza tra la sinistra e la sua un tempo florida base popolare. Oggi l’antipatia può declinarsi in forme nuove: una certa protervia, una certa insofferenza per le idee diverse («gufi»), una certa inclinazione a equiparare il dissenso a una turba psicologica nutrita di rancore e malanimo («rosiconi»). Non sarà che la cattiveria, così candidamente confessata e rivendicata dal presidente del Consiglio negli studi di Minoli su La 7, rischia di diventare il principale handicap per la sua già brillantissima carriera politica? E anche questa cattiveria, del resto, regala al renzismo un ulteriore elemento di discontinuità. Si parla di Renzi come un figlio del berlusconismo. Ma Berlusconi voleva apparire buonissimo. Un Caimano secondo i suoi nemici, Berlusconi non sopportava il conflitto, la rudezza, l’asprezza delle accuse. Lui che avrebbe voluto essere il Thatcher italiano, quando una delegazione di minatori del Sulcis andò a manifestare sotto Palazzo Chigi, non fece quello che avrebbe fatto la Lady di ferro: mandare la polizia a disperdere i minatori. No, si mise un caschetto giallo e disse ai manifestanti di sentirsi uno di loro. Lui stesso ha del resto confessato di farsi convesso con i concavi e concavo con i convessi, per evitare urti, durezze, cattiverie reciproche. Dopo una tragedia del mare che aveva provocato l’ecatombe di profughi albanesi, Berlusconi volle subito adottare tra le lacrime una famiglia di sopravvissuti. Ci si domandò se si trattasse di lacrime vere, ma il messaggio era: siate più buoni. Non c’era rivendicazione di cattivismo. Il cattivismo, poi, è l’antitesi del buonismo, una delle categorie politico-antropologiche cruciali nella storia della Seconda Repubblica. Veramente nessuno ha mai rivendicato di essere «buonista», casomai di essere buono e basta. Ma «buonista» era l’epiteto che la destra affibbiò a uno dei leader ulivisti, Walter Veltroni. Ne scaturirono infiniti dibattiti, ma di certo la bontà e il buonismo si sarebbero malamente assortiti con l’orgoglio della cattiveria sbandierato da Matteo Renzi, con il rischio dell’antipatia, e dunque, nell’era della politica a rimorchio del consenso, con il rischio dell’insuccesso. E poi, per somma ironia, se proprio si vuole trovare un precursore della cattiveria politica, quello è il nemico di oggi di Matteo Renzi, lo spettro, il fantasma del passato: Massimo D’Alema. Il quale D’Alema, si sa, non avrebbe rinunciato per nulla al mondo al gusto della battuta feroce ma con il suo sarcasmo ha generato una vastissima corrente di antipatia da parte di chi quelle battute non apprezzava. Il paradosso è che Renzi, oggi impegnato in un duello rusticano con Massimo D’Alema, abbia ereditato dal suo attuale nemico una certa propensione alla cattiveria. Mentre è difficile scorgere cattivi veramente cattivi nei politici della Prima Repubblica (Andreotti era cinico e sornione, non cattivo), nella nuova politica incardinata sulla psicologia dei leader la cattiveria diventa un elemento stilistico di cui gli storici futuri del costume politico del nuovo millennio dovranno tener conto con una certa attenzione. Mentre sull’antipatia i giudizi potranno essere diversi, così come su quello strano fenomeno della psicologia politica collettiva secondo il quale la simpatia iniziale si trasforma impercettibilmente ma inesorabilmente in antipatia. Perché eravamo simpatici? Pag 2 Ma chiunque vinca non risolleverà l’immagine Usa di Ian Bremmer Siamo finalmente al traguardo di quest’avventura distopica che chiamiamo elezioni presidenziali americane. Chi verrà scelto stasera dal popolo degli Stati Uniti sarà comunque il leader col mandato più debole tra quelli che sono arrivati alla Casa Bianca nel dopoguerra. All’interno perché, dopo una campagna così brutale e piena di veleni, un’ampia minoranza di americani crederà, comunque vadano le cose, che i risultati del voto