Rassegna stampa 8 novembre 2016

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Rassegna stampa 8 novembre 2016
RASSEGNA STAMPA di martedì 8 novembre 2016
SOMMARIO
“La più brutta campagna presidenziale del dopoguerra - commenta oggi Vittorio E.
Parsi sulla prima pagina di Avvenire - è finalmente alle spalle: non ne sentiremo la
mancanza. Alla fine vedremo se i soldi pesano più degli insulti: certo di idee se ne son
viste poche dopo l’uscita di scena di Bernie Sanders. Per quello che abbiamo sentito,
e per la caratura dei due candidati principali, sembra di essere tornati all’America
bucolica, periferica e marginale di due secoli or sono, quella raccontata da Alexis de
Tocqueville nel suo capolavoro La democrazia in America. Peccato che oggi ciò che
succede nella politica americana influenzi la vita di tutti noi. Eppure, mai come in
questa campagna, il mondo è sembrato assente dalla competizione. Non perché non
fosse interessato o, per meglio dire, preoccupato. E neppure perché non fosse
evocato come luogo da cui provenivano complotti o ingerenze (la Russia, la Cina,
l’Arabia Saudita) o perché infestato di popoli da cui occorre proteggersi (i latinos, gli
arabi). Ma per la sensazione amara e sgradevole che nessuno dei due intendesse
indossare le insegne del 'leader dell’Occidente', più che appagato di poter e voler
diventare, semplicemente, 'il capo degli Stati Uniti'. Al di là delle nefandezze di cui
Hillary Cinton e Donald Trump si sono accusati negli ultimi mesi, resta un quadro
miserevole dello stato di salute della più antica democrazia contemporanea: un
processo di selezione sempre più lungo e costoso alla fine ha prodotto questa
alternativa francamente deludente. Da un lato, un bislacco miliardario; dall’altro, una
ex first lady in cerca di un riscatto anche personale. E l’America sullo sfondo. Se
dovesse vincere Trump, la crisi del sistema partitico americano sarebbe definitiva e
manifesta, tale da costringere a una sua integrale riforma. La vittoria di Clinton,
paradossalmente, potrebbe illudere i democratici di essere ancora 'un partito' e non
una confederazione di interessi tenuti insieme, soprattutto, dal denaro rastrellato
dalla vincitrice. Di certo, delle due Americhe che si sono confrontate in queste
settimane, nessuna appare capace di egemonizzare, sedurre, attrarre l’altra. Alla
coalizione arcobaleno di Hillary sembrano sfuggire i millennials, i giovani dal futuro
incerto nonostante la sempre più costosa istruzione e il ceto medio bianco e
impoverito. Quest’ultimo, che una volta costituiva la spina dorsale del Paese, si è
ritrovato in gran parte nei messaggi semplicistici e razzisti di Trump, convincendosi
così sempre più di essere ormai solo la minoranza più consistente e, a un tempo, la
meno rappresentata e la meno protetta. E i violenti disordini razziali che hanno
accompagnato questa campagna sono lì a ricordarci che il rischio di una guerra civile
strisciante, di una secessione contea per contea del 'grande Paese' non è per nulla
irrealistico. Il nuovo presidente potrebbe così essere avvertito come 'legittimo' solo
dai 'suoi', da una parte, ma non da tutti. Intendiamoci, è già capitato e anche a grandi
presidenti, che però erano animati da una grande visione, da un progetto, come
Abramo Lincoln. Ma sappiamo come andò a finire. Di sicuro, l’immagine della
democrazia americana ne esce fortemente appannata e, con lei, della democrazia nel
suo complesso. Tutte le democrazie occidentali sono infatti alle prese con una
crescente faglia che le attraversa, una spaccatura tra l’establishment e quelli che ne
contestano il sempre più marcato arrocco nei propri intollerabili privilegi. Ma non è
solo questo a preoccupare. Ciò che ha rappresentato storicamente il punto di forza
della democrazia sulle altre forme di governo è stato l’aver depotenziato il momento
più rischioso per ogni regime politico: quello della transizione di potere. Il
meccanismo delle elezioni competitive tra candidati che si rispettino reciprocamente,
infatti, rende meno traumatico questo passaggio, lo trasforma in un momento più
ordinario. A condizione però che tutti ne accettino l’esito, senza contestazioni a
priori o senza il sospetto che il risultato possa essere stato falsato da brogli o
complotti. Tutto ciò è stato messo in dubbio da questa brutta campagna e non sarà
privo di conseguenze. Comunque vada a finire, una cosa è sicura: il 45° presidente
degli Stati Uniti non godrà certamente di quello 'stato di grazia' nei confronti del
mondo che accompagnò Barack Obama per un lungo periodo, ben superiore ai
canonici primi 100 giorni della cosiddetta 'luna di miele'. Dovrà risalire il vento e non
sarà impresa facile né scontata” (a.p.)
3 – VITA DELLA CHIESA
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 4 Seminatori di cambiamento
Il Pontefice esorta i movimenti popolari a impegnarsi per contrastare la tirannia del
denaro che genera diseguaglianza e violenza. E denuncia la bancarotta dell’umanità che
si consuma sulla pelle dei migranti mentre si spendono somme scandalose per salvare le
banche
Pag 8 Catene spezzate
Ai detenuti il Pontefice ricorda che la speranza non deve essere soffocata. Imparando
dagli sbagli del passato si può cambiare vita e reinserirsi nella società
Pag 8 Grido alla misericordia
Con un gruppo di detenuti di Padova
Pag 8 Un atto di clemenza
Chiesto dal Papa all’Angelus
LA REPUBBLICA
Pag 42 Quel Dio crudele dei cattolici reazionari di Alberto Melloni
Pag 46 Quando Gesù rese libera la Donna di Enzo Bianchi
IL FOGLIO
Pag 2 “Assurdo criminalizzare il denaro se si vuole il benessere dei poveri” di
Matteo Matzuzzi
Il Papa e la condanna dei soldi. Parla padre Robert Sirico
WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT
“In Italia nessuna invasione”. Calano gli immigrati musulmani di Andrea Tornielli
La ricerca del Cesnur: sono il 32% contro il 54% dei cristiani. È boom di buddhisti
“Dobbiamo essere duri con questa Europa che ci lascia soli” di Andrea Tornielli
Vatican Insider intervista il cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, alla vigilia dei
suoi 75 anni e dunque della presentazione della rinuncia al Papa. Sull’emergenza
immigrati dice: serve un piano Marshall; l’atteggiamento della Ue è «un sintomo molto
brutto per il futuro del continente»
WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT
Venezuela. Come Francesco arriva a salvare una nazione sull'orlo del baratro di
Sandro Magister
Passo dopo passo, la ricostruzione dell'intervento diretto del papa e dei suoi emissari
nella crisi venezuelana. Con l'ex presidente spagnolo Zapatero tra i mediatori
5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
AVVENIRE
Pag 3 Economia della condivisione, il futuro è sempre più sociale di Emanuela
Citterio
Lo scambio di beni e servizi nell’era di Internet. Cos’è veramente la “sharing economy” e
come cambierà
Pag 3 La disparità servita in mensa di Massimo Calvi
L’Italia divisa del pasto a scuola
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag IX Si torna ad assumere, Venezia tira la volata
Occupazione: la Camera di Commercio stima un aumento di 18mila lavoratori dipendenti
a fine anno. Turismo e imprese che innovano ed esportano in prima fila
7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
LA NUOVA
Pagg 2 – 3 Navi fuori da San Marco. Marghera, sì alla bonifica di Alberto Vitucci
Il ministro Delrio a Venezia, illustrati i progetti del governo. Scelto il presidente
dell’Autorità portuale, sarà Stefano Corsini
CORRIERE DEL VENETO
Pag 11 La figlia di Gori: “Ero spensierata, quel giorno è finito tutto” di mo.zi.
Incontro a Mestre
8 – VENETO / NORDEST
CORRIERE DEL VENETO
Pag 1 L’autogol delle barricate di Umberto Curi
Il no profughi
IL GAZZETTINO
Pagg 4 – 5 Il Nordest “vota” Hillary, per Trump solo uno su 10 di Natascia
Porcellato e Annamaria Bacchin
Tre su quattro sceglierebbero l’ex First Lady per la Casa Bianca. Un altro 15% non si
esprime
Pag 21 Il Nordest vota Hillary perché è cambiata la percezione dell’America di
Adriano Favaro
… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 La dinastia e l’anomalia di Massimo Gaggi
America, l’ora della scelta
Pag 1 La sfida maschi-femmine di Aldo Cazzullo
Pag 1 Le metamorfosi della politica: la cattiveria non è più un tabù di Pierluigi
Battista
Pag 2 Ma chiunque vinca non risolleverà l’immagine Usa di Ian Bremmer
LA REPUBBLICA
Pag 1 L’onda da fermare di Mario Calabresi
AVVENIRE
Pag 1 Risalire il vento di Vittorio E. Parsi
Usa: dopo l’orribile disfida
Pag 4 I cattolici americani. Una “bussola” personale di Elena Molinari
IL GAZZETTINO
Pag 1 Ma la sfida europea piace a Palazzo Chigi di Alberto Gentili
Pag 1 Il Pd spaccato e la scissione che non ci sarà di Alessandro Campi
LA NUOVA
Pag 1 Clinton – Trump, in corsa due sfidanti già vecchi di Gigi Riva
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3 – VITA DELLA CHIESA
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 4 Seminatori di cambiamento
Il Pontefice esorta i movimenti popolari a impegnarsi per contrastare la tirannia del
denaro che genera diseguaglianza e violenza. E denuncia la bancarotta dell’umanità che
si consuma sulla pelle dei migranti mentre si spendono somme scandalose per salvare le
banche
«Vi chiedo di continuare ad aprire strade e a lottare» perché «questo nostro dialogo, che
si aggiunge agli sforzi di tanti milioni di persone che lavorano quotidianamente per la
giustizia in tutto il mondo, sta mettendo radici». È l’esortazione rivolta da Papa
Francesco ai partecipanti al terzo incontro mondiale dei movimenti popolari, ricevuti in
udienza nell’Aula Paolo VI, nel pomeriggio di sabato 5 novembre.
Fratelli e sorelle buon pomeriggio!
In questo nostro terzo incontro esprimiamo la stessa sete, la sete di giustizia, lo stesso
grido: terra, casa e lavoro per tutti.
Ringrazio i delegati che sono venuti dalle periferie urbane, rurali e industriali dei cinque
continenti, più di 60 Paesi, che sono venuti per discutere ancora una volta su come
difendere questi diritti che radunano. Grazie ai Vescovi che sono venuti ad
accompagnarvi. Grazie alle migliaia di italiani ed europei che si sono uniti oggi al termine
di questo incontro. Grazie agli osservatori e ai giovani impegnati nella vita pubblica che
sono venuti con umiltà ad ascoltare ed imparare. Quanta speranza ho nei giovani!
Ringrazio anche Lei, Cardinale Turkson, per il lavoro che avete fatto nel Dicastero; e
vorrei anche ricordare il contributo dell’ex Presidente uruguaiano José Mujica che è
presente.
Nel nostro ultimo incontro, in Bolivia, con maggioranza di latinoamericani, abbiamo
parlato della necessità di un cambiamento perché la vita sia degna, un cambiamento di
strutture; inoltre di come voi, i movimenti popolari, siete seminatori di cambiamento,
promotori di un processo in cui convergono milioni di piccole e grandi azioni concatenate
in modo creativo, come in una poesia; per questo ho voluto chiamarvi “poeti sociali”; e
abbiamo anche elencato alcuni compiti imprescindibili per camminare verso
un’alternativa umana di fronte alla globalizzazione dell’indifferenza: 1. mettere
l’economia al servizio dei popoli; 2. costruire la pace e la giustizia; 3. difendere la Madre
Terra.
Quel giorno, con la voce di una “cartonera” e di un contadino, vennero letti, alla
conclusione, i dieci punti di Santa Cruz de la Sierra, dove la parola cambiamento era
carica di gran contenuto, era legata alle cose fondamentali che voi rivendicate: lavoro
dignitoso per quanti sono esclusi dal mercato del lavoro; terra per i contadini e le
popolazioni indigene; abitazioni per le famiglie senza tetto; integrazione urbana per i
quartieri popolari; eliminazione della discriminazione, della violenza contro le donne e
delle nuove forme di schiavitù; la fine di tutte le guerre, del crimine organizzato e della
repressione; libertà di espressione e di comunicazione democratica; scienza e tecnologia
al servizio dei popoli. Abbiamo ascoltato anche come vi siete impegnati ad abbracciare
un progetto di vita che respinga il consumismo e recuperi la solidarietà, l’amore tra di
noi e il rispetto per la natura come valori essenziali. È la felicità di “vivere bene” ciò che
voi reclamate, la “vita buona”, e non quell’ideale egoista che ingannevolmente inverte le
parole e propone la “bella vita”.
Noi che oggi siamo qui, di origini, credenze e idee diverse, potremmo non essere
d’accordo su tutto, sicuramente la pensiamo diversamente su molte cose, ma
certamente siamo d’accordo su questi punti.
Ho saputo anche di incontri e laboratori tenuti in diversi Paesi, dove si sono moltiplicati i
dibattiti alla luce della realtà di ogni comunità. Questo è molto importante perché le
soluzioni reali alle problematiche attuali non verranno fuori da una, tre o mille
conferenze: devono essere frutto di un discernimento collettivo che maturi nei territori
insieme con i fratelli, un discernimento che diventa azione trasformatrice “secondo i
luoghi, i tempi e le persone”, come diceva sant’Ignazio. Altrimenti, corriamo il rischio
delle astrazioni, di «certi nominalismi dichiarazionisti (slogans) che sono belle frasi ma
che non riescono a sostenere la vita delle nostre comunità» (Lettera al Presidente della
Pontificia Commissione per l’America Latina, 19 marzo 2016). Sono slogan! Il
colonialismo ideologico globalizzante cerca di imporre ricette sovraculturali che non
rispettano l’identità dei popoli. Voi andate su un’altra strada che è, allo stesso tempo,
locale e universale. Una strada che mi ricorda come Gesù chiese di organizzare la folla in
gruppi di cinquanta per distribuire il pane (cfr. Omelia nella Solennità del Corpus Domini,
Buenos Aires, 12 giugno 2004).
Poco fa abbiamo potuto vedere il video che avete presentato come conclusione di questo
terzo incontro. Abbiamo visto i vostri volti nelle discussioni su come affrontare “la
disuguaglianza che genera violenza”. Tante proposte, tanta creatività, tanta speranza
nella vostra voce che forse avrebbe più motivi per lamentarsi, rimanere bloccata nei
conflitti, cadere nella tentazione del negativo. Eppure guardate avanti, pensate,
discutete, proponete e agite. Mi congratulo con voi, vi accompagno e vi chiedo di
continuare ad aprire strade e a lottare. Questo mi dà forza, questo ci dà forza. Credo
che questo nostro dialogo, che si aggiunge agli sforzi di tanti milioni di persone che
lavorano quotidianamente per la giustizia in tutto il mondo, sta mettendo radici.
Vorrei toccare alcuni temi più specifici, che sono quelli che ho ricevuto da voi e che mi
hanno fatto riflettere e che ora vi riporto, in questo momento.
1. Il terrore e i muri
Tuttavia, questa germinazione, che è lenta - quella alla quale mi riferivo -, che ha i suoi
tempi come tutte le gestazioni, è minacciata dalla velocità di un meccanismo distruttivo
che opera in senso contrario. Ci sono forze potenti che possono neutralizzare questo
processo di maturazione di un cambiamento che sia in grado di spostare il primato del
denaro e mettere nuovamente al centro l’essere umano, l’uomo e la donna. Quel “filo
invisibile” di cui abbiamo parlato in Bolivia, quella struttura ingiusta che collega tutte le
esclusioni che voi soffrite, può consolidarsi e trasformarsi in una frusta, una frusta
esistenziale che, come nell’Egitto dell’Antico Testamento, rende schiavi, ruba la libertà,
colpisce senza misericordia alcuni e minaccia costantemente altri, per abbattere tutti
come bestiame fin dove vuole il denaro divinizzato.
Chi governa allora? Il denaro. Come governa? Con la frusta della paura, della
disuguaglianza, della violenza economica, sociale, culturale e militare che genera sempre
più violenza in una spirale discendente che sembra non finire mai. Quanto dolore e
quanta paura! C’è - l’ho detto di recente - c’è un terrorismo di base che deriva dal
controllo globale del denaro sulla terra e minaccia l’intera umanità. Di questo terrorismo
di base si alimentano i terrorismi derivati come il narco-terrorismo, il terrorismo di stato
e quello che alcuni erroneamente chiamano terrorismo etnico o religioso. Ma nessun
popolo, nessuna religione è terrorista! È vero, ci sono piccoli gruppi fondamentalisti da
ogni parte. Ma il terrorismo inizia quando «hai cacciato via la meraviglia del creato,
l’uomo e la donna, e hai messo lì il denaro» (Conferenza stampa nel volo di ritorno del
Viaggio Apostolico in Polonia, 31 luglio 2016). Tale sistema è terroristico.
Quasi cent’anni fa, Pio XI prevedeva l’affermarsi di una dittatura economica globale che
chiamò «imperialismo internazionale del denaro» (Lett. enc. Quadragesimo anno, 15
maggio 1931, 109). Sto parlando dell’anno 1931! L’aula in cui ora ci troviamo si chiama
“Paolo VI”, e fu Paolo VI che denunciò quasi cinquant’anni fa, la «nuova forma abusiva di
dominio economico sul piano sociale, culturale e anche politico» (Lett. ap. Octogesima
adveniens, 14 maggio 1971, 44). Anno 1971. Sono parole dure ma giuste dei miei
predecessori che scrutarono il futuro. La Chiesa e i profeti dicono, da millenni, quello che
tanto scandalizza che lo ripeta il Papa in questo tempo in cui tutto ciò raggiunge
espressioni inedite. Tutta la dottrina sociale della Chiesa e il magistero dei miei
predecessori si ribella contro l’idolo denaro che regna invece di servire, tiranneggia e
terrorizza l’umanità.
Nessuna tirannia si sostiene senza sfruttare le nostre paure. Questo è una chiave! Da qui
il fatto che ogni tirannia sia terroristica. E quando questo terrore, che è stato seminato
nelle periferie con massacri, saccheggi, oppressione e ingiustizia, esplode nei centri con
diverse forme di violenza, persino con attentati odiosi e vili, i cittadini che ancora
conservano alcuni diritti sono tentati dalla falsa sicurezza dei muri fisici o sociali. Muri
che rinchiudono alcuni ed esiliano altri. Cittadini murati, terrorizzati, da un lato; esclusi,
esiliati, ancora più terrorizzati, dall’altro. È questa la vita che Dio nostro Padre vuole per
i suoi figli?
La paura viene alimentata, manipolata... Perché la paura, oltre ad essere un buon affare
per i mercanti di armi e di morte, ci indebolisce, ci destabilizza, distrugge le nostre
difese psicologiche e spirituali, ci anestetizza di fronte alla sofferenza degli altri e alla
fine ci rende crudeli. Quando sentiamo che si festeggia la morte di un giovane che forse
ha sbagliato strada, quando vediamo che si preferisce la guerra alla pace, quando
vediamo che si diffonde la xenofobia, quando constatiamo che guadagnano terreno le
proposte intolleranti; dietro questa crudeltà che sembra massificarsi c’è il freddo soffio
della paura. Vi chiedo di pregare per tutti coloro che hanno paura, preghiamo che Dio
dia loro coraggio e che in questo anno della misericordia possa ammorbidire i nostri
cuori. La misericordia non è facile, non è facile... richiede coraggio. Per questo Gesù ci
dice: «Non abbiate paura» (Mt 14, 27), perché la misericordia è il miglior antidoto
contro la paura. È molto meglio degli antidepressivi e degli ansiolitici. Molto più efficace
dei muri, delle inferriate, degli allarmi e delle armi. Ed è gratis: è un dono di Dio.
Cari fratelli e sorelle, tutti i muri cadono. Tutti. Non lasciamoci ingannare. Come avete
detto voi: «Continuiamo a lavorare per costruire ponti tra i popoli, ponti che ci
permettano di abbattere i muri dell’esclusione e dello sfruttamento» (Documento
Conclusivo del II Incontro mondiale dei movimenti popolari, 11 luglio 2015, Santa Cruz
de la Sierra, Bolivia). Affrontiamo il terrore con l’amore.
Il secondo punto che voglio toccare è: l’Amore e i ponti.
Un giorno come questo, un sabato, Gesù fece due cose che, ci dice il Vangelo,
affrettarono il complotto per ucciderlo. Passava con i suoi discepoli per un campo da
semina. I discepoli avevano fame e mangiarono le spighe. Niente si dice del “padrone” di
quel campo... soggiacente è la destinazione universale dei beni. Quello che è certo è
che, di fronte alla fame, Gesù ha dato priorità alla dignità dei figli di Dio su
un’interpretazione formalistica, accomodante e interessata della norma. Quando i dottori
della legge lamentarono con indignazione ipocrita, Gesù ricordò loro che Dio vuole
amore e non sacrifici, e spiegò che il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato
(cfr. Mc 2, 27). Affrontò il pensiero ipocrita e presuntuoso con l’intelligenza umile del
cuore (cfr. Omelia, I Congreso de Evangelización de la Cultura, Buenos Aires, 3
novembre 2006), che dà sempre la priorità all’uomo e non accetta che determinate
logiche impediscano la sua libertà di vivere, amare e servire il prossimo.
E dopo, in quello stesso giorno, Gesù fece qualcosa di “peggiore”, qualcosa che irritò
ancora di più gli ipocriti e i superbi che lo stavano osservando perché cercavano una
scusa per catturarlo. Guarì la mano atrofizzata di un uomo. La mano, questo segno tanto
forte dell’operare, del lavoro. Gesù restituì a quell’uomo la capacità di lavorare e con
questo gli restituì la dignità. Quante mani atrofizzate, quante persone private della
dignità del lavoro! Perché gli ipocriti, per difendere sistemi ingiusti, si oppongono a che
siano guariti. A volte penso che quando voi, i poveri organizzati, vi inventate il vostro
lavoro, creando una cooperativa, recuperando una fabbrica fallita, riciclando gli scarti
della società dei consumi, affrontando l’inclemenza del tempo per vendere in una piazza,
rivendicando un pezzetto di terra da coltivare per nutrire chi ha fame, quando fate
questo state imitando Gesù, perché cercate di risanare, anche se solo un pochino, anche
se precariamente, questa atrofia del sistema socio-economico imperante che è la
disoccupazione. Non mi stupisce che anche voi a volte siate sorvegliati o perseguitati, né
mi stupisce che ai superbi non interessi quello che voi dite.
Gesù che quel sabato rischiò la vita, perché, dopo che guarì quella mano, farisei ed
erodiani (cfr. Mc 3, 6), due partiti opposti tra loro, che temevano il popolo e anche
l’impero, fecero i loro calcoli e complottarono per ucciderlo. So che molti di voi rischiano
la vita. So - e lo voglio ricordare, e la voglio ricordare - che alcuni non sono qui oggi
perché si sono giocati la vita... Per questo non c’è amore più grande che dare la vita.
Questo ci insegna Gesù.
