GEOARCHEOLOGIA: METODI E TECNICHE DELLE

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GEOARCHEOLOGIA: METODI E TECNICHE DELLE
GEOARCHEOLOGIA: METODI E TECNICHE DELLE SCIENZE DELLA TERRA
NELLA RICERCA ARCHEOLOGICA
Premessa
Le pagine che seguono non hanno né l'ambizione né la possibilità di affrontare in
modo esaustivo l'argomento, si limiteranno a proporre alcuni temi di discussione circa i
nodi metodologici che rendono lecita ed utile l'applicazione alla ricerca archeologica delle
scienze della Terra (sedimentologia, pedologia e geomorfologia in particolare) a suggerire
alcune tecniche di campo e di laboratorio attraverso le quali si estrinseca il lavoro del
geoarcheologo ed a indicare una bibliografia esauriente alla quale potranno rivolgersi
coloro che intendano approfondire il tema.
Introduzione
È ben noto come geologia ed archeologia, specialmente quella preistorica e
protostorica abbiano radici culturali comuni che affondano nel pensiero positivistico
europeo della metà del secolo scorso; alcune delle più illustri figure di naturalisti del tempo
affrontarono ad un tempo temi relativi alla storia della terra e all'origine dell'uomo con gli
stessi metodi e con pari interesse.
A partire dal secondo dopoguerra la ricerca archeologica si valse in modo sempre più
marcato di metodi e tecniche mutuati dalle scienze fisiche, matematiche e naturali (le
'scienze ausiliarie'). Una delle principali applicazioni consistette nell'ottenere date
numeriche per i materiali archeologici sfruttando principalmente le tecniche del
radiocarbonio e della termoluminescenza le quali richiedono attrezzature e competenze nel
campo della fisica e geochimica e costituiscono una disciplina a sé, denominata
archeometria, ancora in fase di rapido sviluppo. È soprattutto dalla archeologia preistorica e
dall'archeologia medievale che venne una più pressante domanda di strumenti naturalistici
per ricostruire la storia di quelle popolazioni di cui nulla si era conservato se non le tracce
della cultura materiale consistenti nei resti degli arredi domestici, degli attrezzi di lavoro e
di caccia, delle strutture abitative. In questo quadro notevole impulso ebbero gli studi di
archeobiologia e archeozoologia (EVANS 1978), volti alla ricostruzione delle risorse
alimentari e degli ambienti vegetazionali e delle faune connesse ai siti archeologici. A
partire dagli anni '60, ad opera della 'New Archaeology' venne posto un rinnovato interesse
al contesto ambientale dei siti archeologici ed alle sottodiscipline sopra ricordate si affiancò
anche la geoarcheologia (RENFREW 1976), specificamente dedicata allo studio del
contesto geologico dei siti archeologici.
Alcuni principi di geoarcheologia
L'obiettivo che il geoarcheologo si pone, attraverso le tecniche che gli sono proprie, è
di esumare dal record stratigrafico le tracce materiali dei processi indotti dall'uomo
distinguendo quanto è artefatto da quanto è naturale e di ricostruire in quale contesto
geografico fisico questi siano avvenuti. Si potrà procedere allora ad incrociare i dati
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gearcheologici con quelli più strettamente archeologici al fine di inferire le scelte che le
comunità archeologiche hanno operato in termini di pianificazione territoriale, di uso del
territorio, con quanto ne consegue sul piano della ricostruzione delle strutture economiche e
sociali. La geoarcheologia infatti (BUTZER 1982) “ concerne l'archeologia svolta
principalmente mediante tecniche e metodi delle scienze deLla Terra; il suo obiettivo è di
porre in luce la matrice paleoambientale interagente con i sistemi socioeconomici del
passato ed in questa luce costituisce uno strumento particolarmente utile per capire
l'ecosistema umano ”.
Il raggiungimento di questo obiettivo è affidato ad una serie di tecniche, mutuate
dalle scienze della Terra, che saranno discusse più avanti, le quali sono sostenute da alcuni
principi generali:
—I siti archeologici, alla pari di tutti i corpi rocciosi della litosfera e più precisamente
di tutte le successioni stratigrafiche del sistema continentale, si articolano in corpi
discontinui (unità litostratigrafiche cfr. OROMBELLI 1971; HARRIS 1976; CARANDINI
1981; FEDELE 1976; 1984; alloformazioni, NORTH AMERICA COMMISSION ON
STRATEGRAPHICAL NOMENCLATURE 1983; CREMASCHI 1987, in stampa) — in
spessore ed estensione, disposti secondo particolari geometrie.
— Le unità litostratigrafiche sono la risultante, la traccia materiale, dei processi
geomorfici: erosione, sedimentazione, pedogenesi, il cui divenire è controllato da una
complessa serie di fattori (ad esempio: clima, roccia madre, topografia, fattori biologici,
energia del mezzo di sedimentazione, durata dei processi etc.).