non sono attendibili. Saranno in molti a sostenere, con varie argomentazioni, che il vincitore non abbia, comunque, la legittimazione necessaria per governare gli Stati Uniti. La nuova Amministrazione dovrà, poi, vedersela con un Congresso che resterà diviso e polarizzato. Con i repubblicani che, nonostante la lettera di James Comey, che ha scagionato in extremis Hillary Clinton, saranno comunque tentati fin dal primo giorno di riaprire indagini e audizioni sull’«Emailgate», se sarà lei a diventare presidente. Sul piano internazionale, poi, si rafforzerà sempre più la prospettiva di quello che io chiamo il «mondo G zero»: quello nel quale, venuta meno l’egemonia politica dell’America e il suo ruolo di gendarme del mondo, si impone uno scenario multipolare dominato dall’emergere di potenze regionali spesso in conflitto tra loro, senza più una leadership globale come quella un tempo incarnata dal G7 o quella che ci si aspettava potesse essere interpretata dal G20. La speranza di molti era che gli Stati Uniti potessero tornare, dopo un periodo di eclisse, a interpretare quel ruolo. Ma l’America, tuttora l’unica potenza globale del pianeta, ha prodotto danni strutturali (e quindi difficilmente riparabili) al suo ruolo di garante dell’ordine internazionale in due occasioni. La prima 15 anni fa, quando ha reagito in modo eccessivo agli attacchi di Al Qaeda l’11 settembre 2001: le guerre infinite, costosissime e fallimentari in Iraq e Afghanistan. La seconda adesso, con questa campagna elettorale devastante e infinita. Che ha spinto verso il traguardo due candidati col più basso livello di gradimento da quando vengono svolti sondaggi sugli aspiranti alla Casa Bianca. Difficile che uno di questi due possa essere il leader capace di ridare fiducia alla nazione e di ripristinare la credibilità perduta dagli Stati Uniti nel mondo. LA REPUBBLICA Pag 1 L’onda da fermare di Mario Calabresi Vincerà anche questa volta l'irrazionalità, il gesto clamoroso e disperato contro un mondo da cui ci si sente dimenticati e esclusi? Il modello Brexit incendierà anche le pianure americane o un sussulto di razionalità riuscirà a tenere a bada gli spiriti selvaggi che soffiano a ogni latitudine? Se guardiamo al voto di oggi con il fiato sospeso è perché il rischio di una rottura storica è reale, perché ciò che sembrava impossibile e quasi ridicolo ha preso forma e consistenza. Tanto che il presidente in carica, nell' ultimo giorno di campagna elettorale, è stato costretto a correre in Michigan, New Hampshire e Pennsylvania. È andato nei tre stati operai tradizionalmente democratici, per provare a scongiurare un cambio di bandiera dagli esiti fatali per Hillary Clinton. Se questo accade è perché l'avverbio tradizionalmente non ha più uso nel mondo, tali e tante sono le rotture di prassi, appartenenze e anche di senso comune a cui stiamo assistendo. Si usa definire questo tempo come "Età dell'Incertezza", ma ora stiamo scivolando sempre più nel tempo dell'Irragionevolezza. Irragionevole infatti sarebbe Donald Trump alla Casa Bianca: la vittoria dell'imbonitore, di chi spaccia ricette semplici e di immediata applicazione per risolvere istantaneamente problemi complessi e profondi. Si può sorridere e dire che non è la prima volta, ma l'importanza della posta in palio rende inadatto ogni paragone. Saremmo di fronte alla negazione di un sistema di valori, in più di un'occasione stravolti e negati ma formalmente sempre rispettati, che suonerebbe come una sorta di liberi tutti per populisti di ogni specie. Chi potrebbe più, per fare un esempio tra i tanti possibili, richiamare il presidente ungherese Orbán al rispetto di una grammatica umanitaria quando l'uomo che siederà nello Studio Ovale ha proposto ricette più incendiarie delle sue? L'unica certezza che ci resta è che si tratta di una partita tutta in difesa, in cui non c'è più