Le 3-T, il vostro grido che faccio mio, ha qualcosa di quella intelligenza umile ma al
tempo stesso forte e risanatrice. Un progetto-ponte dei popoli di fronte al progetto-muro
del denaro. Un progetto che mira allo sviluppo umano integrale. Alcuni sanno che il
nostro amico il Cardinale Turkson presiede adesso il Dicastero che porta questo nome:
Sviluppo Umano Integrale. Il contrario dello sviluppo, si potrebbe dire, è l’atrofia, la
paralisi. Dobbiamo aiutare a guarire il mondo dalla sua atrofia morale. Questo sistema
atrofizzato è in grado di fornire alcune “protesi” cosmetiche che non sono vero sviluppo:
crescita economica, progressi tecnologici, maggiore “efficienza” per produrre cose che si
comprano, si usano e si buttano inglobandoci tutti in una vertiginosa dinamica dello
scarto... Ma questo mondo non consente lo sviluppo dell’essere umano nella sua
integralità, lo sviluppo che non si riduce al consumo, che non si riduce al benessere di
pochi, che include tutti i popoli e le persone nella pienezza della loro dignità, godendo
fraternamente la meraviglia del creato. Questo è lo sviluppo di cui abbiamo bisogno:
umano, integrale, rispettoso del creato, di questa casa comune.
Un altro punto è: Bancarotta e salvataggio.
Cari fratelli, voglio condividere con voi alcune riflessioni su altri due temi che, insieme
alle “3-T” e all’ecologia integrale, sono stati al centro dei vostri dibattiti degli ultimi
giorni e sono centrali in questo periodo storico.
So che avete dedicato una giornata al dramma dei migranti, dei rifugiati e degli sfollati.
Cosa fare di fronte a questa tragedia? Nel Dicastero di cui è responsabile il Cardinale
Turkson c’è una sezione che si occupa di queste situazioni. Ho deciso che, almeno per un
certo tempo, quella sezione dipenda direttamente dal Pontefice, perché questa è una
situazione obbrobriosa, che posso solo descrivere con una parola che mi venne fuori
spontaneamente a Lampedusa: vergogna.
Lì, come anche a Lesbo, ho potuto ascoltare da vicino la sofferenza di tante famiglie
espulse dalla loro terra per motivi economici o violenze di ogni genere, folle esiliate l’ho detto di fronte alle autorità di tutto il mondo - a causa di un sistema socioeconomico ingiusto e delle guerre che non hanno cercato, che non hanno creato coloro
che oggi soffrono il doloroso sradicamento dalla loro patria, ma piuttosto molti di coloro
che si rifiutano di riceverli.
Faccio mie le parole di mio fratello l’Arcivescovo Hieronymos di Grecia: «Chi vede gli
occhi dei bambini che incontriamo nei campi profughi è in grado di riconoscere
immediatamente, nella sua interezza, la “bancarotta” dell’umanità» (Discorso nel Campo
profughi di Moria, Lesbos, 16 aprile 2016). Cosa succede al mondo di oggi che, quando
avviene la bancarotta di una banca, immediatamente appaiono somme scandalose per
salvarla, ma quando avviene questa bancarotta dell’umanità non c’è quasi una millesima
parte per salvare quei fratelli che soffrono tanto? E così il Mediterraneo è diventato un
cimitero, e non solo il Mediterraneo... molti cimiteri vicino ai muri, muri macchiati di
sangue innocente. Nei giorni di questo incontro - lo dite nel video - quanti sono i morti
nel Mediterraneo?
La paura indurisce il cuore e si trasforma in crudeltà cieca che si rifiuta di vedere il
sangue, il dolore, il volto dell’altro. Lo ha detto il mio fratello il Patriarca Bartolomeo:
«Chi ha paura di voi non vi ha guardato negli occhi. Chi ha paura di voi non ha visto i
vostri volti. Chi ha paura non vede i vostri figli. Dimentica che la dignità e la libertà
trascendono la paura e trascendono la divisione. Dimentica che la migrazione non è un
problema del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale, dell’Europa e della Grecia. È un
problema del mondo» (Discorso nel Campo profughi di Moria, Lesbos, 16 aprile 2016).
È, veramente, un problema del mondo. Nessuno dovrebbe vedersi costretto a fuggire
dalla propria patria. Ma il male è doppio quando, davanti a quelle terribili circostanze, il
migrante si vede gettato nelle grinfie dei trafficanti di persone per attraversare le
frontiere, ed è triplo se arrivando nella terra in cui si pensava di trovare un futuro
migliore, si viene disprezzati, sfruttati, e addirittura schiavizzati. Questo si può vedere in
qualunque angolo di centinaia di città. O semplicemente non si lasciano entrare.
Chiedo a voi di fare tutto il possibile; e di non dimenticare mai che anche Gesù, Maria e
Giuseppe sperimentarono la condizione drammatica dei rifugiati. Vi chiedo di esercitare
quella solidarietà così speciale che esiste tra coloro che hanno sofferto. Voi sapete
recuperare fabbriche dai fallimenti, riciclare ciò che altri gettano, creare posti di lavoro,
coltivare la terra, costruire abitazioni, integrare quartieri segregati e reclamare senza
sosta come la vedova del Vangelo che chiede giustizia insistentemente (cfr. Lc 18, 1-8).
Forse con il vostro esempio e la vostra insistenza, alcuni Stati e Organizzazioni
internazionali apriranno gli occhi e adotteranno le misure adeguate per accogliere e
integrare pienamente tutti coloro che, per un motivo o per un altro, cercano rifugio
lontano da casa. E anche per affrontare le cause profonde per cui migliaia di uomini,
donne e bambini vengono espulsi ogni giorno dalla loro terra natale.
Dare l’esempio e reclamare è un modo di fare politica, e questo mi porta al secondo
tema che avete dibattuto nel vostro incontro: il rapporto tra popolo e democrazia. Un
rapporto che dovrebbe essere naturale e fluido, ma che corre il pericolo di offuscarsi fino
a diventare irriconoscibile. Il divario tra i popoli e le nostre attuali forme di democrazia si
allarga sempre più come conseguenza dell’enorme potere dei gruppi economici e
mediatici che sembrano dominarle. I movimenti popolari, lo so, non sono partiti politici e
lasciate che vi dica che, in gran parte, qui sta la vostra ricchezza, perché esprimete una
forma diversa, dinamica e vitale di partecipazione sociale alla vita pubblica. Ma non
abbiate paura di entrare nelle grandi discussioni, nella Politica con la maiuscola, e cito di
nuovo Paolo VI: «La politica è una maniera esigente - ma non è la sola - di vivere
l’impegno cristiano al servizio degli altri» (Lett. ap. Octogesima adveniens, 14 maggio
1971, 46). O questa frase che ripeto tante volte, e sempre mi confondo, non so se è di
Paolo VI o di Pio XII: “La politica è una delle forme più alte della carità, dell’amore”.
Vorrei sottolineare due rischi che ruotano attorno al rapporto tra i movimenti popolari e
politica: il rischio di lasciarsi incasellare e il rischio di lasciarsi corrompere.
Primo, non lasciarsi imbrigliare, perché alcuni dicono: la cooperativa, la mensa, l’orto
agroecologico, le microimprese, il progetto dei piani assistenziali... fin qui tutto bene.
Finché vi mantenete nella casella delle “politiche sociali”, finché non mettete in
discussione la politica economica o la politica con la maiuscola, vi si tollera. Quell’idea
delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri,
mai dei poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli, mi sembra a
volte una specie di carro mascherato per contenere gli scarti del sistema. Quando voi,
dal vostro attaccamento al territorio, dalla vostra realtà quotidiana, dal quartiere, dal
locale, dalla organizzazione del lavoro comunitario, dai rapporti da persona a persona,
osate mettere in discussione le “macrorelazioni”, quando strillate, quando gridate,
quando pretendete di indicare al potere una impostazione più integrale, allora non ci si
tollera, non ci si tollera più tanto perché state uscendo dalla casella, vi state mettendo
sul terreno delle grandi decisioni che alcuni pretendono di monopolizzare in piccole
caste. Così la democrazia si atrofizza, diventa un nominalismo, una formalità, perde
rappresentatività, va disincarnandosi perché lascia fuori il popolo nella sua lotta
quotidiana per la dignità, nella costruzione del suo destino.
Voi, organizzazioni degli esclusi e tante organizzazioni di altri settori della società, siete
chiamati a rivitalizzare, a rifondare le democrazie che stanno attraversando una vera
crisi. Non cadete nella tentazione della casella che vi riduce ad attori secondari o,
peggio, a meri amministratori della miseria esistente. In questi tempi di paralisi,
disorientamento e proposte distruttive, la partecipazione da protagonisti dei popoli che
cercano il bene comune può vincere, con l’aiuto di Dio, i falsi profeti che sfruttano la
paura e la disperazione, che vendono formule magiche di odio e crudeltà o di un
benessere egoistico e una sicurezza illusoria.
Sappiamo che «finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri,
rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e
aggredendo le cause strutturali della inequità, non si risolveranno i problemi del mondo
e in definitiva nessun problema. L’inequità è la radice dei mali sociali» (Esort. ap.
Evangelii gaudium, 202). Per questo, l’ho detto e lo ripeto, «il futuro dell’umanità non è
solo nelle mani dei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite. È soprattutto nelle
mani dei popoli; nella loro capacità di organizzarsi ed anche nelle loro mani che irrigano,
con umiltà e convinzione, questo processo di cambiamento» (Discorso al II incontro
mondiale dei movimenti popolari, Santa Cruz de la Sierra, 9 luglio 2015). Anche la
Chiesa può e deve, senza pretendere di avere il monopolio della verità, pronunciarsi e
agire specialmente davanti a «situazioni in cui si toccano le piaghe e le sofferenze
drammatiche, e nelle quali sono coinvolti i valori, l’etica, le scienze sociali e la fede»
(Intervento al vertice di giudici e magistrati contro il traffico di persone e il crimine
organizzato, Vaticano, 3 giugno 2016). Questo è il primo rischio: il rischio di lasciarsi
incasellare e l’invito a mettersi nella grande politica.
Il secondo rischio, vi dicevo, è lasciarsi corrompere. Come la politica non è una
questione dei “politici”, la corruzione non è un vizio esclusivo della politica. C’è
corruzione nella politica, c’è corruzione nelle imprese, c’è corruzione nei mezzi di
comunicazione, c’è corruzione nelle chiese e c’è corruzione anche nelle organizzazioni
sociali e nei movimenti popolari. È giusto dire che c’è una corruzione radicata in alcuni
ambiti della vita economica, in particolare nell’attività finanziaria, e che fa meno notizia
della corruzione direttamente legata all’ambito politico e sociale. È giusto dire che tante
volte si utilizzano i casi di corruzione con cattive intenzioni. Ma è anche giusto chiarire
che quanti hanno scelto una vita di servizio hanno un obbligo ulteriore che si aggiunge
all’onestà con cui qualunque persona deve agire nella vita. La misura è molto alta:
bisogna vivere la vocazione di servire con un forte senso di austerità e di umiltà. Questo
vale per i politici ma vale anche per i dirigenti sociali e per noi pastori. Ho detto
“austerità” e vorrei chiarire a cosa mi riferisco con la parola austerità, perché può essere
una parola equivoca. Intendo austerità morale, austerità nel modo di vivere, austerità
nel modo in cui porto avanti la mia vita, la mia famiglia. Austerità morale e umana.
Perché in campo più scientifico, scientifico-economico, se volete, o delle scienze del
mercato, austerità è sinonimo di aggiustamento... Non mi riferisco a questo, non sto
parlando di questo.
A qualsiasi persona che sia troppo attaccata alle cose materiali o allo specchio, a chi ama
il denaro, i banchetti esuberanti, le case sontuose, gli abiti raffinati, le auto di lusso,
consiglierei di capire che cosa sta succedendo nel suo cuore e di pregare Dio di liberarlo
da questi lacci. Ma, parafrasando l’ex-presidente latinoamericano che si trova qui, colui
che sia affezionato a tutte queste cose, per favore, che non si metta in politica, che non
si metta in un’organizzazione sociale o in un movimento popolare, perché farebbe molto
danno a sé stesso, al prossimo e sporcherebbe la nobile causa che ha intrapreso. E che
neanche si metta nel seminario!
Davanti alla tentazione della corruzione, non c’è miglior rimedio dell’austerità, questa
austerità morale, personale; e praticare l’austerità è, in più, predicare con l’esempio. Vi
chiedo di non sottovalutare il valore dell’esempio perché ha più forza di mille parole, di
mille volantini, di mille “mi piace”, di mille retweets, di mille video su youtube.
L’esempio di una vita austera al servizio del prossimo è il modo migliore per promuovere
il bene comune e il progetto-ponte delle “3-T”. Chiedo a voi dirigenti di non stancarvi di
praticare questa austerità morale, personale, e chiedo a tutti di esigere dai dirigenti
questa austerità, che - del resto - li farà essere molto felici.
Care sorelle e cari fratelli,
la corruzione, la superbia e l’esibizionismo dei dirigenti aumenta il discredito collettivo, la
sensazione di abbandono e alimenta il meccanismo della paura che sostiene questo
sistema iniquo.
Vorrei, per concludere, chiedervi di continuare a contrastare la paura con una vita di
servizio, solidarietà e umiltà in favore dei popoli e specialmente di quelli che soffrono.
Potrete sbagliare tante volte, tutti sbagliamo, ma se perseveriamo in questo cammino,
presto o tardi, vedremo i frutti. E insisto: contro il terrore, il miglior rimedio è l’amore.
L’amore guarisce tutto. Alcuni sanno che dopo il Sinodo sulla famiglia ho scritto un
documento che ha per titolo “Amoris laetitia” - la “gioia dell’amore” - un documento
sull’amore nelle singole famiglie, ma anche in quell’altra famiglia che è il quartiere, la
comunità, il popolo, l’umanità. Uno di voi mi ha chiesto di distribuire un fascicolo che
contiene un frammento del capitolo quarto di questo documento. Penso che ve lo
consegneranno all’uscita. E quindi con la mia benedizione. Lì ci sono alcuni “consigli utili”
per praticare il più importante dei comandamenti di Gesù.
In Amoris laetitia cito un compianto leader afroamericano, Martin Luther King, il quale
sapeva sempre scegliere l’amore fraterno persino in mezzo alle peggiori persecuzioni e
umiliazioni. Voglio ricordarlo oggi con voi; diceva: «Quando ti elevi al livello dell’amore,
della sua grande bellezza e potere, l’unica cosa che cerchi di sconfiggere sono i sistemi
maligni. Le persone che sono intrappolate da quel sistema le ami, però cerchi di
sconfiggere quel sistema [...] Odio per odio intensifica solo l’esistenza dell’odio e del
male nell’universo. Se io ti colpisco e tu mi colpisci, e ti restituisco il colpo e tu mi
restituisci il colpo, e così di seguito, è evidente che si continua all’infinito.
Semplicemente non finisce mai. Da qualche parte, qualcuno deve avere un po’ di buon
senso, e quella è la persona forte. La persona forte è la persona che è capace di
spezzare la catena dell’odio, la catena del male» (n. 118; Sermone nella chiesa Battista
di Dexter Avenue, Montgomery, Alabama, 17 novembre 1957). Questo lo ha detto nel
1957.
Vi ringrazio nuovamente per il vostro lavoro, per la vostra presenza. Desidero chiedere a
Dio nostro Padre che vi accompagni e vi benedica, che vi riempia del suo amore e vi
difenda nel cammino dandovi in abbondanza la forza che ci mantiene in piedi e ci dà il
coraggio per rompere la catena dell’odio: quella forza è la speranza. Vi chiedo per favore
di pregare per me, e quelli che non possono pregare, lo sapete, pensatemi bene e
mandatemi una buona onda. Grazie.
Pag 8 Catene spezzate
Ai detenuti il Pontefice ricorda che la speranza non deve essere soffocata. Imparando
dagli sbagli del passato si può cambiare vita e reinserirsi nella società
«C’è poca fiducia nella riabilitazione, nel reinserimento nella società. Ma in questo modo
si dimentica che tutti siamo peccatori e, spesso, siamo anche prigionieri senza
rendercene conto»: è quanto denunciato da Papa Francesco durante la messa celebrata
domenica mattina, 6 novembre, nella basilica vaticana, in occasione del giubileo dei
carcerati. Ecco la sua omelia.
Il messaggio che la Parola di Dio oggi vuole comunicarci è certamente quello della
speranza, di quella speranza che non delude. Uno dei sette fratelli condannati a morte
dal re Antioco Epifane dice: «Da Dio si ha la speranza di essere di nuovo da lui
risuscitati» (2 Mac 7, 14). Queste parole manifestano la fede di quei martiri che,
nonostante le sofferenze e le torture, hanno la forza di guardare oltre. Una fede che,
mentre riconosce in Dio la sorgente della speranza, mostra il desiderio di raggiungere
una vita nuova. Allo stesso modo, nel Vangelo, abbiamo ascoltato come Gesù con una
semplice risposta, ma perfetta, cancelli tutta la banale casistica che i sadducei gli
avevano sottoposto. La sua espressione: «Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché
tutti vivono per lui» (Lc 20, 38), rivela il vero volto del Padre, che desidera solo la vita di
tutti i suoi figli. La speranza di rinascere a una vita nuova, quindi, è quanto siamo
chiamati a fare nostro per essere fedeli all’insegnamento di Gesù. La speranza è dono di
Dio. Dobbiamo chiederla. Essa è posta nel più profondo del cuore di ogni persona perché
possa rischiarare con la sua luce il presente, spesso turbato e offuscato da tante
situazioni che portano tristezza e dolore. Abbiamo bisogno di rendere sempre più salde
le radici della nostra speranza, perché possano portare frutto. In primo luogo, la
certezza della presenza e della compassione di Dio, nonostante il male che abbiamo
compiuto. Non esiste luogo nel nostro cuore che non possa essere raggiunto dall’amore
di Dio. Dove c’è una persona che ha sbagliato, là si fa ancora più presente la
misericordia del Padre, per suscitare pentimento, perdono, riconciliazione, pace. Oggi
celebriamo il Giubileo della Misericordia per voi e con voi, fratelli e sorelle carcerati. Ed è
con questa espressione dell’amore di Dio, la misericordia, che sentiamo il bisogno di
confrontarci. Certo, il mancato rispetto della legge ha meritato la condanna; e la
privazione della libertà è la forma più pesante della pena che si sconta, perché tocca la
persona nel suo nucleo più intimo. Eppure, la speranza non può venire meno. Una cosa,
infatti, è ciò che meritiamo per il male compiuto; altra cosa, invece, è il “respiro” della
speranza, che non può essere soffocato da niente e da nessuno. Il nostro cuore sempre
spera il bene; ne siamo debitori alla misericordia con la quale Dio ci viene incontro senza
mai abbandonarci (cfr. Agostino, Sermo 254, 1). Nella Lettera ai Romani, l’apostolo
Paolo parla di Dio come del «Dio della speranza» (Rm 15, 13). È come se volesse dire
anche a noi: “Dio spera”; e per paradossale che possa sembrare, è proprio così: Dio
spera! La sua misericordia non lo lascia tranquillo. È come quel Padre della parabola, che
spera sempre nel ritorno del figlio che ha sbagliato (cfr. Lc 15, 11-32). Non esiste tregua
né riposo per Dio fino a quando non ha ritrovato la pecora che si era perduta (cfr. Lc 15,
5). Se dunque Dio spera, allora la speranza non può essere tolta a nessuno, perché è la
forza per andare avanti; è la tensione verso il futuro per trasformare la vita; è una
spinta verso il domani, perché l’amore con cui, nonostante tutto, siamo amati, possa
diventare nuovo cammino... Insomma, la speranza è la prova interiore della forza della
misericordia di Dio, che chiede di guardare avanti e di vincere, con la fede e l’abbandono
in Lui, l’attrattiva verso il male e il peccato. Cari detenuti, è il giorno del vostro Giubileo!
Che oggi, dinanzi al Signore, la vostra speranza sia accesa. Il Giubileo, per la sua stessa
natura, porta con sé l’annuncio della liberazione (cfr. Lv 25, 39-46). Non dipende da me
poterla concedere, ma suscitare in ognuno di voi il desiderio della vera libertà è un
compito a cui la Chiesa non può rinunciare. A volte, una certa ipocrisia spinge a vedere
in voi solo delle persone che hanno sbagliato, per le quali l’unica via è quella del carcere.
Io vi dico: ogni volta che entro in un carcere mi domando: “Perché loro e non io?”. Tutti
abbiamo la possibilità di sbagliare: tutti. In una maniera o nell’altra abbiamo sbagliato. E
l’ipocrisia fa sì che non si pensi alla possibilità di cambiare vita: c’è poca fiducia nella
riabilitazione, nel reinserimento nella società. Ma in questo modo si dimentica che tutti
siamo peccatori e, spesso, siamo anche prigionieri senza rendercene conto. Quando si
rimane chiusi nei propri pregiudizi, o si è schiavi degli idoli di un falso benessere, quando
ci si muove dentro schemi ideologici o si assolutizzano leggi di mercato che schiacciano
le persone, in realtà non si fa altro che stare tra le strette pareti della cella
dell’individualismo e dell’autosufficienza, privati della verità che genera la libertà. E
puntare il dito contro qualcuno che ha sbagliato non può diventare un alibi per
nascondere le proprie contraddizioni. Sappiamo infatti che nessuno davanti a Dio può
considerarsi giusto (cfr. Rm 2, 1-11). Ma nessuno può vivere senza la certezza di trovare
il perdono! Il ladro pentito, crocifisso insieme a Gesù, lo ha accompagnato in paradiso
(cfr. Lc 23, 43). Nessuno di voi, pertanto, si rinchiuda nel passato! Certo, la storia
passata, anche se lo volessimo, non può essere riscritta. Ma la storia che inizia oggi, e
che guarda al futuro, è ancora tutta da scrivere, con la grazia di Dio e con la vostra
personale responsabilità. Imparando dagli sbagli del passato, si può aprire un nuovo
capitolo della vita. Non cadiamo nella tentazione di pensare di non poter essere
perdonati. Qualunque cosa, piccola o grande, il cuore ci rimproveri, «Dio è più grande
del nostro cuore» (1 Gv 3, 20): dobbiamo solo affidarci alla sua misericordia. La fede,
anche se piccola come un granello di senape, è in grado di spostare le montagne (cfr. Mt
17, 20). Quante volte la forza della fede ha permesso di pronunciare la parola perdono
in condizioni umanamente impossibili! Persone che hanno patito violenze o soprusi su
loro stesse o sui propri cari o i propri beni... Solo la forza di Dio, la misericordia, può
guarire certe ferite. E dove alla violenza si risponde con il perdono, là anche il cuore di
chi ha sbagliato può essere vinto dall’amore che sconfigge ogni forma di male. E così, tra
le vittime e tra i colpevoli, Dio suscita autentici testimoni e operatori di misericordia.
Oggi veneriamo la Vergine Maria in questa statua che la raffigura come Madre che tiene
tra le braccia Gesù con una catena spezzata, la catena della schiavitù e della prigionia.
Ella rivolga su ciascuno di voi il suo sguardo materno; faccia sgorgare dal vostro cuore la
forza della speranza per una vita nuova e degna di essere vissuta nella piena libertà e
nel servizio al prossimo.