— Tra evidenza stratigrafica, processi e fattori sussiste una stretta relazione di causa
ed effetto: una corretta ed approfondita analisi dell'evidenza stratigrafica deve portare al
riconoscimento dei processi che l'hanno determinata, quindi alla diagnosi dei fattori ed in
base ad essi pervenire alla ricostruzione delle condizioni paleoambientali in cui l'evidenza
si è formata.
—L'organizzazione spaziale delle unità riflette l'organizzazione degli eventi nel
tempo (COLCUTT 1987). Il susseguirsi delle unità indica perciò una evoluzione nel tempo
dei processi e quindi un cambiamento dei fattori che li controllano. Comprendere questa
successione, significa poter ricostruire l'evoluzione paleoambientale di siti.
—L'evidenza archeologica dopo il suo abbandono da parte della comunità che l'ha
prodotta viene coinvolta negli stessi processi di erosione, trasporto e pedogenesi che
interessano ogni materiale alla superficie della terra; tali processi portano ad una
progressiva degradazione del sito e tendono a diluire le tracce della attività antropica;
devono essere chiaramente individuati poiché permetteranno di ricostruire le variazioni
ambientali intervenute dopo l'abbandono del sito stesso.
Questi punti entrano in merito alle discussioni oggi in corso circa il significato
dell'unità stratigrafica in archeologia e la natura della stessa stratificazione archeologica;
non intendo tuttavia in questa sede affrontare analiticamente la questione, ma proporre
soltanto alcune riflessioni. Distinguere una archeostratigrafia autonoma e chiaramente
separata da una stratigrafia geologica (TUNCA e GASCHE 1984; LE TENSORER 1984;
DE GUTO 1988), non sembra giustificato (BROGIOLO et alii 1988) poiché significa
fissare dei limiti arbitrari a ciò che è in natura continuo ed isolare il sito archeologico dal
suo contesto ambientale, quando invece è provato che esiste fra sito archeologico ed
ambientale circostante una stretta relazione ed un mutuo interscambio di processi e fattori;
significa inoltre istituire categorie semantiche differenziate per una realtà del tutto omologa
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e pertanto rendere ancora più complessi i problemi di comunicazione dei dati.
L'attività dell'uomo sui sedimenti può essere vista come una forma di bioturbazione
pur estremamente differenziata; se una distinzione deve essere operata, distinguerei
piuttosto fra le situazioni in cui l'attività antropica, vista come generatrice di stratigrafie, ha
determinato fortemente i caratteri del deposito, come ad esempio i siti protourbani ed
urbani (BROGIOLO et alii 1988) (Fig. 1) ed alcuni depositi in grotta o riparo, e le
situazioni in cui essa è meno importante, perché diluita rispetto ai processi 'naturali' come
ad esempio nei siti paleolitici all’aperto (CREMASCHI 1987) (Fig. 2); bisogna tuttavia
tener conto che nella realtà esiste una infinita serie di gradazioni fra questi due tipi di
depositi, determinata sia dal tipo di insediamento che dal diverso impatto dei processi
postdeposizionali.
La classificazione stratigrafica proposta alcuni anni fa (HARRIS 1979; CARANDINI
1981) per la stratigrafia archeologica prevede unità stratigrafica positive, corpi
tridimensionali ed unità stratigrafiche negative, superfici in sé. Pur dando atto agli Autori
dello sforzo sintetico, bisogna riconoscere che questo sistema non sembra sufficiente né a
descrivere l'evidenza archeologica né tanto meno ad interpretarla. Sul piano della
descrizione le unità stratigrafiche non possono essere ridotte a semplici contenitori o a
forme astratte, le loro strutture interne sono diagnostiche per i processi che le hanno
originate e vanno pertanto registrate con appositi codici (vedi oltre); la distinzione fra
strutture sedimentarie e figure pedogenetiche permetterebbero inoltre di riconoscere le unità
pedologiche (i suoli), non previste dalla classificazione harrisiana (CREMASCHI 1985) e
non assimilabili alle unità stratigrafiche positive poiché prodotte non da processi di
accumulo, ma di alterazione in situ di materiale precedentemente depositato. Anche le unità
negative, qualora opportuno, andrebbero, mutuando la terminologia dalla geologia
stratigrafica e dalla sedimentologia, descritte più adeguatamente in termini di contatti
(contatti conformi, non conformi etc.). Inoltre le unità negative e le interfacce per essere
debitamente descritte dovrebbero essere osservate in norma verticale il che implica un
adeguamento delle strategie di scavo per permettere la conservazione di sezioni testimone
che non possono essere sostituite dalle sezioni cumulative di uso corrente (BROGIOLO et
alii 1988).
Il riconoscimento delle unità litostratigrafiche, la loro registrazione e descrizione, non
sono i fini della ricerca geoarcheologica, ma semplicemente strumenti per interpretare la
genesi dei depositi e giungere alla ricostruzione paleoambientale.