spazio per parlare di costruzione, speranza, collaborazione. Le parole d'ordine dell'agenda mondiale sono ricorrenti, ci sono sempre un noi e un loro, una linea da tracciare, un muro da costruire, qualcuno da mandare a casa e molto da abbattere o più gentilmente da smontare. Di progettare si parla poco, perché è il concetto stesso di futuro che è diventato difficile da declinare. È una partita in difesa perché i progressisti non hanno parole d'ordine convincenti da opporre agli slogan del populismo, dei nuovi razzismi e delle derive xenofobe. Perché non hanno spinta propulsiva e soprattutto non hanno la capacità di offrire nuove chiavi interpretative in grado di disegnare oggi un'agenda credibile. Una vittoria di Trump non solo certificherebbe una rottura nel tessuto sociale americano, già drammaticamente avvenuta e difficilmente ricomponibile anche in caso di successo democratico, ma finirebbe per contagiare le altre democrazie occidentali sempre più fragili e sotto pressione. Con lo stesso meccanismo con cui si generano le onde, nel modo magnifico con cui le descrive il premio Pulitzer William Finnegan nel suo potente memoir sul surf Giorni Selvaggi: "In mare aperto, una tempesta sconquassa la superficie dell'acqua, creando una mareggiata, un'increspatura di onde confuse e poco potenti che a mano a mano si addensano, si fanno più grandi e, incalzate dalla forza del vento, danno vita al mare grosso. A riva, su una costa lontana, noi riceviamo l'energia che si sprigiona da quella tempesta, irradiandosi attraverso acque più calme sotto forma di un treno d'onda". Quella tempesta, figlia della delocalizzazione del lavoro, delle bolle speculative, delle paure di non essere all'altezza di un mondo profondamente cambiato dalla tecnologia, ha cominciato a gonfiare l'onda molto tempo fa ma quel treno d' acqua troppo a lungo è stato ignorato. Oggi è la sfida di Trump, domani - la prossima primavera - sarà Marine Le Pen con il suo Fronte nazionale a togliere il sonno all'Europa e a moltiplicare fantasmi che si sono già ampiamente risvegliati. E ogni partita, ogni rottura sembra alimentare la successiva, in una giostra da cui non sappiamo come scendere. Pensate alla Gran Bretagna, al modo amaro con cui si sta allontanando dall'Europa, agli istinti che queste rotture liberano: i tre giudici dell'Alta Corte che hanno imposto al Parlamento di votare sulla Brexit sono stati messi all'indice ed esposti al dileggio come "nemici del popolo". Un liberi tutti, una resa dei conti, una voglia di dileggio che sembra conquistare i cuori e annebbiare le menti. Ma per andare dove? Per costruire cosa? L'idea è che non ci sia futuro e quindi nulla da tenere caro, nulla da preservare, da trattare con attenzione e allora si possono sfogare gli istinti, prendere a calci ogni cosa esistente, tanto se non esiste domani a cosa serve preoccuparsi se la casa brucia? Così siamo ridotti a sperare di scampare il pericolo, in un mondo che viene giù, in cui saltano riferimenti, prassi e in cui non abbiamo più il tempo e la forza di far sentire la voce di fronte a quelle violazioni che ci hanno sempre indignati. E quelli che della democrazia non si preoccupano troppo, si chiamino Erdogan, Al Sisi o Putin, gonfiano il petto vedendoci deboli e smarriti. Abbiamo bisogno di orgoglio, di persone capaci di recuperare i nostri valori e di rivendicarli e di cittadini che siano capaci di tenere la testa fredda e di non farsi contagiare dalle sirene del cinismo e dello sfascio. Se vincerà Hillary sarà solo un punto di partenza. Il resto è tutto da ricostruire. AVVENIRE Pag 1 Risalire il vento di Vittorio E. Parsi Usa: dopo l’orribile disfida La più brutta campagna presidenziale del dopoguerra è finalmente alle spalle: non ne sentiremo la mancanza. Alla fine vedremo se i soldi pesano più degli insulti: certo di idee se ne son viste poche dopo l’uscita