Pag 8 Grido alla misericordia
Con un gruppo di detenuti di Padova
Nel pomeriggio di domenica 6 novembre, presso la residenza di Santa Marta, Papa
Francesco ha incontrato un gruppo di detenuti della casa circondariale “Due Palazzi” di
Padova. Uno di loro, Armand, ha rivolto al Pontefice le seguenti parole.
Caro Papa Francesco, noi, umili carcerati, siamo qui davanti a te certi di rappresentare
anche chi non c’è. Essere vicini a te è un dono, è una grande felicità per tutti noi. Oggi
sarà, sicuramente, una giornata indimenticabile del nostro vivere da cristiani. Tu che hai
percorso tante strade, ardue, dolorose e soprattutto con grande coraggio e semplicità, ci
sei di esempio. Tu che hai portato la parola di Dio nei posti più infelici della terra, sei per
noi un punto di riferimento. Tu, oggi, sei qui con noi e, ascoltandoci, inviti la nostra
speranza di vivere la vita in maniera più serena, ci fai sentire in compagnia di nostro
Signore che ha scelto te Francesco come suo rappresentante per farci capire quanto
importante è la parola di Dio e quanto importanti siamo per Lui, noi, umili figli peccatori.
Dalle nostre celle la domenica ti vediamo e preghiamo con te e per te. Nel mondo ci
sono tanta sofferenza e tante atrocità che l’essere umano continua ad alimentare. Il tuo
grido alla misericordia è quello di aiutare i più deboli, è da tanti accolto, ma troppi sordi,
egoisti e senza fede non hanno orecchie. Tu, Papa Francesco, continua a parlare dalla
tua finestra, noi ti ascoltiamo e preghiamo con te perché le persone cambino e si
convertano. Noi carcerati conoscevamo il male, sappiamo cosa significa e per questo
chiediamo perdono. Oggi abbracciati tutti insieme, noi carcerati ti chiediamo di guidarci
e amarci come figli, nel nostro lungo percorso, per le nostre famiglie che insieme hanno
sofferto in silenzio e ci hanno sorretto. Papa Francesco, oggi i nostri cuori ne formano
uno, grande e pieno d’amore, ma mai come il tuo. Grazie per tutto quello che
rappresenti e ci trasmetti.
Pag 8 Un atto di clemenza
Chiesto dal Papa all’Angelus
«Sottopongo alla considerazione delle competenti autorità civili di ogni Paese la
possibilità di compiere, in questo anno santo della misericordia, un atto di clemenza
verso quei carcerati che si riterranno idonei a beneficiare di tale provvedimento». Lo ha
chiesto il Papa all’Angelus recitato con i fedeli presenti in piazza San Pietro il 6 novembre
dopo la celebrazione della messa per il giubileo dei detenuti. Prima della preghiera
mariana il Papa ha commentato il vangelo domenicale.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno! A pochi giorni di distanza dalla solennità di Tutti i
Santi e dalla Commemorazione dei fedeli defunti, la Liturgia di questa domenica ci invita
ancora a riflettere sul mistero della risurrezione dei morti. Il Vangelo (cfr. Lc 20, 27-38)
presenta Gesù a confronto con alcuni sadducei, i quali non credevano nella risurrezione
e concepivano il rapporto con Dio solo nella dimensione della vita terrena. E quindi, per
mettere in ridicolo la risurrezione e in difficoltà Gesù, gli sottopongono un caso
paradossale e assurdo: una donna che ha avuto sette mariti, tutti fratelli tra loro, i quali
uno dopo l’altro sono morti. Ed ecco allora la domanda maliziosa rivolta a Gesù: quella
donna, nella risurrezione, di chi sarà moglie (v. 33)? Gesù non cade nel tranello e
ribadisce la verità della risurrezione, spiegando che l’esistenza dopo la morte sarà
diversa da quella sulla terra. Egli fa capire ai suoi interlocutori che non è possibile
applicare le categorie di questo mondo alle realtà che vanno oltre e sono più grandi di
ciò che vediamo in questa vita. Dice infatti: «I figli di questo mondo prendono moglie e
prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione
dai morti, non prendono né moglie né marito» (vv. 34-35). Con queste parole, Gesù
intende spiegare che in questo mondo viviamo di realtà provvisorie, che finiscono;
invece nell’aldilà, dopo la risurrezione, non avremo più la morte come orizzonte e
vivremo tutto, anche i legami umani, nella dimensione di Dio, in maniera trasfigurata.
Anche il matrimonio, segno e strumento dell’amore di Dio in questo mondo, risplenderà
trasformato in piena luce nella comunione gloriosa dei santi in Paradiso. I “figli del cielo
e della risurrezione” non sono pochi privilegiati, ma sono tutti gli uomini e tutte le
donne, perché la salvezza portata da Gesù è per ognuno di noi. E la vita dei risorti sarà
simile a quella degli angeli (cfr. v. 36), cioè tutta immersa nella luce di Dio, tutta
dedicata alla sua lode, in un’eternità piena di gioia e di pace. Ma attenzione! La
risurrezione non è solo il fatto di risorgere dopo la morte, ma è un nuovo genere di vita
che già sperimentiamo nell’oggi; è la vittoria sul nulla che già possiamo pregustare. La
risurrezione è il fondamento della fede e della speranza cristiana! Se non ci fosse il
riferimento al Paradiso e alla vita eterna, il cristianesimo si ridurrebbe a un’etica, a una
filosofia di vita. Invece il messaggio della fede cristiana viene dal cielo, è rivelato da Dio
e va oltre questo mondo. Credere alla risurrezione è essenziale, affinché ogni nostro atto
di amore cristiano non sia effimero e fine a sé stesso, ma diventi un seme destinato a
sbocciare nel giardino di Dio, e produrre frutti di vita eterna. La Vergine Maria, regina
del cielo e della terra, ci confermi nella speranza della risurrezione e ci aiuti a far
fruttificare in opere buone la parola del suo Figlio seminata nei nostri cuori.
Al termine dell’Angelus, il Papa ha lanciato l’appello per il provvedimento di grazia ai
detenuti, quindi ha parlato della conferenza di Marrakech sul clima, ha ricordato la
beatificazione dei martiri albanesi e ha salutato i vari gruppi presenti.
Cari fratelli e sorelle, in occasione dell’odierno Giubileo dei carcerati, vorrei rivolgere un
appello in favore del miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri in tutto il mondo,
affinché sia rispettata pienamente la dignità umana dei detenuti. Inoltre, desidero
ribadire l’importanza di riflettere sulla necessità di una giustizia penale che non sia
esclusivamente punitiva, ma aperta alla speranza e alla prospettiva di reinserire il reo
nella società. In modo speciale, sottopongo alla considerazione delle competenti Autorità
civili di ogni Paese la possibilità di compiere, in questo Anno Santo della Misericordia, un
atto di clemenza verso quei carcerati che si riterranno idonei a beneficiare di tale
provvedimento. Due giorni fa è entrato in vigore l’Accordo di Parigi sul clima del Pianeta.
Questo importante passo avanti dimostra che l’umanità ha la capacità di collaborare per
la salvaguardia del creato (cfr. Laudato si’, 13), per porre l’economia al servizio delle
persone e per costruire la pace e la giustizia. Domani, poi, comincerà a Marrakech, in
Marocco, la nuova sessione della Conferenza sul clima, finalizzata, tra l’altro,
all’attuazione di tale Accordo. Auspico che tutto questo processo sia guidato dalla
coscienza della nostra responsabilità per la cura della casa comune. Ieri a Scutari, in
Albania, sono stati proclamati Beati trentotto martiri: due vescovi, numerosi sacerdoti e
religiosi, un seminarista e alcuni laici, vittime della durissima persecuzione del regime
ateo che dominò a lungo in quel Paese nel secolo scorso. Essi preferirono subire il
carcere, le torture e infine la morte, pur di rimanere fedeli a Cristo e alla Chiesa. Il loro
esempio ci aiuti a trovare nel Signore la forza che sostiene nei momenti di difficoltà e
che ispira atteggiamenti di bontà, di perdono e di pace. Saluto tutti voi pellegrini, venuti
da diversi Paesi: le famiglie, i gruppi parrocchiali, le associazioni. In particolare, saluto i
fedeli di Sydney e di San Sebastián de los Reyes, il Centro Académico Romano
Fundación e la Comunità cattolica venezuelana in Italia; come pure i gruppi di AdriaRovigo, Mendrisio, Roccadaspide, Nova Siri, Pomigliano D’Arco e Picerno. A tutti auguro
una buona domenica. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e
arrivederci!
LA REPUBBLICA
Pag 42 Quel Dio crudele dei cattolici reazionari di Alberto Melloni
La volgarità di un frate domenicano - che dai microfoni di Radio Maria ha letto il
terremoto come una punizione ed è stato licenziato dopo una presa di posizione vaticana
- ha aperto un piccolo squarcio su una religiosità integrista, solitamente invisibile. È un
sottosuolo cattolico opaco e apprensivo, fatto di sentimenti reazionari: nell'eraFrancesco è spesso antipapale, da sempre è teologicamente approssimativo. Riprende il
ritornello dell'intransigentismo dell'Otto-Novecento: per cui la modernità produce
ribellioni contro le quali un Dio crudele, irriconoscibile alla fede biblica, reagisce
mandando flagelli pedagogici. Quel pensiero antimoderno s'è sempre dotato di media
"moderni" come i giornali, i movimenti, la radio, la tv. Nel mondo dell'ipercomunicazione questo pulviscolo integrista è diventato più invisibile. Siti e antenne, blog
e social, somministrano paure su misura: le paure su quel che si insegna a scuola per i
movimenti pro-vita, quelle dei preti tradizionalisti che danno alla xenofobia leghista
profumo d'incenso, quelle del radicalismo familista che manifestano verso l'amore
omosessuale il risentimento degli irrisolti. Basta ascoltare Radio Maria: che inculca in
dosi quotidiane sospetti e inimicizie, con il suo leader, padre Livio Fanzaga che ogni
giorno spiega leggendo i giornali dove sono i pericoli, chi sono gli avversari e soprattutto
"smaschera" i traditori. Il tutto inframmezzato da momenti spirituali - per chi guida la
notte o aspetta l'alba in ospedale, il rosario o l'ufficio divino sono meglio di Isoradio dietro ai quali traluce la pretesa di essere gli unici battaglieri in una chiesa molle, gli
unici fedeli in una chiesa di codardi, gli unici cattolici in una chiesa di apostati. Le
fantasticherie antibergogliane di Antonio Socci lì non suscitano compassione, ma
ammirazione: la tesi del giornalista, nelle ore del terremoto, era che un vero pontefice
avrebbe consacrato l'Italia alla Vergine Maria; e che Francesco non l'aveva fatto perché
era un gesto "troppo cattolico" per un papa che egli ritiene grosso modo un usurpatore.
È un mondo agli antipodi della autentica pietà popolare: essa è il modo in cui una
comunità espropriata della liturgia dal protagonismo clericale trova spazi e linguaggi che
nascono da quell'intuito credente che la dottrina cristiana chiama "sensus fidei". In
questo mondo di mezzo, invece, la partita è molto politica. Anche se non sono ancora
diventati la variante cattolica delle chiese televisive americane - il cui peso elettorale sul
voto americano di oggi è stato ben stimato dal Pew Center - i fans dei blog e delle radio
integriste esprimono sono una potenzialità politica perché nel mondo delle disaffezioni
politiche rappresentano una fidelizzazione. La minaccia contro Renzi del raduno familista
di Adinolfi - che giurava la vendetta della legge sulle unioni nelle urne del referendum era solo una di queste possibili declinazioni. Che però potrebbero domani trovare
inattese convergenze nel grillismo, la cui cultura, tutta e solo di destra, non ignora che
c'è sempre un cattolicesimo opportunista, pronto a "dialogare" con ogni potere disposto
a farsene patrono. Che ad una voce onestamente minore come quella del padre
Cavalcoli abbia reagito la Santa Sede in persona (non è usuale che il regista della
politica italiana, il Sostituto, prenda la parola in modo così netto e categorico) dice che la
chiesa di Bergoglio non sottovaluta quel che c'era di "politico" in quelle parole. Che il
disastro naturale possa dar adito a questioni filosofiche l' Europa lo sa dal 1755, quando
il terremoto di Lisbona permise a Voltaire di polemizzare con i virtuosismi della
"teodicea", che giustificava Dio davanti alle catastrofi del mondo: ma onestamente padre
Cavalcoli non è in quell'alveo... Appartiene piuttosto alla deriva che agitando temi
reazionari ha fatto scivolare le chiese verso posizioni pericolose: come quelle della
omonima Radio Maria polacca, che allarmò perfino Benedetto XVI nel 2006, quando i
deliri antisemiti di quella emittente furono sanzionati, anche se senza grande successo.
Oggi con la casa natale di san Benedetto patrono d'Europa che si sbriciola mentre si
sbriciola l'Europa, la Santa Sede ha dato un segnale molto cristiano e molto politico. Là
dove viene meno il buonsenso umano e il buoncuore cattolico, si annida un bisogno di
odio: che è l'aria che si respira in questo paese lacerato e vulnerabile. Che ha pensato
per molto tempo di potersi scegliere i suoi grandi problemi - la disoccupazione, la
denatalità, le migrazioni, il terrorismo, la crisi economica - e l'ordine in cui affrontarli.
Anziché chiedersi quanta umiltà e quanta coesione servono per essere pronti quando ciò
che incombeva accade, presentando al domani il conto di molti ieri.
Pag 46 Quando Gesù rese libera la Donna di Enzo Bianchi
Gesù andò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio, e tutto il
popolo veniva da lui; e sedutosi, insegnava loro. Ora, gli scribi e i farisei gli conducono
una donna sorpresa in adulterio e, postala in mezzo, gli dicono: «Maestro, questa donna
è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora, Mosè, nella Legge, ci ha comandato di
lapidare donne come questa. Tu dunque che ne dici?». Dicevano questo per metterlo alla
prova, per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi giù, scriveva per terra con il dito.
Ma poiché continuavano a interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato,
getti per primo la pietra contro di lei». E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma essi,
udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e
la donna era là in mezzo. Ora, Gesù, alzatosi, le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti
ha condannata?». Ella disse: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch'io ti condanno.
Va' e d'ora in poi non peccare più». Questo brano ha conosciuto una sorte
particolarissima, che attesta il suo carattere scandaloso e imbarazzante: è stato infatti
"censurato" dalla Chiesa! È assente nei manoscritti più antichi, è ignorato dai padri latini
fino al IV secolo, per cinque secoli non è stato proclamato nella liturgia e non ci sono
commenti a esso da parte dei padri greci del primo millennio. Al termine di un lungo e
travagliato migrare tra i manoscritti è stato inserito nel vangelo secondo Giovanni, dopo
il settimo capitolo e prima del versetto 15 dell'ottavo. Non è una scena insolita: spesso i
vangeli annotano che gli avversari di Gesù tentano di metterlo in contraddizione con la
Legge di Dio, per poterlo accusare di bestemmia, di disobbedienza al Dio vivente. A
quegli scribi e farisei, in realtà, non importava nulla della donna, per loro era importante
trovare motivi di condanna contro Gesù: non volevano lapidare l'adultera, ma far
lapidare Gesù! Questi uomini religiosi fanno irruzione nell'uditorio di Gesù, portano
davanti a lui una donna sorpresa in flagrante adulterio, la collocano in mezzo a tutti e si
affrettano a dichiarare: «Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come
questa». Tale dichiarazione sembra formalmente ineccepibile, perché cita la Legge; a
uno sguardo attento, però, si coglie che il loro ricorso alla Torah è parziale. La Legge,
infatti, prevedeva la pena di morte per entrambi gli adulteri e attestava la stessa pena,
mediante lapidazione, mentre se erano già sposati allora si ricorreva allo
strangolamento. Resta però altamente significativo che solo lei sia stata catturata e
portata davanti a Gesù, mentre l'uomo che ha commesso adulterio con lei, e secondo la
Legge è colpevole come lei, non risulta né imputato né condotto in giudizio! Cerchiamo
di sostare per un momento su questa scena. Ci sono alcuni che hanno portato a Gesù
una donna, perché sia condannata. Ma Gesù inizia a rispondere agli accusatori parlando
con il corpo, non con parole: si china, abbassandosi, rompe il cerchio della «violenza
mimetica» (René Girard), spezza il faccia a faccia con quei farisei e si mette a scrivere
per terra, in assoluto silenzio. Dalla posizione di chi è seduto passa a quella di chi si
china verso terra; di più, in questo modo si inchina di fronte alla donna che è in piedi
davanti a lui! Poiché però gli accusatori insistono nell'interrogarlo, dopo quel lungo e per
loro fastidioso silenzio riempito solo dal suo mimo profetico, Gesù si alza e non risponde
direttamente alla questione postagli, ma fa un'affermazione che contiene in sé anche
una domanda: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». Poi si
china di nuovo e torna a scrivere per terra. Così una parola di Gesù, una parola sola ma
incisiva (al punto da essere divenuta proverbiale) e autentica, una di quelle domande
che ci scuotono e ci fanno leggere in profondità noi stessi, impedisce a quegli uomini di
fare violenza in nome della Legge. Solo Dio, e quindi solo Gesù, potrebbe condannare
quella donna. Ebbene, qui Gesù - mi si permetta di dire - "evangelizza" Dio, cioè rende
Dio Vangelo, buona notizia per quella donna. Gesù, l'unico uomo che ha raccontato in
pienezza di Dio, che ne è stato l'esegesi vivente, afferma che di fronte al peccatore, alla
peccatrice, Dio ha un solo sentimento: non la condanna, non il castigo, ma il desiderio
che si converta e viva. Gesù, inviato da Dio «non per condannare il mondo, ma per
salvare il mondo» anche qui agisce come aveva annunciato all'inizio del suo ministero:
«Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori». Solo quando tutti se ne sono
andati egli si alza in piedi e sta di fronte alla donna. Lei, posta lì in piedi in mezzo a tutti,
ora è finalmente restituita alla sua identità di donna e vede Gesù in piedi davanti a sé:
così è possibile l'incontro vero. Infine, Gesù conclude questo incontro con
un'affermazione straordinaria: «Neanch'io ti condanno. Va' e d'ora in poi non peccare
più». Sono parole assolutamente gratuite e unilaterali. Ecco la gratuità di quella
assoluzione: Gesù non condanna, perché Dio non condanna, ma con questo suo atto di
misericordia preveniente offre a quella donna la possibilità di cambiare. Non sappiamo
se questa donna perdonata dopo l'incontro con Gesù abbia cambiato vita; sappiamo solo
che, affinché cambiasse vita e tornasse a vivere, Dio, che non vuole la morte del
peccatore, l'ha perdonata attraverso Gesù e l'ha inviata verso la libertà: «Va', va' verso
te stessa e non peccare più». Le persone religiose vorrebbero che a questo punto Gesù
avesse detto alla donna: «Ti sei esaminata? Sai cosa hai fatto? Ne comprendi la gravità?
Sei pentita della tua colpa? La detesti? Prometti di non farlo più? Sei disposta a subire la
giusta pena?». Queste omissioni nelle parole di Gesù scandalizzano ancora, oggi come
ieri! Nessuna condanna, solo misericordia: qui sta la grandezza e l'unicità di Gesù.
Questo incontro tra Gesù e la donna sorpresa in adulterio non ci rivela solo la
misericordia di Gesù, ma anche la sua capacità di difendere la donna da un cerchio di
uomini, sempre pronti a giustificare se stessi e a condannare le donne. Purtroppo tutta
la storia dei credenti, dell' antica come della nuova alleanza, testimonierà questo «occhio
spione, esigente e condannante» degli uomini religiosi nei confronti delle donne, ritenute
colpevoli per la loro condizione - dicono gli uomini - di creature sempre tentatrici e facili
alla tentazione. Questo esempio di Gesù sarà poco compreso e ancor meno vissuto, ma
sarà comunque memorizzato nel vangelo e vi saranno sempre lettori che vi troveranno
una buona notizia.
IL FOGLIO
Pag 2 “Assurdo criminalizzare il denaro se si vuole il benessere dei poveri” di
Matteo Matzuzzi
Il Papa e la condanna dei soldi. Parla padre Robert Sirico
Roma. "E' del tutto assurdo criminalizzare il denaro se la propria sincera preoccupazione
è il benessere dei poveri. L'obiettivo finale della compassione morale non deve essere il
continuare a lamentarsi della situazione dei meno abbienti. Per migliorare la loro
condizione, almeno a un livello materiale, serve produrre ricchezza". Padre Robert Sirico
è il presidente dell' Acton Institute for the study of religion and liberty, think tank
americano che ha come finalità quella di "promuovere una società libera, virtuosa e
umana". Con il Foglio commenta il lungo discorso pronunciato sabato dal Papa davanti ai
movimenti popolari, riuniti in Vaticano per il loro terzo incontro mondiale. In quella sede,
Francesco aveva rilanciato il j'accuse contro il denaro, "idolo che regna invece di servire,
tiranneggia e terrorizza l'umanità". Denaro che, aveva proseguito il Papa, "governa con
la frusta della paura, della diseguaglianza, della violenza economica, sociale, culturale e
militare che genera sempre più violenza in una spirale discendente che sembra non
finire mai. C'è un terrorismo di base che deriva dal controllo globale del denaro sulla
terra e minaccia l'intera umanità". Da qui - aveva aggiunto - "il fatto che ogni tirannia
sia terroristica. E quando questo terrore, che è stato seminato nelle periferie con
massacri, saccheggi, oppressione e ingiustizia, esplode nei centri con diverse forme di
violenza, persino con attentati odiosi e vili, i cittadini che ancora conservano alcuni diritti
sono tentati dalla falsa sicurezza dei muri fisici o sociali". Certo, osserva Sirico, "si può
abusare della ricchezza, sia nella sua produzione sia nel suo uso, e su questo non c'è
dubbio. Ma ciò può accadere con tanti altri doni affidati all' essere umano. La ricchezza
può avere un'origine e una finalità morale, come la sessualità, che se va nella direzione
voluta da Dio diventa sacramento. Vorrei pensare che il Santo Padre non è in disaccordo
con questo, anche perché per criminalizzare un tale processo dovrebbe abbandonare
coloro che sono economicamente vulnerabili". L'attacco di Bergoglio è stato duro
riguardo il sistema capitalistico in sé: "Cerco chiarimenti - dice il nostro interlocutore - e
li trovo nell'enciclica Centesimus annus, al punto 42, dove Giovanni Paolo II scrive che
'se per capitalismo si intende' la libera economia radicata su princìpi morali e religiosi e
situata in un contesto giuridico, allora il capitalismo è positivo". Il problema, semmai, è
di conciliare l'idea di una libera economia con la dottrina sociale della chiesa. Il
presidente dell' Acton Institute pensa che l'impresa sia ardua poiché "c'è confusione su
ciò che significa, soprattutto se si ha a che fare non con attori economici liberi ma con
uomini d' affari che non mettono al centro delle loro preoccupazioni l'essere umano.