Ed è sul piano della interpretazione che la classificazione harrisiana incontra le
maggiori difficoltà. Parlare soltanto di unità positive ed unità negative significa ridurre i
processi di formazione dei siti archeologici alla sola alternanza di erosione e
sedimentazione; la realtà è certamente più complessa, poiché i siti archeologici si originano
in prossimità di una superficie esposta, almeno nella maggior parte dei casi; pertanto un
ruolo fondamentale nel configurare l'aspetto della stratificazione è svolto dal processo
pedologico (CORNWALL 1958, LIMBREY 1975, CREMASCHI 1983) che vi ha prodotto
figure determinate e riconoscibili. I suoli pur configurandosi come corpi tridimensionali
hanno significato stratigrafico diverso dai corpi sedimentari e dalle superfici di erosione
poiché costituiscono superfici conservate a partire dalle quali i depositi sottostanti sono stati
soggetti a trasformazioni in posto (CREMASCHI 1985; CREMASCH] in stampa) (Fig. 3).
Poiché i caratteri fisico-chimici delle unità stratigrafiche sono determinati dai
processi che ne hanno provocato la genesi, alla stratigrafia archeologica è applicabile
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l'analisi di facies in uso in sedimentologia (RICCI LUCCHI 1980; READING 1980). LO
studio delle facies sedimentarie continentali (cfr. WALKER 1984) è oggi molto avanzato
ed in grado di fornire modelli interpretativi utili allo studio di quei siti archeologici in cui i
processi sedimentari antropici non siano esclusivi. Tali modelli non sono tuttavia
applicabili alle stratigrafie interamente prodotte dall'attività dell'uomo, come ad esempio
quelle osservate nelle strutture abitative in legno, alto medievali e dell'età del Bronzo. Per
questo genere di stratigrafia è necessario ancora un lungo cammino di studio e di
sperimentazione che tuttavia può essere percorso, come talora è stato fatto mediante
l'archeologia sperimentale, rivolgendosi a modelli attualistici.
Infine bisogna rilevare che la ricostruzione del processo di formazione dei siti e delle
variazioni ambientali è necessariamente frammentaria sia per i limiti che derivano dai
caratteri intrinseci all'oggetto stesso dell'indagine sia dalla fase di sviluppo attuale della
disciplina. Un limite insuperabile risiede nel fatto che le successioni continentali sono per
loro natura discontinne; l'avvicendamento degli eventi geomorfici include fasi di instabilità
ambientale (BUTLER 1959, BOS e SEVINK 1975) che si traducono, attraverso fasi
erosive, nella completa cancellazione di parti anche importanti di successioni stratigrafiche.
Raramente le stratigrafie archeologiche sono conservate in modo permanente nel record
stratigrafico, ma tendono ad essere smembrate dai processi geomerfici e le tracce della
attività antropica risultano progressivamente più diluite. La geoarcheologia infine è scienza
giovane ed è ragionevole pensare che in futuro gli strumenti di indagini progrediranno
ancora e sarà possibile leggere più approfonditamente nelle successioni stratigrafiche.
Questa circostanza persuade ad una gestione oculata dei siti archeologici, archivi non
rinnovabili, più da tutelare e utilizzare con parsimonia che da esplorare con disinvoltura.
LA GEARCHEOLOGIA AL LAVORO
Pur essendovi, come sopra discusso una stretta integrazione fra sito archeologico e
paesaggio e la ricerca nell'uno non può prescindere dalla conoscenza dell'evoluzione
dell'altro, tuttavia, sul piano operativo, il lavoro sullo scavo archeologico va distinto da
quello operato sul territorio poiché gli strumenti conoscitivi da applicare nei due diversi
casi, differiscono sensibilmente.
LO SCAVO ARCHEOLOGICO
Poiché lo scavo implica la distruzione della stratigrafia che pone in luce, l'intervento
del geoarcheologo non è differibile dalla fase di scavo, come ad esempio potrebbe essere
quello dell'archeobotanico o dell'archeozoologo, i quali possono intervenire, in un momento
successivo, su di una opportuna campionatura. Il ruolo del geoarcheologo non dovrebbe
esser limitato ad una saltuaria expertise, ma implicare piuttosto un suo coinvolgimento a
livello di scelta delle strategie di scavo e della sua esecuzione. Oppure, per meglio dire,
sarebbe necessario che ciascun archeologo di terreno avesse un adeguato bagaglio di
conoscenze nel campo di scienze della Terra che lo guidasse a prendere responsabilmente
quelle decisioni che si trova a dover compiere in ogni momento dello scavo circa
l'individuazione dell'unità stratigrafica, e del livello di documentazione necessario.
