Lechaim - Nutrimenti

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Lechaim - Nutrimenti
Michaël Sebban
Lechaim
A tutte le vite
Traduzione di Laurence Figà-Talamanca
Ouvrage publié avec le soutien du Centre national du livreMinistére français chargé de la culture.
Opera pubblicata con il sostegno del Centro nazionale del
libro, ministero della Cultura francese.
Titolo originale: Lehaïm. À toutes les vies
Copyright © Michaël Sebban
By arrangement with Hachette Littératures, Paris, 2004
Traduzione dal francese di Laurence Figà-Talamanca
© 2005 Nutrimenti srl
Prima edizione novembre 2005
www.nutrimenti.net
via Appennini, 46 - 00198 Roma
Art director: Ada Carpi
ISBN 88-88389-44-X
Il pescatore ha fermato il suo barchino in mezzo alla
baia. Una tartaruga nuotava tranquilla nell’acqua chiara.
Ho passato le dita sul suo guscio e guardato la riva. Eravamo a qualche chilometro dalla costa, oltre la laguna.
“It’s ok?”.
“Ok”.
Sono saltato fuori dalla barca con la mia tavola. Sulla
barriera corallina, le onde erano perfette. Una cresta che
si spiegava in un lungo muro turchese. Ho remato con le
braccia verso la scogliera. Il ronzio del motore svaniva all’orizzonte.
La prima onda fu un puro piacere. E le successive anche. Di ora in ora, si ingrossavano. Onde verso sinistra, alte più di tre metri, che vedevo arrivare da lontano e che
venivano a sollevarmi nel punto perfetto in cui si infrangevano. Le guardavo avvicinarsi con calma. Mi inclinavo
all’inizio della discesa e il rail della mia tavola si infilava
con naturalezza nel solco dell’onda. Guardavo avanti,
pronto ad avvolgermi nel tube, quando ho sentito un rumore. Sordo ed esplosivo. Il frastuono dell’onda che si
schiantava dietro di me.
Quando si surfa, lo sguardo è attento a ogni centimetro d’acqua. Si guarda, ma non si sente niente. Né i rumori della spiaggia, né quelli del vento o dei risucchi. Si
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diventa sordi al mondo e ai suoi problemi.
E lì, mentre scivolavo spensierato, solo in mezzo all’oceano, i miei timpani si aprivano al pericolo. Quel vortice che minacciava ogni secondo di risucchiarmi e di
sbattermi sul corallo tagliente.
Tutto d’un tratto, sentivo.
È stato tornando a casa, una gelida sera d’inverno,
che ho scoperto il caffè di Maurice. Sono rimasto per un
po’ a guardare attraverso il vetro quel bar che non assomigliava a nessun altro. Il locale era vuoto. Dei mazzi di
carte erano posati sui tavoli in formica.
I clienti erano tutti al bancone. Bevevano ridendo sotto ai neon. Sono entrato. Un vecchio registratore diffondeva musica araba. Conoscevo quella musica.
Ho preso posto al bancone. Maurice mi ha servito
un’anisetta in un bicchierino che ha annaffiato di acqua
fresca e mi ha messo davanti due piatti pieni di olive e finocchi. Ho notato che i clienti accanto a me avevano diritto ad ali di pollo, sardine in salsa rossa e carciofi freschi, tagliati in quarti e coperti di sale e limone. Mia madre li prepara allo stesso modo.
Le mani degli uomini in piedi accanto a me si tuffavano nei piatti, sparivano nelle bocche e si asciugavano in
pezzi di carta bianca che stropicciavano e gettavano ai loro piedi.
Maurice è tornato all’altro capo del bar e mi ha lasciato solo con la mia anisetta. Ho preso un libro dalla
mia cartella e ho cominciato a leggere cercando di degustare i finocchi. Mi ha guardato con la coda dell’occhio e
ha sospirato dando un colpo sul bancone.
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“Giovanotto! Non siamo in una biblioteca qui!”.
Ho sollevato lo sguardo.
“Sama9 n1 1, ma non voglio fare la statua per delle ore
come i leoni di place d’Armes, no!”.
