CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 3 ottobre 2016, n. 214

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CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 3 ottobre 2016, n. 214
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NOTA A CORTE COSTITUZIONALE,
SENTENZA 3 OTTOBRE 2016 - n. 214
A cura di PIETRO ALGIERI
Il tramonto della vice dirigenza
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il caso di specie. – 3. L’ordinanza di rimessione alla Consulta. –
4. La declaratoria di incostituzionalità.
1. Premessa
Con la sentenza n. 124, depositata il 3 ottobre 2016, la Corte Costituzionale si è pronunciata sulla
questione di legittimità costituzionale, sollevata da un’ordinanza di rimessione del Consiglio di
Stato, dell’art. 17 – bis1, D.lgs. 165/01 recante “Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle
dipendenze delle amministrazioni pubbliche”, così come è stato modificato dall’art. 7, comma 3,
legge 5 luglio 2002, n. 145 concernente “Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per
favorire lo scambio di esperienze e l'interazione tra pubblico e privato", disposizione soppressa
dall’art 5, comma 132 del d.l. n. 95 del 2012, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto
2012, n. 135 inerente “Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei
servizi dei cittadini, nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore
bancario, norma, quest’ultima, che il giudice remittente ha ritenuto, per più profili, affetta da
incostituzionalità.
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L’art. 17 – bis1, rubricato “Vice – dirigenza” del D.lgs. 165/01 recante “Norme generali sull'ordinamento del lavoro
alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”, nella nuova formulazione derivante dall’art. 7, comma 3, legge 5
luglio 2002, n. 145 concernente “Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di
esperienze e l'interazione tra pubblico e privato", recitava che: “1. La contrattazione collettiva del comparto Ministeri
disciplina l'istituzione di un'apposita separata area della vicedirigenza nella quale è ricompreso il personale laureato
appartenente alle posizioni C2 e C3, che abbia maturato complessivamente cinque anni di anzianità in dette posizioni o
nelle corrispondenti qualifiche VIII e IX del precedente ordinamento. In sede di prima applicazione la disposizione di
cui al presente comma si estende al personale non laureato che, in possesso degli altri requisiti richiesti, sia risultato
vincitore di procedure concorsuali per l'accesso alla ex carriera direttiva anche speciale. I dirigenti possono delegare
ai vice dirigenti parte delle competenze di cui all'articolo 17. 2. La disposizione di cui al comma 1 si applica, ove
compatibile, al personale dipendente dalle altre amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, appartenente a
posizioni equivalenti alle posizioni C2 e C3 del comparto Ministeri; l’equivalenza delle posizioni è definita con decreto
del Ministro per la funzione pubblica, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze. Restano salve le
competenze delle regioni e degli enti locali secondo quanto stabilito dall’articolo 27."
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L’art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 2012, n. 135 inerente
“Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi dei cittadini, nonché misure di
rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario”, recita testualmente che: “L’ articolo 17 – bis del
decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 è abrogato”.
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Con la riforma della dirigenza pubblica attuata con la legge n. 145 cit., viene introdotta l’area
separata della vice - dirigenza che modifica sostanzialmente la struttura del pubblico impiego,
caratterizzata sulla contrapposizione tra dirigenti e degli altri dipendenti affidati ad un sistema
uniforme di contrattazione collettiva. L’introduzione del termine “separata” per l'area della vice dirigenza rappresenta la volontà del legislatore di non ricomprendere questa categoria nel contratto
di comparto, bensì in una contrattazione specifica, in quanto il personale direttivo espleta compiti
più vicini a quelli del dirigente piuttosto che a quelli degli impiegati.
Nelle intenzioni del legislatore, quindi, questa nuova figura operativa, non costituisce un’area
funzionale interna al contratto del personale pubblico, bensì un'area contrattuale a sé stante,
completamente autonoma oppure inserita, a budget separato, nell'area della dirigenza3.
Tuttavia, è stato sin da subito osservato che la creazione di questa nuova categoria professionale per
divenire effettivo centro di imputazione di interessi professionali e, inoltre, per trovare un reale
seguito deve necessariamente misurarsi con la contrattazione collettiva che nel settore del pubblico
impiego riveste un ruolo normativo primario.
