Mafie in Puglia
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Mafie in Puglia
1 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie 31 Mafie in Puglia Anniversari 21 4 Fotoinchiesta Caporalato in Puglia Giornalismo in Grecia 48 2 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie 4 | settembre/ottobre 2015 Il giornale è dedicato a Giancarlo Siani simbolo dei giornalisti uccisi dalle mafie Direzione Luigi Ciotti (direttore responsabile) Giuseppe Baldessarro (direttore editoriale) Redazione Stefania Bizzarri, Marika Demaria, Piero Ferrante, Marta Pellegrini Comitato scientifico Enzo Ciconte, Mirta Da Pra, Nando dalla Chiesa, Alessandra Dino, Lorenzo Frigerio, Leopoldo Grosso, Monica Massari, Stefania Pellegrini Rubriche a cura di: Corrado De Rosa, Leonardo Ferrante Massimiliano Ferraro, Andrea Giordano, Giulia Panepinto, Livio Pepino, Marcello Ravveduto Hanno collaborato a questo numero: Mara Chiarelli, Donatella D’Acapito, Giovanni dello Iacovo, Riccardo Christian Falcone, Fabrizio Feo, Rosella Fierro, Lorenzo Frigerio, Jole Garuti, Dario Montana, Leo Palmisano, Antonio Rossetti Progetto grafico Avenida grafica e pubblicità (Mo) Impaginazione WeLaika - advertising In copertina Illustrazione di Umberto Romaniello Fotolito e stampa La Grafica Nuova 011.60.67.147 [email protected] (Torino) Direzione, Redazione corso Trapani 91, 10141 Torino, tel. 011/3841082 fax 011/3841047, [email protected], www.narcomafie.it Registrazione al Tribunale di Torino il 18.12.1992 n. 4544 Abbonamenti Spedizione in abbonamento postale 30 euro (estero 49), 50 euro abbonamento sostenitore Bollettino postale: ccp n. 155101 intestato a Gruppo Abele periodici, Corso Trapani 95, 10141 Torino Bonifico bancario: Banca Popolare Etica - Padova IBAN: IT21S0501801000000000001803 intestato ad Associazione Gruppo Abele Onlus Online: con carta di credito (Visa-Mastercard-American Express-Aura-Postepay), tramite il servizio Paypal Ufficio Abbonamenti tel. 011/3841046 - fax 011/3841047 [email protected] Reclamo arretrati Chi non ha ricevuto un numero della rivista ha 30 giorni di tempo dal ricevimento del numero successivo per richiederlo gratuitamente, oltre dovrà acquistarlo a prezzo di copertina Informazione per gli abbonati: i dati personali sono trattati elettronicamente e utilizzati esclusivamente dall’Associazione Gruppo Abele Onlus per l’invio di informazioni sulle proprie iniziative. 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È una foto che – non certo per volontà del piccolo Aylan e della sua famiglia – entrerà nella storia. Come quella, per restare nel dopoguerra, della piccola vietnamita Kim Phuc, in fuga, nuda, dal napalm. La foto – inutile illudersi – non cambierà i comportamenti dei “grandi della terra”. Ma già ora ha contribuito a svegliare coscienze, a suscitare pratiche di accoglienza e solidarietà, a moltiplicare reazioni. Da mesi il messaggio, ossessivamente ripetuto da media e da politici di ogni colore, in Italia e in Europa, è che bisogna finirla con il buonismo e prendere atto che per rifugiati e migranti in genere non c’è posto “a casa nostra”. Di qui il rincorrersi, in un crescendo senza fine, di proposte definite risolutive: rinchiuderli in campi aldilà del Mediterraneo, ricacciarli nei Paesi da dove vengono, bombardare i barconi che attraversano il mare, costruire muri e potenziare reticolati di filo spinato sulla terraferma. E, a fianco, un distillato di odio e xenofobia che sembra mettere nell’angolo e inferiorizzare chi invita alla ragione e all’accoglienza. Così i giornali, i talk show televisivi e i social sono invasi da volgarità razziste e la scena è dominata da invettive provocatorie come quelle del segretario leghista che intima a vescovi, alte cariche dello Stato e buonisti in genere di «prendersi i clandestini a casa loro» quasi che la solidarietà potesse (e dovesse) sostituire la politica più di quanto già non accade. Contro questa deriva poco hanno potuto, fino ad oggi, i princìpi: l’uguaglianza, la solidarietà, la dignità delle persone. Nonostante il messaggio cristiano richiamato con forza dal Papa venuto da lontano. Nonostante la miglior cultura dell’occidente, transitata dall’illuminismo al socialismo. Nonostante la nostra Costituzione del 1948, il cui articolo 10 attribuisce “il diritto d’asilo nel territorio della Repubblica” allo “straniero al quale sia impe- di Livio Pepino dito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche”. Nonostante la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il cui articolo 11 prevede che “ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni”. E poco hanno potuto le dure lezioni della storia che mostrano l’immancabile sbocco della xenofobia, soprattutto nei momenti di crisi economica e di disgregazione sociale, in persecuzioni e pulizie etniche praticate da “camicie” di diverso colore. Con aggressioni di gruppo, linciaggi, cacce all’uomo, pogrom nei confronti dei diversi. Con, alla base, la costruzione del «capro espiatorio» che fa apparire naturali e spontanei anche l’annientamento e la distruzione fisica. E ciò ancorché, a ben guardare, la pratica del rifiuto, lungi dal fondarsi su dati e fatti, poggi su luoghi comuni, chiacchiere, falsi (come l’incombente invasione di milioni di islamisti sanguinari e l’esistenza di spese spropositate per l’accoglienza) che acquistano dignità di argomenti solo grazie a ripetizioni ossessive e a mancate confutazioni. Oggi la foto di un bambino indifeso, ucciso dall’intolleranza e dal rifiuto, ha scosso le coscienze di molti (insieme