I molti modelli noti di schede di unità stratigrafica (BARKER 1977, CARANDINI
1981, FEDELE 1976, GANDERTON 1981; WILDCOK e SHACKLEY 1984) prevedono
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un ampio spazio per la registrazione dei caratteri geologici dell'unità stratigrafica cui la
scheda si riferisce. La compilazione di tali parti, secondo i codici delle specifiche
discipline, nonché la descrizione di un congruo numero di sezioni stratigrafiche
significative, per le ragioni sopra indicate, dovrebbe essere il primo compito del
geoarcheologo sullo scavo.
La descrizione di campo costituisce il primo, ma fondamentale passo da operare nello
scavo archeologico per lo studio dei caratteri geoarcheologici di un sito archeologico; essa
condizionerà tutto il successivo trend analitico e la interpretazione dei dati. È perciò
necessaria che essa venga fatta secondo codici riproducibili, che ne permettano la
trasmissione, oggettiva quanto possibile.
In linea generale due ordini di caratteri debbono essere rilevati dalla descrizione di
terreno (Fig. 4):
—caratteri sedimentologici: forma ed orientamento dei corpi sedimentari,
stratificazione, tessitura e struttura che permettono di risalire alle facies sedimentarie.
—caratteri pedologici: quasi mai i soli caratteri sedimentologici possono portare ad
una soddisfacente ricostruzione dei processi di formazione dei siti, questi infatti essendo
sistematicamente connessi a superfici esposte (LIMBREY 1975) sono andati soggetti a
processi pedognetici, che hanno lasciato impronte talora talmente importanti da obliterare i
preesistenti caratteri sedimentologici. Una corretta descrizione di stratigrafie archeologiche
deve anche comprendere le figure pedologiche visibili specialmente nelle sezioni verticali.
Sul piano pratico i codici di descrizione pedologica esistenti (HODGSON 1976; SANEST
1977) opportunamente integrati, possono essere utilmente applicati all'evidenza
archeologica.
Di sovente l'osservazione sul terreno non porta ad una diagnosi sicura circa i processi
di formazione dei siti e deve essere integrata con analisi fisico-chimiche su campioni
opportunamente raccolti (MANCINI 1958; SHACKLEY 1976; MOINREAU 1971).
L'operazione di campionamento riveste notevole importanza poiché condiziona il
successivo sviluppo del trend analitico. È ormai d'uso associare al campionamento di massa
(la raccolta cioè di una porzione rappresentativa di una data unità stratigrafica senza alcun
altra attenzione particolare) anche la raccolta di campioni indisturbati ed orientati. La
densità della campionatura deve essere rapportata agli obiettivi della ricerca, alla effettiva
utilità dei risultati e ad una cauta valutazione dei costi, abitualmente elevati in termini di
tempo e denaro. Per procedure standard il campionamento per orizzonti e/o unità
stratigrafiche è da preferire a quello sistematico. Non esiste un approccio analitico
universalmente riconosciuto, al contrario diversi tipi di analisi si applicano a situazioni
diverse, a seconda degli obiettivi che si vogliono raggiungere e delle risorse finanziarie
disponibili; il protocollo analitico proposto in Fig. 5, più volte seguito da molti Autori ha
generalmente dato buoni risultati (CREMASCHI in stampa); esso prevede i seguenti tipi di
analisi.
—Analisi tessiturali. Le misure possibili dei sedimenti connessi a siti
archeologici vanno dalle dimensioni dei blocchi a quelle delle argille. Per potere
coprire un così ampio spettro dimensionale, l'analisi granulometrica ricorre a
tecniche differenziate. Rimandando alla letteratura i problemi teorici legati alla loro
scelta (KRUMBEIN e PETTJoN 1938; FOLK 1966; ALLEN 1968) ricordiamo che
i clasti grossolani superiori ai 4 cm di diametro vengono misurati direttamente,
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seguendo particolari criteri (CAILLEUX e TRICARD 1969). Per le particelle di
dimensioni inferiori, ghiaie fini (dai 4 cm a 2 mm) e sabbie (dai 2 mm a 0.062 mm)
la misura delle particelle si effettua in caduta d'acqua o a secco mediante una serie
di setacci sovrapposti, con maglie di apertura decrescente. La misura diretta delle
particelle di dimensioni inferiori, limi (0.062 mm—0.002 mm) ed argilIe (particelle
inferiori a 0.002 mm), è impossibile; pertanto viene effettuata sfruttando la loro
diversa velocità di caduta, in funzione del diametro, da una sospensione acquosa. Le
relazioni fra velocità di caduta, diametri delle particelle e concentrazione viene
espressa dalla nota legge di Stokes; su questa si basano le principali tecniche
analitiche e le relative apparecchiature: la pipetta di Andreasen, il densimetro, che
sono metodiche relativamente precise e di facile realizzazione, ma necessitanti di
tempi relativamente lunghi di analisi (cir. SHACKLEY 1976). Oggi esistono in
commercio apparecchiature più sofisticate che riducono sensibilmente i tempi di
analisi, si tratta della bilancia di sedimentazione, del fotosedimentometro e del
sedigrafo, apparecchi questi ultimi che misurano le dimensioni delle particelle in
base alla variazione di densità ottica della sospensione (CALZOLARI et alii 1984;
CHEVALLIER RENAULT 1987). I risultati delle analisi vengono rappresentati in
diversi modi (curve cumulative, istogrammi, etc.) e sono abitualmente trattati con
metodi statistici (FOLK 1966) per determinare alcuni parametri, median, sorting,
kartosis, skenwess, che incrociati fra di loro vengono utilizzati per diagnosticare
l'ambiente di deposizione del sedimento (KUKAL 1971).