Questa è 'l'economia che uccide', non i mercati competitivi. Quando non si comprendono
l'economia e il sistema dei mercati, risulta facile assicurare che i soggetti economici di
successo diventino ricchi a scapito di altri. Questo è noto, in termini economici, come 'la
fallacia della somma zero'". La dottrina sociale della chiesa è altra cosa, osserva Sirico,
ma il fatto rilevante è che "a volte la gente ama così tanto le proprie politiche pur
sapendo che queste produrranno più povertà". Il rischio è di guardare il problema in
modo sbagliato, da una prospettiva non corretta se si dice, ad esempio, che il
fondamentalismo è una conseguenza dell'idolatria del denaro. "Se si parte dal
presupposto che tutti i mercati globali per loro stessa natura 'escludono le persone' e
che questo è immorale e deve essere condannato, ebbene, questa allora è idolatria del
denaro. Vi sono, tuttavia, altre due forme di ciò che potrebbe a ragione essere definito
fondamentalismo economico. Ciò si ha quando, da un lato, si demonizza qualcuno per il
semplice fatto che ha successo o, dall'altro lato, si canonizzano i poveri solo perché tale
successo non l'hanno avuto. La prima forma è conosciuta come il Vangelo della
prosperità, la seconda come Teologia della liberazione. Io preferisco - dice Robert Sirico
- l'intuizione avuta da Madre Teresa di Calcutta, secondo cui noi non pensiamo di avere
diritto di giudicare i ricchi. Non vogliamo la lotta di classe, ma un incontro fra le classi,
nel quale il ricco salva il povero e il povero salva il ricco".
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“In Italia nessuna invasione”. Calano gli immigrati musulmani di Andrea Tornielli
La ricerca del Cesnur: sono il 32% contro il 54% dei cristiani. È boom di buddhisti
Gli immigrati di fede islamica che arrivano o sbarcano in Italia non sono affatto in
aumento. Anzi, diminuiscono leggermente rispetto all’anno scorso. Lo afferma il
sociologo Massimo Introvigne, direttore del Centro Studi sulle nuove religioni (Cesnur),
in una ricerca curata con PierLuigi Zoccatelli, che sarà presentata domani a Roma
nell’ambito del convegno «Dall’Islam in Europa all’Islam europeo», organizzato dal
mensile Confronti presso la Biblioteca Centrale del Cnr. «Senza volere entrare in dibattiti
di carattere politico - scrivono i due studiosi - rileviamo che, contrariamente a opinioni
diffuse, gli immigrati musulmani in Italia non sono in aumento ma in lieve diminuzione».
Gli islamici erano infatti 1.613.500 nel 2015 e sono 1.609.000 nel 2016, spiegano i
sociologi del Cesnur. «La maggioranza degli immigrati - aggiungono - è cristiana: sul
totale degli immigrati i cristiani sono il 53,8% contro il 32% dei musulmani. La
percentuale dei musulmani sul totale degli immigrati a sua volta non aumenta dal 2015
al 2016 ma scende leggermente, dal 32,2% al 32%. È vero che, per effetto delle
acquisizioni di cittadinanza, sono per converso aumentati i musulmani cittadini italiani:
erano 245.621 l’anno scorso, sono 302.090 quest’anno. Ma soltanto in poche migliaia di
casi si tratta di conversioni, nella stragrande maggioranza riguarda la conclusione di un
lungo iter burocratico per la cittadinanza espletato da chi già da anni risiede nel nostro
Paese. «Se però vogliamo parlare di vere e proprie conversioni religiose e non di
fenomeni dovuti a pratiche burocratiche - osservano Introvigne e Zoccatelli -, il
fenomeno più spettacolare di crescita riguarda non i musulmani, ma i buddhisti, e in
particolare la Soka Gakkai». Questa, sulla base delle stime offerte dal dossier statistico
sull’immigrazione della Caritas, è la ripartizione degli immigrati per appartenenza
religiosa: ortodossi, 1.541.000 (30,7%), cattolici 908.000 (18,1%); protestanti e altri
cristiani 255.000 (5,0%); musulmani 1.609.000 (32,0%); ebrei 7000 (0,1%); induisti
149.000 (3,0%); buddhisti 111.000 (2,2%); altre religioni orientali 78.000 (1,6%); atei
e agnostici 227.004 (4,5%); religioni tradizionali 56.000 (1,1%); altri 85.000 (1,7%).
Facendo le somme, l’insieme degli immigrati cristiani delle diverse confessioni è pari a
2.704.000 (53,8%), oltre un milione in più di quelli di fede islamica. I dati presentati
dagli studiosi smentiscono una percezione popolare, talvolta alimentata dai social media,
che presenta quella musulmana come «un’invasione» del nostro Paese. Alla fine del
2014 l’agenzia britannica Ipsos Mori aveva pubblicato una puntuale ricerca demoscopica
sulle «false percezioni» in merito a varie tematiche, tra le quali l’immigrazione e la
presenza islamica, in 14 Paesi del cosiddetto «primo mondo». Secondo quella ricerca
l’italiano medio riterrebbe che il 30% della popolazione sia composta da immigrati (in
realtà la percentuale si attesta tra l’8 e il 9%) e che il 20% dei residenti sia musulmano
(sono invece tra il 2 e il 3%). E più piccola è la percentuale di immigrati presenti sul
suolo nazionale di un Paese europeo, più grande appare la sopravvalutazione del
fenomeno. A proposito delle altre religioni, coloro che manifestano un’identità religiosa
diversa dalla cattolica in Italia sono circa 1.781.807 unità se si prendono in esame i
cittadini italiani, e circa 5.672.807 unità se si aggiungono gli immigrati non cittadini, «il
che ha rilievo principalmente per il mondo islamico e secondariamente per
un’immigrazione cristiano-ortodossa dall’Est europeo di proporzioni notevoli».
“Dobbiamo essere duri con questa Europa che ci lascia soli” di Andrea Tornielli
Vatican Insider intervista il cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, alla vigilia dei
suoi 75 anni e dunque della presentazione della rinuncia al Papa. Sull’emergenza
immigrati dice: serve un piano Marshall; l’atteggiamento della Ue è «un sintomo molto
brutto per il futuro del continente»
Lunedì 7 novembre, il cardinale Angelo Scola, dal 2011 arcivescovo di Milano, compie 75
anni e come tutti i vescovi è tenuto a presentare la rinuncia al Papa. Lo incontriamo a
casa sua, in piazza Fontana, in una grigia mattinata autunnale.
Perché ha invitato il Papa a Milano e che cosa si aspetta dalla sua visita?
«Il compito del Papa è confermare i fratelli nella fede. Ne abbiamo un gran bisogno
anche come diocesi di Milano. Confermare nella fede significa aiutarci ad affrontare la
realtà così com’è, verificare la nostra capacità di essere Chiesa in uscita verso le
periferie, nella vita quotidiana di ogni uomo. Sto facendo la visita pastorale: è
commovente nel popolo il continuo riferimento al Papa. Sono sicuro che da Francesco
riceverà impulso anche l’azione nella società civile: i Dialoghi di vita buona; il Fondo per
individuare nuovi posti di lavoro per chi l’ha perduto; l’immigrazione; la lotta contro
l’emarginazione che a Milano è molto più diffusa di quanto non sembri. Chiederemo al
Papa indicazioni pastorali basate anche sulla sua esperienza di Cardinale latinoamericano».
Qualche anticipazione sul programma?
«Ci sarà una grande messa con i fedeli di tutta la Lombardia, un incontro con i sacerdoti
e i religiosi e le religiose, la visita a una periferia e ad un carcere».
La Chiesa italiana si è sintonizzata con Francesco dopo tre anni di pontificato?
«Nel popolo, certamente. Basterebbe il dato dell’incremento delle confessioni per il
Giubileo. In Duomo non ci sono state pause, neanche in estate. Certo, poi ci sono alcuni
che si assumono la responsabilità di avanzare delle riserve sul Papa, anche se in Italia
mi sembra che siano molto minoritari. Il Papa è un dono grande, soprattutto per noi
europei che di cambiamento avevamo un gran bisogno. Dobbiamo evitare di ridurre la
sua azione a slogan e non dobbiamo scimmiottarlo, anche noi vescovi: ognuno sia se
stesso come il Papa ci chiede. Non è una cosa facile, richiede atteggiamento di
conversione».
Lunedì 7 novembre lei compie 75 anni, l’età in cui in vescovi presentano la rinuncia.
Quando lascerà? E come vive questo momento?
«Lo vivo con serenità. Invecchiando, una cosa si fa sempre più evidente: si vive al cenno
di un Altro. Del futuro non so ancora nulla, qualsiasi cosa il Papa decida, sono pronto.
Sono tranquillo e... non mi mancherà il lavoro».
Ci sarà lei ad accogliere Francesco il 25 marzo?
«Penso proprio di sì, questo credo di poterlo dire».
Una difficoltà che ha vissuto di questi anni a Milano?
«In una mega-diocesi come questa si fa fatica a vivere i rapporti faccia a faccia. Da
questo punto di vista ammiro molto il modo di muoversi del Papa. Ho trovato grande
consolazione nelle 46 assemblee decanali già svolte per la visita pastorale, perché lì il
faccia a faccia si realizza».
Che cosa dovrebbero fare le Chiese europee di fronte alla secolarizzazione?
«Bisogna farla finita con la mistica depressiva sui “lontani” e sulle strategie dei cristiani
per raggiungerli. Gesù è venuto a condividere il quotidiano, nessuno è “lontano”
dall’esperienza umana del lavoro o degli affetti. Bisogna vivere la propria vita secondo i
sentimenti e il pensiero di Gesù, e comunicarlo con semplicità, senza affidarsi a progetti
astratti fatti a tavolino e senza pararsi dietro al “si è sempre fatto così”».
Come vede oggi la città di Milano il suo arcivescovo?
«Vedo una decisa volontà di cambiamento. Ci sono fattori interessanti che provengono
dalla società civile. Penso a Expo, al manifestarsi di nuove forme di lavoro o alla ripresa
di un certo gusto a trovarsi insieme: guardiamo per esempio, al fenomeno della
Darsena. Qualcosa di simile avveniva negli anni Sessanta: mi ricordo che alle sette di
sera piazza Duomo si riempiva di gente che discuteva di qualsiasi cosa. C’è voglia di una
nuova Milano. Resta però sempre il rischio di lasciar da parte la questione del “senso del
vivere” che, per noi cristiani, è la questione della fede».
E la politica, a Milano e in Italia?
«C’è da chiedersi che cosa sia la politica oggi. A partire da “casa nostra”. Sono
personalmente convinto che il cattolicesimo politico sia finito. Questo si lega alla crisi dei
partiti. I cattolici devono inventare altre modalità di partecipazione».
Quali forme?
«Il tema della dignità della persona, dei suoi diritti e dei suoi doveri, le leggi connesse a
questi diritti, delle libertà realizzate, della solidarietà, della sussidiarietà... Sono tanti
lampioni accesi. Però è come se non fossero accesi ai bordi di una strada tracciata. Gli
strumenti per renderli praticabili sono in mano al pulviscolo delle associazioni di
volontariato che rappresentano la vera ricchezza della società civile milanese. Ma non si
vedono ancora all’orizzonte forme di politica adeguate a questo cambiamento».
Che cosa pensa delle reazioni di rifiuto dei migranti che si sono verificate nelle ultime
settimane?
«Noi educhiamo e spieghiamo troppo poco, così diventiamo preda di strumentalizzazioni.
Siamo di fronte a un processo storico, i dati Onu ci parlando di decine di milioni di esseri
umani in movimento in tutto il pianeta. La storia non ci domanda il permesso di
innescare i processi. Ci chiede però di intervenire per orientarli. È questione di
responsabilità».
Come risponde la Chiesa?
«Con l’atteggiamento del Buon Samaritano, nell’immediato: arrivi e ti aiuto. Diverso è il
compito della politica. Serve una sorta di piano Marshall almeno a livello europeo per
affrontare il problema, sia nei paesi di partenza come nei nostri. A Milano sperimentiamo
l’accoglienza diffusa: 4 o 5 persone per parrocchia o associazione. Questo rende tutto
più praticabile. Parrocchie, associazioni e Caritas ne accolgono circa 3.000. Il nostro
popolo di fronte al bisogno si mobilita. Ho fiducia in questi percorsi di integrazione,
anche se chiederanno tempo. Le reazioni scomposte sono inevitabili, ma non vedo una
deriva razzista nella nostra gente».
Che cosa pensa dell’atteggiamento della Ue?
«Noi italiani dobbiamo essere molto duri con questa Europa perché ci sta lasciando soli.
È un sintomo molto brutto per il futuro del continente, non vorrei che fosse il sintomo di
una malattia mortale. La crisi dell’Europa è clamorosa».
Che cosa può dire dell’emarginazione nascosta che esiste a Milano? Si parla di 13 mila
poveri...
«Credo siano purtroppo molti di più. Nella prima grande periferia non c’è parrocchia
senza un nucleo emarginato. Non ci sono le favelas, ma c’è comunque gente che non
riesce a mettere insieme due pasti al giorno. Oppure ci sono situazioni come quella che
ho visto alle Case Bianche, con anziani immobilizzati al nono piano perché l’ascensore
non funziona. Questo ha fatto fiorire un volontariato generoso. Penso a situazioni di
degrado in quartieri come San Siro o Turro. Tanta gente che si impegna. Il Banco
alimentare, ad esempio: milioni di persone che usufruiscono del cibo recuperato. Il
popolo di fronte al bisogno si mobilita, ma occorre anche essere educati, ad esempio, a
non sprecare il cibo. Il sindaco Cacciari mi disse che il Comune senza l’aiuto della Chiesa
non potrebbe garantire un welfare sufficientemente articolato. Ma il nesso carità-cultura
ancora non si vede. È spesso generosità che fa fatica a diventare mentalità».
I recenti terremoti hanno fatto dire a qualcuno che si tratta di una punizione divina. Che
cosa risponde?
«Gesù ha già dato una risposta, parlando del crollo della torre di Siloe, che uccise 18
persone: “Credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No...”.
Non sostituiamoci a Dio nel ruolo del giudice. Queste terribili occasioni sono chiamate a
generare comunione cristiana e amicizia civica. Sono una provocazione a porci le
domande vere, alla conversione personale, comunitaria e sociale. Un motivo di maggiore
abbandono al mistero divino. Tocca a noi chiederci se viviamo bene il nostro rapporto
con Dio, con gli altri, con noi stessi, con il creato. Mi ha colpito la generosità dei
milanesi: le parrocchie hanno raccolto un milione mezzo di euro, più mezzo milione la
Caritas».
Ha visto le prime puntate di «The young Pope»? Che cosa ne pensa?
«Ho guardato qualche spezzone. È un film di fantasia. Ci sono luoghi comuni ben celati
da una fantasia sbrigliata e da una straordinaria tecnica filmica».
WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT
Venezuela. Come Francesco arriva a salvare una nazione sull'orlo del baratro di
Sandro Magister
Passo dopo passo, la ricostruzione dell'intervento diretto del papa e dei suoi emissari
nella crisi venezuelana. Con l'ex presidente spagnolo Zapatero tra i mediatori
Misteri dell'informazione vaticana. "L'Osservatore Romano" è giustamente apprezzato
per la copertura amplissima che fornisce ogni giorno dei fatti di tutto il mondo. Ma per
sapere che papa Francesco la sera del 24 ottobre ha incontrato a Santa Marta il
presidente del Venezuela, Nicolás Maduro Moros, i suoi lettori hanno dovuto aspettare il
3 novembre, e apprenderlo dalle parole stesse del papa, dette durante il volo di ritorno
dalla Svezia a Roma e riportate sull'ultima pagina del quotidiano. "L'Osservatore" –
come pure il bollettino ufficiale della Santa Sede – ha mantenuto un silenzio totale anche
sul ruolo del Vaticano nell'avviare i colloqui tra il regime di Maduro e l'opposizione,
iniziati proprio dopo l'inatteso incontro tra il papa e il presidente venezuelano. In effetti,
dal 24 ottobre in poi "L'Osservatore Romano" ha pubblicato ogni giorno corrispondenze
molto dettagliate sugli avvenimenti del Venezuela. Ma senza una sola riga su ciò che più
faceva notizia, cioè appunto l'impegno diretto nella vicenda venezuelana della Santa
Sede e del papa, con suoi emissari sul posto. E allora ricostruiamo questa storia. A
partire dagli antecedenti. Un primo tentativo di dialogo tra governo e opposizione, con
presente al tavolo dei colloqui il nunzio in Venezuela Aldo Giordano, risale all'aprile del
2014 e anche allora papa Francesco si espose in prima persona nel sostenerlo, in
particolare con un messaggio rivolto al presidente Maduro, ai membri del governo, ai
rappresentanti dell'opposizione e ai membri dell'Unione delle Nazioni Sudamericane, in
sigla UNASUR. Il tentativo s'interruppe sul nascere e a nulla valse, nel settembre di
quello stesso 2014, un secondo appello del papa, letto dal nunzio Giordano durante un
incontro interreligioso per la pace promosso a Caracas dal consiglio nazionale dei laici
del Venezuela. Devono passare due anni prima che un lumino si riaccenda, mentre il
Venezuela precipita in una crisi sempre più devastante. Il 25 luglio 2016 il segretario
generale di UNASUR, l'ex presidente colombiano Ernesto Samper Pizano, scrive una
lettera al papa, a nome anche di altri tre ex presidenti: lo spagnolo José Luis Rodríguez
Zapatero, il panamense Martín Torrijos e il dominicano Leonel Fernández. Nella lettera i
quattro chiedono che la Santa Sede entri a far parte del gruppo dei "facilitadores" del
dialogo tra governo e opposizione in Venezuela. Alla lettera risponde non papa Francesco
ma il suo segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, che il Venezuela lo conosce
bene, essendovi stato nunzio dal 2009 al 2013. Nella sua risposta del 12 agosto Parolin
dichiara la disponibilità della Santa Sede, a condizione che siano le parti interessate, il
governo e l'opposizione, a rivolgere l'invito e a mostrarsi "recettive ad accogliere gli
eventuali suggerimenti". Tra i vescovi del Venezuela, però, molti sono scettici. "Un
governo che non provvede cibo e medicine ai cittadini e proibisce alle organizzazioni
religiose e sociali di operare per alleviare le sofferenze della popolazione manca
dell'autorità morale per invocare dialogo e pace", ha detto lo scorso luglio l'arcivescovo
di Cumaná Diego Padrón Sanchez, presidente della conferenza episcopale. E ancor più
critico nei confronti del regime di Maduro è l'arcivescovo di Mérida, Baltazar Enrique
Porras Cardozo. Che papa Francesco ha incluso il 9 ottobre tra i prossimi nuovi cardinali.
La sera del 24 ottobre, colpo di scena. Maduro fa scalo a Roma di ritorno da un giro tra
alcuni Stati petroliferi del Medio Oriente, ed è ricevuto a Santa Marta da papa Francesco.
L'incontro è privato e non ne esistono foto né comunicati ufficiali. Ma la presidenza
venezuelana e vari organi di stampa – tra cui la Radio Vaticana e il blog paravaticano "Il
Sismografo" – lo pubblicizzano con le immagini della precedente udienza di Maduro del
2013, questa sì ufficialissima e avvenuta nel Palazzo Apostolico, come ad avvalorare una
nuova "benedizione" del papa al suo ospite. In Venezuela, tra i critici del regime, le
prime reazioni sono perciò di sconcerto, accresciuto dall'arrivo, a Caracas, il 25 ottobre,
di un inviato del papa nella persona del nunzio in Argentina Emil Paul Tscherrig, col
mandato di avviare un dialogo proprio mentre "il paese è allo stremo" e il "muro contro
muro" tra Maduro e l'opposizione è al suo acme, come titola intanto "L'Osservatore
Romano". Il neocardinale Baltazar Porras dichiara di non essere stato informato
dell'arrivo di un inviato della Santa Sede. Mentre il nunzio a Caracas Giordano tace,
apparentemente scavalcato dal suo collega arrivato da Buenos Aires su mandato del
papa. Tscherrig invece parla e agisce. Incontra separatamente esponenti del governo e
dell'opposizione, col rifiuto però di una parte di questa, e annuncia per il 30 ottobre una
prima tornata di colloqui sull'isola di Margherita. La tensione raggiunge il massimo
venerdì 28 ottobre, col paese paralizzato da uno sciopero generale e ormai "sull'orlo del
baratro", come titola, di nuovo, "L'Osservatore Romano". Ma poi, piano piano, alcuni
pezzi tornano a posto. Tscherrig esce di scena e al suo posto arriva da Roma il "vero"
emissario del papa, l'arcivescovo Claudio Maria Celli già presidente del disciolto pontificio
consiglio per le comunicazioni sociali, ma soprattutto diplomatico di lunga esperienza
internazionale, dalla Cina al Sudamerica. Celli arriva a Caracas con in mano una lettera
"en nombre del Papa Francisco" indirizzata a tutte le parti in causa. Nella lettera, Celli
esorta a non squalificare nessuno come un "nemico assoluto ed eterno", perché anche "il
nemico mortale di oggi può convertirsi in un compagno indispensabile nel cammino
verso il futuro". E di nuovo "a nome di papa Francesco" chiede che "si concordino"
all'inizio di questo processo "alcuni gesti concreti che dimostrino la buona volontà di
ambo le parti". In effetti proprio questo accade. La Mesa de la Unidad Democrática, la
coalizione antiregime che in parlamento ha la maggioranza, sospende il procedimento
per destituire il presidente Maduro e cancella la marcia di protesta in programma per il 3
novembre verso il palazzo presidenziale. Mentre da parte sua Maduro rimette in libertà
un piccolo numero degli oltre cento prigionieri politici detenuti nelle carceri venezuelane.
E così, domenica 30 ottobre, le parti per la prima volta si incontrano. Non nell'isola di
Margherita, come previsto inizialmente per ragioni di sicurezza, ma a Caracas, nel
museo Alejandro Otero. Cinque gli esponenti dell'opposizione presenti, tra cui il
presidente della Mesa de la Unidad Democrática, Jesus Torrealba. Assenti invece i
rappresentanti di Voluntad Popular, il cui leader, Leopoldo López, è il più famoso dei
prigionieri politici tuttora in cella. Le parti si lasciano con l'impegno di tornare a
incontrarsi l'11 novembre e di avviare quattro tavoli di discussione specifici: sul rispetto
dello stato di diritto, sui risarcimenti alle vittime, sulla tabella di marcia elettorale, sulla
situazione economica del Paese. Al primo incontro – e così avverrà nel successivo –
hanno preso parte, col ruolo di "facilitadores", i quattro ex presidenti Samper, Zapatero,
Torrijos e Fernández, assieme all'emissario vaticano Celli. Ma su tutti aleggia la presenza
decisiva di papa Francesco, come ha sottolineato lo stesso Celli in un'intervista alla Radio
Vaticana: "Questa era la consapevolezza comune e la stessa opposizione me l’ha
ripetuto varie volte: 'Noi siamo qui unicamente perché c’è lei!', e cioè: il ruolo che gioca
la figura di papa Francesco in questo contesto è fondamentale. Gli stessi quattro ex
presidenti hanno tutti sottolineato che se non ci fosse stata la Santa Sede in questo
cammino e con la sua presenza, questo cammino non sarebbe neanche iniziato. Questo
lo posso dire con molta serenità. Lo stesso ex primo ministro Zapatero, spagnolo, di cui
tutti conosciamo il percorso e la storia, ha riconosciuto ufficialmente, in pubblico, che
tutto questo si deve alla presenza di papa Francesco e quindi alla presenza della Santa
Sede che accompagna questo processo di dialogo". Anche la presidenza della conferenza
episcopale si associa all'avvio di dialogo, con un appello alle parti di "totale adesione al
Santo Padre nei suoi sforzi a favore del popolo venezuelano". Ed è a questo punto che
Francesco in persona parla della vicenda. Lo fa il 1 novembre sul volo di ritorno a Roma
dalla Svezia, dove si era recato per celebrare i cinquecento anni della Riforma luterana.