a molte immagini analoghe e, da ultimo, a quelle di uomini che, come settant’anni fa, marchiano altre donne e altri uomini con numeri impressi indelebilmente sulle braccia). Di qui il crescere di manifestazioni di solidarietà e di ribellione a una “legalità” che uccide, respinge, costruisce muri (come è accaduto da ultimo in Ungheria). E, ancora una volta, il protagonismo delle donne e degli uomini ha cambiato gli scenari e spiazzato la politica, spingendo Germania e Austria a dichiarare una disponibilità generalizzata all’accoglienza dei profughi siriani. È un fatto importante, positivo e, fino a ieri, imprevedibile. Ma guai ai trionfalismi e alla retorica a buon mercato. All’indomani dell’apertura dei confini tedeschi e austriaci sono fioccate le dissociazioni. I più (anche in Italia) hanno scelto il silenzio. E molti si sono dissociati: l’Ungheria, i Paesi dell’Est, ma anche, di fatto, l’Inghilterra e la Spagna. E sono cominciati i distinguo: sulla nazionalità e la religione dei profughi da accogliere, sulla non assimilabilità ai profughi dei migranti tout court (come se fuggire dalla fame fosse diverso dal fuggire dalle guerre), sulla necessità, comunque, di rispettare il trattato di Dublino (che demanda l’accoglienza, in via esclusiva, ai Paesi di confine). Nonostante tutto, peraltro, una falla si è aperta nel fronte del rifiuto e della xenofobia. Ed è una falla che può ingrandirsi. Ma solo se la mobilitazione, la solidarietà, la protesta di oggi si moltiplicheranno e si tradurranno in iniziativa politica capace di incalzare forze politiche e governi. 4 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie Uomini senza caporali Zakaria Ben Hassine, Paola Clemente e Abdullah Mohamed. Le vittime non sono mai vittime per caso. Su di loro, sulla loro quotidianità, sulle loro vite sofferte, sui loro sudori, sulle loro mani callose, tra luglio e agosto, si è abbattuta la mannaia del sistema del caporalato. I loro nomi, appena tre macchie nel grande rumore del turismo balneare e ballerino di Puglia, che hanno distratto i bagnanti il tempo della scorsa di un giornale. Le loro storie, che vengono da lontano e che non raccontano nulla di nuovo se non quello che da secoli è la condizione del bracciantato in Puglia, sono storie private del lieto fine, fagocitate dalla protervia di un sistema antico che rimuove ogni diritto, a tutto vantaggio del guadagno. Le notti in viaggio sui furgoni o sui pulmini, dieci ore di massacrante lavoro nei campi o sotto i tendoni dell’acinellatura dell’uva per miserie di paghe che non possono neppure chiamarsi salari. Ogni ingiustizia, si alimenta di silenzio. Lo sfruttamento del lavoro non fa eccezione. Bisogna parlarne, e nella maniera giusta. Per rompere il muro che lo nasconde. di Piero Ferrante altarisoluzione 5 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie 6 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie 7 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie Un caffé che fa… bene A Battipaglia, lo scorso 8 luglio, l’inaugurazione del Caffè 21 marzo, bene confiscato all’imprenditore Antonio Campione, attiguo agli ambienti della camorra della Piana del Sele. Un luogo d’incontro e confronto che costituisce una ricchezza culturale e sociale e dà anche lavoro a due carcerati dell’Icat di Eboli di Riccardo Christian Falcone e Rossella Fierro l’antimafiacivile cosenostre 8 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie La primavera di Battipaglia può partire da questo bene confiscato. E può arrivare anche in piena estate, in questo caso l’8 luglio, quando è stata alzata la serranda del ‘Caffé 21 marzo’ di fronte a moltissima gente . Ad assaporare il primo caffè, anche don Luigi Ciotti. Le parole di Angelo Mammone, referente del presidio di Libera del paesone della Piana del Sele, raccontano una grande voglia di riscatto. Un lavoro prezioso e tutto volontario, che in poco più di un anno ha restituito alla collettività un bar confiscato alla camorra, trasformando un luogo di spartizione di potere e affari, in un altro di incontro socio-culturale. Il bar in questione è un locale di circa 110 metri quadri, in via generale Gonzaga, a pochi passi dalla piazza del Comune e dal corso principale della città. Apparteneva (con altri beni anch’essi oggetto di confisca definitiva) ad Antonio Campione, imprenditore tra i più noti della Piana del Sele. Il locale era chiuso da tempo, a testimoniare l’azione dello Stato contro la malavita, ma anche, purtroppo, la difficoltà ad andare fino in fondo, cogliendo in pieno lo spirito più alto della legge sul riutilizzo sociale. Ci sono voluti i commissari straordinari, inviati a prendere in mano le redini di una città fatta oggetto di un decreto di scioglimento per mafia del consiglio comunale, per andare fino in fondo. Ci sono voluti i ragazzi e le ragazze di cinque associazioni del territorio e lo 9 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie spirito combattivo della direttrice dell’Istituto a Custodia Attenutata per il Trattamento delle Tossicodipendenze di Eboli (struttura che accoglie circa 50 detenuti). C’è voluto l’impegno e l’accompagnamento di Libera. Cosa sia diventato, oggi, lo racconta il suo nome: ‘Caffé 21 marzo’. Il primo giorno di primavera, segno di rinascita, di cambiamento. Il giorno che Libera ha scelto per ricordare tutte le vittime innocenti della violenza criminale e mafiosa. Un progetto complesso e coraggioso quello con il quale l’Ats “P’o bene ro paese”, composta dalle sei realtà che hanno deciso di mettersi insieme per