— Analisi chimiche. Numerosi tipi di analisi chimiche sono state utilizzate
per lo studio di suoli e sedimenti archeologici: il frazionamento degli acidi umici è
stato utilizzato per distinguere la natura, antropogena o vegetale di suoli umiferi
sepolti (MOINREAU 1971),1 analisi del fosforo è spesso utilizzata per riconoscere
suoli intensivamente frequentati dall'uomo (HOREMANS et alii 1987;
PROUDFOOT 1976). Non esiste un trend analitico valido per tutte le situazioni, ma
piuttosto esistono analisi specifiche per risolvere problemi specifici. Tuttavia di
sicura utilità nella interpretazione di suoli archeologici e sedimenti è l'applicazione
ad ogni situazione di un semplice trend analitico: la determinazione con tecniche
standard (SOCIETÀ ITALIANA PER LA SCIENZA DEL SUOLO 1981) del
contenuto di sostanza organica, dell ammontare di carbonato di calcio e del pH. Si
tratta di analisi di facile esecuzione che richiedono una attrezzatura di base non
dispendiosa, che potrebbe essere anche direttamente utilizzata sul campo, tuttavia
sono in grado di fornire indicazioni preziose. Le variazioni di sostanza organica e
carbonato di calcio possono fornire dati sulla presenza di suoli sepolti all’interno di
successioni archeologiche (MANCINI 1958; MAGALDI RASPI 1976) e su
importanti processi pedogenetici quali la decarbonatazione e al contrario l'accumulo
del carbonato di calcio, che hanno un importante controllo climatico. I1 pH può dare
indicazioni, sia pure approssimative, sullo stato del complesso di scambio nei suoli
e sul tipo di processi in atto nei suoli (Figg. 6 e 7).
— Analisi mineralogiche (minerali pesanti e minerali argillosi). Lo studio
della frazione sabbiosa dei sedimenti è generalmente in grado di fornire
circostanziate notizie sulla loro provenienza, sulle alterazioni pedogenetiche e
sull'agente di trasporto. L'exoscopia dei granuli di quarzo al microscopio elettronico
a scansione (S.E.M.) (KRINSLEY e DOORNKAMP 1973; LE RIBAULD 1985)
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evidenzia forme e fratture determinate da specifici meccanismi di trasporto che sono
caratteristici di ambienti sedimentari particolari: eolico, fluviale, glaciale etc.
Ulteriori possibilità offre lo studio dei minerali pesanti. Tale gruppo di minerali è
così chiamato per la proprietà di affondare in liquidi ad elevata densità, il
bromoformio (d 2.9) ad esempio e separarsi così, per gravità, dai minerali 'leggeri',
composti per lo più di quarzo e feldspati. I minerali pesanti (MILNER 1962;
PARFENOFF et alii 1970) sono dei buoni indicatori di provenienza dei sedimenti,
perché sufficentemente differenziati a seconda delle rispettive paragenesi (Fig. 8).
Inoltre rispondono in modo differenziato alla alterazione pedogenetica (BREWER
1977) e possono quindi essere utilizzati per mettere a punto degli indici di
alterazione utilizzata sia per determinare la provenienza dei sedimenti, sia i processi
pedogenetici da essi subiti, anche se, in genere, è di minore utilità e richiede per
contro attrezzature più sofisticate (CATT e WEIR 1976). Le analisi mineralogiche
danno risultati particolarmente significativi quando applicate allo studio di siti
pleistoceneinici dove i cambiamenti ambientali nelle aree circostanti i siti possono
essere stati di particolare rilievo.