di scena di Bernie Sanders. Per quello che abbiamo sentito, e per la caratura dei due candidati principali, sembra di essere tornati all’America bucolica, periferica e marginale di due secoli or sono, quella raccontata da Alexis de Tocqueville nel suo capolavoro La democrazia in America. Peccato che oggi ciò che succede nella politica americana influenzi la vita di tutti noi. Eppure, mai come in questa campagna, il mondo è sembrato assente dalla competizione. Non perché non fosse interessato o, per meglio dire, preoccupato. E neppure perché non fosse evocato come luogo da cui provenivano complotti o ingerenze (la Russia, la Cina, l’Arabia Saudita) o perché infestato di popoli da cui occorre proteggersi (i latinos, gli arabi). Ma per la sensazione amara e sgradevole che nessuno dei due intendesse indossare le insegne del 'leader dell’Occidente', più che appagato di poter e voler diventare, semplicemente, 'il capo degli Stati Uniti'. Al di là delle nefandezze di cui Hillary Cinton e Donald Trump si sono accusati negli ultimi mesi, resta un quadro miserevole dello stato di salute della più antica democrazia contemporanea: un processo di selezione sempre più lungo e costoso alla fine ha prodotto questa alternativa francamente deludente. Da un lato, un bislacco miliardario; dall’altro, una ex first lady in cerca di un riscatto anche personale. E l’America sullo sfondo. Se dovesse vincere Trump, la crisi del sistema partitico americano sarebbe definitiva e manifesta, tale da costringere a una sua integrale riforma. La vittoria di Clinton, paradossalmente, potrebbe illudere i democratici di essere ancora 'un partito' e non una confederazione di interessi tenuti insieme, soprattutto, dal denaro rastrellato dalla vincitrice. Di certo, delle due Americhe che si sono confrontate in queste settimane, nessuna appare capace di egemonizzare, sedurre, attrarre l’altra. Alla coalizione arcobaleno di Hillary sembrano sfuggire i millennials, i giovani dal futuro incerto nonostante la sempre più costosa istruzione e il ceto medio bianco e impoverito. Quest’ultimo, che una volta costituiva la spina dorsale del Paese, si è ritrovato in gran parte nei messaggi semplicistici e razzisti di Trump, convincendosi così sempre più di essere ormai solo la minoranza più consistente e, a un tempo, la meno rappresentata e la meno protetta. E i violenti disordini razziali che hanno accompagnato questa campagna sono lì a ricordarci che il rischio di una guerra civile strisciante, di una secessione contea per contea del 'grande Paese' non è per nulla irrealistico. Il nuovo presidente potrebbe così essere avvertito come 'legittimo' solo dai 'suoi', da una parte, ma non da tutti. Intendiamoci, è già capitato e anche a grandi presidenti, che però erano animati da una grande visione, da un progetto, come Abramo Lincoln. Ma sappiamo come andò a finire. Di sicuro, l’immagine della democrazia americana ne esce fortemente appannata e, con lei, della democrazia nel suo complesso. Tutte le democrazie occidentali sono infatti alle prese con una crescente faglia che le attraversa, una spaccatura tra l’establishment e quelli che ne contestano il sempre più marcato arrocco nei propri intollerabili privilegi. Ma non è solo questo a preoccupare. Ciò che ha rappresentato storicamente il punto di forza della democrazia sulle altre forme di governo è stato l’aver depotenziato il momento più rischioso per ogni regime politico: quello della transizione di potere. Il meccanismo delle elezioni competitive tra candidati che si rispettino reciprocamente, infatti, rende meno traumatico questo passaggio, lo trasforma in un momento più ordinario. A condizione però che tutti ne accettino l’esito, senza contestazioni a priori o senza il sospetto che il risultato possa essere stato falsato da brogli o complotti. Tutto ciò è stato messo in dubbio da questa brutta