rispondere al bando del Comune (Gruppo Agesci Battipaglia 1, dall’Associazione Back to life, dall’Associazione Mariarosa, dal Cicolo Vento in faccia di Legambiente, dalla Cooperativa Lazzarelle e dall’Icatt di Eboli), è diventata il soggetto gestore del bar di via Gonzaga. Un progetto che affonda le sue radici in un contesto difficile, lacerato dalle divisioni, dove ancora si fa fatica a riconoscere la presenza mafiosa come un tappo allo sviluppo sociale, culturale ed economico di un territorio dalle mille potenzialità. E questo nonostante lo scioglimento del consiglio comunale per infiltrazioni mafiose fosse stata la prova plastica della complessità della situazione. Il consiglio comunale di Battipaglia, già sciolto a causa delle dimissioni rassegnate dalla maggioranza dei consiglieri eletti nelle consultazioni amministrative del 6 e 7 giugno 2009, è stato oggetto di un altro decreto di scioglimento per infiltrazioni malavitose, adottato dal Presidente della Repubblica il 7 aprile 2014, su proposta del ministro dell’Interno Angelino Alfano. Nella sua relazione Alfano parla di un quadro allarmante di “ingerenza della criminalità organizzata che ha compromesso la libera determinazione e l’imparzialità degli organi eletti nonché il buon andamento dell’Amministrazione e il funzionamento dei servizi”. È grazie a questo provvedimento che a Battipaglia arrivano tre commissari: i viceprefetti Gerlando Iorio e Ada Ferrara e il funzionario economico-finanziario Carlo Picone. È Iorio, con alle spalle una pregressa esperienza di collaborazione con Libera nel procedimento di nascita della Cooperativa ‘Le Terre di don Peppe Diana’ all’epoca del suo servizio presso la prefettura di Caserta, a chiedere e ottenere un incontro con i dirigenti regionali di Libera dando di fatto il via alla nuova stagione di rinascita dei beni confiscati del paese. Incontro che si svolge l’11 giugno 2014 e che porta a mappare e visitare alcuni dei beni confiscati già trasferiti o in via di trasferimento al patrimonio dell’Ente. Tra questi, il bar. Un locale in ottimo stato di conservazione e ancora provvisto delle attrezzature necessarie all’esercizio dell’attività. Nasce così il bando pubblico “per la realizzazione di un progetto avente finalità sociali mediante l’affidamento in concessione d’uso a titolo gratuito di un immobile confiscato alla criminalità organizzata da destinare ad attività a servizio delle fasce più giovani della comunità quale luogo di incontro socioculturale e di aggregazione per offrire concrete opportunità occupazionali anche a soggetti lavorativamente svantaggiati”, del 4 novembre 2014. La domanda di partecipazione è presentata unicamente dall’Ats-Associazione temporanea di scopo denominata “P’o ben r’o Paes”. Di qui il cammino che porterà all’8 luglio, anche se già a maggio oltre cinquanta volontari, armati di scope e detersivi, alzano simbolicamente la saracinesca del locale per un’intensa giornata di pulizia. Le mura sono state ridipinte, gli interni adattati al nuovo uso, le attrezzature igienizzate e rimesse in funzione. Oggi il ‘Caffé 21 marzo’ rappresenta una grande opportunità di riscatto e di dignità per tutta la città. Ma non solo. È anche il luogo delle opportunità occupazionali per quattro giovani, due dei quali provenienti dall’esperienza carceraria. Eppure, i mesi precedenti l’inaugurazione sono stati accompagnati da una notevole atten- zione dell’opinione pubblica. Mammone racconta dell’appoggio della Cassa rurale di Battipaglia, che ha concesso un finanziamento a tasso agevolato e che finanzierà le spese per la costituzione della cooperativa sociale, ma anche di un continuo «attacco arrivato soprattutto da ambienti politici» e lanciato «attraverso manifesti, i giornali e i socialnetwork». Ma il lavoro comincia adesso. In calendario non ci sono attività commerciali, ma corsi di fotografia, chitarra e recitazione. Per risvegliare, con un caffè, la partecipazione di una città troppo a lungo addormentata. 11 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie Mafie e informazione Il coraggio della denuncia Aveva compiuto da pochi giorni 26 anni, Giancarlo Siani. Era giovane, allegro, e abusivo. Termine usato come dispregiativo per etichettare chi lavorava nelle redazioni senza un regolare contratto. Siani era di Napoli, ma ogni giorno si recava a Torre Annunziata, per raccontare le cronache di quella che è stata definita la “Fort Apache”. Anzi “Fortapàsc”, come il titolo dell’omonimo film di Marco Risi a lui dedicato. Una pellicola di denuncia, di impegno civile e sociale, che ha fissato nella mente degli spettatori la differenza tra “giornalista-giornalista” e “giornalista-impiegato”, con la memorabile scena sul lungomare. Giancarlo Siani era un “giornalista-giornalista”, così come lo erano Cosimo Cristina, Mauro De Mauro, Giovanni Spampinato, Giuseppe Impastato, Mario Francese, Giuseppe Fava, Giancarlo Siani, Mauro Rostagno, Beppe Alfano. Tutti uccisi dalla criminalità organizzata. Tutti fermati perché svolgevano bene il proprio mestiere, incarnato nelle parole di Giuseppe Fava: “Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo”. A distanza di trent’anni dalla morte di Giancarlo Siani, la redazione di Narcomafie – dedicato proprio al giovane giornalista campano – ha deciso di ricordare chi è stato ucciso in nome della verità e della libertà di informazione. In particolare, abbiamo deciso di ricordare altri due “giornalisti-giornalisti”: Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, la cui morte è ancora avvolta nel mistero. 