Maurice è rimasto a bocca aperta. Quella frase mi era uscita da sola. Era una delle tante frasi che conoscevo
inconsciamente per averle sentite pronunciare da mio
padre. Per me avevano un significato esotico e toccante. I
famosi leoni di place d’Armes a Orano li avevo visti solo
in fotografia. Ma li immaginavo grandi e fieri, mentre
scrutano l’orizzonte aspettando un evento che non arriva
mai. Da piccolo, restavo delle ore ad ascoltare mio padre
mentre parlava con gli amici del lungomare, di rue de
l’Aqueduc dove era nato, di rue des Juifs, di boulevard
Joffre e della Grande Sinagoga. Altrettanti luoghi che
non conosco ma che mi sembra di conoscere da sempre.
Maurice ha messo il suo bicchiere accanto al mio e
l’ha riempito di whisky. Ha aggiunto dei piatti vuoti accanto alle olive e ai finocchi e li ha riempiti di sardine, di
ali di pollo e di carciofi al sale.
“Sei di Orano?”.
“Sono nato in Francia”.
“Lo so bene che sei nato in Francia, sei troppo giovane per aver vissuto laggiù. Ma dimmi, sei di Orano?”.
“Mio padre, sì”.
“E come si chiama tuo padre?”.
“Shaloum”.
“E cosa faceva tuo padre a Orano?”.
“Era macellaio”.
“E tuo nonno cosa faceva?”.
“Aveva una drogheria in rue de l’Aqueduc”.
“Tu sei il figlio di Shaloum di rue de l’Aqueduc?”.
“Sì”.
Maurice si è girato verso gli altri clienti appoggiati al
bancone e ha gridato a voce alta:
“Oh! Sapete chi è questo qui? È il figlio di Shaloum
di rue de l’Aqueduc! Non è possibile!”.
Maurice ha preso il suo bicchiere e l’ha sbattuto contro il mio.
“Lechaim”.
“Lechaim”.
“Sai, tuo padre e io abbiamo fatto i diavoli a quattro
quando eravamo giovani. Sta bene tuo padre?”.
“Abbastanza”.
“E tuo nonno vive ancora?”.
“No, è morto quando avevo dieci anni”.
“Yar9 amuhu2! Te l’ha raccontato tuo padre com’era
rue de l’Aqueduc?”.
“Un po’”.
“Y2 khas2 ra3, rue de l’Aqueduc! Come ci siamo divertiti in rue de l’Aqueduc con tuo padre! Era la via dei bordelli. Quando eravamo marmocchi, andavamo con tuo
padre a cercare i soldati americani al porto. Gli dicevamo
‘fucky! fucky!’ e li portavamo nei bordelli. I soldati ci davano i chewing gum e le puttane ci pagavano le limonate.
Ah! Rue de l’Aqueduc! Ne abbiamo passati di bei momenti con tuo padre. E il berbouche! Adorava il berbouche, tuo padre! Quanti ne abbiamo potuti mangiare di
berbouche, tuo padre e io! Era pronto a fare follie, tuo
padre, pur di mangiare un buon berbouche”.
“Che cos’è il berbouche?”.
“Non sai che cos’è?!”.
“No”.
“Ah il berbouche! È troppo lungo da fare un berbouche ma quando è ben fatto, è una delizia”.
“Che c’è dentro il berbouche?”.
“Un sacco di cose. È un couscous preparato con una
semola speciale e profumato alla menta. Ma la verità, figliolo, è che credo di non ricordare più tanto bene. Chiedi
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“Mi scusi” in arabo dialettale.
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“Pace all’anima sua” in arabo dialettale.
“Era molto tempo fa” in arabo dialettale.
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a tuo padre quando lo vedi. È lui il re del berbouche. E
non dimenticare di salutarmelo, eh?”.
“Non mancherò”.