Interpellato dalla giornalista spagnola Eva Fernández riguardo all'udienza a Maduro e
all'avvio dei colloqui, il papa risponde testualmente: "Il presidente del Venezuela ha
chiesto un incontro e un appuntamento perché lui veniva dal Medio Oriente, dal Qatar,
dagli altri Emirati e faceva scalo tecnico a Roma. Aveva chiesto un’incontro prima. È
venuto nel 2013; poi aveva chiesto un altro appuntamento, ma si è ammalato e non è
potuto venire; e ha chiesto questo. Quando un presidente chiede, lo si riceve, per di più
era a Roma, in scalo. L’ho ascoltato, mezz’ora, a quell’appuntamento; l’ho ascoltato, io
gli ho fatto qualche domanda e ho sentito il suo parere. È sempre bene sentire tutti i
pareri. Ho ascoltato il suo parere. "In riferimento al secondo aspetto, il dialogo è l’unica
strada per tutti i conflitti. Per tutti i conflitti! O si dialoga o si grida, ma non ce n’è
un’altra. Io col cuore ce la metto tutta nel dialogo e credo che si debba andare su quella
strada. Non so come finirà, non so, perché è molto complesso, ma la gente che è
impegnata nel dialogo è gente di statura politica importante. Zapatero, che è stato due
volte presidente del governo della Spagna, e Restrepo [e tutte le parti] hanno chiesto
alla Santa Sede di essere presente nel dialogo. E la Santa Sede ha designato il nunzio in
Argentina monsignor Tscherrig, il quale credo sia lì, al tavolo del negoziato. Ma il dialogo
che favorisce il negoziato è l’unica strada per uscire dai conflitti, non ce n’è un’altra. Se il
Medio Oriente avesse fatto questo, quante vite sarebbero state risparmiate!". Prese alla
lettera, queste parole del papa farebbero pensare che egli non fosse in quel momento a
conoscenza della già avvenuta sostituzione di Celli a Tscherrig, quest'ultimo a lui noto ed
amico, in quanto nunzio in Argentina quando Jorge Mario Bergoglio era ancora
arcivescovo di Buenos Aires. E questo equivoco, assieme agli stupefacenti silenzi de
"L'Osservatore Romano", potrebbe essere segno di un non oliato rapporto tra Santa
Marta e la segreteria di Stato, ossia tra il papa e il cardinale Parolin, nella gestione
dell'intera operazione. Ma ciò non toglie che sul Venezuela papa Francesco e la Santa
Sede hanno ora puntato fortissimo, dopo averlo a lungo trascurato. E curiosamente,
l'hanno fatto in coincidenza con la nomina a nuovo superiore generale della Compagnia
di Gesù, alla quale il papa appartiene, di un gesuita del Venezuela, padre Arturo
Marcelino Sosa Abascal, versatissimo nelle scienze della politica e oggi salomonicamente
critico sia del "chavismo" dittatoriale di Maduro, sia della debolezza democratica delle
opposizioni. "Audacia dell'impossibile" è la parola d'ordine del nuovo generale dei
gesuiti. Molto appropriata per un'impresa davvero ai confini dell'impossibile come la
pacificazione e la rinascita del Venezuela.
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5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
AVVENIRE
Pag 3 Economia della condivisione, il futuro è sempre più sociale di Emanuela
Citterio
Lo scambio di beni e servizi nell’era di Internet. Cos’è veramente la “sharing economy” e
come cambierà
Il car sharing non lo è, anche se contiene la parola 'sharing', condivisione. Le
piattaforme web che forniscono autista con conducente nemmeno. Da escludere sono
anche i servizi che recapitano il cibo a casa su ordinazione tramite applicazioni. Dopo i
primi anni di euforia, c’è chi prova a fare chiarezza intorno alla sharing economy, che ha
bisogno più che mai di trovare la sua giusta collocazione rispetto a furbe operazioni di
marketing e sopravvalutazioni. Negli ultimi tre anni la cosiddetta 'economia della
condivisione' è cresciuta in tutto il mondo sia come fenomeno culturale e sociale che in
termini di fatturato. Piattaforme on line e applicazioni hanno inaugurato un nuovo modo
di spostarsi, di viaggiare e persino di lavorare. Oggi si può visitare una città in qualsiasi
nazione del mondo affittando alla velocità di un clic una stanza o un appartamento messi
a disposizione da un privato, scegliendo un’opzione diversa e spesso più conveniente
rispetto al soggiorno in albergo; dall’altra parte, c’è chi in questo modo è riuscito a
ottenere un reddito integrativo affittando per brevi periodi uno spazio non utilizzato.
Condividere i passaggi in auto con applicazioni come BlaBlaCar è diventato un modo
economico per viaggiare per molte persone, giovani e non solo. Il moderno autostop. Ma
i siti di sharing economy hanno anche favorito una nuova socialità: ci sono i portali di
crowdfunding che permettono di unirsi per finanziare un progetto, quelli di social eating
dove ci si trova per organizzare cene a partire da un interesse comune, siti come Time
Republik dove le persone possono scambiare liberamente il proprio talento e le proprie
competenze. E si potrebbe continuare: secondo l’ultima rilevazione curata da
Collaboriamo.org, in Italia ci sono 186 piattaforme collaborative, divise in 13 diversi
settori, dal crowdfunding (69), ai trasporti (22), al turismo (17, di cui 8 che mettono in
contatto viaggiatori e guide locali che propongono una visita alternativa del territorio),
passando per lo scambio di beni di consumo (18), i servizi alle persone (9), la cultura
(9). Del futuro di questa nuova economia collaborativa si parlerà il 15 e 16 novembre a
Milano a Sharitaly: due giorni di incontri, dibattiti e gruppi di lavoro dedicati al tema
'Impatto sharing'. Ma cos’è davvero sharing economy e cosa invece non lo è? Ivana Pais,
docente di sociologia economia dell’Università Cattolica di Milano, insieme a Marta
Mainieri fondatrice del portale Collaboriamo.org, ha elaborato dei criteri. «Sul web
fioriscono nuove aziende digitali e piattaforme che forniscono beni e servizi a pagamento
e c’è bisogno di fare chiarezza» afferma Pais. «Non si tratta di dividere buoni e cattivi,
ma di distinguere fra modelli diversi di integrazione fra economia e società». Delineare i
contorni di un fenomeno nuovo, però, è tutt’altro che facile. «Possiamo dire che una
piattaforma di sharing economy è davvero tale se c’è uno scambio di beni e servizi fra
pari» continua Pais. «A dettare il prezzo dei beni e dei servizi offerti o scambiati, devono
essere inoltre gli stessi utenti. Il principio è che deve trattarsi di una negoziazione fra
pari, un gioco contrattuale tra le parti in campo e non diretto da organizzazioni esterne».
Non c’entrano nulla con la sharing economy, di conseguenza, aziende che forniscono
servizi on line a pagamento, dal car sharing all’affitto di auto con conducente al food
delivery, ovvero la consegna a domicilio di cibo ordinato via web o con un’applicazione.
Eppure la confusione è ancora tanta. Lo scorso ottobre ha fatto scalpore il caso di
Foodora, start up tedesca nata a Monaco nel 2014 che recapita cibo a domicilio a trenta
minuti dall’ordine, effettuato attraverso il sito o l’apposita app. A consegnare sono ciclisti
o motociclisti in giacca rosa che girano per la città con il proprio mezzo a due ruote. A
Torino 140 di loro hanno denunciato condizioni inique: paga a cottimo di 2,70 euro a
consegna, contratto di collaborazione co.co.co senza coperture per le malattie, utilizzo
dei propri mezzi senza rimborso. La trattativa fra lavoratori e azienda è in corso, ma nel
frattempo c’è chi ha parlato di «sogno infranto della sharing economy», accusando
l’intero comparto di usare i linguaggi della condivisione e della sostenibilità per saltare a
piè pari le regole e i diritti dei lavoratori. Proprio il caso di Foodora, dall’altra parte, ha
obbligato i media a usare un linguaggio più preciso per definire le diverse forme di
economia nate sul web. I più accurati, parlando della start-up tedesca, hanno usato il
termine di 'gig economy' (economia dei piccoli lavoretti) o di 'on demand economy'
(aziende digitali che forniscono beni e servizi ai consumatori attraverso il web). Fare
distinzione è importante anche per regolare tutta una serie di attività economiche nate
sul web. Mettere dei paletti rigidi, però, è difficilissimo. Anche perché i tentativi per
aggirarli ci sono, eccome. Di recente Federalberghi ha puntato il dito contro AirBnb, il
portale on line che mette in contatto persone che cercano un alloggio o una camera per
brevi periodi con persone che dispongono di uno spazio extra da affittare. Ogni
inserzionista ha un profilo personale. Ma è capitato che a una stessa persona, Bettina,
siano riconducibili ben 366 appartamenti. Bettina è una dipendente della società
immobiliare Halldis Italia, che ha sfruttato il sito di sharing economy per incrementare il
suo business. Capita però anche il contrario: chi vuole avere tutte le carte in regola
fatica a districarsi fra leggi e procedure, che in Italia variano di regione in regione e si
stanno adattando a un fenomeno nuovo. Carlotta Bianchini ha creato il sito
www.hostitaliani.it e un gruppo Facebook per rispondere ai dubbi di chi offre accoglienza
tramite AirBnb: «Le domande più frequenti riguardano le tasse da pagare, se sia
necessario o no far firmare un contratto, se si debba o meno rilasciare una ricevuta,
quale sia la procedura per la registrazione della struttura presso la questura» afferma.
«Quando ci si reca negli uffici comunali o regionali per avere informazioni capita di non
ottenere informazioni univoche e spesso gli stessi funzionari non sono consapevoli delle
normative vigenti». Q uella delle tasse è una questione in sospeso anche, e soprattutto,
per le aziende che hanno creato le piattaforme. A livello internazionale, AirBnb ha
continuato a crescere, ricevendo costantemente nuovi round di finanziamento, fino ad
essere quotata 24 miliardi, eppure in Italia paga solo 46 mila euro di tasse perché la
sede legale del gruppo è in Irlanda. C’è però una grossa differenza fra le piattaforme
nate in questi anni negli Usa, come AirBnb, e quelle italiane. «Quelle americane sono
state pesantemente finanziate da fondi di venture capital e, se questo ha portato al loro
successo, dall’altra parte ha drogato la crescita dell’economia della condivisione via web
creando distorsioni» fa notare Marta Mainieri, fondatrice del portale Collaboriamo.org
dedicato alla sharing economy italiana. «In Italia i capitali investiti sono inferiori ma c’è il
problema opposto: le piattaforme collaborative non riescono a decollare e a
professionalizzarsi». L’impatto della sharing economy in Italia è quindi stato
sopravvalutato? «In un momento di crisi questo tipo di economia collaborativa ha fatto
da paracadute – afferma Pais –. In un auspicato scenario di ripresa potrebbe o non
servire più o professionalizzarsi, diventando, più che la panacea di tutti i mali,
un’opzione possibile per persone interessate alla dimensione sociale e alla sostenibilità
ambientale nello scambio di beni e servizi». Tra distorsioni, furbe operazioni di
marketing e letture che l’hanno presentata come la soluzione alla crisi, l’economia della
condivisione sta insomma ancora cercando la sua strada.
Il riuso o lo scambio in rete in una negoziazione tra pari - «Sharing Economy» significa
«economia della condivisione». Il concetto di fondo è lo scambio di beni e servizi
attraverso siti internet o applicazioni per cellulari e tablet in modo da sostenere il riuso
degli oggetti o l’accesso a un servizio in luogo della proprietà. Per i ricercatori
dell’Università Cattolica una piattaforma di sharing economy è tale se c’è uno scambio di
beni e servizi fra pari, mentre il prezzo dei beni e dei servizi offerti o scambiati deve
essere deciso dagli stessi utenti. Una negoziazione fra pari, cioè, non diretta da
organizzazioni esterne.
Pag 3 La disparità servita in mensa di Massimo Calvi
L’Italia divisa del pasto a scuola
Quando si parla di politiche familiari o di aiuti ai figli il discorso cade solitamente su
questioni come gli incentivi alla natalità, gli asili nido, i bonus, e via dicendo. Raramente
si parla di mense scolastiche. Ed è un errore. Perché se si solleva il coperchio del
pentolone mense in Italia, è difficile non notare come la diversità di trattamento da città
a città raggiunga livelli così elevati da rappresentare un potente fattore di disparità
sociale. Su 'Avvenire' lo abbiamo scritto più volte, parlando anche di «tassa occulta» a
carico delle famiglie a seconda del Comune in cui abitano. E l’ultimo rapporto di Save
The Children dedicato proprio alle mense lo dimostra in modo netto, arrivando a definire
«preoccupante» il modo con cui il federalismo distorto della ristorazione scolastica
produca nuove e inedite categorie di poveri. Il problema di partenza è il tempo pieno a
scuola. Dove questa opportunità non è offerta, e dove non è possibile abbinare un
servizio di refezione, i tassi di dispersione scolastica sono più elevati. Una condizione che
riguarda soprattutto il Sud, ma non solo. In Italia il 40% delle scuole non ha un servizio
mensa, e dove c’è non esiste una regola uniforme. Ci sono città in cui non sono previste
esenzioni specifiche in base al reddito o al numero di figli e altre in cui esistono scale di
esenzione fin troppo elaborate e raffinate; città in cui il terzo figlio non paga nulla e altre
in cui paga la tariffa piena; città in cui la tariffa minima è 2 euro e altre in cui la
massima è ancora 2 euro. E poi Comuni in cui gli sconti si fondano sulla dichiarazione
Isee, altri dove si guarda anche al numero di figli, alla presenza di disabili o a condizioni
sociali particolari. Una regola non esiste, al punto che la stessa famiglia potrebbe
trovarsi a pagare il triplo se dovesse trasferirsi ad esempio da Catania a Livorno o da
Milano a un Comune più povero dell’hinterland. La realtà di famiglie numerose e non
ricche che si trovano a spendere molto di più rispetto a famiglie benestanti solo per il
fatto di ricadere nei confini sbagliati non è così infrequente. E non è solo una questione
di sconti. In alcune realtà si paga a consumo, in altre a forfait, in certi contesti chi non
versa la quota si trova il figlio escluso dal servizio, in altri no, per non parlare delle
scuole che hanno aperto al pranzo portato da casa dividendo i bambini in sale separate.
Di fronte a una disparità di trattamento così elevata, il dibattito sul 'panino' portato da
casa, o della milanese schiscetta (il portapranzo), di cui si è tanto parlato negli ultimi
tempi, rischia di far perdere di vista il cuore del problema. La mensa coi compagni non è
solo un luogo in cui i bambini mangiano, ma è una formidabile occasione di educazione
civica, ambientale, alimentare oltre che di convivialità. Uno studio condotto per il
Ministero della Salute rivela come il 49% delle madri di figli sovrappeso consideri il
proprio bambino nella norma e il 75% ritenga che la quantità di cibo assunta sia giusta.
Per contro, un bambino ogni 20 in Italia non consuma nemmeno un pasto proteico al
giorno. È anche per questo che parlare di mense e di un criterio per unire il Paese nel
modo di nutrire i bambini significa fare politica familiare e sociale allo stesso tempo.
L’obiettivo di un pasto gratuito per i veri poveri, e di condizioni uniformi nel modo di far
pagare il servizio alle famiglie, come nel concedere loro le giuste agevolazioni, non è
fuori dalla portata di una buona politica. La vera fascia del bisogno oggi non si trova
nella categoria che riceve una rendita fissa e garantita ogni mese, ma nei ceti popolari e
in quelli medi impegnati a crescere e nutrire i propri figli.
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag IX Si torna ad assumere, Venezia tira la volata
Occupazione: la Camera di Commercio stima un aumento di 18mila lavoratori dipendenti
a fine anno. Turismo e imprese che innovano ed esportano in prima fila
Perfino più del Veneto. Se a livello regionale in questo 2016 le previsioni di assunzione
segneranno un +8 per cento, a Venezia si arriverà addirittura ad un +13%, con 18mila
lavoratori dipendenti in più. E, a tirare la volata, sono il turismo e le imprese che
esportano e che realizzano innovazioni. Sono gli ultimi dati forniti dalla Camera di
commercio Delta Lagunnare, sulla base del monitoraggio del sistema Excelsior realizzato
da Unioncamere in collaborazione con il Ministero del Lavoro. Balza agli occhi che quasi
un quarto delle imprese veneziane (il 23,2%) ha effettuato o effettuerà assunzioni nel
2016, soprattutto aziende del terziario, che producono per l'estero o che innovano (oltre
il 40%). Il tasso di assunzione'' nel 2016 è pari al 9,3%, un dato nettamente superiore
rispetto al 7,8% del 2014 e all'8,3% del 2015, «collocando Venezia al secondo posto
della graduatoria regionale, dopo Belluno, due province dove l'incidenza del turismo è
altissima» sottolineano alla Camera di commercio. Delle 18mila assunzioni stimate il
20% sarà a tempo indeterminato (in diminuzione di 3 punti rispetto alle previsioni 2015,
e questo è l'unico dato negativo), il 72% a tempo determinato, 4% in apprendistato e
3% con altre tipologie di contratto. Il 30% delle assunzioni riguarda i giovani, il 17% le
donne e il 24% i lavoratori immigrati. Ma, se queste sono le cifre, l'indagine della
Camera di commercio si sofferma soprattutto sui settori dove si registra una maggiore
richiesta. «Fra i settori in difficoltà a reperire risorse vi sono le industrie meccaniche
(30%), tessile e abbigliamento (22%), turismo e ristorazione (22%)» si legge nell'analisi
che mette al primo posto delle professioni più ricercate quelle qualificate in attività
ricettive e ristorazione (4.350 unità), seguite da quelle non qualificate nel commercio e
nei servizi (3.600 unità) e, al terzo, le professioni qualificate nel commercio (2.410
assunzioni previste). Fra i livelli di studio richiesti, il 41,6% delle imprese cerca figure
con diploma superiore prevalentemente di indirizzo turistico-enogastronomico,
amministrativo-finanziario, marketing, meccanica-meccatronica ed energia; il 20,1% con
formazione o diploma professionale in ristorazione, benessere, accoglienza e meccanico,
il 7,2% con livello universitario. «Per far fronte ai problemi di reperimento è
fondamentale incentivare l'incontro fra mondo del lavoro e scuole medie superiori commenta Roberto Crosta, segretario generale della Camera di commercio -. L'obiettivo
è mantenere nel nostro territorio i ragazzi al termine del loro percorso di studi ed
abbattere così i tassi disoccupazione».
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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
LA NUOVA
Pagg 2 – 3 Navi fuori da San Marco. Marghera, sì alla bonifica di Alberto Vitucci
Il ministro Delrio a Venezia, illustrati i progetti del governo. Scelto il presidente
dell’Autorità portuale, sarà Stefano Corsini
Venezia. Un manager alla guida del Porto. Il via libera alla bonifica di Marghera e al
primo stralcio del progetto off-shore. Le grandi navi “fuori” dalla laguna. Milioni di
investimenti per la Tav e gli aeroporti. Il ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio,
porta qualche certezza in laguna. Soddisfa molti e raffredda qualche entusiasmo. «La
strategìa Paese non è la strategìa di Venezia», scandisce, «Venezia è una realtà
insostituibile ma sarà sempre un punto debole se non c’è un sistema che funziona. La
sua bellezza non la salverà». Ieri Delrio era a Tessera per inaugurare la nuova porta
d’acqua dell’aeroporto Marco Polo e il tapis roulant di collegamento con l’aerostazione
che era atteso da oltre dieci anni. Realizzato con i fondi recuperati dai soci privati che
governano Save anche grazie alla detassazione dei biglietti aerei. Platea di politici,
manager e imprenditori. Gran via vai della vecchia e della nuova politica, sul palco il
pesidente della Save Enrico Marchi, il sindaco Luigi Brugnaro e il direttore dell’Enac Vito
Riggio, l’assessora Erika De Berti al posto del governatore Zaia che ha dato forfait. E il
ministro ne ha approfittato per chiarire il suo pensiero sulle “strategie” delle
infrastrutture. Aeroporto. «L’economia aeroportuale è la vera risorsa di questo Paese»,
attacca Delrio, annunciando altri 500 milioni di investimenti. «Dove vengono fatte le
cose per bene le cose funzionano», dice, «qui a Tessera, ma anche a Napoli. Dove le
cose non vanno le società le lasciamo fallire, non badiamo alle interrogazioni
parlamentari». Porto. Il benservito a Paolo Costa, presidente dell’Autorità portuale negli
ultimi otto anni, arriva nel mezzo del discorso ufficiale. «Il mio amico Paolo Costa ha
fatto benissimo», scandisce Delrio, «ma adesso abbiamo scelto un manager. Il nome lo
comunicheremo nei prossimi giorni». Quello più accreditato sembra essere Stefano
Corsini, 58 anni, dirigente del Cipe e della presidenza del Consiglio. «Nomi fuori dalla
politica, questa è la linea», dice il ministro, Off shore. Delrio annuncia che «come
d’accordo con il presidente Costa» il governo ha inviato al Cipe che darà presto il via
libera, la prima fase dei lavori del progetto Voops (Venice off-shore on-shore port
system) con i lavori nell’area dell’ex Syndial a Marghera. «Sulla seconda fase, la
piattaforma vera e propria del costo di oltre due miliardi di euro, c’è ancora da fare una
riflessione. Una discussione molto tecnica e accurata che avverrà nelle prossime
settimane». Marghera. «Sbloccheremo subito la bonifica di Marghera», ha detto il
ministro alla fine dell’inaugurazione in aeroporto. Poi il sopralluogo di quattro ore a
Fusina e Marghera accompagnato dal sindaco Brugnaro. «Caro Luigi», gli ha detto più
volte, «i problemi di Venezia li abbiamo ben presenti». Alta velocità. 15 milioni di euro
sono stati già stanziati per la progettazione del tratto di Alta velocità ferroviaria che
interessa il Veneto. Ci sarà una fermata a Tessera e tra breve, a inizio 2017, ha detto il
ministro, «partiranno i lavori per la tratta Brescia-Verona per proseguire poi fino a
Vicenza. 400 milioni di investimenti per collegare le principali città in due ore». «La
strategia complessiva è quella di rendere Venezia accessibile, su acqua, su gomme e su
rotaia. Il deficit logistico ci costa 12-13 miliardi di euro l’anno. Con la logistica tedesca
saremmo la prima manifattura europea. Grandi navi. «Le grandi navi stanno fuori il più
possibile dalla laguna», attacca il ministro, «dobbiamo salvare la Marittima e puntare sul
traffico delle navi medie e grandi. Ma nel medio e lungo periodo le grandi navi dovranno
stare fuori dalla laguna». Un annuncio che gela i tanti imprenditori presenti in sala. Fa
esultare gli ambientalisti e il senatore Felice Casson, seduto i prima fila. «Ma no! el se gà
sbaja...», commenta sicuro il sindaco Brugnaro, «forse si è confuso non ha visto la
cartina». Puntuale, poco dopo, arriva la precisazione del ministro: «Fuori della laguna
non vuol dire in mare. Ma lontano da San Marco». Progetti alternativi. Il ministro non
scende nei dettagli sulle principali alternative per spostare le navi da San Marco e dalla
Giudecca. «Posso confermare», dice, «che all’esame della commissione Via ci sono i
progetti Duferco e lo scavo delle Tresse. Ci sono dei tempi necessari per valutare, poi
decideremo». Nessun accenno sulla proposta ventilata dalle compagnie di crociera di
spostare il terminal a Marghera, nell’area interessata dal progetto off-shore. «Meno
male», tirano il fiato i fautori dell’off shore, in testa il sindaco Brugnaro. «Dobbiamo
salvare 5 mila posti di lavoro, questo abbiamo detto al ministro», sintetizza, «abbiamo
avuto risposte positive, altre su cui attendiamo chiarezza. Sul lungo termine per le
grandi navi non abbiamo problemi: basta che non occupino le aree di Syndial destinate
alla logistica».