Infatti, il Testo Unico sul Pubblico Impiego, non disconosce la creazione di un’area a
professionalità medio – alte prevedendo, all’uopo, un autonomo spazio contrattuale seppure
nell’ambito della contrattazione collettiva e la costituzione di specifici collegi elettorali4.
In siffatto contesto normativo, la legge 15 luglio 2002 (riordino della dirigenza) attuarsi equipara
le categorie professionali corrispondenti a C-2 e C-3. Il nodo maggiore è dato dagli enti locali. In
quest’ambito il tema delle categorie professionali medio – alte riveste un ruolo strategico in quanto
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Il sistema del pubblico impiego caratterizzato dalla “summa divisio” tra dirigenti e dipendenti, affidati ad un sistema
uniforme di contrattazione collettiva, caratterizzato dall’immutabilità – cristallizzazione – dei soggetti agenti, ha dato il
via ad una serie di azioni giudiziali che lungi dal delineare un quadro esegetico uniforme. In tale contesto asta leggere la
sentenza n. 4399 del 7 marzo 2008 del Tribunale di Roma, nella quale veniva riconosciuto a 82 funzionari del Ministero
dei beni culturali e ambientali la qualifica di vice dirigente. Nel medesimo solco si pone la sentenza 17 luglio 2009, n.
12847 del Tribunale Capitolino che confermava il proprio orientamento in tema di vicedirigenza nell'impiego pubblico,
attribuendo un valore immediatamente precettivo all'articolo 17-bis del decreto legislativo n. 165 del 2001,
prescindendo dalla disciplina dell'istituto della vicedirigenza in sede di CCNL, e disapplicando l'articolo 8 della legge
15 marzo 2009. E da ultimo la sentenza del Tribunale di Caltanissetta, sezione lavoro del 6 aprile 2011 che torna a
riconoscere, nella volontà del legislatore, la rimessione esclusiva per l’istituzione dell’area della vice dirigenza, alla
contrattazione collettiva, con il compito di definire altresì i criteri ai quali le parti contraenti devono attenersi per
individuare quali dipendenti possano essere inquadrati in detta area.
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Si pensi, a titolo esemplificativo, all’atto di indirizzo per la contrattazione collettiva nazionale del personale non
dirigente del comparto ministeri relativa al quadriennio 2002 – 2005, con l’ampio spazio che la stessa riserva ai quadri
ed ai professionisti interni alle amministrazioni ed in particolare all’attuazione dell’articolo 40 DLGS 165/2001.
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non sempre le funzioni dirigenziali corrispondono con l’appartenenza del soggetto lavoratore alla
categoria dirigenziale.
2. Il caso di specie
In punto di fatto, le fasi salienti della vicenda attengono all’investitura del Consiglio di Stato di un
ricorso proposto da numerosi funzionari dipendenti dell’amministrazione della giustizia – previa
diffida con la quale “sollecitavano l’emanazione della direttiva contrattuale per l’istituzione
dell’area della vice dirigenza” - contro la Presidenza del Consiglio dei Ministri, Capo “pro
tempore” del Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei
Ministri, Ministero P.A. e innovazione, MEF, per la mancata adozione degli atti di indirizzo di cui
al combinato disposto degli artt. 7, comma 3 e 10 comma 3, della legge 15 luglio 2002, n. 1455.
Avverso l’inerzia delle diffidate Autorità, i ricorrenti proposero ricorso, al TAR Lazio, con il quale
impugnarono il silenzio serbato dall’amministrazione sulla diffida.
Le argomentazioni poste a sostegno delle tesi dei funzionari, vennero accolto dall’Autorità
giurisdizionale amministrativa che ordinò al Presidente del Consiglio dei ministri e ai Ministri per
la funzione pubblica e dell’economia e delle finanze, ciascuno per la parte di rispettiva competenza,
di esercitare le proprie attribuzioni per riscontrare in via definitiva l’istanza di parte ed il
conseguente atto di messa in mora6.
Il monito del Tar capitolino rimase privo di riscontro e, pertanto, gli interessati, depositarono
un’ulteriore istanza per la nomina di un commissario ad acta che provvedesse agli adempimenti
all’uopo necessari in luogo delle amministrazioni inerti.
Dopo una fase interlocutoria, persistendo l’inerzia delle amministrazioni, il TAR Lazio nominò il
commissario ad acta, per dare pieno adempimento alle prescrizioni contenute nella sentenza ormai
passata in giudicato7.