campagna e non sarà privo di conseguenze. Comunque vada a finire, una cosa è sicura: il 45° presidente degli Stati Uniti non godrà certamente di quello 'stato di grazia' nei confronti del mondo che accompagnò Barack Obama per un lungo periodo, ben superiore ai canonici primi 100 giorni della cosiddetta 'luna di miele'. Dovrà risalire il vento e non sarà impresa facile né scontata. Pag 4 I cattolici americani. Una “bussola” personale di Elena Molinari Rappresentano un quinto dell’elettorato americano: un gruppo che democratici e repubblicani non possono permettersi di ignorare. Ma quest’anno i cattolici americani si trovano di fronte a una scelta moralmente difficile. Sulla scheda elettorale da una parte c’è Hillary Clinton, la paladina del diritto all’aborto che non tollera alcun limite all’interruzione di gravidanza, neanche negli ultimi tre mesi di gestazione. Clinton che da un quarto di secolo è insieme al marito ai vertici della politica nazionale, schivando scandali e architettando sotterfugi che le hanno fatto perdere la fiducia degli elettori. Dall’altra parte c’è Donald Trump, il miliardario che non paga le tasse da anni e che si è vantato in termini crudi e offensivi di aver molestato sessualmente decine di donne. Il tycoon che vuole costruire un muro al confine con il Messico e che in tema di difesa della vita ha cambiato idea o posizione quasi mezza dozzina di volte. Non a caso, quest’anno il 20% degli elettori di fede cattolica si definisce ancora «indeciso», a una settimana dal voto. Astenersi, ricordano i vescovi statunitensi, non è la soluzione. I fedeli allora cercano una “bussola” per orientarsi, e spesso la trovano nella loro storia familiare. Il milione e mezzo (circa) di elettori cattolici di origine latinoamericana ha un familiare che vive negli Stati Uniti senza documenti. Per loro dare la preferenza al candidato che ha criminalizzato gli «hombres cattivi» che vengono dal Sud è particolarmente difficile. I cattolici bianchi tendono invece a dare la loro preferenza al repubblicano. Il maggiore peso numerico dei latinos oggi potrebbe far pendere l’ago del voto cattolico verso il piatto democratico. IL GAZZETTINO Pag 1 Ma la sfida europea piace a Palazzo Chigi di Alberto Gentili Matteo Renzi ha saputo dell’attacco ruvido di Jean-Claude Juncker durante il trasferimento tra Frosinone e Latina. E, raccontano, invece di una smorfia di disappunto, in faccia gli si è allargato un sorriso. Mai, come in queste ore, al premier fa comodo lo scontro con Bruxelles. Tant'è, che da lì a poco, ha messo a verbale che «l'Italia tira dritto, non guarda in faccia a nessuno». Perché in gioco «è la stabilità delle scuole dei nostri figli». Parole e argomenti utili per provare a incassare qualche Sì in più in vista del referendum del 4 dicembre. In realtà sulla legge di stabilità la trattativa è ancora in corso, come dimostra il confronto (garbato) tra il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, e il commissario europeo Pierre Moscovici. Soltanto mercoledì 16 novembre la Commissione presieduta da Juncker recapiterà a Roma la lettera con il giudizio sulla legge di stabilità. Quella che stanzia nel 2017 2,8 miliardi per la ricostruzione, 3,4 miliardi per la messa in sicurezza degli edifici nelle aree a rischio sismico, e altri 3,4 miliardi per fronteggiare l'emergenza-migranti. «Si tratta di cifre», sostiene Renzi con i suoi, «che non abbiamo alcuna intenzione di mettere in discussione. Perché da dieci anni il nostro deficit non era così basso e perché sono sulle nostre spalle emergenze e circostanze eccezionali, come il terremoto e gli sbarchi dei migranti, che nessuno può mettere in dubbio. Tantomeno chi, come la Germania, non rispetta le regole sul surplus commerciale, e chi non dà seguito agli impegni sulla ricollocazione dei migranti». Una linea della fermezza molto utile al