Venezia. Un manager alla guida del Porto. Il via libera alla bonifica di Marghera e al
primo stralcio del progetto off-shore. Le grandi navi “fuori” dalla laguna. Milioni di
investimenti per la Tav e gli aeroporti. Il ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio,
porta qualche certezza in laguna. Soddisfa molti e raffredda qualche entusiasmo. «La
strategìa Paese non è la strategìa di Venezia», scandisce, «Venezia è una realtà
insostituibile ma sarà sempre un punto debole se non c’è un sistema che funziona. La
sua bellezza non la salverà». Ieri Delrio era a Tessera per inaugurare la nuova porta
d’acqua dell’aeroporto Marco Polo e il tapis roulant di collegamento con l’aerostazione
che era atteso da oltre dieci anni. Realizzato con i fondi recuperati dai soci privati che
governano Save anche grazie alla detassazione dei biglietti aerei. Platea di politici,
manager e imprenditori. Gran via vai della vecchia e della nuova politica, sul palco il
pesidente della Save Enrico Marchi, il sindaco Luigi Brugnaro e il direttore dell’Enac Vito
Riggio, l’assessora Erika De Berti al posto del governatore Zaia che ha dato forfait. E il
ministro ne ha approfittato per chiarire il suo pensiero sulle “strategie” delle
infrastrutture. Aeroporto. «L’economia aeroportuale è la vera risorsa di questo Paese»,
attacca Delrio, annunciando altri 500 milioni di investimenti. «Dove vengono fatte le
cose per bene le cose funzionano», dice, «qui a Tessera, ma anche a Napoli. Dove le
cose non vanno le società le lasciamo fallire, non badiamo alle interrogazioni
parlamentari». Porto. Il benservito a Paolo Costa, presidente dell’Autorità portuale negli
ultimi otto anni, arriva nel mezzo del discorso ufficiale. «Il mio amico Paolo Costa ha
fatto benissimo», scandisce Delrio, «ma adesso abbiamo scelto un manager. Il nome lo
comunicheremo nei prossimi giorni». Quello più accreditato sembra essere Stefano
Corsini, 58 anni, dirigente del Cipe e della presidenza del Consiglio. «Nomi fuori dalla
politica, questa è la linea», dice il ministro, Off shore. Delrio annuncia che «come
d’accordo con il presidente Costa» il governo ha inviato al Cipe che darà presto il via
libera, la prima fase dei lavori del progetto Voops (Venice off-shore on-shore port
system) con i lavori nell’area dell’ex Syndial a Marghera. «Sulla seconda fase, la
piattaforma vera e propria del costo di oltre due miliardi di euro, c’è ancora da fare una
riflessione. Una discussione molto tecnica e accurata che avverrà nelle prossime
settimane». Marghera. «Sbloccheremo subito la bonifica di Marghera», ha detto il
ministro alla fine dell’inaugurazione in aeroporto. Poi il sopralluogo di quattro ore a
Fusina e Marghera accompagnato dal sindaco Brugnaro. «Caro Luigi», gli ha detto più
volte, «i problemi di Venezia li abbiamo ben presenti». Alta velocità. 15 milioni di euro
sono stati già stanziati per la progettazione del tratto di Alta velocità ferroviaria che
interessa il Veneto. Ci sarà una fermata a Tessera e tra breve, a inizio 2017, ha detto il
ministro, «partiranno i lavori per la tratta Brescia-Verona per proseguire poi fino a
Vicenza. 400 milioni di investimenti per collegare le principali città in due ore». «La
strategia complessiva è quella di rendere Venezia accessibile, su acqua, su gomme e su
rotaia. Il deficit logistico ci costa 12-13 miliardi di euro l’anno. Con la logistica tedesca
saremmo la prima manifattura europea. Grandi navi. «Le grandi navi stanno fuori il più
possibile dalla laguna», attacca il ministro, «dobbiamo salvare la Marittima e puntare sul
traffico delle navi medie e grandi. Ma nel medio e lungo periodo le grandi navi dovranno
stare fuori dalla laguna». Un annuncio che gela i tanti imprenditori presenti in sala. Fa
esultare gli ambientalisti e il senatore Felice Casson, seduto i prima fila. «Ma no! el se gà
sbaja...», commenta sicuro il sindaco Brugnaro, «forse si è confuso non ha visto la
cartina». Puntuale, poco dopo, arriva la precisazione del ministro: «Fuori della laguna
non vuol dire in mare. Ma lontano da San Marco». Progetti alternativi. Il ministro non
scende nei dettagli sulle principali alternative per spostare le navi da San Marco e dalla
Giudecca. «Posso confermare», dice, «che all’esame della commissione Via ci sono i
progetti Duferco e lo scavo delle Tresse. Ci sono dei tempi necessari per valutare, poi
decideremo». Nessun accenno sulla proposta ventilata dalle compagnie di crociera di
spostare il terminal a Marghera, nell’area interessata dal progetto off-shore. «Meno
male», tirano il fiato i fautori dell’off shore, in testa il sindaco Brugnaro. «Dobbiamo
salvare 5 mila posti di lavoro, questo abbiamo detto al ministro», sintetizza, «abbiamo
avuto risposte positive, altre su cui attendiamo chiarezza. Sul lungo termine per le
grandi navi non abbiamo problemi: basta che non occupino le aree di Syndial destinate
alla logistica».
CORRIERE DEL VENETO
Pag 11 La figlia di Gori: “Ero spensierata, quel giorno è finito tutto” di mo.zi.
Incontro a Mestre
Mestre. «Mi spiace che sia finita così. Io adoravo vivere a Mestre, avevo tanti progetti
insieme al mio papà, ero felice e spensierata. Tutto è finito con una telefonata quel
mattino del 29 gennaio. Del giorno dei funerali ricordo ben poco, ho passato quasi tutto
il tempo con la faccia nascosta nel cappotto di mia zia. Non volevo vedere... Era finita la
mia giovinezza ed era iniziata l’epoca della sopravvivenza». È uno dei passaggi della
lettera che ha preparato Barbara Gori, figlia dell’ingegnere Sergio Gori che fu ucciso a
Mestre dalle Brigate Rosse il 29 gennaio 1980. L’ha scritta per l’incontro che oggi alle 18
si terrà al Laurentianum in piazza Ferretto, a pochi giorni dalla chiusura dell’Anno
giubilare straordinario della Misericordia. Si chiama «La difficile misericordia. Gli anni del
terrorismo a Mestre riletti dalle voci dei testimoni» e per la prima volta porterà tutte
insieme le testimonianze dei familiari delle vittime: quella di Teresa Friggione Albanese vedova del commissario Alfredo Albanese ucciso dalle BR il 12 maggio 1980 - di Cesare
Taliercio - figlio di Giuseppe, ingegnere e direttore del Petrolchimico ucciso il 5 luglio
1981 dopo 46 giorni di rapimento – e la voce scritta di Barbara Gori saranno il fulcro
dell’incontro col giornalista Adriano Favaro, il sociologo Gianfranco Bettin e il parroco del
Duomo Gianni Bernardi. Il tema è la misericordia, quel difficile equilibrio di fede che
rimette in prospettiva gli errori dell’umano per andare oltre. Come dice Barbara Gori:
«Di una cosa sono fiera: nonostante gli episodi e il clima di violenza che hanno
caratterizzato la mia giovane vita, ha prevalso in me il sentimento dell’amore e non
quello dell’odio. Ai giovani di adesso - così presi dalla “tecnologia” che li porta lontani da
quei valori oramai in parte perduti - dico di non cedere mai alla violenza per imporre le
proprie idee - continua Gori - perché essa genera altra violenza, e di non fare mai
l’errore di pensare “tanto non è successo a me”».
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8 – VENETO / NORDEST
CORRIERE DEL VENETO
Pag 1 L’autogol delle barricate di Umberto Curi
Il no profughi
«C’è una donna incinta». «Non ce ne frega un c...». Questo il concitato scambio di
battute fra il graduato dei carabinieri che annunciava l’arrivo di un pullman con dodici
donne e otto bambini migranti, e alcuni cittadini di Goro. Menare scandalo per questa
agghiacciante testimonianza di mancanza di solidarietà rischia di essere ipocrita. Più
onesto intellettualmente sarebbe riconoscere che quelle parole, apparentemente tanto
spietate, corrispondono ad un sentire molto più diffuso di quanto ci piacerebbe pensare.
Ha torto, infatti, il ministro Alfano quando afferma che non Goro, ma Lampedusa e
Napoli, dove i migranti vengono accolti perfino con il Welcome, sono la vera Italia.
Malauguratamente, è vero proprio il contrario. Il dottor Bartolo che passa le sue notti sul
molo di Lampedusa per accogliere i barconi, o i giovani napoletani accorsi ad aiutare i
soccorritori di tante persone in difficoltà – loro sì sono eccezioni, anche se non
completamente isolate. La regola è un’altra. La regola è quella compendiata
nell’acronimo forgiato dagli Americani: Nimby, «non nel mio giardino». Fino a che i
migranti vengono ospitati in centri che assomigliano a campi di concentramento, o
vengono collocati in strutture di accoglienza gestite da organizzazioni del terzo settore,
nulla da dire. Ma se si profila l’ipotesi che – donne o uomini che siano – arrivino a due
passi da casa mia, o (come nel caso di Goro o, più recentemente di Ficarolo) si insedino
in una casa contigua al bar del paese, allora anche cittadini per altri aspetti pacifici e
remissivi diventano inflessibili custodi del mondo in cui vivono. E’ successo in alcuni
paesi del delta del Po. E’ accaduto ad Abano Terme e a Capalbio. Nella zona termale
presso Padova si sono addirittura costituiti comitati permanenti per il no all’accoglienza.
Anche in presenza di minori non accompagnati, di donne incinte, o di bambini, la
risposta è la stessa: «non ce ne frega un c...». Almeno per una volta, smettiamola con la
solita tiritera: bisogna capirli, hanno anche loro sacrosanti diritti, il governo e gli
amministratori locali non sono all’altezza della situazione, ecc. Smettiamola non perché
queste affermazioni non siano vere. Ma perché quella frase urlata in faccia al carabiniere
è sintomo di qualcosa che non può essere confuso con una generica espressione di
ribellione. Non è soltanto testimonianza di una esasperazione legittima, dovuta
all’innegabile quanto macroscopica inadeguatezza della politica ad affrontare questa
emergenza. E’ sintomo di qualcosa di molto più profondo, diffuso e allarmante. Se di
fronte ad una richiesta di solidarietà si urla «non ce ne frega un c…», vuol dire che si
sono dissolti i principi basilari sui quali è costruita una comunità. Quella frase urlata dice
esattamente l’opposto del motto latino – nihil humani a me alienum puto – «non vi è
nulla riguardante l’uomo che io consideri essermi estraneo». Al contrario, stabilisce che
l’unica dimensione dell’umano di cui mi interessi è quella che riguarda me, i miei
interessi, i miei bisogni, i miei appetiti. Qui è necessaria la massima attenzione, onde
evitare di lasciarsi inghiottire da una visione moralistica. Che il punto di riferimento
privilegiato a cui ciascuno di noi riconduce le sue azioni e il suo comportamento sia
costituito dalle proprie necessità, è un dato incontestabile. Si potrebbe arrivare a dire
che non solo si tratta di qualcosa di «naturale» (e cioè connesso a ciò che siamo per
nascita), ma anche di qualcosa che non è di per sé moralmente censurabile. Immaginare
un mondo popolato da individui solleciti del bene altrui, piuttosto che anzitutto mossi
dall’amor sui, equivarrebbe a cancellare – o a deformare – ciò che ci insegna la storia
plurimillenaria dell’umanità. Il punto dunque non è questo, con buona pace delle tante
prediche fastidiosissime che abbiamo ascoltato in questi giorni. Il punto vero è un altro.
Tenendo fermo che la stella fissa a cui guardo nel determinare le mie scelte sul piano
pratico non può che essere il mio «naturale» interesse, dovrebbe essere altrettanto
evidente che nella tutela dei miei bisogni rientra a pieno titolo, e con molta forza, il
prendersi carico delle esigenze degli altri miei simili. Non per «bontà», appunto. Ma
perché la mia stessa sopravvivenza è legata all’esistenza di una comunità, senza la
quale da solo non potrei farcela. Ma non c’è bisogno di scomodare Thomas Hobbes per
sapere che una comunità, o uno Stato, può reggersi solo se ciascuno degli individui
contraenti del patto sociale rinuncia ad alcuni diritti «naturali», proprio allo scopo di
beneficiare della propria sicurezza. Tutto ciò implica consequenzialmente che, proprio in
vista del proprio egoismo, e non in contraddizione con esso, nessuno possa dire «non
me ne frega un c…», perché al contrario ciò che accade agli altri è fondamentale
precisamente per il suo proprio interesse. Nel momento in cui hanno eretto barricate
contro l’arrivo di donne e bambini in cerca di protezione, i cittadini di Goro o di Abano
hanno inconsapevolmente dimostrato che a loro «non frega un c…» di se stessi, prima
ancora che di altri esseri umani innocenti.
IL GAZZETTINO
Pagg 4 – 5 Il Nordest “vota” Hillary, per Trump solo uno su 10 di Natascia
Porcellato e Annamaria Bacchin
Tre su quattro sceglierebbero l’ex First Lady per la Casa Bianca. Un altro 15% non si
esprime
Nella sfida per la Casa Bianca, i nordestini sembrano avere pochi dubbi: secondo i dati
elaborati da Demos per l'Osservatorio sul Nordest, a Donald Trump (10%) gli intervistati
preferiscono in maniera piuttosto netta Hillary Clinton (75%). Appaiono consistenti le
componenti di quanti non esprimono una preferenza tra i due contendenti (6%) o che
non rispondono al quesito (9%). Al di là della contesa elettorale in corso, Veneto, FriuliVenezia Giulia e la provincia di Trento continuano a guardare con favore agli Stati Uniti.
Tre intervistati su quattro, infatti, esprimono un'opinione (molto o abbastanza) positiva
sugli Stati Uniti, mentre è il 20% giudicarli negativamente. Ieri si sono ufficialmente
conclusi gli 8 anni del 44° Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. La sua elezione,
avvenuta nel 2008, aveva da subito sollevato una speranza di cambiamento planetaria
tanto alta da fargli assegnare il Premio Nobel per la Pace nel 2009. Anche nel Nordest la
sua elezione non era passata inosservata. Se guardiamo ai giudizi espressi sugli Stati
Uniti nel corso del tempo, emerge chiaramente come la presidenza Obama abbia
segnato in positivo l'immagine del Paese tra i nordestini. Tra il 2003 e il 2008, prima
della vittoria di Barack Obama, i giudizi positivi oscillavano tra il 43 e il 58%, mentre
quelli negativi variavano tra il 32 e il 43%. Nel 2009, invece, cambiano repentinamente
gli orientamenti: i giudizi positivi si fanno molto più ampi, arrivando al 74%, mentre i
critici si riducono al 20%. Queste valutazioni, inoltre, persistono lungo tutti gli otto anni
di presidenza Obama e arrivano sostanzialmente inalterate fino ad oggi. È da
sottolineare, poi, come l'opinione sugli Stati Uniti sia positiva per la maggioranza di
(quasi) tutti i settori sociali considerati nell'analisi. Tuttavia, il favore con cui viene
guardato il Paese tende a crescere in misura maggiore tra gli anziani con oltre 65 anni
(83%), gli operai (86%), le casalinghe (79%) e i pensionati (80%). Politicamente,
invece, sono i sostenitori di Partito Democratico (87%) e Forza Italia (82%) a guardare
con maggior favore agli Stati Uniti. Al contrario, lo scetticismo verso gli Stati Uniti tende
a farsi più consistente tra i giovani (15-34 anni, 27-38%) e tra le persone di età centrale
(45-54 anni, 31%). Guardando alla categoria socio-professionale, segnaliamo che è tra i
disoccupati (49%) che emerge il malumore maggiore verso gli Stati Uniti, ma anche tra
imprenditori, studenti, liberi professionisti e impiegati sembra trasparire un distacco
(compreso tra il 24 e il 26%) più ampio rispetto alla media dell'area. Dal punto di vista
politico, poi, la distanza dagli Stati Uniti tende a crescere soprattutto tra gli elettori dei
partiti minori (41%), oltre che -seppur in misura minore- tra quanti sono vicini al
Movimento 5 Stelle (24%). Anche questo presidente cambierà gli orientamenti dei
nordestini come fece l'elezione di Barack Obama? È decisamente presto per dirlo. Per
ora, possiamo limitarci a constatare come, per questa competizione, il favore degli
intervistati penda in maniera decisa verso l'esponente del Partito Democratico
statunitense. Il candidato Repubblicano Donald Trump, infatti, viene preferito dal 10%
degli intervistati, mentre Hillary Clinton attira il favore di 3 nordestini su 4.
Pag 21 Il Nordest vota Hillary perché è cambiata la percezione dell’America di
Adriano Favaro
Il Nordest americano. Nella terra di pragmatismo istintivo e di naturale efficienza il voto
di Veneto e Friuli Venezia Giulia promuove una donna alla Casa Bianca. Per quattro anni
ogni volta che apparirà Hillary si sentirà da Trebaseleghe a Contarina fino ad Amaro l'inno The Star Spangled Banner, La bandiera adorna di stelle. Stop. Al fantasmagorico
Donald resterà la consolazione che uno su dieci di quelli che parlano veneto o friulano,
con mille accenti, sarà dispiaciuto di non vederlo giurare con la mano sul cuore. Poiché
nessuno degli intervistati però vota per eleggere uno dei due candidati (a dir la verità gli
americani eleggono i delegati che poi sceglieranno il presidente) si può anche pensare
che questi risultati in salsa Nordest contino zero. Invece no. Perché dentro questo
plebiscito pro Hillary ci sono alcuni motivi che fanno riflettere. Il primo: se va bene una
donna democratica presidente Usa il Veneto e il Friuli V.G. quando rivoteranno per i loro
presidenti dovranno ancora trovarsi necessariamente davanti ad un blocco maschilista?
Centro destra o centro sinistra poco conta qui. I cambi delle società avvengono anche
per simboli. Quelli del potere politico del Nordest sono sempre stati fortemente e
decisamente al maschile, anche se non maschilisti. Importa poco che ci sia stata una
candidatura femminile nelle ultime regionali venete: bisogna vedere i nomi dei sindaci
delle grandi città; quelli dei vertici dei consigli di amministrazioni delle aziende, delle
banche, delle fondazioni. Rispondere Hillary, per il Nordest, è anche dire di sì a un
potere che ha bisogno di risorse forti (e nuove), energie, competenze, solidità,
esperienze, continuità. Donna Hillary, che qualche qualità la possiede, era stata battuta
alle primarie democratiche da Obama: un attimo dopo collaborava con lui. E con lei ha
collaborato Bennie Sanders, il senatore socialista battuto proprio dalla Clinton. Il
secondo. Il Nordest era stato visibilmente anche amerikano, cioè antipatizzante per non
dire ostile. Dalla base vicentina, ai tormenti di Aviano le genti di Veneto e Friuli V.G. (in
parte) hanno costantemente guardato con sottile diffidenza le presenze americane nel
loro territorio. Poi, dal 2009 c'è stato un innamoramento per gli Usa di Obama. A quella
data ostili e amici degli Usa erano divisi a metà. Dopo Obama la visione positiva del
Nordest verso gli Stati Uniti è schizzata al 74/76 per cento. E ci è rimasta. Nel 2004 ,
quando comincia la seconda parte dell'era di George W. Bush i consensi verso gli Usa
erano del 58% contro il 40 degli ostili. Uno scenario cambiato. Enormemente. Da
amerikano ad americano questo Nordest ha scelto attraverso il filtro delle stelle e strisce
impresa, sicurezza, ideali, forza del fare. Il terzo. Il partito più yankee in terra Nordest
appare il Pd, seguito da Forza Italia e Lega Nord. In coda, anche se staccati di pochi
punti il M5S. Vuol dire che il Paese guardiano del mondo non è più visto come
l'oppressore invasore (e certo i tempi sono cambiati) di qualsiasi regione dove fossero
minacciati gli interessi Usa. Alleati degli Stati Uniti ricreati da Obama dunque; così come
si è sempre guardata con benevolenza la presenza americana. Basti dare un'occhiata
alle pagine del Gazzettino (la mostra è adesso alla Fenice) quando a Pellestrina,
devastata dall'alluvione del 1966, arriva in visita Ted Kennedy, uno degli angeli del
fango di Firenze. La visita di un cuginone grande e buono della cui solidità e solidarietà
c'è da fidarsi. Stavolta quella figura indossa (qualche volta) una gonna e si chiama
Hillary.
È uno dei massimi esperti italiani di storia americana, già docente di Storia e istituzioni
degli Stati Uniti, giornalista e scrittore, Massimo Teodori, proprio quest'anno ha
pubblicato Obama il Grande (Marsilio ed.). Un libro dedicato al Presidente statunitense
uscente, in cui l'autore analizza gli otto anni di Barack Obama alla Casa Bianca,
tracciando così un primo bilancio sul suo operato: dalla politica estera al sistema
sanitario nazionale, dalle questioni razziali alla finanza. Una narrazione approfondita,
quella del doppio mandato del primo Presidente di colore degli Stati Uniti che, nella
seconda parte, conduce invece il lettore in un percorso di comprensione e conoscenza
della macchina delle elezioni presidenziali del paese a stelle e strisce.
Da sempre appassionato studioso delle questioni d'oltreoceano dell'americanista
ricordiamo anche i best seller Maledetti americani, Destra, sinistra e cattolici: storia del
pregiudizio antiamericano (2002) e Benedetti americani: Dall'Alleanza atlantica alla
guerra al terrorismo(2003), quindi Il sistema politico americano (2003), Raccontare
l'America. Due secoli di orgogli e pregiudizi (2005).
E per chi, come Teodori, ha raccontato in modo così intenso e profondo il Nuovo Mondo,
il sondaggio di questa settimana in cui si definisce nitido un Nordest incline ad un
giudizio favorevole rispetto agli Stati Uniti, lo storico commenta come «Si tratti di una
proiezione piuttosto fedele alle opinioni e, soprattutto, alle teorie diffuse dai mezzi di
comunicazione statunitensi specie negli ultimi otto anni».