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L’ art. 10, comma 3, della legge n. 145 del 2002, prevedeva che «La disciplina relativa alle disposizioni di cui al
comma 3 dell’articolo 7, che si applicano a decorrere dal periodo contrattuale successivo a quello in corso alla data di
entrata in vigore della presente legge, resta affidata alla contrattazione collettiva, sulla base di atti di indirizzo del
Ministro per la funzione pubblica all’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN)
anche per la parte relativa all’importo massimo delle risorse finanziarie da destinarvi».
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TAR Lazio 10 maggio 2007, n. 4266
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TAR Lazio 16 maggio 2012, n. 4391, con la quale, dopo avere rilevato che, per dare attuazione alla sentenza n. 4266
del 2007, doveva essere esercitato – «con specifico riferimento al personale del Ministero della giustizia, questo
essendo il limite soggettivo del giudicato» – il potere di indirizzo nei confronti dell’ARAN, e che tale potere
apparteneva, come comitato di settore, ai sensi dell’art. 41, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, al Presidente del
Consiglio dei ministri tramite il Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, di concerto con il Ministro
dell’economia e delle finanze, nella sentenza 10 maggio 2007, n. 4266»
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Nelle more, il nominato commissario, a seguito della promulgazione del d.l. n. 95 del 2012, il cui
censurato art. 5, comma 13, faceva presente al TAR capitolino la velleitarietà delle proprie
prestazioni.
Le conclusioni rassegnate dal commissario venivano condivise dal Giudice amministrativo di prima
istanza, il quale, dichiarò cessato l’incarico e l’improcedibilità del giudizio di ottemperanza8.
Quest’ultima sentenza del TAR Lazio fu appellata davanti al Consiglio di Stato, lamentandosi, da
parte degli appellanti funzionari dell’amministrazione della giustizia, l’incostituzionalità dell’art.
5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012.
3. L’ordinanza di rimessione del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato ha sollevato, in riferimento ad una molteplicità di disposizioni costituzionali
(artt. 3, 24, 97, 101, 102, primo comma, 103, primo comma, 111, primo e secondo comma, 113 e
117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950
(CEDU) e all’art. 1 del Protocollo addizionale alla stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 – atti
entrambi ratificati e resi esecutivi con la legge 4 agosto 1955, n. 848 “Ratifica ed esecuzione della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il
4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo
1952”) questione di legittimità costituzionale del citato art. 5, comma 13, del decreto-legge n. 95
cit..
Il Giudice rimettente, parte dall’assunto preliminare che le motivazioni del TAR circa la manifesta
infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale della censurata disposizione normativa
sarebbero non condivisibili, in considerazione del suo effetto elusivo del giudicato.
Tale effetto, troverebbe fondamento in un duplice ordine di ragioni: 1) la scansione temporale –
cronologica della vicenda; 2) le motivazioni insite nell’eccesso di potere legislativo con il quale è
stata promulgata la norma impugnata.
Sotto il primo profilo, si evince che l’impugnata disposizione soppressiva della vice - dirigenza è
stata emanata a distanza di dieci anni dall’introduzione di tale istituto e di cinque anni dalla
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TAR Lazio, con la citata sentenza n. 9220 del 2012 dichiarò “cessato l’incarico commissariale e improcedibile il
giudizio di ottemperanza per sopravvenuta carenza di interesse, nonché la manifesta infondatezza delle questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, sollevate dai ricorrenti, con la motivazione che
«la Corte ha giudicato incostituzionali […] le norme che travolgano provvedimenti giurisdizionali definitivi ed
incidano sui regolamenti dei rapporti in essi consacrati (cfr. Corte costituzionale 7 novembre 2007, n. 364): ma […] la
sentenza 4266/07 […] aveva soltanto stabilito l’obbligo di avviare la procedura per l’introduzione della vicedirigenza,
che era però ben lungi dall’essere stata concretamente introdotta, e tanto meno attribuita ai ricorrenti quando è
intervenuta la norma che ha abrogato tale qualifica; sicché tra questa e quella non si può ravvisare un effettivo
conflitto”.