A partire da quella sera, diventai un cliente abituale
di Maurice, nel suo bar mi sentivo a casa mia. Mi aveva soprannominato il Professore e sgomberava sempre un angolo del bancone non appena spingevo la porta. Maurice
beveva spesso con me e l’ascoltavo raccontare di un tempo lontano che si era fermato il 3 luglio 1962. Il giorno in
cui ha lasciato l’Algeria. Una mano davanti, una mano
dietro. Sradicato dopo secoli di vita in riva al Mediterraneo. Maurice è sbarcato al porto di Marsiglia e ha preso
un treno per la capitale. Aveva una valigia, due abiti estivi
e l’indirizzo di un cugino che abitava a Belleville. Con i
soldi che il governo francese ha prestato ai rimpatriati, ha
comprato un locale in rue Ramponeau e l’ha trasformato
a suo modo in un caffè, al modo di laggiù. Aveva ricreato
a Belleville un angolo di quel mondo che sapeva definitivamente perduto. Un bancone, dei tavoli in formica, un
forno, un barbecue e un registratore da dove escono musiche di un’altra epoca. Un’epoca in cui la musica araba
era suonata da ebrei e musulmani. Un’epoca in cui il raï
non esisteva ancora ma era stato inventato da ebrei che
componevano canzoni di circostanza mescolandovi il
francese e l’arabo. “Lei è partita, mashat 3aleyya4”, diceva una di queste. E come la canzone, Maurice non faceva che
cantare nel suo bar il ricordo eterno di una sparizione.
Il locale di Maurice era retto da regole misteriose, un
codice segreto riservato a pochi iniziati. Due o tre tizi alla
moda del quartiere avevano provato a prendere d’assalto
il posto. Senza successo. Avevano commesso il peggiore
degli errori, sedersi a un tavolo. Maurice aveva emesso un
sospiro desolato ed era andato a prendere la loro ordinazione. Gli aveva servito delle mezze pinte di birra e messo
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“Mi ha piantato” in arabo dialettale.
sul tavolo qualche nocciolina rinsecchita. Se quei tizi fossero stati più accorti, avrebbero dovuto capire che i tavoli
sono riservati ai giocatori di carte e al pranzo di mezzogiorno. Avrebbero dovuto sapere che Maurice non esce
mai da dietro il bancone e che la miglior kemia è servita
al bar. La kemia è sacra. Maurice passa le sue giornate a
prepararla. Al mattino presto va al mercato e dedica delle
ore a preparare acciughe, finocchi, carote al cumino, lupini in salamoia, patate al prezzemolo e all’harissa, e altri
mille stuzzichini.
Non so più quante anisette ho bevuto quella sera, ma
so che ne ho pagate la metà. Uscendo dal bar, scoppiavo
dal ridere. Mi sono addormentato cantando “Waran Elabeïa, Waran Elabeïa5” e sognando i sapori misteriosi della
menta e del couscous. Rivedevo ancora il gesto di Maurice quando mi ha detto “Y2 khas2 ra, rue de l’Aqueduc”. Un
gesto della mano destra, un’oscillazione in avanti e indietro prima di emettere un sospiro. Anche i miei nonni impiegavano quell’espressione quando parlavano dell’Algeria. La stessa espressione in arabo, accompagnata dallo
stesso gesto, seguita dallo stesso sospiro.
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“Orano la bella, Orano la bella”, ritornello di una canzone popolare di Lilly Labassi.
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Lunedì mattina. Fa freddo ed è ancora buio quando
esco di casa. Ho giusto il tempo di bere un bicchiere d’acqua e di lasciare le mie chiavi alla portiera. Manoubia, la
donna di servizio, verrà a prenderle nel pomeriggio. Scendo le scale del métro, quattro a quattro, con la mia cartella.
Corro verso il binario. Il treno arriva e scovo un posto accanto al finestrino. La luce elettrica mi rende tanto smorto quanto la massa compatta di gente che si stringe nei vagoni. Non un sorriso, raramente uno sguardo, e la dolorosa consapevolezza che tutto ciò durerà ancora a lungo.
La stessa coincidenza a Stalingrad fino a La Courneuve.
Lo stesso tram che porta alla stazione di Saint-Denis-Basilique. Lo stesso tragitto lungo i palazzi della cité des Faures. Con le sue case popolari costruite a semicerchio e la
gente che ti guarda quando passi. Con i suoi ragazzini in
scooter e i poliziotti di quartiere che fanno la ronda.
Davanti al portone blindato che segna l’ingresso del
liceo, gli alunni fanno la fila per presentare la tessera magnetica. In tuta, scarpe da ginnastica e cappuccio; discutono aspettando il loro turno. Un bidello filtra gli ingressi e chiede agli alunni di togliersi il berretto. Le ragazze
che arrivano velate si levano il fazzoletto che copre loro la
testa, lasciandosi solo una bandana. Il bidello non dice
niente. Un alunno mi saluta.