Dall'insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca nel 2008, in effetti, la curva dei
favori a Nordest punta verso l'alto raggiungendo quasi un raddoppio dei consensi.
«Evidentemente, ripeto, l'approvazione per il presidente Obama, per il suo impegno su
molti fronti, quelli che racconto anche nel libro Obama il Grande, ha superato i confini
statunitensi e, chiaramente, ha raggiunto l'opinione pubblica del Nordest e di tutto il
mondo».
Ed anche quando si parla dei successori di Obama, il Nordest si esprime in modo più che
netto. A vincere è la Clinton per più' di sette persone su dieci.
«Anche in questo caso veneti, friulani e trentini propongono un giudizio che riflette
quello che, quotidianamente, emerge nei sondaggi americani e che danno maggior
possibilità di successo e vittoria alla candidata democratica».
Poche parole per descrivere i candidati. Un suo giudizio?
«Hillary Clinton è la classica candidata democratica che guarda ai diritti globali, Trump il
candidato repubblicano che parla in particolare alla classe media bianca che teme un po'
l'emarginazione, impaurita dall'ascesa dei non-bianchi».
Una volta eletto il nuovo presidente, l'America divisa in due dalle elezioni dovrà trovare
una sua unità.
«In caso di vittoria della Clinton, Donald Trump ha già anticipato che non riconoscerà il
risultato, alludendo ad elezioni truccate, brogli elettorali e media di parte. C'è poca unità
in queste dichiarazioni, ma staremo a vedere cosa accadrà. Di certo è una posizione che
non ha precedenti».
Quali gli aspetti più significativi sul fronte della politica internazionale dei due candidati?
«Hillary Clinton si inserisce in una politica di continuità con quella di Barack Obama,
mentre Donald Trump si muove verso un concetto di isolazionismo; una prospettiva
negativa perchè allude ad una sottrazione del Paese alle sue responsabilità a livello
internazionale. Impensabile però per gli Stati Uniti, per il peso della sua leadership e per
il ruolo strategico nel mondo».
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… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 La dinastia e l’anomalia di Massimo Gaggi
America, l’ora della scelta
Un Paese abituato da sempre a considerarsi giovane e a guardare al futuro, vota oggi di
malavoglia scegliendo tra due opzioni diversamente vecchie: Hillary Clinton, espressione
della dinastia che da un quarto di secolo domina il vecchio establishment democratico, e
Donald Trump, abile e moderno nel catturare gli umori antisistema che scuotono
l’America, ma vecchio nello scegliere come sua base, nella frantumazione della società
post ceto medio, una comunità con gli occhi fissi su un passato fatto di prosperità e
certezze che non tornerà: quella dei bianchi non laureati e impoveriti. Il candidato
repubblicano ha molte altre controindicazioni che lo hanno reso inviso anche ai leader
del suo stesso partito - la sua impreparazione, l’assenza di un sia pur generico
programma, la xenofobia, lo scarso rispetto per le regole della democrazia, oltre che per
le donne e le minoranze - ma è soprattutto il tentativo di presentare questo
imprenditore dall’indole rapace e protezionista come un fattore di novità ad essere
fuorviante. Contro di lui Hillary avrebbe dovuto avere un’autostrada spalancata. E,
invece, i democratici arrivano al giorno del voto col fiato sospeso. Fin qui rimasto in
disparte, alla fine si è mosso anche Bruce Springsteen per cercare di galvanizzare in
extremis un popolo di sinistra per nulla eccitato dopo una bruttissima campagna
elettorale: progressista ma anche lui voce dell’America bianca e impoverita, quella dei
colletti blu che non ce l’hanno fatta e ora guardano a Trump più per delusione che per
convinzione, l’interprete di «Born in the Usa» è salito ieri sera sul palco del comizio
finale di Hillary Clinton, arrivata al traguardo in debito d’ossigeno, come già accadde a
Barack Obama quattro anni fa. Allora il presidente democratico si fece trascinare verso
la vittoria da Bruce e da Stevie Wonder. Hillary ha chiamato a trainarla, a cantare in
palcoscenico al suo fianco, gli idoli dei giovani (da Katy Perry a Miley Cyrus), quelli degli
afroamericani (Jay-Z, Beyoncè, Wonder) e tante altre voci popolarissime in America, da
Bon Jovi a James Taylor. Alla fine l’ex Segretario di Stato dovrebbe spuntarla, ma questa
mobilitazione dice quanto debole sia la sua figura che non è mai riuscita e emergere in
modo nitido in questa melmosa campagna elettorale, nonostante tutti gli errori e gli
autogol di Donald Trump. Una campagna elettorale diversa da tutte le altre non solo per
la presenza di un candidato anomalo e antisistema, ma anche per interferenze esterne di
un’intensità mai sperimentata in passato: dall’intervento di potenze straniere (la Russia
secondo i servizi segreti Usa), nel trafugare informazioni su Internet, manipolarle,
amplificarne l’impatto attraverso i social network, all’intervento a gamba tesa dell’Fbi di
dieci giorni fa, probabilmente frutto di una faida politica interna tra gli investigatori
federali. L’altra sera l’Fbi ha fatto marcia indietro: nessun motivo per incriminare il
candidato democratico. Sollievo per Hillary, ma comunque il nuovo capitolo
dell’«emailgate» ha cambiato il corso della campagna elettorale e non solo perché 43
milioni di americani hanno votato prima del dietrofront dei federali: la Clinton dovrebbe
farcela comunque, ma dieci giorni fa la sortita dei detective del Federal Bureau of
Investigation bloccò anche il recupero in atto dei democratici candidati alla Camera e al
Senato, sull’onda della vittoria della ex First lady nei tre dibattiti televisivi con Trump.
Troppo tardi per recuperare: il Congresso resterà comunque, almeno in parte, in mani
repubblicane. Il presidente che verrà eletto stasera avrà davanti a sé una sfida
proibitiva: restaurare la leadership di un Paese non più determinante su tutti gli
scacchieri mondiali e ridare fiducia a un popolo che, come ha detto Jonathan Safran Foer
al Corriere , ha visto morire l’ american dream davanti ai suoi occhi. Chi, come l’Europa,
era abituato a contare sull’ombrello politico e militare Usa, dovrà imparare a contare di
più sulle sue forze. In politica, in campo militare e anche nella battaglia
dell’informazione. I prossimi attacchi, dice l’ intelligence Usa, riguarderanno le votazioni
in Europa: Germania, Francia, Italia.
Pag 1 La sfida maschi-femmine di Aldo Cazzullo
Sarà la più grande partita maschi contro femmine della storia. Se votassero solo gli
uomini, Trump sarebbe eletto trionfalmente, con il 47 per cento contro il 42. Se poi
votassero solo i bianchi, vincerebbe con percentuali bulgare. Ma la maggioranza dei
votanti sono donne. E tra le donne Hillary Clinton prevale con il 53% contro il 38. Tra le
nere, poi, arriva al 95%: praticamente tutte coloro che andranno a votare, tranne le due
che ieri sono salite sul palco in North Carolina con la figlia di Trump. Non è solo un dato
statistico. Sono due idee opposte del mondo e del futuro a scontrarsi. Un’America
femmina, all’apparenza distesa, sorridente, come quella che Hillary ha evocato
nell’ultimo spot, dove veste di beige e promette con toni suadenti di riunificare il Paese;
e l’America virile e maschilista cui Trump si è rivolto sino a tarda notte urlando da sotto
un berrettino rosso. Ma l’immagine simbolo di questa campagna elettorale resterà quella
di ieri sera a Filadelfia, Pennsylvania, Stato democratico, ora in bilico. Il programma
prevedeva una riunione delle due famiglie, gli Obama e i Clinton. È diventata la
passerella di due uomini del passato, l’ex presidente Bill e il presidente in uscita Barack,
e di due donne al centro della scena: Hillary, che affronta la notte elettorale da favorita;
e Michelle, che avrebbe vinto senza problemi se fosse stato il suo turno, e ballava felice
nella notte con Springsteen e Bon Jovi. L’aspirante «primo marito» Bill era scomparso a
lungo. Troppo legato alla memoria di molestie e scandali sessuali, cui Trump ha alluso
senza affondare davvero il colpo, memore di quando andavano insieme a giocare a golf
e a parlare di femmine. Si è vista di più Michelle, che ha ripetuto sino alla noia l’invito a
mobilitarsi contro il macho in parrucchino arancione accusato di voler cancellare le
conquiste di Obama, a cominciare dalla prima: il Lily Ledbetter Act, la legge che il
presidente firmò il 29 gennaio 2009, appena entrato alla Casa Bianca, per vietare alle
aziende di pagare le donne, i neri, gli ispanici meno degli uomini bianchi. Trump ha
condotto la sua campagna in solitudine, con rare e disastrose apparizioni della moglie
Melania e altre più efficaci della figlia prediletta Ivanka. Ha fatto della distanza
dall’establishment repubblicano un vantaggio. Ha irriso per mesi il «moscio» Jeb Bush.
Ha trascinato sul proprio terreno l’altro candidato del partito, Marco Rubio, che ha
accusato The Donald di averlo piccolo. La Cnn, ormai schierata con i democratici quasi
quanto la Fox lo è con i repubblicani, ieri ha mandato in onda tre volte lo scontro tra
Trump e la giornalista (della Fox) Megyn Kelly, che gli rinfacciava le ingiurie rivolte alle
donne. Meghan McCain, la figlia di John, è scatenata contro Trump che ha ironizzato sui
sei anni passati dal padre nelle carceri di Hanoi. E un altro boss del partito, Jason
Chaffetz, ha preso le distanze con questa motivazione: «Ho una figlia di quindici anni.
Come posso guardarla negli occhi e dirle che appoggio Donald Trump?». Non hanno
simili scrupoli né Rudolph Giuliani, il sindaco della tolleranza zero, né Chris Christie, il
governatore sovrappeso del New Jersey, che quattro anni fa aveva appoggiato Obama. E
anche Michael Moore - odiatissimo dai repubblicani ma pur sempre maschio, bianco e
figlio del Michigan postindustriale -, pur sostenendo Hillary, sotto sotto dà l’impressione
di tifare Trump: «La sua vittoria sarebbe il più grande vaffanculo di sempre». In realtà
gli attacchi e gli scandali degli ultimi tempi non avranno un impatto decisivo. Trump e
Clinton entrano ogni giorno nelle case degli americani da 25 anni. Si sa, o si crede di
sapere, tutto di loro. Anche per questo fuori dalle rispettive tifoserie sono così
impopolari. L’allarme Trump può servire a Hillary per mobilitare la propria coalizione: le
minoranze e appunto le donne. Resta da capire come potrà riunificare l’America una
candidata eletta da uno schieramento definito dal sesso e dall’etnia. E come reagirà
l’America bianca, che ha espresso il presidente per secoli e ora è all’opposizione da otto
anni: gli uomini avevano votato in maggioranza per McCain nel 2008 e per Romney nel
2012. Lily Ledbetter era una manager dell’Alabama. Figlia di un meccanico, si era
laureata e aveva lavorato alla Goodyear, unica donna in un ufficio di quindici uomini.
Guadagnava 3.700 dollari al mese. I colleghi ne prendevano tra 4.200 e 5.200. Dopo
vent’anni lasciò l’azienda e la portò in tribunale. Il caso arrivò alla Corte Suprema, che
diede torto a Lily con questa motivazione: «Doveva dirlo prima». Si espresse in dissenso
Ruth Bader Ginsburg, seconda donna nella storia a entrare alla Corte; poi Obama
nominò Sonia Sotomayor, figlia di un operaio e di una centralinista portoricani, ed Elena
Kagan, ebrea, ex preside a Harvard. Ora Lily Ledbetter appoggia Hillary. La legge sul
diritto alla parità di salario porta il suo nome. La Goodyear non l’ha mai risarcita. Nel
1973 il giovane costruttore Donald Trump finì sotto processo, con l’accusa di non voler
affittare le sue case a neri, portoricani e donne sole. Due anni dopo patteggerà un
risarcimento. Ieri Hillary ha citato uno dei miti della sua giovinezza: Margaret Chase
Smith, prima donna a essere eletta sia alla Camera sia al Senato; con i repubblicani. E
ha annunciato la morte - «She passed away» - di Janet Reno, prima donna procuratore
generale degli Stati Uniti, la carica che John Kennedy aveva affidato al fratello Robert.
Janet era stata nominata da Bill Clinton. Tra il vecchio e il nuovo gli americani hanno
sempre scelto il nuovo; che ora sembra avere il volto di un outsider miliardario,
contrapposto a un simbolo delle élites, oggettivamente screditato: il che spiega
l’incertezza di queste ore. Ma i rapporti di forza, la logica, la mentalità che l’outsider
rappresenta sono vecchissimi. Tra poco sapremo se le donne avranno coronato la loro
storica ascesa con l’ingresso di Hillary alla Casa Bianca, come indicano tutti i sondaggi. O
se invece i sondaggi sbagliano, e l’antico potere maschile avrà resistito dietro la
maschera del tutto inedita e imprevedibile di Donald Trump.
Pag 1 Le metamorfosi della politica: la cattiveria non è più un tabù di Pierluigi
Battista
Matteo Renzi lo ha confessato in tv: «Sono troppo cattivo». Come il protagonista del film
d’animazione Cattivissimo me. Che poi nel film il cattivissimo si redime e diventa buono,
come l’avaro Ebenezer Scrooge nel racconto natalizio di Dickens. Ma con la cattiveria si
rischia, nota Oscar Farinetti, di risultare antipatici. Cosa che alla sinistra è accaduto
spesso nel passato. Non sarà che la cattiveria, così candidamente confessata e
rivendicata dal premier rischia di diventare il principale handicap per la sua già
brillantissima carriera politica? Di certo il cattivismo è l’antitesi del buonismo, una delle
categorie politico-antropologiche cruciali della Seconda Repubblica. «Cattivissimo me»?
Sì, certo. Ma non è il titolo di un celebre film d’animazione, è piuttosto la confessione di
Matteo Renzi intervistato da Giovanni Minoli: «Sono troppo cattivo». Che poi nel film il
cattivissimo si redime e diventa buono, come l’avaro Ebenezer Scrooge nel racconto
natalizio di Charles Dickens. Questa è un’altra storia. E che poi con tutta questa
cattiveria si rischia, come predica il fido Oscar Farinetti, di risultare antipatici. Cosa che
alla sinistra è accaduto spesso nel recente passato, tanto da suggerire il titolo di un
saggio di Luca Ricolfi, Perché siamo antipatici, dove si spiega perché il «complesso dei
migliori», quel misto di saccenteria, disprezzo per il popolo, snobismo, superbia elitaria,
abbia creato una pellicola di diffidenza tra la sinistra e la sua un tempo florida base
popolare. Oggi l’antipatia può declinarsi in forme nuove: una certa protervia, una certa
insofferenza per le idee diverse («gufi»), una certa inclinazione a equiparare il dissenso
a una turba psicologica nutrita di rancore e malanimo («rosiconi»). Non sarà che la
cattiveria, così candidamente confessata e rivendicata dal presidente del Consiglio negli
studi di Minoli su La 7, rischia di diventare il principale handicap per la sua già
brillantissima carriera politica? E anche questa cattiveria, del resto, regala al renzismo
un ulteriore elemento di discontinuità. Si parla di Renzi come un figlio del berlusconismo.
Ma Berlusconi voleva apparire buonissimo. Un Caimano secondo i suoi nemici, Berlusconi
non sopportava il conflitto, la rudezza, l’asprezza delle accuse. Lui che avrebbe voluto
essere il Thatcher italiano, quando una delegazione di minatori del Sulcis andò a
manifestare sotto Palazzo Chigi, non fece quello che avrebbe fatto la Lady di ferro:
mandare la polizia a disperdere i minatori. No, si mise un caschetto giallo e disse ai
manifestanti di sentirsi uno di loro. Lui stesso ha del resto confessato di farsi convesso
con i concavi e concavo con i convessi, per evitare urti, durezze, cattiverie reciproche.
Dopo una tragedia del mare che aveva provocato l’ecatombe di profughi albanesi,
Berlusconi volle subito adottare tra le lacrime una famiglia di sopravvissuti. Ci si
domandò se si trattasse di lacrime vere, ma il messaggio era: siate più buoni. Non c’era
rivendicazione di cattivismo. Il cattivismo, poi, è l’antitesi del buonismo, una delle
categorie politico-antropologiche cruciali nella storia della Seconda Repubblica.
Veramente nessuno ha mai rivendicato di essere «buonista», casomai di essere buono e
basta. Ma «buonista» era l’epiteto che la destra affibbiò a uno dei leader ulivisti, Walter
Veltroni. Ne scaturirono infiniti dibattiti, ma di certo la bontà e il buonismo si sarebbero
malamente assortiti con l’orgoglio della cattiveria sbandierato da Matteo Renzi, con il
rischio dell’antipatia, e dunque, nell’era della politica a rimorchio del consenso, con il
rischio dell’insuccesso. E poi, per somma ironia, se proprio si vuole trovare un
precursore della cattiveria politica, quello è il nemico di oggi di Matteo Renzi, lo spettro,
il fantasma del passato: Massimo D’Alema. Il quale D’Alema, si sa, non avrebbe
rinunciato per nulla al mondo al gusto della battuta feroce ma con il suo sarcasmo ha
generato una vastissima corrente di antipatia da parte di chi quelle battute non
apprezzava. Il paradosso è che Renzi, oggi impegnato in un duello rusticano con
Massimo D’Alema, abbia ereditato dal suo attuale nemico una certa propensione alla
cattiveria. Mentre è difficile scorgere cattivi veramente cattivi nei politici della Prima
Repubblica (Andreotti era cinico e sornione, non cattivo), nella nuova politica incardinata
sulla psicologia dei leader la cattiveria diventa un elemento stilistico di cui gli storici
futuri del costume politico del nuovo millennio dovranno tener conto con una certa
attenzione. Mentre sull’antipatia i giudizi potranno essere diversi, così come su quello
strano fenomeno della psicologia politica collettiva secondo il quale la simpatia iniziale si
trasforma impercettibilmente ma inesorabilmente in antipatia. Perché eravamo
simpatici?
Pag 2 Ma chiunque vinca non risolleverà l’immagine Usa di Ian Bremmer
Siamo finalmente al traguardo di quest’avventura distopica che chiamiamo elezioni
presidenziali americane. Chi verrà scelto stasera dal popolo degli Stati Uniti sarà
comunque il leader col mandato più debole tra quelli che sono arrivati alla Casa Bianca
nel dopoguerra. All’interno perché, dopo una campagna così brutale e piena di veleni,
un’ampia minoranza di americani crederà, comunque vadano le cose, che i risultati del
voto non sono attendibili. Saranno in molti a sostenere, con varie argomentazioni, che il
vincitore non abbia, comunque, la legittimazione necessaria per governare gli Stati Uniti.
La nuova Amministrazione dovrà, poi, vedersela con un Congresso che resterà diviso e
polarizzato. Con i repubblicani che, nonostante la lettera di James Comey, che ha
scagionato in extremis Hillary Clinton, saranno comunque tentati fin dal primo giorno di
riaprire indagini e audizioni sull’«Emailgate», se sarà lei a diventare presidente. Sul
piano internazionale, poi, si rafforzerà sempre più la prospettiva di quello che io chiamo
il «mondo G zero»: quello nel quale, venuta meno l’egemonia politica dell’America e il
suo ruolo di gendarme del mondo, si impone uno scenario multipolare dominato
dall’emergere di potenze regionali spesso in conflitto tra loro, senza più una leadership
globale come quella un tempo incarnata dal G7 o quella che ci si aspettava potesse
essere interpretata dal G20. La speranza di molti era che gli Stati Uniti potessero
tornare, dopo un periodo di eclisse, a interpretare quel ruolo. Ma l’America, tuttora
l’unica potenza globale del pianeta, ha prodotto danni strutturali (e quindi difficilmente
riparabili) al suo ruolo di garante dell’ordine internazionale in due occasioni. La prima 15
anni fa, quando ha reagito in modo eccessivo agli attacchi di Al Qaeda l’11 settembre
2001: le guerre infinite, costosissime e fallimentari in Iraq e Afghanistan. La seconda
adesso, con questa campagna elettorale devastante e infinita. Che ha spinto verso il
traguardo due candidati col più basso livello di gradimento da quando vengono svolti
sondaggi sugli aspiranti alla Casa Bianca. Difficile che uno di questi due possa essere il
leader capace di ridare fiducia alla nazione e di ripristinare la credibilità perduta dagli
Stati Uniti nel mondo.