12 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie Intervista a Luciana Alpi di Donatella D’Acapito Chi ha ucciso mia figlia? Luciana Riccardi, vedova di Giorgio Alpi e madre di Ilaria Alpi, racconta il dolore della sua famiglia, da ventuno anni alla ricerca di verità e giustizia e non di un colpevole a tutti i costi. «Voglio la verità. A questo punto è evidente che un depistaggio c’è stato: c’è un fatto chiaro che lo dimostra. Voglio la verità perché non mi resta più molto tempo… lo sa il buon Dio quanto mi resta». Luciana ci accoglie nella sua casa. Il volto segnato dal tempo e gli occhi verdi, chiarissimi e determinati di chi vuole sapere cosa, chi, le ha portato via la figlia. Ahmed Ali Raghe detto ‘Gelle’, la carta più importante dell’accusa nei tre processi celebrati, ha ritrattato le affermazioni fatte contro il suo connazionale, come era accaduto tredici anni fa anche se nessuno gli aveva dato ascolto. Ora Hashi Omar Hassan, indicato come uno dei responsabili del delitto, processato e condannato con sentenza definitiva, è stato scarcerato; non per la ritrattazione di ‘Gelle’ che, dal punto di vista giudiziario, è come se non esistesse, ma perché ha di fatto finito di scontare la condanna. Anche se d’impatto può apparire strano, la prima ad esserne contenta è Luciana Riccardi Alpi, mamma di Ilaria, convinta da sempre dell’innocenza del somalo. «Chiedo giustizia in senso com- pleto. Non voglio un colpevole come lo è stato Hashi Omar Hassan, che per noi è sempre stato innocente poiché avevamo capito che si trattava di un capro espiatorio per tenerci tranquilli. Gli esecutori materiali sono sicuramente persone che ucciderebbero chiunque per pochi spiccioli. Io voglio conoscere il nome dei mandanti, che sono ancora qui, di chi in tutto questo tempo ci ha ricoperto di bugie e depistaggi. Se fossero persone di poco conto i nomi sarebbero già usciti. Voglio sapere chi sono. Voglio poterli guardare in faccia. Ho ricevuto – prosegue – la telefonata di Hashi che mi diceva d’essere contento, ovviamente, della scarcerazione. Quando parla con me lo fa chiamandomi sempre mamma». Luciana si lascia andare, racconta quel dettaglio con una leggera smorfia fra il disilluso e il tenero, ché quella parola da troppi anni non la sente più pronunciata da chi vorrebbe. Poi aggiunge: «Adesso spetterà agli avvocati di Hassan chiedere un processo di revisione, perché noi vogliamo sapere chi ha organizzato i due depistaggi: uno, quello di mettere in carcere Hashi da innocente; il secondo, quello che ha dichiarato Gelle, e cioè che Ilaria e Miran sono stati assassinati per una rapina andata a male. Quest’ultima è una versione che, alla luce di indizi e prove esistenti, è impossibile accettare». Parla quasi sempre al plurale, Luciana, come per abbracciare ancora la sua Ilaria e il suo Giorgio. Loro ci sono. E continua: «Io sono davvero angosciata, perché non vedo niente. Vedo soltanto il buio». Scandisce le parole alzando un poco il tono, quel poco che lascia trapelare fermezza, determinazione: «Il giorno dopo l’intervista di Rai3 a ‘Gelle’, Domenico D’Amati, il mio avvocato, ha mandato alla Procura di Roma una memoria sulla vicenda. C’è il Procuratore Pignatone che fa il suo lavoro egregiamente; c’è una magistrata che ha in mano l’inchiesta sulla tragedia di mia figlia. Chiedo di sapere e che facciano quel che devono». La voce scappa via, troppo rapida. «Io sono qua in attesa, sempre. Solo io non ho più molto tempo, perché la maggior parte della mia vita è già passata. Io ho fretta. Capisco che a qualcuno possa non interessare nulla, ma vorrei che non succedes- se come già successo a mio marito, che è morto disperato senza avere giustizia e verità. Prima di morire io vorrei avere giustizia, per Ilaria e per il suo collega Miran». La rogatoria in Inghilterra, dove vive ‘Gelle’, l’incidente probatorio, sono passaggi fondamentali per questo. Ma intanto come non soffermarsi a riflettere un attimo, a guardare quello che è stato fatto in questi 21 anni, e soprattutto quello che non è stato fatto? Personaggi come Gelle scompaiono, ma poi è così semplice ritrovarli. E quando tredici anni fa aveva già detto una serie di bugie nulla si era mosso. «C’è sempre stata una forte motivazione a non agire, qualcosa si sarebbe dovuto fare. Sapevano tutti dov’era Gelle. Lo sapevano tutti ma non fecero niente per portarlo qui e fargli finalmente dire che cosa era successo. Gelle dice d’essere stato pagato, di essere stato chiamato per proporre questa versione. Noi vogliamo sapere chi è stato». E a questo punto Luciana Alpi non nasconde un timore : «E se facessero tacere per sempre anche Gelle, chi racconterà la verità su Ilaria e Miran?» 13 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie Il disegno era chiaro: diamogli un colpevole, procuriamogli una condanna. I genitori di Ilaria così staranno tranquilli, la smetteranno di andare in giro a far rumore. Il ragionamento deve essere stato questo. Lo fa capire Gelle ammettendo di aver detto il falso su Hashi e spiegando perché lo ha fatto. Un tentativo che però si è infranto contro la caparbia disperata ricerca della verità, il bisogno di risposte dei genitori di Ilaria. Non c’è però solo la vicenda delle false accuse del somalo. Sono troppe le cose che non tornano. Luciana Alpi potrebbe parlare per ore solo a farne l’elenco: «Per dirne una, in Commissione d’inchiesta fu interrogato il sultano di Bosaso: disse che Ilaria gli aveva fatto una intervista di 2-3 ore. In Italia sono tornati 35 minuti di girato. Che fine ha fatto