premier, impegnato nel suo tour dell'Italia per conquistare Sì tra le file degli indecisi. «In questa fase di euroscetticismo litigare con Bruxelles porta voti...», dice uno dei collaboratori più stretti di Renzi. «Per questa ragione fino al 4 dicembre, qualunque cosa dica o scriva la Commissione europea, non toccheremo una virgola della legge di stabilità...». Pausa, sorriso sarcastico: «Tanto più che Juncker ha dato numeri a vanvera. Ha detto che l'impegno dell'Italia era fissare il deficit-Pil all'1,7%, invece era l'1,8%. E che stiamo puntando al 2,4%, mentre nella legge di stabilità è scritto 2,3%...». Fare la voce grossa con Roma, allo stesso tempo, è utile a Juncker. Negli ultimi mesi, infatti, è ripartito l'assalto dei falchi tedeschi, guidati dal ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble, intenzionati a scippare alla Commissione il controllo sui bilanci nazionali trasferendolo all'Esm (il fondo salva-Stati diretto dal tedesco Regling). Così, a margine della riunione di ieri dell'Eurogruppo, si parlava apertamente di «sceneggiata»: «Lo scontro fa bene a entrambi. Ma, sottotraccia, c'è un atteggiamento costruttivo: si sta cercando di trovare un equilibrio tra le regole di bilancio e l'esigenza italiana di spingere la crescita e fronteggiare le emergenze migranti e terremoto». Detto questo, Renzi non appare assolutamente preoccupato dall'eventualità di una procedura d'infrazione contro l'Italia. Perché il precedente di Spagna e Portogallo, graziate in luglio dalla Commissione nonostante il deficit eccessivo, dimostra che il rischio non è alto. E perché una procedura d'infrazione in questa fase sarebbe utile al premier italiano per continuare la sua crociata contro l'austerity. Inoltre, proprio per poter «contare di più in Europa» e per «cambiare l'Unione, fino ad arrivare a mettere il veto sul bilancio europeo» («l'Italia non farà più da salvadanaio per gli altri»), Renzi chiede di votare Sì al referendum per rendere il suo governo «più forte e più solido» nella trattativa con Bruxelles. Pag 1 Il Pd spaccato e la scissione che non ci sarà di Alessandro Campi Tutti prima o poi se l'aspettano, molti la invocano e la desiderano, alcuni la temono, altri ancora la minacciano, ma alla fine nel Pd non ci sarà alcuna scissione. La storia della sinistra italiana novecentesca dice in effetti tutt'altro: da Benito Mussolini ad Antonio Gramsci, da Giuseppe Saragat a Lelio Basso (ma non dimentichiamoci di Fabio Mussi e Armando Cossutta) quella social-comunista è stata una storia costellata da rotture ideologiche e secessioni politiche, spesso accompagnate da insanabili contrasti personali. Ma stavolta, al di là di una cronaca che sembra rendere l'addio della minoranza antirenziana un esito quasi inevitabile, non ci sono le condizioni politiche oggettive perché si crei, a sinistra del Pd, una nuova formazione politica, la cui nascita davvero non si capisce a cosa servirebbe e a chi gioverebbe. A meno di non immaginare la formazione di un'aggregazione destinata ad avere una funzione puramente testimoniale e protestataria. Ma andiamo con ordine. Sentendo l'altro giorno il pubblico della Leopolda gridare Fuori, fuori all'indirizzo dei principali esponenti della minoranza di sinistra, è venuto facile il paragone con il Fini che chiedeva a Berlusconi, durante una mitica riunione della direzione nazionale del Pdl, se mai avesse avuto il coraggio di cacciarlo dai ranghi del partito che aveva contribuito a fondare (coraggio che in effetti ebbe e si è visto poi la fine che ha fatto il centrodestra). Ma si tratta di un paragone impressionistico che non tiene conto di almeno quattro elementi (in ordine crescente di importanza). Per cominciare, l'altro giorno, diversamente da quando ci fu lo scontro tra Berlusconi e Fini, non si svolgeva un appuntamento di partito, si era invece all'interno di una kermesse di