— Micropedologia. La micropedologia, cioè l'osservazione di sezioni sottili di
campioni indisturbati di suolo è una tecnica già affermata in campo pedologico (cfr.,
ad esempio FERRARI e MAGALDI 1983 e MUCHER e MOROZOVA 1983) che
dopo alcuni lavori pionieristici (CORNWALL 1958, DALRYMPLE 1958) sta
affermandosi anche nello studio dei depositi archeologici. A differenza della altre
procedure analitiche la mieromorfologia prevede la raccolta del campione
indisturbato ed orientato, magari con l'aiuto di appositi contenitori (le scatole di
Kubiena). I1 campione è successivamente impregnato sotto vuoto con resine
epossidiche, tagliato, montato su vetrino, levigato con particolari apparecchiature ed
alla fine osservato in luce trasmessa con il microscopio petrografico. I vari
componenti del suolo possono così essere osservati nelle loro relazioni originarie
(grani di scheletro, plasma, vuoti figure pedologiche, etc.). La loro natura ed i
rapporti permettono di ricostruire talora in grande dettaglio i processi pedologici e
sedimentari avvenuti all'interno del suolo. Un limite all'applicabilità di questa
tecnica è che essa è ancora basata su codici descrittivi criptici e di non facile accesso
ai non specialisti (BREWER 1976).
Tecniche micromorfologiche sono state applicate con successo allo studio di depositi
in grotta (GOLDSBERG 1979), ai depositi olocenici all aperto, consentendo di rintracciare
evidenze della prima agricoltura e di ricostruire l'impatto antropico sui suoli in età
olocenica (CREMASCHI 1983; MACPHAIL 1985; COURTY e FEDOROFF 1982).
Particolarmente significativa è l'applicazione della micromorfologia allo studio dei depositi
pleistocenici delle aree che durante i periodi glaciali furono soggette ad un sensibile
peggioramento climatico. I suoli di tali regioni conservano spesso, a livello microscopico,
figure indotte da processi caratteristici dal sistema morfoclimatico periglaciale
(FEDOROFF e GOLDSBERG 1982, VAN VLIET LANOE 1985). Figure
micromorfologiche di tale natura sono state osservate anche in area prealpina in siti
archeologici connessi a loess, sia all'aperto che in grotta (CREMASCHI e LANZINGER
1984, 1988).
Complementare allo studio della sezione sottile è l'osservazione al microscopio
elettronico del campione indisturbato. Tale tecnica, spesso usata per lo studio dei loess
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permette di osservare il fabric delle particelle, il rapporto con il cemento, la porosità, senza
però richiedere le complesse operazioni di preparazione della sezione sottile. L'applicazione
di apparecchi tipo EDAX al S.E.M. permette di eseguire sulle particelle analisi
semiquantitative, di grande utilità per la comprensione dei processi pedogenetici. Tale
tecnica sembra dare risultati promettenti in quelle situazioni in cui il contesto pedologico
nel quale sono inclusi i materiali archeologici risulta particolarmente impoverito, come nel
caso del sito paleolitico delle Rhori Hills (BTAGT e CREMASCHI 1988).
IL CONTESTO AMBIENTALE DEL SITO ARCHEOLOGICO
La conoscenza dei processi di formazione dei siti non si esaurisce nello studio della
successione stratigrafica del sito stesso, poiché le cause dei processi che hanno influito sulla
sua formazione risiedono spesso nell'ambiente ad esso circostante.
Già da alcuni decenni l'attenzione degli archeologi si è spostata dal sito archeologico
al territorio e si sono moltiplicati di conseguenza i surveys sistematici il cui obiettivo
consiste nel fornire un quadro concreto e dettagliato della presenza archeologica sul
territorio e di ricostruire i mutamenti spaziali e temporali nella organizzazione delle
comunità antropiche in base alla distribuzione dei materiali (CLARKE 1977). Diversi
metodi sono stati elaborati per l'esecuzione del survey e per essi rimandiamo alla
abbondante letteratura (AMMERMAN 1981; KELLER e RUPP 1983; DE GUIO 1983).
Ma la distribuzione dei siti archeologici per individuare patterns economici sociali di uso
del territorio non può essere correttamente interpretata, né ad essa sono applicabili i
raffinati sistemi analitici spesso proposti (DE GUIO 1985), se a tali ricerche non viene
accostata una dettagliata analisi geomorfologica e pedologica (EISNER et alii 1986). Il
paesaggio attuale infatti è la sommatoria di numerosi frammenti dei morfosistemi che si
sono succeduti nel tempo; è quindi un insieme complesso, che non può essere utilizzato in
blocco per la ricostruzione degli scenari geografici dei siti archeologici di un determinato
periodo.
E necessario, operando con le adeguate metodologie, ricostruirne l'evoluzione nel suo
spessore diacronico, individuando le diverse unità geomorfologiche di cui il paesaggio si
compone e datandole.
Il rilevamento geomorfologico attraverso lo studio dei vari documenti del remote
sensing (foto aeree e foto da satellite), e le carte che attraverso di esso si possono redigere,
costituiscono lo strumento principale per raggiungere gli obiettivi sopra delineati.
Oggi il rilevamento geomorfologico accompagna ormai sistematicamente i progetti di
survey archeologico (DAVIDSON 1985) e trova numerosissime applicazioni nei campi
preistorici e protostorici (COPPENS et alii 1976; NISBET e BIAGI 1987).