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formazione del giudicato, nonché solo dopo la notificazione della sentenza del TAR del Lazio,
confermando, quindi, la stretta correlazione tra l’abrogazione dell’istituto della vice dirigenza e la
nomina del commissario.
L’eccesso di “potestas” legislativa, invece, dimostra, in realtà, che l’effettiva volontà del
legislatore non era quella di regolamentare la materia, ma di incidere negativamente sul
procedimento giurisdizionale di ottemperanza in corso.
Chiarito ciò, la criticità costituzionale della norma impugnata si evincerebbe in relazione agli artt.
3, 111 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, comma 1, della CEDU e all’art. 1 del
Protocollo addizionale alla stessa, sia sotto il profilo della violazione del principio di effettività
della tutela giurisdizionale, sia sul crinale sostanziale, relativamente alla natura di “legge –
provvedimento” della norma impugnata.
La disposizione si porrebbe in contrasto con la normativa comunitaria e, in particolare, con l’art. 6
della CEDU per aver vulnerato il diritto dei ricorrenti ad un processo equo, ispirato alla parità tra
le parti e alla preminenza del diritto e con l’art. 1 del Protocollo aggiuntivo, in quanto, la
disposizione impugnata avrebbe violato la “legittima speranza” – compresa nell’alveo della
nozione di “beni attuali” di cui all’art. 1 suddetto - di vedersi riconosciuta la propria qualifica, in
considerazione dell’effetto implicito prodotto dalla norma impugnata: l’eliminazione retroattiva
degli effetti del giudicato con conseguente privazione dei poteri assegnati al commissario per
attuare i precetti contenuti nel “dictum” giurisdizionale.
Secondo la tesi adombrata nell’ordinanza di rimessione, la finalità del legislatore era quella di
incidere su un numero quantitativamente limitato e determinato di persone, ponendosi in contrasto
con il principio scolpito nell’art. 3 Cost..
Per quel che concerne, invece, l’inquadramento dogmatico della censurata norma, il Consiglio di
Stato afferma che essa costituisce tipico caso di legge - provvedimento avendo “introdotto una
specifica previsione a contenuto particolare e concreto” i cui effetti erano irrimediabilmente diretti
ad interferire in termini ostativi sull’esecuzione del giudicato formatosi sulla sentenza n. 4266/07,
incidendo, peraltro, sui principi di imparzialità e di buon andamento dell’amministrazione, nonché
del legittimo affidamento del cittadino, di cui agli artt. 3 e 97 Cost..
A sostegno di ciò, il giudice rimettente, richiama un precedente orientamento della Corte
Costituzionale, ove viene affermata l’ammissibilità di tali leggi entro limiti sia determinati e
inderogabili, tra cui, carattere di priorità logica viene attribuita al rispetto della funzione
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giurisdizionale in ordine alle cause in corso, sia generali, e cioè del principio della ragionevolezza
e non arbitrarietà9..
Dal canto loro, i funzionari dell’amministrazione della giustizia, si costituivano nel giudizio di
costituzionalità, evidenziando, anzitutto che la decisione della Corte costituzionale inciderebbe
sull’esito del giudizio principale in quanto, in ipotesi di dichiarazione dell’incostituzionalità non
potrebbe frapporsi alcuna preclusione all’esecuzione del giudicato formatosi sulle sentenze n.
4266/2007 e n. 4391/2012 e, pertanto, chiedevano che l’impugnato art. 5, comma 13, sia dichiarato
incostituzionale per violazione degli artt. 3, 24, primo comma, 97, primo comma, 101, primo
comma, 102, primo comma, 103, primo comma, 104, primo comma, 111, primo e secondo comma,
113, primo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU e
all’art. 1 del Protocollo addizionale alla stessa.
Con atto depositato il 14 ottobre 2014, è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni
sollevate siano dichiarate inammissibili o infondate, sussistendo plurime ragioni di inammissibilità
delle medesime “quaestio iuris”.