il resto? Sono sparite videocassette, taccuini…». Le incongruenze della vicenda sono tantissime, alcuni fatti sono strani quando non assurdi, altri ancora appaiono inspiegabili, come ad esempio il ruolo dei militari italiani che erano li in Somalia, a Mogadiscio. «Nessuno dei militari italiani – dichiara Luciana Alpi – va lì sul luogo del delitto, eppure conoscevano Ilaria perché era la settima volta che andava in Somalia. Voglio però distinguere, ci sono militari e militari: sono sicura che se ci fosse stato il Generale Bruno Loi, Ilaria sarebbe stata trattata in altro modo. Sarebbe stata soccorsa, anche se purtroppo non sarebbe sopravvissuta perché la ferita era letale». Difficile rassegnarsi se si pensa che Ilaria è arrivata al Porto Vecchio ancora viva, dopo 4550 minuti dall’agguato. E ci sono particolari che appaiono come fatti inspiegabili. Luciana Alpi racconta la storia delle salme che arrivano di notte a Ciampino, del corpo di Ilaria che passa da una bara all’altra senza che ci fosse un magistrato a controllare. Ricorda di quando a lei e al marito Giorgio dicono che il corpo è crivellato da colpi di kalashnikov. I coniugi non se la sentono di effettuare il riconoscimento della salma – «volevamo ricordarla com’era» – che spetta agli zii di Ilaria Alpi; quando tornano da Giorgio e Luciana Alpi, però, descrivono un corpo integro con solo la testa fasciata, per il colpo d’arma da fuoco alla nuca. Luciana Riccardi sa bene chi era la giornalista Ilaria Alpi. Lo ricorda con orgoglio: Ilaria apparteneva al Tg3, aveva vinto un concorso arrivando prima fra 6200 concorrenti agli scritti. Già, la storia esemplare di una giovane donna che conosceva lingue difficili come l’arabo, che aveva voluto fare la giornalista ed era entrata in Rai dimostrando ciò che valeva. Quando alla mamma di Ilaria domandi quanto, secondo lei, potrebbe ancora fare il mondo dell’informazione per cercare la verità, chiarisce: «C’è chi tra i suoi colleghi ha fatto il proprio dovere fino in fondo. Ma poi a volte mi fermo a pensare che altri si siano disinteressati al caso e non so perché…». E c’è comunque una cosa che dà forza a Luciana Alpi: «L’unica cosa che mi consola in tutta questa tragedia è l’opinione pubblica. Ancora ricevo telefonate in cui mi si chiede di andare all’inaugurazione di una scuola, di un asilo o addirittura di una associazione che porta il nome di mia figlia. Esco per la strada e vengo avvicinata da persone che non conosco e che mi incitano a non mollare, ad andare avanti. Ma non è sempre facile. Soprattutto se si è stanchi e con qualche problema di salute. Ma resisto e vado avanti finché posso. Loro però non dovrebbero abusare della mia età. Perché è logico: finita io, finito tutto il resto». 14 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie Mafie e informazione Le tappe del caso Alpi-Hrovatin Ripercorriamo oltre un ventennio di ricerche, domande, ipotesi, delusioni e speranze nel nome della verità sulla morte dell’inviata del Tg3 Ilaria Alpi e del suo collega, l’operatore Miran Hrovatin, uccisi in Somalia il 20 marzo 1994 da ciò che viene indicato immediatamente come un “commando somalo”. Ilaria e Miran erano in Somalia per seguire l’evolversi della guerra tra fazioni e la missione Onu “Restor Hope”, lanciata dagli Usa con l’appoggio di numerose nazioni alleate compresa l’Italia, per porre fine alla guerra interna e ristabilire la legalità nello scenario somalo di Donatella D’Acapito 15 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie 1994 23 MARZO: A Roma è il giorno dei funerali per Ilaria. Il pm Andrea De Gasperis dispone un esame medico esterno sul corpo di Ilaria, mentre a Trieste, su quello di Miran, si procede con un’autopsia. Quando i bagagli dei due giornalisti arrivano a Roma, ci si accorge che i sigilli sono stati violati: mancano i taccuini con gli appunti di Ilaria e alcune delle cassette girate da Miran ma vengono ritrovati solo due block-notes intonsi. 4 LUGLIO: Giorgio, padre di Ilaria, parla dell’omicidio della figlia come di un’esecuzione: sottolinea che poco prima di morire, infatti, la figlia aveva intervistato Abdullah Mussa Bogor, il sultano di Bosaso, che nell’aprile ’95 sarà iscritto nel registro degli indagati come mandante del delitto, ma uscirà dall’inchiesta grazie ad un’archiviazione. Gli appunti di quell’intervista sarebbero stati scritti su uno dei taccuini scomparsi. DICEMBRE: Si conosce l’esito della prima perizia balistica: la Alpi è stata uccisa da un colpo di fucile sparato probabilmente da lontano. 1996 20 MARZO: Michele Coiro, procuratore capo di Roma, decide di affiancare Giuseppe Pititto al pm Andrea De Gasperis; il 4 maggio Pititto dispone la riesumazione del corpo della giornalista, ne ordina l’esame autoptico e nomina consulenti medici e balistici. 25 GIUGNO: Anche la seconda perizia balistica accerta che il colpo che ha ucciso Ilaria fu sparato da lontano; i periti della famiglia Alpi dissentono. Il pm ordina quindi una superperizia, che stabilisce che il colpo mortale è stato sparato a bruciapelo. NOVEMBRE: Il pm della Procura di Asti Luciano Tarditi, assieme ad un pool di investigatori specializzati in indagini sul traffico internazionale di rifiuti tossici e radioattivi, indaga su commerci e su interessi italiani in Somalia. Dall’inchiesta emergono le generalità dei faccendieri che dirigono nell’ombra numerosi traffici, gli intrecci con i mercanti d’armi, una mappa completa di interessi che, all’epoca del duplice omicidio, convergevano sulla Somalia e sui territori di altri Paesi dell’Africa costiera. La documentazione non sarà però utilizzata nelle indagini. 