Le pianure alluvionali sono aree in cui il rilevamento geomorfologico è di particolare
utilità per ricerche di carattere geoarcheologico. Lo studio fotogeologico delle aree della
pianura padana centrale ad esempio (Cremaschi in BERNABÒ BREA et alii 1985; FERRI
1986) ha permesso di confermare i dati strutturali, noti da ricerche di più di un secolo fa di
siti protourbani dell'età del Bronzo medio e recente (le terramare), che risultano fortificate
da un argine in terra e circondate un fossato (CREMASCHI 1988). Il sistematico rapporto
di tali siti con tracce di corsi d'acqua estinti, indicanti talora una rete idrografica molto
diversa dall'attuale, ha sottolineato come la loro distribuzione sia funzione del più antico
tentativo di sistemazione agrarie e di regimazione idrografica della valle padana
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(CREMASCHI et alii 1980) (Fig. 9).
Le carte pedologico-fisiografiche (SEVINK 1985) riuniscono alle informazioni
geomorfologiche anche dati relativi alla consistenza dei suoli e paleosuoli presenti nel
paesaggio e forniscono un quadro integrato, e quindi più completo, della genesi ed
evoluzione del paesaggio. Tali carte si prestano a diversi usi in archeologica (SEVINK
1985): permettono infatti di delimitare le superfici stabili protette dall'erosione o
dall'aggradare di corpi sedimentari, sulle quali soprattutto si conservano le presenze
archeologiche, specie delle età più antiche; consentono inoltre di porre in luce quei tratti
paesaggistici indotti dalla attività dell'uomo, a esempio da disboscamenti intensivi o da
particolari pratiche agricole.
Più recentemente, le carte pedologiche e fisiografiche vengono utilizzate per stimare
il possibile uso del territorio per quanto concerne le risorse agricole da parte delle comunità
preistoriche (KAMERMANS et alii 1985). Questo metodo è stato applicato recentemente
(CREMASCHI in stampa) ai siti neolitici della pianura padana centrale.
I requisiti in termini di tessitura del terreno, esigenza d'acqua etc. (requirements) delle
coltivazioni cerealicole praticate dalle popolazioni neolitiche e le tecniche agricole a loro
disposizione (BIAGI e NISBET 1984) vengono comparate con le qualities (caratteri fisicochimici) dei suoli circostanti i siti. E stato cosl evidenziato che le comunità neolitiche
hanno si stematicamente insediato i suoli con le più basse limitazioni di uso per le colture
cerealicole. I siti neolitici si snodano così lungo gli alvei ed i paleoalvei della piana
alluvionale in cui si trovino suoli di medio impasti, friabili, ben drenati ma non troppo
asciutti; al contrario restano deserti i terrazzi del margine appenninico con suoli profondi ed
argillosi e l'alta pianura mantovana che presenta suoli profondi, ghiaiosi, pertanto difficili
da arare, siccitosi e quindi poco adatti alle culture cerealicole.
Una maggiore integrazione fra siti archeologici e territorio sarà possibile quando
questi potranno essere sistematicamente inseriti con proprie unità tassonomiche nella
cartografia pedologica e/o fisiografica. Un importante passo in questo senso è stato
recentemente compiuto dalla FAO (1988) che nella revised legend della Soil Map of the
world ha introdotto il gruppo degli “ Anthrosols ”, che vengono definiti come suoli in cui
l'attività dell'uomo ha portato ad una profonda modificazione delle caratteristiche originarie
del suolo mediante l'asporto o il rimaneggiamento degli orizzonti superficiali, tagli e
riempimenti, aggiunta secolare di materiali organici, irrigazione persistente; tale gruppo
potrebbe ospitare sottoclassi adatte a contenere i depositi archeologici di superficie. Non
sembri una esercitazione accademica il tentativo di classificare i depositi archeologici come
unità pedologiche cartografabili che risponderebbe ad un duplice scopo:
—L'integrazione delle aree archeologiche nella cartografia geomorfologica
fisiografica e pedologica consentirebbe una più facile lettura delle interrelazioni fra sito
archeologico e territorio;
—vista la forte concentrazione dei siti archeologici, specie in paesi come il nostro, sui
suoli maggiormente appetiti per la coltivazione e l'edificabilità, il loro inserimento in carte
destinate ad essere strumenti della pianificazione territoriale contribuirebbe sensibilmente
alla loro tutela e conservazione.