fedelissimi del capo del governo. C'è poi da considerare la particolare congiuntura politica nella quale si è svolta questa edizione della Leopolda: nel bel mezzo di una campagna referendaria che sta esacerbando non poco gli animi all'interno dei diversi schieramenti. Quella di Renzi è stata, dinnanzi a sondaggi per lui non incoraggianti, una chiamata alle armi contro chiunque, anche all'interno del suo partito, sostenga le ragioni del No alla riforma. Ma c'è davvero una bella differenza tra il criticare, anche aspramente, la minoranza che gli si oppone e il desiderarne la cacciata come se fosse composta da potenziali traditori. Bisogna poi ricordarsi che le scissioni ricorrono con frequenza nella storia della sinistra movimentista, gruppettara, massimalista, radicale ed estremista. Ma gli oppositori di Renzi, da D'Alema a Cuperlo, vengono da un'altra scuola: quella comunista, quella della sinistra ordine e disciplina, istituzionale e gerarchica. Una formazione che non si perde facilmente. Quando Bersani dice che non lascerà mai il Pd, non esprime il suo attaccamento alla poltrona, ma un'idea di appartenenza politica che non prevede che si metta a repentaglio la vita del Partito (con la P maiuscola) solo per inseguire un disegno velleitario o per consumare una vendetta personale. Da ultimo, va detto che il Pd non è il Pdl, anche se Grillo sostiene da tempo che si tratti della stessa cosa con la differenza della sola lettera finale. Il partito di Berlusconi era davvero una monocrazia, e in parte lo è rimasto. Il dissenso interno era vissuto emotivamente come un atto di lesa maestà. Il Pd è invece un partito strutturato sul territorio e a suo modo complesso, plurale e articolato, non foss'altro per essere nato dalla confluenza delle due più solide culture politiche dell'Italia repubblicana. Ciò detto, non c'è dubbio che lo scontro di Renzi con alcuni esponenti della minoranza interna, per ragioni anagrafiche e di carriera facile bersaglio della sua retorica giovanilistica e nuovista, abbia ormai assunto toni esacerbati e che sfiorano la reciproca intolleranza. Ma la rottura con Massimo D'Alema e Pierluigi Bersani, un misto di antipatia personale e di incomunicabilità politico-generazionale, non vuol dire che all'interno del Pd lo scontrodissenso tra maggioranza e minoranza debba per forza sfociare in una scissione. Il cambio di rotta di Cuperlo sul referendum, dopo la proposta di Renzi di modifica della legge elettorale, dimostra che esiste uno spazio pragmatico di compromesso che in fondo tutti nel Pd desiderano. D'altro canto, per tornare alla questione delle convenienze politiche, se non è interesse di Renzi recitare la parte dell'epuratore di ogni spazio di dissenso, dal momento che l'unanimismo acritico intorno al leader segna sempre, non il culmine della sua forza, ma l'inizio della sua parabola discendente, non è interesse della minoranza di sinistra chiamarsi fuori, per un malinteso senso dell'ortodossia ideologica o per un eccesso di orgoglio, dalla sfida riformista che Renzi ha lanciato alla sinistra e al Paese e che rappresenta la sua vera forza in questo momento storico. Uscire dal Pd, magari con l'idea di dialogarci da sinistra da posizioni fatalmente subalterne, è quanto di più antipolitico si possa immaginare. Un errore troppo grossolano per immaginare che venga commesso da uomini di provata esperienza e che come ambizione legittima hanno quella di riprendersi la guida del partito o di modificarne gli attuali rapporti di forza. Ma questa è appunto un'altra partita, da combattere per intero dentro il Pd. LA NUOVA Pag 1 Clinton – Trump, in corsa due sfidanti già vecchi di Gigi Riva Come in un’inversione di senso, d’improvviso l’America ci appare, in capo a questa sconcertante campagna elettorale, non più come una promessa di futuro, ma come una proiezione ingigantita del nostro penoso