LA REPUBBLICA
Pag 1 L’onda da fermare di Mario Calabresi
Vincerà anche questa volta l'irrazionalità, il gesto clamoroso e disperato contro un
mondo da cui ci si sente dimenticati e esclusi? Il modello Brexit incendierà anche le
pianure americane o un sussulto di razionalità riuscirà a tenere a bada gli spiriti selvaggi
che soffiano a ogni latitudine? Se guardiamo al voto di oggi con il fiato sospeso è perché
il rischio di una rottura storica è reale, perché ciò che sembrava impossibile e quasi
ridicolo ha preso forma e consistenza. Tanto che il presidente in carica, nell' ultimo
giorno di campagna elettorale, è stato costretto a correre in Michigan, New Hampshire e
Pennsylvania. È andato nei tre stati operai tradizionalmente democratici, per provare a
scongiurare un cambio di bandiera dagli esiti fatali per Hillary Clinton. Se questo accade
è perché l'avverbio tradizionalmente non ha più uso nel mondo, tali e tante sono le
rotture di prassi, appartenenze e anche di senso comune a cui stiamo assistendo. Si usa
definire questo tempo come "Età dell'Incertezza", ma ora stiamo scivolando sempre più
nel tempo dell'Irragionevolezza. Irragionevole infatti sarebbe Donald Trump alla Casa
Bianca: la vittoria dell'imbonitore, di chi spaccia ricette semplici e di immediata
applicazione per risolvere istantaneamente problemi complessi e profondi. Si può
sorridere e dire che non è la prima volta, ma l'importanza della posta in palio rende
inadatto ogni paragone. Saremmo di fronte alla negazione di un sistema di valori, in più
di un'occasione stravolti e negati ma formalmente sempre rispettati, che suonerebbe
come una sorta di liberi tutti per populisti di ogni specie. Chi potrebbe più, per fare un
esempio tra i tanti possibili, richiamare il presidente ungherese Orbán al rispetto di una
grammatica umanitaria quando l'uomo che siederà nello Studio Ovale ha proposto
ricette più incendiarie delle sue? L'unica certezza che ci resta è che si tratta di una
partita tutta in difesa, in cui non c'è più spazio per parlare di costruzione, speranza,
collaborazione. Le parole d'ordine dell'agenda mondiale sono ricorrenti, ci sono sempre
un noi e un loro, una linea da tracciare, un muro da costruire, qualcuno da mandare a
casa e molto da abbattere o più gentilmente da smontare. Di progettare si parla poco,
perché è il concetto stesso di futuro che è diventato difficile da declinare. È una partita
in difesa perché i progressisti non hanno parole d'ordine convincenti da opporre agli
slogan del populismo, dei nuovi razzismi e delle derive xenofobe. Perché non hanno
spinta propulsiva e soprattutto non hanno la capacità di offrire nuove chiavi
interpretative in grado di disegnare oggi un'agenda credibile. Una vittoria di Trump non
solo certificherebbe una rottura nel tessuto sociale americano, già drammaticamente
avvenuta e difficilmente ricomponibile anche in caso di successo democratico, ma
finirebbe per contagiare le altre democrazie occidentali sempre più fragili e sotto
pressione. Con lo stesso meccanismo con cui si generano le onde, nel modo magnifico
con cui le descrive il premio Pulitzer William Finnegan nel suo potente memoir sul surf
Giorni Selvaggi: "In mare aperto, una tempesta sconquassa la superficie dell'acqua,
creando una mareggiata, un'increspatura di onde confuse e poco potenti che a mano a
mano si addensano, si fanno più grandi e, incalzate dalla forza del vento, danno vita al
mare grosso. A riva, su una costa lontana, noi riceviamo l'energia che si sprigiona da
quella tempesta, irradiandosi attraverso acque più calme sotto forma di un treno
d'onda". Quella tempesta, figlia della delocalizzazione del lavoro, delle bolle speculative,
delle paure di non essere all'altezza di un mondo profondamente cambiato dalla
tecnologia, ha cominciato a gonfiare l'onda molto tempo fa ma quel treno d' acqua
troppo a lungo è stato ignorato. Oggi è la sfida di Trump, domani - la prossima
primavera - sarà Marine Le Pen con il suo Fronte nazionale a togliere il sonno all'Europa
e a moltiplicare fantasmi che si sono già ampiamente risvegliati. E ogni partita, ogni
rottura sembra alimentare la successiva, in una giostra da cui non sappiamo come
scendere. Pensate alla Gran Bretagna, al modo amaro con cui si sta allontanando
dall'Europa, agli istinti che queste rotture liberano: i tre giudici dell'Alta Corte che hanno
imposto al Parlamento di votare sulla Brexit sono stati messi all'indice ed esposti al
dileggio come "nemici del popolo". Un liberi tutti, una resa dei conti, una voglia di
dileggio che sembra conquistare i cuori e annebbiare le menti. Ma per andare dove? Per
costruire cosa? L'idea è che non ci sia futuro e quindi nulla da tenere caro, nulla da
preservare, da trattare con attenzione e allora si possono sfogare gli istinti, prendere a
calci ogni cosa esistente, tanto se non esiste domani a cosa serve preoccuparsi se la
casa brucia? Così siamo ridotti a sperare di scampare il pericolo, in un mondo che viene
giù, in cui saltano riferimenti, prassi e in cui non abbiamo più il tempo e la forza di far
sentire la voce di fronte a quelle violazioni che ci hanno sempre indignati. E quelli che
della democrazia non si preoccupano troppo, si chiamino Erdogan, Al Sisi o Putin,
gonfiano il petto vedendoci deboli e smarriti. Abbiamo bisogno di orgoglio, di persone
capaci di recuperare i nostri valori e di rivendicarli e di cittadini che siano capaci di
tenere la testa fredda e di non farsi contagiare dalle sirene del cinismo e dello sfascio.
Se vincerà Hillary sarà solo un punto di partenza. Il resto è tutto da ricostruire.
AVVENIRE
Pag 1 Risalire il vento di Vittorio E. Parsi
Usa: dopo l’orribile disfida
La più brutta campagna presidenziale del dopoguerra è finalmente alle spalle: non ne
sentiremo la mancanza. Alla fine vedremo se i soldi pesano più degli insulti: certo di idee
se ne son viste poche dopo l’uscita di scena di Bernie Sanders. Per quello che abbiamo
sentito, e per la caratura dei due candidati principali, sembra di essere tornati
all’America bucolica, periferica e marginale di due secoli or sono, quella raccontata da
Alexis de Tocqueville nel suo capolavoro La democrazia in America. Peccato che oggi ciò
che succede nella politica americana influenzi la vita di tutti noi. Eppure, mai come in
questa campagna, il mondo è sembrato assente dalla competizione. Non perché non
fosse interessato o, per meglio dire, preoccupato. E neppure perché non fosse evocato
come luogo da cui provenivano complotti o ingerenze (la Russia, la Cina, l’Arabia
Saudita) o perché infestato di popoli da cui occorre proteggersi (i latinos, gli arabi). Ma
per la sensazione amara e sgradevole che nessuno dei due intendesse indossare le
insegne del 'leader dell’Occidente', più che appagato di poter e voler diventare,
semplicemente, 'il capo degli Stati Uniti'. Al di là delle nefandezze di cui Hillary Cinton e
Donald Trump si sono accusati negli ultimi mesi, resta un quadro miserevole dello stato
di salute della più antica democrazia contemporanea: un processo di selezione sempre
più lungo e costoso alla fine ha prodotto questa alternativa francamente deludente. Da
un lato, un bislacco miliardario; dall’altro, una ex first lady in cerca di un riscatto anche
personale. E l’America sullo sfondo. Se dovesse vincere Trump, la crisi del sistema
partitico americano sarebbe definitiva e manifesta, tale da costringere a una sua
integrale riforma. La vittoria di Clinton, paradossalmente, potrebbe illudere i democratici
di essere ancora 'un partito' e non una confederazione di interessi tenuti insieme,
soprattutto, dal denaro rastrellato dalla vincitrice. Di certo, delle due Americhe che si
sono confrontate in queste settimane, nessuna appare capace di egemonizzare, sedurre,
attrarre l’altra. Alla coalizione arcobaleno di Hillary sembrano sfuggire i millennials, i
giovani dal futuro incerto nonostante la sempre più costosa istruzione e il ceto medio
bianco e impoverito. Quest’ultimo, che una volta costituiva la spina dorsale del Paese, si
è ritrovato in gran parte nei messaggi semplicistici e razzisti di Trump, convincendosi
così sempre più di essere ormai solo la minoranza più consistente e, a un tempo, la
meno rappresentata e la meno protetta. E i violenti disordini razziali che hanno
accompagnato questa campagna sono lì a ricordarci che il rischio di una guerra civile
strisciante, di una secessione contea per contea del 'grande Paese' non è per nulla
irrealistico. Il nuovo presidente potrebbe così essere avvertito come 'legittimo' solo dai
'suoi', da una parte, ma non da tutti. Intendiamoci, è già capitato e anche a grandi
presidenti, che però erano animati da una grande visione, da un progetto, come Abramo
Lincoln. Ma sappiamo come andò a finire. Di sicuro, l’immagine della democrazia
americana ne esce fortemente appannata e, con lei, della democrazia nel suo
complesso. Tutte le democrazie occidentali sono infatti alle prese con una crescente
faglia che le attraversa, una spaccatura tra l’establishment e quelli che ne contestano il
sempre più marcato arrocco nei propri intollerabili privilegi. Ma non è solo questo a
preoccupare. Ciò che ha rappresentato storicamente il punto di forza della democrazia
sulle altre forme di governo è stato l’aver depotenziato il momento più rischioso per ogni
regime politico: quello della transizione di potere. Il meccanismo delle elezioni
competitive tra candidati che si rispettino reciprocamente, infatti, rende meno
traumatico questo passaggio, lo trasforma in un momento più ordinario. A condizione
però che tutti ne accettino l’esito, senza contestazioni a priori o senza il sospetto che il
risultato possa essere stato falsato da brogli o complotti. Tutto ciò è stato messo in
dubbio da questa brutta campagna e non sarà privo di conseguenze. Comunque vada a
finire, una cosa è sicura: il 45° presidente degli Stati Uniti non godrà certamente di
quello 'stato di grazia' nei confronti del mondo che accompagnò Barack Obama per un
lungo periodo, ben superiore ai canonici primi 100 giorni della cosiddetta 'luna di miele'.
Dovrà risalire il vento e non sarà impresa facile né scontata.
Pag 4 I cattolici americani. Una “bussola” personale di Elena Molinari
Rappresentano un quinto dell’elettorato americano: un gruppo che democratici e
repubblicani non possono permettersi di ignorare. Ma quest’anno i cattolici americani si
trovano di fronte a una scelta moralmente difficile. Sulla scheda elettorale da una parte
c’è Hillary Clinton, la paladina del diritto all’aborto che non tollera alcun limite
all’interruzione di gravidanza, neanche negli ultimi tre mesi di gestazione. Clinton che da
un quarto di secolo è insieme al marito ai vertici della politica nazionale, schivando
scandali e architettando sotterfugi che le hanno fatto perdere la fiducia degli elettori.
Dall’altra parte c’è Donald Trump, il miliardario che non paga le tasse da anni e che si è
vantato in termini crudi e offensivi di aver molestato sessualmente decine di donne. Il
tycoon che vuole costruire un muro al confine con il Messico e che in tema di difesa della
vita ha cambiato idea o posizione quasi mezza dozzina di volte. Non a caso, quest’anno il
20% degli elettori di fede cattolica si definisce ancora «indeciso», a una settimana dal
voto. Astenersi, ricordano i vescovi statunitensi, non è la soluzione. I fedeli allora
cercano una “bussola” per orientarsi, e spesso la trovano nella loro storia familiare. Il
milione e mezzo (circa) di elettori cattolici di origine latinoamericana ha un familiare che
vive negli Stati Uniti senza documenti. Per loro dare la preferenza al candidato che ha
criminalizzato gli «hombres cattivi» che vengono dal Sud è particolarmente difficile. I
cattolici bianchi tendono invece a dare la loro preferenza al repubblicano. Il maggiore
peso numerico dei latinos oggi potrebbe far pendere l’ago del voto cattolico verso il
piatto democratico.
IL GAZZETTINO
Pag 1 Ma la sfida europea piace a Palazzo Chigi di Alberto Gentili
Matteo Renzi ha saputo dell’attacco ruvido di Jean-Claude Juncker durante il
trasferimento tra Frosinone e Latina. E, raccontano, invece di una smorfia di disappunto,
in faccia gli si è allargato un sorriso. Mai, come in queste ore, al premier fa comodo lo
scontro con Bruxelles. Tant'è, che da lì a poco, ha messo a verbale che «l'Italia tira
dritto, non guarda in faccia a nessuno». Perché in gioco «è la stabilità delle scuole dei
nostri figli». Parole e argomenti utili per provare a incassare qualche Sì in più in vista del
referendum del 4 dicembre. In realtà sulla legge di stabilità la trattativa è ancora in
corso, come dimostra il confronto (garbato) tra il ministro dell'Economia, Pier Carlo
Padoan, e il commissario europeo Pierre Moscovici. Soltanto mercoledì 16 novembre la
Commissione presieduta da Juncker recapiterà a Roma la lettera con il giudizio sulla
legge di stabilità. Quella che stanzia nel 2017 2,8 miliardi per la ricostruzione, 3,4
miliardi per la messa in sicurezza degli edifici nelle aree a rischio sismico, e altri 3,4
miliardi per fronteggiare l'emergenza-migranti. «Si tratta di cifre», sostiene Renzi con i
suoi, «che non abbiamo alcuna intenzione di mettere in discussione. Perché da dieci anni
il nostro deficit non era così basso e perché sono sulle nostre spalle emergenze e
circostanze eccezionali, come il terremoto e gli sbarchi dei migranti, che nessuno può
mettere in dubbio. Tantomeno chi, come la Germania, non rispetta le regole sul surplus
commerciale, e chi non dà seguito agli impegni sulla ricollocazione dei migranti». Una
linea della fermezza molto utile al premier, impegnato nel suo tour dell'Italia per
conquistare Sì tra le file degli indecisi. «In questa fase di euroscetticismo litigare con
Bruxelles porta voti...», dice uno dei collaboratori più stretti di Renzi. «Per questa
ragione fino al 4 dicembre, qualunque cosa dica o scriva la Commissione europea, non
toccheremo una virgola della legge di stabilità...». Pausa, sorriso sarcastico: «Tanto più
che Juncker ha dato numeri a vanvera. Ha detto che l'impegno dell'Italia era fissare il
deficit-Pil all'1,7%, invece era l'1,8%. E che stiamo puntando al 2,4%, mentre nella
legge di stabilità è scritto 2,3%...». Fare la voce grossa con Roma, allo stesso tempo, è
utile a Juncker. Negli ultimi mesi, infatti, è ripartito l'assalto dei falchi tedeschi, guidati
dal ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble, intenzionati a scippare alla Commissione
il controllo sui bilanci nazionali trasferendolo all'Esm (il fondo salva-Stati diretto dal
tedesco Regling). Così, a margine della riunione di ieri dell'Eurogruppo, si parlava
apertamente di «sceneggiata»: «Lo scontro fa bene a entrambi. Ma, sottotraccia, c'è un
atteggiamento costruttivo: si sta cercando di trovare un equilibrio tra le regole di
bilancio e l'esigenza italiana di spingere la crescita e fronteggiare le emergenze migranti
e terremoto». Detto questo, Renzi non appare assolutamente preoccupato
dall'eventualità di una procedura d'infrazione contro l'Italia. Perché il precedente di
Spagna e Portogallo, graziate in luglio dalla Commissione nonostante il deficit eccessivo,
dimostra che il rischio non è alto. E perché una procedura d'infrazione in questa fase
sarebbe utile al premier italiano per continuare la sua crociata contro l'austerity. Inoltre,
proprio per poter «contare di più in Europa» e per «cambiare l'Unione, fino ad arrivare a
mettere il veto sul bilancio europeo» («l'Italia non farà più da salvadanaio per gli altri»),
Renzi chiede di votare Sì al referendum per rendere il suo governo «più forte e più
solido» nella trattativa con Bruxelles.
Pag 1 Il Pd spaccato e la scissione che non ci sarà di Alessandro Campi
Tutti prima o poi se l'aspettano, molti la invocano e la desiderano, alcuni la temono, altri
ancora la minacciano, ma alla fine nel Pd non ci sarà alcuna scissione. La storia della
sinistra italiana novecentesca dice in effetti tutt'altro: da Benito Mussolini ad Antonio
Gramsci, da Giuseppe Saragat a Lelio Basso (ma non dimentichiamoci di Fabio Mussi e
Armando Cossutta) quella social-comunista è stata una storia costellata da rotture
ideologiche e secessioni politiche, spesso accompagnate da insanabili contrasti personali.
Ma stavolta, al di là di una cronaca che sembra rendere l'addio della minoranza
antirenziana un esito quasi inevitabile, non ci sono le condizioni politiche oggettive
perché si crei, a sinistra del Pd, una nuova formazione politica, la cui nascita davvero
non si capisce a cosa servirebbe e a chi gioverebbe. A meno di non immaginare la
formazione di un'aggregazione destinata ad avere una funzione puramente testimoniale
e protestataria. Ma andiamo con ordine. Sentendo l'altro giorno il pubblico della
Leopolda gridare Fuori, fuori all'indirizzo dei principali esponenti della minoranza di
sinistra, è venuto facile il paragone con il Fini che chiedeva a Berlusconi, durante una
mitica riunione della direzione nazionale del Pdl, se mai avesse avuto il coraggio di
cacciarlo dai ranghi del partito che aveva contribuito a fondare (coraggio che in effetti
ebbe e si è visto poi la fine che ha fatto il centrodestra). Ma si tratta di un paragone
impressionistico che non tiene conto di almeno quattro elementi (in ordine crescente di
importanza). Per cominciare, l'altro giorno, diversamente da quando ci fu lo scontro tra
Berlusconi e Fini, non si svolgeva un appuntamento di partito, si era invece all'interno di
una kermesse di fedelissimi del capo del governo. C'è poi da considerare la particolare
congiuntura politica nella quale si è svolta questa edizione della Leopolda: nel bel mezzo
di una campagna referendaria che sta esacerbando non poco gli animi all'interno dei
diversi schieramenti. Quella di Renzi è stata, dinnanzi a sondaggi per lui non
incoraggianti, una chiamata alle armi contro chiunque, anche all'interno del suo partito,
sostenga le ragioni del No alla riforma. Ma c'è davvero una bella differenza tra il
criticare, anche aspramente, la minoranza che gli si oppone e il desiderarne la cacciata
come se fosse composta da potenziali traditori. Bisogna poi ricordarsi che le scissioni
ricorrono con frequenza nella storia della sinistra movimentista, gruppettara,
massimalista, radicale ed estremista. Ma gli oppositori di Renzi, da D'Alema a Cuperlo,
vengono da un'altra scuola: quella comunista, quella della sinistra ordine e disciplina,
istituzionale e gerarchica. Una formazione che non si perde facilmente. Quando Bersani
dice che non lascerà mai il Pd, non esprime il suo attaccamento alla poltrona, ma un'idea
di appartenenza politica che non prevede che si metta a repentaglio la vita del Partito
(con la P maiuscola) solo per inseguire un disegno velleitario o per consumare una
vendetta personale. Da ultimo, va detto che il Pd non è il Pdl, anche se Grillo sostiene da
tempo che si tratti della stessa cosa con la differenza della sola lettera finale. Il partito di
Berlusconi era davvero una monocrazia, e in parte lo è rimasto. Il dissenso interno era
vissuto emotivamente come un atto di lesa maestà. Il Pd è invece un partito strutturato
sul territorio e a suo modo complesso, plurale e articolato, non foss'altro per essere nato
dalla confluenza delle due più solide culture politiche dell'Italia repubblicana. Ciò detto,
non c'è dubbio che lo scontro di Renzi con alcuni esponenti della minoranza interna, per
ragioni anagrafiche e di carriera facile bersaglio della sua retorica giovanilistica e
nuovista, abbia ormai assunto toni esacerbati e che sfiorano la reciproca intolleranza. Ma
la rottura con Massimo D'Alema e Pierluigi Bersani, un misto di antipatia personale e di
incomunicabilità politico-generazionale, non vuol dire che all'interno del Pd lo scontrodissenso tra maggioranza e minoranza debba per forza sfociare in una scissione. Il
cambio di rotta di Cuperlo sul referendum, dopo la proposta di Renzi di modifica della
legge elettorale, dimostra che esiste uno spazio pragmatico di compromesso che in
fondo tutti nel Pd desiderano. D'altro canto, per tornare alla questione delle convenienze
politiche, se non è interesse di Renzi recitare la parte dell'epuratore di ogni spazio di
dissenso, dal momento che l'unanimismo acritico intorno al leader segna sempre, non il
culmine della sua forza, ma l'inizio della sua parabola discendente, non è interesse della
minoranza di sinistra chiamarsi fuori, per un malinteso senso dell'ortodossia ideologica o
per un eccesso di orgoglio, dalla sfida riformista che Renzi ha lanciato alla sinistra e al
Paese e che rappresenta la sua vera forza in questo momento storico. Uscire dal Pd,
magari con l'idea di dialogarci da sinistra da posizioni fatalmente subalterne, è quanto di
più antipolitico si possa immaginare. Un errore troppo grossolano per immaginare che
venga commesso da uomini di provata esperienza e che come ambizione legittima
hanno quella di riprendersi la guida del partito o di modificarne gli attuali rapporti di
forza. Ma questa è appunto un'altra partita, da combattere per intero dentro il Pd.
LA NUOVA
Pag 1 Clinton – Trump, in corsa due sfidanti già vecchi di Gigi Riva
Come in un’inversione di senso, d’improvviso l’America ci appare, in capo a questa
sconcertante campagna elettorale, non più come una promessa di futuro, ma come una
proiezione ingigantita del nostro penoso presente. Non è solo l’età dei due settantenni
candidati a riflettere, in uno specchio deformato, la fine delle speranze cui il Nuovo
Mondo ci aveva abituato, per stare ai tempi recenti, con la fantasia che aveva portato
alla Casa Bianca i sogni dei “giovani” Kennedy, Clinton marito, Obama. È che, oltre
l’Atlantico, si è trasferita la sfida tra sistema e anti-sistema già noto all’Europa, cioè il
dualismo del Ventunesimo secolo, sostitutivo della vecchia contrapposizione tra destra e
sinistra. E insieme simbolo di una crisi della democrazia rappresentativa incapace ormai
di portare al potere i migliori e trampolino di lancio per chi si propone di parlare alla
pancia invece che al cervello degli elettori. Sarebbe inspiegabile altrimenti l’ascesa di un
Donald Trump che, anche perdesse come da ultimi pronostici della vigilia, resterebbe
comunque il termometro di una febbre che corrode un corpo malato. Gli è bastato
agitare il pugno del politicamente scorretto molto di moda per dare sfogo a quella
insoddisfazione anti-élite che attraversa il corpo sociale. Fino a far dimenticare a una
larga fetta di concittadini peccati imperdonabili nella patria fondata sul dio dollaro, come
una certa abitudine a dribblare o eludere le tasse. Laddove per infedeltà fiscale di solito
si va in galera e si butta pure la chiave. La nebbia che nasconde dubbiosi affari non è
stata diradata dal miliardario, venuto meno, in questo caso, a un secondo principio
fondante come l’assoluta trasparenza che si pretende da chi vuole arrivare alla Casa
Bianca. Tutto dimenticato in nome di una spregiudicatezza che si apparenta, nel nuovo
vocabolario della politica, con la parola modernità e allude a una pulizia spiccia di vecchi
metodi, riti e persone. È questo che Trump nel fondo rappresenta per fan trasversali che
pesca solo in parte nel bacino repubblicano. Gli altri arrivano da sottostrati politici anche
agli antipodi, comunque arrabbiati. La colpa democratica è stata quella di opporre, a
questo vento incattivito diventato tornado, una candidata che è l’incarnazione esatta
dell’establishment fin dallo stesso nome. Dopo un padre e un figlio, i Bush, un marito e
una moglie, Bill e Hillary, per la perpetuazione di famiglie che avvicinano
pericolosamente il sistema a una questione dinastica: perciò autoreferente e lontano
dalla gente. Non ha giovato, alla prima donna che sarà forse titolare della Sala Ovale, la
nomea di persona gradita ai mercati, a Wall Street, quanto di più inviso nel sentire
comune. Il fatto che li possa “rassicurare” non è un atout, ma un handicap, nel cupio
dissolvi che sposa la logica del tanto peggio tanto meglio. Hillary sconta anche l’arrivare
nella scia del primo presidente nero che tante aspettative aveva generato. E rispetto al
quale, nel suo campo, appare comunque come la restaurazione voluta dai soliti che
contano dopo che si erano presi la vacanza con Barack Obama, un politico esterno a
certe logiche e che, all’epoca della prima vittoria, aveva alle spalle un solo mandato
senatoriale: la ricreazione è finita, l’ordine delle classi dirigenti si ristabilisce (ma fino a
quando?). L’America dunque esprime, per motivi diversi, due candidati comunque
inadatti. In una corsa al ribasso che è un segnale anche del suo aver abdicato al
monopolio del titolo di superpotenza esercitato da quando implose l’Unione Sovietica.
Altri attori si presentano sui palcoscenici delle crisi regionali e reclamano il nome in vista
sul cartellone. Non solo la Russia di Putin, per esemplificare, ma persino, per stare vicino
a noi, la Turchia del liberticida Recep Tayyip Erdogan. Per gestire il nuovo ordine che si
annuncia, negli Stati Uniti d’America come altrove, tocca da lontano fare il tifo per la
preparata, tenace, gelida, antipatica, sorpassata Hillary. Nella ricerca del “meno peggio”
propria di questi tempi incerti.
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