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“Buongiorno, prof!”.
“Buongiorno, Karim, tutto bene?”.
“Al-9 amdullillah6! Tenga, prof, le ho portato un cd di
rap fortissimo. Le ho messo Sheryo, Booba, Rocé, Mc
Jean Gabl e altra roba. Vedrà, è una bomba!”.
“Grazie, Karim”.
“Di niente, prof. Lo copia e me lo ridà presto?”.
“Non c’è problema”.
“Oh, prof! Deve mettermi un bel voto al compito di
filosofia. Sa, non ho molto tempo per studiare. Mi alleno
per il campionato di Francia di taekwondo. E poi il suo
tema, prof, mi ha rotto parecchio”.
“Vedremo”.
Come ogni mattina, mentre aspetto la campanella,
spingo la porta del caffè di Chahida davanti al liceo. Assomiglia un po’ a quello di Maurice. Neon, tavoli in formica, vernice rinsecchita. Gli alunni vengono a mangiare
un pain au chocolat tra una lezione e l’altra. Gli altri vengono a perdere tempo tra un affare e l’altro, per fumare
una canna o bere una Coca. Da Chahida sono un habitué,
giochiamo a ramino insieme e non è raro che qualche
giovane cerchi di vendermi un telefonino, una televisione o un paio di Fila, caduti dal camion.
“Un caffè al vetro come al solito, signor S.?”.
“Sì, grazie, Chahida”.
Al bancone, due ragazzi della cité che non conosco
squagliano un pezzo di fumo e lo mischiano al tabacco.
Mi hanno osservato quando sono entrato e continuano
come se nulla fosse. Quello che prepara il miscuglio è
moro col cranio pelato e porta una felpa nera con una
scritta dorata “Kaïra forever”. L’altro ha gli occhiali scuri
e legge Le Parisien bevendo un caffè. Alza la testa dal giornale e si mette a parlare ad alta voce.
“Chahida, sai che mi è successo stamattina? Vado
tranquillo al deposito a prendere il mio camion e la lista
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“Grazie a Dio” in arabo dialettale.
delle consegne. Tiro dritto su Aulnay, e là, c’è un bastardo
che mi taglia la strada con la sua Twingo tutta scassata. Suono il clacson e ti vedo questo bastardo che mi alza il dito!
Sul Corano della Mecca! Aspetto che si ferma al semaforo e
scendo dal camion con la mazza da baseball. Ho acchiappato il tipo e gli ho detto: ‘Devi darti una calmata, perché
sennò ti calmo io’. Il tizio ha avuto kh4f 7 e ha tirato dritto. Te
lo immagini, Chahida? Uno stronzo di francese che mi fa alzare la pressione alle sette di mattina. Figlio di puttana!”.
Chahida annuisce con il capo. Ci è abituata. È un po’
la sorella maggiore del quartiere. Sempre lì ad ascoltare o
a dare un consiglio, discreta sul fumo o sugli affari loschi.
Fa il giro del bancone e viene a portarmi il caffè.
“Tutto bene in classe con gli alunni?”.
“Abbastanza”.
Quello moro con la felpa Kaïra mi squadra, mentre
dà un tiro alla canna. Si gira verso Chahida e le chiede ad
alta voce:
“Chi è questo?”.
“È un professore di filosofia”, risponde Chahida.
“Che faccia da ebreo che ha! Wow!”.
Chahida taglia corto:
“Samir! Ti dispiace lasciare il signore bere in pace il
suo caffè”.
“Ti metti a difendere gli ebrei, adesso?”.
“Ho lavorato quindici anni con gli ebrei, sono loro che
mi hanno insegnato tutto. Hanno capito tutto gli ebrei”.
“Bin Laden li fotterà tutti, gli ebrei”.
“Smetti di dire stronzate, Samir. Non è Bin Laden
che ti dà da mangiare. Va’ a lavorare, va’, che fai tardi”.
Samir non risponde e passa la canna all’amico.
Chahida mi sorride con aria di intesa.
“Ci facciamo un ramino questo pomeriggio, signor S.?”.