presente. Non è solo l’età dei due settantenni candidati a riflettere, in uno specchio deformato, la fine delle speranze cui il Nuovo Mondo ci aveva abituato, per stare ai tempi recenti, con la fantasia che aveva portato alla Casa Bianca i sogni dei “giovani” Kennedy, Clinton marito, Obama. È che, oltre l’Atlantico, si è trasferita la sfida tra sistema e anti-sistema già noto all’Europa, cioè il dualismo del Ventunesimo secolo, sostitutivo della vecchia contrapposizione tra destra e sinistra. E insieme simbolo di una crisi della democrazia rappresentativa incapace ormai di portare al potere i migliori e trampolino di lancio per chi si propone di parlare alla pancia invece che al cervello degli elettori. Sarebbe inspiegabile altrimenti l’ascesa di un Donald Trump che, anche perdesse come da ultimi pronostici della vigilia, resterebbe comunque il termometro di una febbre che corrode un corpo malato. Gli è bastato agitare il pugno del politicamente scorretto molto di moda per dare sfogo a quella insoddisfazione anti-élite che attraversa il corpo sociale. Fino a far dimenticare a una larga fetta di concittadini peccati imperdonabili nella patria fondata sul dio dollaro, come una certa abitudine a dribblare o eludere le tasse. Laddove per infedeltà fiscale di solito si va in galera e si butta pure la chiave. La nebbia che nasconde dubbiosi affari non è stata diradata dal miliardario, venuto meno, in questo caso, a un secondo principio fondante come l’assoluta trasparenza che si pretende da chi vuole arrivare alla Casa Bianca. Tutto dimenticato in nome di una spregiudicatezza che si apparenta, nel nuovo vocabolario della politica, con la parola modernità e allude a una pulizia spiccia di vecchi metodi, riti e persone. È questo che Trump nel fondo rappresenta per fan trasversali che pesca solo in parte nel bacino repubblicano. Gli altri arrivano da sottostrati politici anche agli antipodi, comunque arrabbiati. La colpa democratica è stata quella di opporre, a questo vento incattivito diventato tornado, una candidata che è l’incarnazione esatta dell’establishment fin dallo stesso nome. Dopo un padre e un figlio, i Bush, un marito e una moglie, Bill e Hillary, per la perpetuazione di famiglie che avvicinano pericolosamente il sistema a una questione dinastica: perciò autoreferente e lontano dalla gente. Non ha giovato, alla prima donna che sarà forse titolare della Sala Ovale, la nomea di persona gradita ai mercati, a Wall Street, quanto di più inviso nel sentire comune. Il fatto che li possa “rassicurare” non è un atout, ma un handicap, nel cupio dissolvi che sposa la logica del tanto peggio tanto meglio. Hillary sconta anche l’arrivare nella scia del primo presidente nero che tante aspettative aveva generato. E rispetto al quale, nel suo campo, appare comunque come la restaurazione voluta dai soliti che contano dopo che si erano presi la vacanza con Barack Obama, un politico esterno a certe logiche e che, all’epoca della prima vittoria, aveva alle spalle un solo mandato senatoriale: la ricreazione è finita, l’ordine delle classi dirigenti si ristabilisce (ma fino a quando?). L’America dunque esprime, per motivi diversi, due candidati comunque inadatti. In una corsa al ribasso che è un segnale anche del suo aver abdicato al monopolio del titolo di superpotenza esercitato da quando implose l’Unione Sovietica. Altri attori si presentano sui palcoscenici delle crisi regionali e reclamano il nome in vista sul cartellone. Non solo la Russia di Putin, per esemplificare, ma persino, per stare vicino a noi, la Turchia del liberticida Recep Tayyip Erdogan. Per gestire il nuovo ordine che si annuncia, negli Stati Uniti d’America come altrove, tocca da lontano fare il tifo per la preparata, tenace, gelida, antipatica, sorpassata Hillary. Nella ricerca del “meno peggio” propria di questi tempi incerti. Torna al sommario