Geoarcheologia e provenienza dei materiali litoidi
Un'ulteriore possibilità di connettere i siti archeologici al territorio che li circonda può
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essere data dalla provenienza dei materiali lapidei racchiusi nella stratificazione
archeologica. Essa infatti può evidenziare il grado di mobilità della comunità che vi è
vissuta, nonché le principali direttrici di traffico. Con materiali lapidei intendo
principalmente le rocce utilizzate per allestire attrezzi e strumento di lavoro. Il discorso si
potrebbe egualmente estendere agli impasti ceramici (cfr. ad esempio MANNONI 1968) ed
alle pietre di pregio utilizzate in edilizia in età romana, argomenti che non verranno qui
trattati. La provenienza dei materiali lapidei è facilmente determinabile ricorrendo alle
tecniche della petrografia delle rocce sedimentarie, metamorfiche, vulcaniche e
magmatiche. Queste vanno dal semplice riconoscimento visivo, allo studio in sezione
sottile, mediante il microscopio petrografico. Talora, dove i caratteri petrografici non siano
sufficienti per diagnosticare la provenienza dei materiali, si usano tecniche più sofisticate,
ad esempio, lo studio di sezioni lucide mediante microsonda e analisi geoachimica degli
elementi in tracce (RAPP e GIFFORD 1985).
Un esempio significativo di questo tipo di ricerca è dato dalle variazioni
nell'approvigionamento del materiale litoide per l'area appenninico padana tra il Mesolitico
e l'età del Bronzo medio (CREMASCHI 1978; BIAGI et alii 1980). Molti siti mesolitici
delle culture sauvterriane e tardenoisiane sono stati individuati sul crinale tosco emiliano,
gran parte del materiale archeologico in essi rinvenuto è costituito da manufatti in selce,
malgrado i siti si trovino in una area particolarmente povera di questa roccia. Lo studio dei
caratteri litologici del materiale ha permesso di accertare che la selce qui utilizzata ha una
provenienza mista: essa è stata estratta sia dalle rocce selcifere affioranti sul versante
toscano dell'Appennino, sia da arenarie mioceniche affioranti nella zona del crinale, ma
soprattutto è stata ricavata da ciottoli delle formazioni pleistoceniche del margine
appenninico. Il fatto di trovare nei siti di crinale (CREMASCHI et alii 1984) una
associazione di litotipi provenienti da un raggio così ampio convince ad ipotizzare per le
comunità mesolitiche uno spostamento stagionale fra le zone nella pianura padana o i
campi base della val di Serchio e le aree di crinale deputate, probabilmente, a luoghi di
caccia nel semestre estivo (Fig. 10). Durante il periodo Neolitico (Cremaschi in
CAzzELLA et alii 1981), la polarità dell'approvvigionamento delle selci cambia
completamente poiché i siti di questo periodo si approvvigionano quasi esclusivamente di
selce proveniente dai Monti Lessini. Tale via di rifornimento si interrompe all'inizio del
secondo millennio, con il diffondersi della cultura del Vaso campaniforme (BARFIELD et
alii 1975).
Durante l'età del Bronzo medio al contrario i contatti con le aree gardesane, circa
ottanta chilometri a nord della pianura emiliana, vengono ripristinati: nelle terramare le
pietre da macina sono costituite per la maggior parte da ciottoli di provenienza appenninica,
ma alcune sono costituite di porfido, proveniente dalle morene del lago di Garda in quella
fase intensivamente occupate dagli abitati palafitticoli; la determinazione della provenienza
delle pietre da macina conferma quindi un intenso rapporto fra le terramare e gli abitati
palafitticoli per altro indiziato da numerosi altri elementi di carattere culturale
(CREMASCHI, inedito) tra i quali gli elementi di falcetto ed i raschiatoi quadrangolari di
selce estratta nei monti Lessini.
Conclusioni
Obiettivo della geoarcheologia è la ricostruzione dei processi di formazione dei siti
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archeologici e l'individuazione del loro rapporto con le variazioni paleoambientali del
territorio circostante. Gli strumenti di cui si avvale sono mutuati dalle scienze della terra
(sedimentologia, pedologia, geomorfologia, in particolare) con adattamenti allo specifico
della realtà indagata. Stretti rapporti intercorrono tra geoarcheologia e geologia del
Quaternario poiché entrambe le discipline hanno per scopo lo studio delle variazioni
ambientali avvenute sul nostro pianeta nel corso dell'ultimo milione di anni.
Sul piano tecnico la geoarcheologia si esplica a più livelli che comprendono l'analisi
dell'evidenza archeologica di campo, l'applicazione di tecniche di laboratorio, l'integrazione
areale dei dati archeologici con-i dati territoriali mediante il rilevamento pedologico e
geomorfologico. I limiti di applicabilità delle tecniche per la ricostruzione degli eventi del
passato risiedono specialmente nella frammentarietà con cui la documentazione
stratigrafica ci è pervenuta. Il fatto che già per condizioni naturali si disponga di una
documentazione impoverita, caldamente raccomanda che il suo degrado non prosegua per
'cause antropiche'. Per lo sviluppo stesso della ricerca archeologica e paleoambientale in
genere, appaiono prioritarie la tutela e la attenta gestione dei siti archeologici, cui la
geoarcheologia può contribuire con l'integrazione della cartografia archeologica con quella
pedologica e fisiografica.
MAURO CREMASCHI (*)
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