1997 15 LUGLIO: Due giorni prima che il pm Pititto, con la collaborazione della Digos di Udine, riesca a far arrivare a Roma l’autista e la guardia del corpo di Ilaria (entrambi testimoni oculari dell’omicidio), il Procuratore capo di Roma Salvatore Vecchione, avoca a sé l’inchiesta, affiancato dal pm Franco Ionta. 1998 10 GENNAIO: Il somalo Hashi Omar Hassan è a Roma per testimoniare in commissione parlamentare sulle presunte violenze dei soldati italiani in Somalia. Due giorni dopo viene arrestato per concorso nel duplice omicidio, identificato da Sid Ali Mohamed Abdi (autista di Ilaria Alpi) e da Ali Rage Ahmed detto ‘Gelle’. Il 18 gennaio 1999 inizia il processo. 1999 30 APRILE: Per la terza perizia chiesta dal pm Ionta, vengono nominati Pietro Benedetti e Carlo Torre (che si occuperanno anche del caso Giuliani), secondo i quali il colpo fu accidentale e sparato da lontano. 9 LUGLIO: Hashi Omar Hassan viene assolto dal Tribunale di Roma. Il pm aveva chiesto la condanna all’ergastolo. Condanna che gli sarà inflitta in Appello, con la sentenza del 20 novembre 2000 che lo riconosce come uno dei sette componenti del commando cha ha ucciso Ilaria e Miran. 2001 10 OTTOBRE: La Prima Sezione Penale della Cassazione annulla la sentenza impugnata “limitatamente all’aggravante della premeditazione e al diniego delle circostanze attenuanti generiche”. 2002 10 MAGGIO: Inizia il processo d’appello bis davanti alla corte d’Assise d’Appello di Roma presieduta da Enzo Rivellese. Il 24 giugno, il sostituto procuratore generale Salvatore Cantaro chiede la conferma dell’ergastolo per Hassan. 2003 28 MARZO: Esce il film Il più crudele dei giorni, di Ferdinando Vicentini Orgnani, con Giovanna Mezzogiorno nella parte di Ilaria Alpi. 6 GIUGNO: Durante la nona edizione del Premio Ilaria Alpi, a Riccione, il deputato dei Ds Valerio Calzolaio annuncia di aver depositato la proposta bipartisan di istituire una Commissione parlamentare d’inchiesta sull’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. La Commissione si insedierà il 21 gennaio 2004. 2006 28 FEBBRAIO: La Commissione parlamentare d’inchiesta ha concluso i lavori. Mentre i deputati di maggioranza hanno approvato le conclusioni proposte dal Presidente Carlo Taormina, l’opposizione trasmette al Presidente della Camera una relazione di minoranza (a firma di Raffaello De Brasi, Carmen Motta, Raffaella Mariani, Roberta Pinotti, Elettra Deiana, Rosy Bindi e Domenico Tuccillo) contro le conclusioni di Taormina. Contemporaneamente, anche il deputato dei Verdi Mauro Bulgarelli presenta una propria relazione. 03 GIUGNO: L’Associazione Ilaria Alpi scrive al Presidente del Consiglio, Romano Prodi, affinché il Governo si attivi per fare piena luce sulla morte di Ilaria e Miran, sottolineando la disponibilità del governo somalo a collaborare con quello italiano. 20 GIUGNO: Il Presidente del Consiglio Romano Prodi riceve Giorgio e Luciana Alpi, promettendo loro un “serio impegno”; il 18 luglio, i genitori della giornalista saranno ricevuti anche dal Presidente della Camera Fausto Bertinotti. 2007 25 GIUGNO: La Commissione Esteri del Senato valuta gli elementi che motivano la costituzione di una nuova commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria e Miran. La proposta sarà nuovamente valutata il 9 gennaio 2008. La nuova commissione non sarà mai istituita. 10 LUGLIO: Il pm Franco Ionta, neoprocuratore aggiunto della Repubblica a Roma e titolare 16 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie del procedimento sul caso AlpiHrovatin, ne chiede l’archiviazione, ritenendo impossibile identificare altri responsabili per il duplice omicidio all’infuori di Hashi Omar Hassan. Richiesta bocciata il 14 febbraio 2010 dal gip Emanuele Cerosino che ritiene si sia trattato di un omicidio su commissione. 2010 18 MARZO: Ali Rage Ahmed, principale accusatore di Hashi Omar Hassan, rischia di finire in giudizio a Roma per il reato di calunnia. Il gip Maurizio Silvestri, respingendo una richiesta di archiviazione sollecitata dal pm Giancarlo Amato, dispone per il 45enne ‘Jelle’ l’imputazione coatta. Viene invece archiviata, la posizione di Ali Mohamed Abdi Said, autista dei due italiani nonché altro teste d’accusa contro Hassan, poiché deceduto in Somalia. APRILE: L’Associazione Ilaria Alpi lancia un appello e una raccolta firme, chiedendo la riapertura del processo; Luciana Alpi annuncia che, se dovesse essere confermata la riapertura del caso, la famiglia si costituirà parte civile, aggiungendo che la stessa è da 16 anni in attesa della verità, dubbiosa sulla colpevolezza di Hashi Omar Hassan. 2012 25 MARZO: Un’inchiesta su Il Fatto Quotidiano dei giornalisti Andrea Palladino e Luciano Scalettari mostra dei documenti inediti inviati il 14 marzo del ’94, il giorno in cui Ilaria e Miran erano appena arrivati a Bosaso, dal Sios di La Spezia (il comando del servizio segreto della Marina Militare) a Balad in Somalia. Al termine di una complessa ricostruzione, i giornalisti concludono: “L’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin potrebbe dunque nascondere qualcosa che va al di là di ogni ipotesi immaginata fino ad oggi, traffici che hanno visto il coinvolgimento di apparati dello Stato, coperti per diciotto anni, grazie a silenzi e depistaggi”. 