“Ho una pausa dalle tre alle quattro. Passerò. Ora devo andare, faccio tardi. A dopo, Chahida”.
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“Paura” in arabo dialettale.
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“A questo pomeriggio”.
Ho detto arrivederci alla felpa Kaïra e a Samir, ma
non mi hanno risposto. Ho semplicemente visto, attraverso le lenti scure di Samir, qualcosa che assomigliava all’odio. Per forza ho una faccia da ebreo! Credi che con il
mio profilo possa farmi passare per uno svedese? Se ricomincia il rastrellamento del Vel’d’hiv, nessuno mi chiederà di abbassarmi i pantaloni per verificare che faccio
parte della famiglia.
Ho attraversato la strada, salutato il bidello che mi ha
aperto il portone, attraversato l’androne e sono salito sulle
scale di metallo che portano alle classi e alla sala professori.
Mentre andavo a prendere la posta nel mio armadietto, ho visto un avviso per la festa dell’inizio della scuola.
L’associazione dei professori del liceo vi invita a una festa
che avrà luogo da Jean-Paul (il professore di storia e geografia).
Come tutti gli anni, abbiamo scelto un tema. Quest’anno il tema
è: tee-shirt bagnata.
Appuntamento sabato prossimo alle 21 in rue Lenin, 14 a
Saint-Denis.
Ho raggiunto la mia classe e fatto entrare gli alunni.
Si sistemano facendo chiasso. Karim con il walkman. Leïla che picchietta sempre sul suo cellulare. Hakim che non
ha mai la sua roba. Eddy che si mette all’ultimo banco. Alexandre che fa fatica a svegliarsi. Caccio un urlo e calmo
l’atmosfera.
“Buongiorno, oggi parleremo del lavoro. Per cominciare, proveremo a circoscrivere la nozione di lavoro. Che
cos’è il lavoro? Che cosa spinge l’uomo a lavorare? È solamente un bisogno, di cui potremmo fare a meno, o è una necessità per lo sviluppo dell’uomo? Per rispondere a
tutte queste domande analizzeremo, a partire dal senso
comune, ciò che è il lavoro, concretamente, nella vita di
tutti i giorni. Per voi, cos’è il lavoro?”.
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“Il lavoro, prof, è un modo per fare la grana”.
“Molto bene. Si lavora per guadagnare denaro. E cosa facciamo con questo denaro? Qual è la funzione del lavoro?”.
“Be’, prof, con la grana possiamo comprarci delle cose. E se guadagniamo tanta grana possiamo tornare al
paese”.
“Al paese?”.
“Be’ sì. Mica restiamo qua tutta la vita”.
“Qui, non è casa vostra? Siete francesi, no?”.
“Prof! Siamo francesi sui documenti e basta. Casa
nostra non è qua. Casa nostra è il nostro paese”.
“Leïla, sei d’accordo con loro?”.
“Aspetti, prof, finisco di mandare un sms”.
“Leïla!”.
“Un minuto”.
“Va be’. Karim, tu che ne pensi?”.
“Hanno ragione, prof. È vero siamo nati qui, ma
quando andiamo al paese è troppo fico. L’estate scorsa sono andato in vacanza al paese. Mi è piaciuta la mia razza.
La cité è per i poveracci. Ci siamo rotti di questo posto”.
“Dunque non vi sentite francesi?”.
“No, prof. È vero che abitiamo qui, che siamo cresciuti nella cité eccetera eccetera, ma ce ne sbattiamo i
coglioni della Francia. La3an d1n ummak 8 la Francia!”.
“La lingua francese, la cultura francese, la storia
francese, non vi dice niente?”.
“Sta scherzando prof! È come quando c’è stata la
partita di calcio allo Stade de France. Il casino che abbiamo fatto!”.
“Wow! Troppo fico. Io ci stavo, prof!”.
“Anch’io ci stavo, prof!”.
“Anch’io ci stavo, prof!”.
“Anch’io, prof, ci stavo. È stato un amico mio a lanciare la bottiglia sulla testa della tipa. Pare che era un mi8
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“Quella puttana di tua madre” in arabo dialettale.
nistro, quella tipa”.
“E il bordello che abbiamo fatto quando hanno suonato la Marsigliese!”.
“Era troppo forte, prof!”.