Nello specifico, eccepisce il P.C.M. : 1) la mancata specificazione, puntuale ed esaustiva delle
profili di illegittimità costituzionale della norma impugnata; 2) l’erronea valutazione circa la
manifesta infondatezza dell’incidente di costituzionalità, in quanto, secondo la difesa dello Stato, la
disposizione impugnata è diretta, attraverso lo strumento dell’interpretazione autentica, non già ad
incidere su concreti procedimenti giudiziari in corso al fine di determinarne gli esiti quanto a
regolamentare, in via generale ed astratta, una materia, con la conseguente soppressione di una
disposizione in materia di ordinamento del personale statale e sacrificio per tutto il settore del
pubblico impiego, considerato che la garanzia di tenuta dei conti pubblici costituisca, nella specie,
un motivo imperativo di interesse generale, ai sensi dell’art. 6 della CEDU, e rientri, altresì, nella
definizione di “interesse finanziario” dello Stato elaborata dalla Corte EDU10 tale da giustificare
la misura dell’impugnato art. 5, comma 13; 3) il difetto di motivazione dell’ordinanza di
rimessione, in particolare, dalla motivazione delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 102,
primo comma, e 103, primo comma, Cost., adducendo che il rimettente si è sic et simpliciter
limitato ad evidenziare quelli che ritiene essere i vizi di costituzionalità della norma da applicare,
esprimendo un positivo convincimento nel senso della fondatezza», senza, tuttavia, essersi
impegnato a dimostrare la ragionevolezza oggettiva di quello che si palesa come un dubbio
meramente soggettivo; 4) infine, l’avvocatura statale eccepisce l’omessa prospettazione di
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In tal senso si veda Corte Cost., Sent. nn. 143 del 1989 e 346, nonché l’ordinanza n. 495 del 1995.
Cfr. Corte EDU. Sent. 25 novembre 2010, Lilly contro Francia, e 21 giugno 2007, Scanner de l’Ouest Lyonnais e altri
contro Francia
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un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, tale da escludere la
necessità di sollevarle.
Sono interventi, inoltre, nel giudizio “de quo” duecentosettantatré dipendenti dello Stato,
inquadrati da oltre cinque anni come funzionari dei Ministeri della giustizia, dell’interno, della
difesa, dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, delle politiche agricole alimentari e
forestali, dello sviluppo economico, dell’economia e delle finanze e «quindi pubblici dipendenti di
Area III (ex qualifica C2 e superiori) destinatari della normativa a suo tempo prevista dall’art.
17/bis del D.lgs. 165/2001, i quali hanno chiesto che, previa declaratoria di ammissibilità del
proprio intervento, le questioni sollevate siano dichiarate fondate, nonché la Dirpubblica
(Federazione del pubblico impiego) chiedendo che le questioni siano dichiarate fondate.
Interventi che sono stati dichiarati inammissibili dalla Corte Costituzionale.
4. La declaratoria di incostituzionalità
La Consulta, nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma
13, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 s.m.i. ha prospettato un’interpretazione sistematica e
costituzionalmente orientata di detta norma con le disposizioni, comunitarie e interne, addotte a
sostengo dell’ordinanza di rimessione.
Una volta dichiarate infondate le questioni di inammissibilità sollevate dalla difesa statale, il
Giudice delle leggi esterna il proprio ragionamento esegetico conformemente all’ordine delle
questioni e delle norme asseritamente violate dalla disposizione normativa oggetto del sindacato di
costituzionalità.
Ebbene, il primo gruppo di questioni da esaminare attiene all’efficacia retroattiva della
disposizione censurata in rapporto alla violazione del diritto ad un giusto processo e al rispetto dei
propri beni garantito dall’art. 6 della CEDU – invocato a integrazione del parametro dell’art. 117,
primo comma, Cost. – influenzando, quindi, l’esito del giudizio di ottemperanza proposto per
conseguirne l’attuazione.
Tale questione, previo accertamento positivo dell’applicazione dell’art. 6 CEDU alla fattispecie, è
stata ritenuta non fondata dalla Consulta, in virtù di un bilanciamento tra la portata del giudicato
amministrativo della sentenza n. 4266 del 2007 e il contenuto precettivo dell’art. 5, comma 13, del
d.l. n. 95 del 2012 e, in particolar modo, della sua efficacia retroattiva.
Sul punto, la Corte Costituzionale si pone sul medesimo solco del principio giurisprudenziale – di
matrice comunitaria – che analizza sistematicamente il contesto del confeziono amministrativo –
alla luce delle sue peculiarità - atteso che, con l’azione di annullamento, il ricorrente mira a
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ottenere non solo l’eliminazione dell’atto o dell’omissione impugnati ma anche, e soprattutto, la
rimozione dei loro effetti, sussistono circostanze che possono giustificare la mancata esecuzione
“in natura” degli obblighi imposti da un giudicato, a condizione che lo Stato convenuto abbia
informato il ricorrente, a mezzo di un provvedimento giudiziario o amministrativo, delle vicende di
fatto o degli ostacoli giuridici che l’hanno resa impossibile11.