2013 18 MARZO: Non ci sono ‘’elementi probatori per ritenere che ‘l’imputato abbia voluto scientemente incolpare falsamente Omar Hassan Hashi di aver partecipato al gruppo di esecutori materiali del duplice omicidio consumato in Mogadiscio (…)’’. È quanto scrivono nelle motivazioni della sentenza i giudici della II sezione penale del tribunale di Roma che hanno assolto dall’accusa di calunnia Ahmed Alì Rahge. 16 DICEMBRE: Su iniziativa di Laura Boldrini, la Presidenza della Camera avvia la procedura di desecretazione degli atti acquisiti dalle Commissioni parlamentari d’inchiesta sui rifiuti e sul caso Alpi-Hrovatin, in risposta a una lettera di Greenpeace e sostenuta dal quotidiano Il Manifesto. 2014 20 MARZO: Rai Storia celebra il ventennale del duplice omicidio trasmettendo il documentario “Ilaria Alpi vent’anni dopo”. MAGGIO-OTTOBRE: «L’impressione è che nella fase iniziale delle indagini si sarebbe potuto fare molto di più, c’erano delle piste da seguire: il traffico di armi, ma anche di rifiuti tossici. Non so perché non si siano seguite. È tutto ancora da fare». Così Domenico D’Amati, legale della famiglia di Ilaria Alpi, commenta i documenti desecretati. Dai documenti emergono informazioni contrastanti, smentite e un informatore d a coprire. Tra i documenti secretati dal governo, c’è una nota scritta a mano da un agente del Sismi, datata 23 marzo 1994: “Appare evidente la volontà di Unosom (il comando delle Nazioni Unite, a guida statunitense) di minimizzare sulle reali cause che avrebbero portato all’uccisione della giornalista italiana e del suo operatore”. La nota è zeppa di cancellature. 2015 18 FEBBRAIO: A “Chi l’ha visto?”, su Rai3, parla Ahmed Ali Rage, il supertestimone del processo: «Ho accusato un innocente, e non ho neppure preso i soldi che mi erano stati promessi». L’uomo, che si nasconde in Inghilterra, racconta che gli italiani avevano fretta di chiudere il caso e gli avevano promesso denaro in cambio di una sua testimonianza attraverso la quale doveva accusare un somalo del duplice omicidio. Gelle indicò il giovane Hashi Omar Hassan al pm Ionta durante un interrogatorio, ma poi non si presentò a deporre al processo e fuggì all’estero. L’intervista di Ahmed Ali Rage finisce sul tavolo della Procura di Roma. 12 APRILE: Va in onda in prima visione su Rai3 la docufiction Ilaria Alpi -L’ultimo viaggio, prodotta dalla Rai e che prova ad accendere qualche nuova luce sull’inchiesta che Ilaria Alpi stava facendo in Somalia sul traffico internazionale di armi. 15 APRILE: L’uomo rintracciato vicino a Londra nel febbraio 2015 dal programma di Rai3 “Chi l’ha visto?”, per la procura di Roma sarebbe proprio Ahmed Ali Rage, incastrato da una comparazione delle immagini mandate in onda dal programma di Rai3 con quelle in possesso degli inquirenti. La procura inoltra una rogatoria alla Gran Bretagna per chiedere di interrogare il somalo sui fatti avvenuti a Mogadiscio il 20 marzo 1994 e sulla ritrattazione delle sue accuse già fatta nel corso di una telefonata ad un giornalista della BBC anni prima. 17 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie Mafie e informazione “Chiediamo verità e giustizia” Il giornalista Rai chiede che l’appello lanciato da Luciana Riccardi, mamma di Ilaria Alpi, non rimanga inascoltato. La donna chiede non solo la verità sulla morte della figlia e del collega Miran Hrovatin, ma anche di conoscere i nomi di chi per vent’anni ha mosso le fila di depistaggi e insabbiamenti di indagini di Fabrizio Feo 18 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie A 21 anni dall’agguato in cui Ilaria e Miran furono uccisi, il caso Alpi-Hrovatin è giunto ad un bivio. Due fatti nuovi dicono che o si afferra ora il bandolo della matassa di misteri e depistaggi, oppure la ricerca della verità rischia di essere compromessa per sempre. Mi rivolgo per questo alla magistratura, agli investigatori, ai miei colleghi e alla Rai affinché non cada nel vuoto l’appello lanciato da Luciana Riccardi Alpi il 20 giugno scorso in una intervista al TG3. «Voglio sapere – ha detto con forza la signora Luciana – chi ha costruito false piste, chi ha lavorato per allontanare ogni possibilità di individuare chi ha ordinato il duplice omicidio di Mogadiscio». Chiedo di sostenere l’appello di Giuseppe Giulietti e di Articolo21 perché, costi quel che costi, vengano battute tutte le strade per arrivare alla verità e alla giustizia, seguendo fino in fondo le piste dei traffici illeciti e delle eventuali coperture politiche, italiane e non. La nuova clamorosa ritrattazione delle accuse fatta da Ahmed Ali Rage detto ‘Gelle’ – stavolta davanti alle telecamere – e la scarcerazione avvenuta 4 mesi fa per buona condotta di Hashi Omar Hassan – che per quelle accuse ha scontato 16 anni di galera – ricordano a tutti cosa sono state le inchieste di questi anni. Sì, le inchieste. Perché quelle giudiziarie sono state più di una. E perché, poi, c’è anche l’inchiesta parlamentare. In queste inchieste, insieme a tanto impegno leale nella ricerca di colpevoli e moventi, compaiono atti, passaggi, che lasciano esterrefatti; scelte o “buchi nell’acqua” che devono essere spiegati. Un esempio? Proprio il fatto che Ahmed Ali Rage detto Gelle probabilmente si poteva trovarlo già dieci anni fa quando ritrattò per la prima volta le accuse contro Hashi , e proprio lì dove la trasmissione di Rai3 “Chi l’ha visto?” lo ha rintracciato. Dunque al Procuratore Pignatone che, con la pm cui ha delegato l’inchiesta, ha ora avviato nuove indagini non tocca un compito facile. Ancora una volta molti muri da abbattere. Molto vecchi e alti. Ahmed Ali Rage, ritrattando, ha ribadito che per fargli dire menzogne gli avevano promesso soldi e un visto per l’Italia. Questa