“Aspettate, calma, di che state parlando?”.
“Non lo sa, prof? C’era una partita Francia-Algeria allo Stade de France. Con tutti quelli della cité, siamo andati a tifare la squadra del nostro paese. L’arbitro era un
razzistone. A un certo punto ha fatto una cazzata grave,
allora siamo scesi in campo con la bandiera del paese e
abbiamo alzato un casino!”.
“E i guardiani non vi hanno fermati?”.
“I guardiani? Sono ragazzi della cité, prof. Hanno fatto tipo correrci dietro, ma poi c’hanno lasciati scappare”.
“E la polizia?”.
“Gli sbirri? Non possono farci niente nella cité, è il
nostro quartiere. Se cominciano a fare gli stronzi, si fanno sparare addosso, prof!”.
“E che cos’è questa storia della Marsigliese?”.
“Hanno suonato la Marsigliese all’inizio della partita, e a noi ci ha fatto rodere parecchio. Ce ne sbattiamo i
coglioni della Marsigliese. Abbiamo fischiato, abbiamo
fatto un casino!”.
“Prof! Non sapeva niente? Ne hanno parlato dappertutto, alla tv, alla radio, nel Parisien”.
“Mi dispiace ma non leggo i giornali e non ho la tv”.
“Lei è proprio strano, prof!”.
La campanella ha suonato e gli alunni si sono dileguati. Ho raccolto le mie cose e mi sono diretto verso la
sala professori. Mi sono versato un espresso e mi sono seduto accanto a Éric. Come ogni giorno alle dieci, fuma una sigaretta rollata leggendo Libération. Anche Éric è professore di filosofia. Prende il valium da settembre a gennaio e lo Xanax da gennaio a maggio. A giugno comincia
il periodo degli esami e lui fuma l’erba che gli mandano
dei suoi amici dal Finistère. Me l’ha raccontato un giorno
chiedendomi con aria preoccupata se non fossi interessato
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alla professoressa di inglese della seconda 3.
Leggo i titoli dei suoi giornali. Sharon scatena un’offensiva nei territori. Tre morti, tra cui un bambino di
quattro anni. Il governo ha messo in cima alle sue priorità
una vasta campagna sull’integrazione. Accendo un cigarillo. Éric chiude il giornale.
“Allora, Éli, non hai ancora deciso sulla prof di inglese?”.
“Grazie, ti ho già detto di no”.
“Abbiamo un’ora di assemblea sindacale alle 13.30
per discutere del progetto Zep9 per l’istituto. Vieni, è importante, e poi ci sarà anche la prof di inglese”.
“Si può fumare il sigaro all’assemblea sindacale?”.
“Mi stupirebbe”.
“Preferisco il mio sigaro alle loro stronzate”.
“Non ti interessa il progetto di passaggio in Zep?”.
“È per guadagnare più soldi o per lavarsi la coscienza? Zep o non Zep, non cambierà gli alunni”.
“No. È per avere più strumenti per i nostri alunni”.
“Strumenti per fare cosa? È con gli strumenti che
riuscirai a interessarli alla filosofia?”.
“Va be’. A proposito, vieni alla serata tee-shirt bagnata?”.
“Scherzi?”.
“Dai vieni! Ci divertiremo. Hai visto il seno della
nuova stagista di tedesco?”.
“Ti ho detto di no”.
“Dai! Non fare l’orso. Non ti si vede mai. Non vieni
alle assemblee sindacali. Snobbi le cene di fine anno. La
prof di inglese ha una cotta per te e tu non ne approfitti
nemmeno. Sei proprio un tipo strano”.
“Lo so. Me l’hanno già detto”.
“Va bene, io ti iscrivo lo stesso”.
La campanella ha suonato ed Éric è tornato in classe. Avevo un’ora libera prima della prossima lezione. Ho
aspettato che la sala professori si svuotasse e con discre-
zione ho staccato il manifesto della festa tee-shirt bagnata. Ne ho fatto dieci fotocopie e l’ho rimesso a posto.
Sono andato a fare un giro in cortile. Alcuni alunni
discutevano appoggiati al muro. Karim era del gruppo.
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Zona di istruzione prioritaria, statuto assegnato agli istituti ritenuti sensibili.
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