Nel caso di specie, la sentenza ha sì riconosciuto la fondatezza della pretesa azionata dai ricorrenti
e abbia intimato alle Amministrazioni Statali resistenti di porre in essere i provvedimenti all’uopo
necessari, ma lungi dal riconoscere “ope legis”, la qualifica di vice dirigenti ai funzionari
ricorrenti, limitandosi ad affermare che essi avevano un interesse giuridicamente tutelato a che
fosse adottato l’atto di indirizzo all’ARAN di cui all’art. 10, comma 3, della legge n. 145 del 2002,
cioè il provvedimento amministrativo che doveva precedere la fase della contrattazione collettiva
alla quale l’art. 17-bis del d.lgs. n. 165 del 2001 demandava l’istituzione dell’area della
vicedirigenza.
In considerazione di tale “decisum”, la Corte esclude la sussistenza di una sovrapposizione e di un
conflitto, tra l’accertamento sostanziale, contenuto nel giudicato e l’abrogazione, a opera
dell’impugnato art. 5, comma 13, della disposizione istitutiva dell’area della vicedirigenza, posto
che il vincolo originato dall’anzidetta “regola giudiziale” concerneva specificamente ed
esclusivamente l’indicato tratto iniziale della complessiva procedura prevista ai fini dell’istituzione
della detta area e lasciava, perciò, del tutto libero lo spazio a un successivo intervento legislativo
abrogativo della disposizione istitutiva della medesima.
L’assenza di un’effettiva sovrapposizione al giudicato della sentenza n. 4266 del 2007 esclude
altresì che, contrariamente a quanto ritenuto dal rimettente e dai funzionari intervenienti,
l’impugnato art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, abbia efficacia retroattiva, avendo, invece, il
suo effetto abrogativo, efficacia solo ex nunc.
Con riguardo a tale specifico profilo della censura, premesso che sia il rimettente che i funzionari
costituti hanno invocato il costante orientamento della Corte EDU il quale sancisce la legittimità
del potere legislativo di emanare leggi aventi efficacia retroattiva, salvo il rispetto dei principi
generali ed inderogabili che governano l’ordinamento democratico, primo fra tutti il principio di
effettività della tutela giurisdizionale di cui al combinato disposto degli artt. 24, 103 e 113 Cost., il
principio della parità fra le parti ex art. 111 Cost., la Consulta, escludendo l’efficacia “ex tunc”
della norma censurata sulla base delle motivazioni esposte al punto 4.1.3., rendendo, quindi,
inconferente al giurisprudenza richiamata, chiarisce che la “ratio” dell’art. 5, comma 13, del d.l. n.
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Cfr. Corte EDU, Sez. II, Sent. 9 giugno 2009, Nicola Silvestri contro Italia; Sez. III, Sent. 12 luglio 2007, SC
Ruxandra Trading s.r.l. contro Romania; Sez. III Sent. 26 maggio 2005, Costin contro Romania
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95 del 2012, si rinveniva nelle esigenze di bilancio e riduzione della spesa pubblica, come si evince
“sic et simpliciter” dalla rubrica della disposizione medesima “Riduzione di spese delle pubbliche
amministrazioni” e dall’intento di garantire il contenimento e la stabilizzazione della finanza
pubblica, anche attraverso misure volte a garantire la razionalizzazione, l’efficienza e
l’economicità dell’organizzazione degli enti e degli apparati pubblici.
Le considerazioni sopra esposte, sono state richiamate dalla Corte al punto 4.3. della motivazione,
la dove viene esclusa la violazione del diritto di difesa dei ricorrenti, alterando la regolazione di
interessi stabilita da sentenze esecutive, o il principio di effettività della tutela giurisdizionale in
relazione alle norme comunitarie citate.
La seconda questione del gruppo di censure attinenti la disposizioni unionali, attiene la violazione
dell’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU – che protegge la proprietà, riconoscendo a
ciascuno il diritto al rispetto dei propri beni.
Anche tale questione di legittimità viene ritenuta non fondata dalla Consulta, all’esito di un esame
– negativo - circa la sussistenza di un bene (id est: posizione giuridica soggettiva meritevole di
tutela) ai sensi del parametro di costituzionalità lamentato dal rimettente, in capo ai ricorrenti, in
considerazione dell’esatta perimetrazione nozionistica del concetto di “bene”.
Ed invero, tale inciso, secondo il costante orientamento giurisprudenziale comprende sia beni
attuali sia valori patrimoniali in virtù dei quali il ricorrente può pretendere di avere almeno una
aspettativa legittima, ma non può, all’opposto, essere considerata un bene la mera speranza di
vedersi riconosciuto un diritto di proprietà che si è nell’impossibilità di esercitare.
L’inquadramento dogmatico delle posizione giuridiche soggettive dei ricorrenti persuade la Corte
relativamente alla mancata attribuzione a costoro di un bene suscettibile di essere protetto dall’art.
1 del Protocollo addizionale alla CEDU, atteso che, come già chiarito, la sentenza del TAR
capitolino non aveva riconosciuto né un’utilità patrimoniale ai ricorrenti, in caso di adozione degli
atti di indirizzo da parte dell’ARAN, né un’aspettativa legittima, economicamente rilevante, a
ottenere il godimento effettivo di un diritto di proprietà, in particolare un’aspettativa legittima a
ottenere la qualifica di vicedirigente e il conseguente maggiore trattamento economico.
Con riferimento alle norme violate afferenti il nostro ordinamento giuridico, il giudice rimettente
prospetta un inquadramento dogmatico della disposizione impugnata alla stregua di una leggeprovvedimento finalizzata ad impedire l’attuazione del giudicato della sentenza del TAR Lazio n.
4266 del 2007 e, pertanto, evidenzia la contrarietà agli artt. 3, 24, 97, 101 e 113 Cost..
Le leggi - provvedimento, secondo la giurisprudenza della Consulta si caratterizzano per il loro
contenuto particolare e concreto, produttivo di effetti direttamente nei confronti dei destinatari quantitativamente limitati - individuati ”ex ante” del provvedimento legislativo.
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Facendo applicazione di tali parametri ermeneutici, la Corte ha disconosciuto la qualificazione
della norma censurata, sia sotto il profilo soggettivo che oggettivo.
Difatti, sotto il primo versante, i destinatari della norma non erano determinati aprioristicamente e,
soprattutto, la disposizione impugnata esplicava la propria efficacia nei confronti di un numero
indeterminato di soggetti, in quanto rivolta al personale di tutto il comparto Ministeri, nonché delle
altre amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001 in possesso dei requisiti
previsti per l’accesso all’area della vicedirigenza.
Sul piano oggettivo, interpretando formalmente il precetto scolpito nella norma censurata, la Corte
statuisce che essa detta una regola, avente carattere astratto, secondo cui la vicedirigenza non è
(più) prevista nell’organizzazione del lavoro pubblico.
L’esatto inquadramento dogmatico della disposizione impugnata, fa sì che il vaglio di
costituzionalità di tutte le censure in esame, essendo esse basate sull’opposto erroneo assunto della
natura provvedimentale dell’art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012. 5.2, sarebbe superfluo ed
ultroneo.
Sono, infine, infondate anche le questioni sollevate in riferimento agli artt. 102, primo comma, e
103, primo comma, Cost., secondo le quali la disposizione censurata, vanificando gli effetti di una
pronuncia giurisdizionale divenuta intangibile, ha invaso l’area riservata alla funzione
giurisdizionale, vulnerando il principio della divisione dei poteri giurisdizionali e normativi. Da
quanto sin qui detto emerge chiaramente che l’impugnato art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012,
dettando la regola – che non incide direttamente sul giudicato della sentenza del TAR Lazio n. 4266
del 2007 – secondo cui la vicedirigenza non è (più) prevista nell’organizzazione del lavoro
pubblico, ha operato sul solo piano delle fonti generali e astratte, costruendo il modello normativo
cui la decisione del giudice deve, senza quindi vulnerare le attribuzioni riservate alla funzione
giurisdizionale dagli invocati artt. 102, primo comma, e 103, primo comma, Cost..
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