affermazione, se riscontrata, dimostrerebbe una volta per tutte che il duplice omicidio di Mogadiscio non fu conseguenza di una rapina finita male, non fu un fatto casuale. Dimostrerebbe che in tutti questi anni in tanti hanno avuto interesse a nascondere le ragioni del delitto. Anche personaggi seduti su scranni molto alti delle istituzioni di questo Paese. All’azione della Procura di Roma deve affiancarsi l’attenzione della pubblica opinione – che pure non ha fatto mancare negli anni la sua solidarietà ai familiari di Ilaria e Miran – e soprattutto l’impegno dei media. Non solo singoli o piccoli gruppi di giornalisti. Ma di una categoria intera, a cominciare da NOI colleghi di Ilaria, consapevoli che la battaglia per difendere il diritto/dovere di informare comincia dalla richiesta della verità su questa e altre drammatiche vicende uguali a quella di Ilaria e Miran. Leggo l’elenco di titoli e servizi della nostra videoteca, quella dei tg e delle trasmissioni, degli approfondimenti Rai; guardo cosa è stato fatto, quanto abbiamo fatto, non per ‘ricordare’ e ‘commemorare’, ma per cercare o anche solo per chiedere la verità o seguire le tappe dell’inchiesta. Rileggo, e mi convinco che se anche molto è stato fatto, si poteva, si può e si deve fare di più. Tutti i giorni. Sta ad ognuno di noi. E il momento è questo. 19 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie Era una sera del settembre 2012 quando, a un giovane ed eterogeneo gruppo di attivisti di Libera e Gruppo Abele, fu consegnata l’eredità della campagna Corrotti, che qualche anno prima aveva ricordato all’Italia le tante convenzioni internazionali firmate e non ancora pienamente ratificate nel nostro Paese. Ricominciare da quel milione e 300 mila cartoline raccolte e consegnate a Giorgio Napolitano, allora Presidente della Repubblica, non era un’impresa né semplice né scontata, perché le aspettative della società civile per un impegno sui temi si erano fatte sempre più forti ed esigenti. Soprattutto perché l’Italia, in linea con un processo mondiale, era cambiata e si era data altri strumenti: il digitale, i social network, i dati aperti, le petizioni online. Di lì a poco si sarebbe data anche una nuova legge anticorruzione, la 190 del novembre del 2012, che introduceva la prevenzione come strumento di lotta alla corruzione, portando in sé un principio che nel giro di pochi mesi sarebbe esploso con il decreto sulla trasparenza, il n.33 del marzo 2013: il diritto di sapere e monitorare da parte della cittadinanza. In un clima di fermento culturale ma anche politico che pareva volgere al cambiamento e che invece si tradusse in uno stallo di mesi, quale era l’autunno del 2012, una cosa era certa: il nome della nascente campagna non doveva contenere il problema (come nella precedente edizione) bensì la rappresentazione di quel mondo che volevamo. Un altro aspetto altrettanto evidente era la necessità di aggiornare il messaggio usando strumenti attuali. Se Libera è nata proprio con una mobilitazione di campagna senza precedenti, che ha saputo mettere insieme più di un milione di persone per chiedere il riuso sociale dei beni confiscati, ugualmente dovevamo fare nel 2013, ma dotandoci dei più efficaci strumenti di campaigning digitale e delle più adeguate prassi comunicative. Perché se si vuole cambiare una percezione diffusa, non basta parlare a pochi: è necessario correre il rischio di semplificare i temi senza banalizzarli, mettendo da parte le proprie narrative affinché siano compresi dal maggior numero di persone possibile. Ecco quindi il prezioso ruolo giocato da un gruppo di creativi, comunicatori, grafici, campaigner che ci ha accompagnato durante questo complesso percorso, in una relazione non sempre facile ma, come tutte le reti vere che in sé hanno sempre una parte di difficoltà dovuta a linguaggi e modi differenti, dal forte impatto. La nostra battaglia sarebbe quindi servita a condannare corrotti e corruttori a far parte del passato, liberando il nostro futuro. Ed eccolo, il futuro, che un film cult degli anni ‘80 voleva far tornare: appunto, Ritorno al futuro. Ma per chi è nato proprio negli anni ‘80, ha senso che il futuro ricominci e non che ritorni. Così, a qualcuno è saltata alla mente una frase di Ambrogio Mauri, imprenditore brianzolo, un uomo onesto, morto suicida perché risoluto a non pagare tan- genti. Nella sua lettera-testamento scrisse che “quel che è peggio è che non credo più nel futuro” e che si sentiva “isolato dalla cosiddetta società civile”. Non è un caso che la prima testimonial sia stata proprio Roberta Mauri, figlia di Ambrogio, a cui resta dedicata la campagna. La nostra campagna doveva significare un “mai più” e doveva farlo subito. Siamo stati la prima iniziativa che, alla luce della nuova disciplina anticorruzione, ha chiesto l’applicazione dei nuovi criteri di prevenzione e conoscibilità. Ancora oggi, a tre anni di distanza, giochiamo, di sponda con altri soggetti, il ruolo di pionieri sui temi. Tornando a quella sera di settembre 2012, a un centro punto qualcuno gridò: “Riparte il futuro!”. Emblematico che si sia persa la memoria di chi sia stato, poiché il fine della campagna non è ricordare i singoli, quanto concretizzare le parole di Lev Tolsotj, che scrisse: “Se i corrotti fanno dell’unione la loro forza, gli onesti devono fare lo stesso”. Per questo, la campagna è nata con una data di scadenza: quando riusciremo a fare in modo che la cittadinanza sappia, a livello diffuso, i rischi che la corruzione comporta, quando concluderemo il nostro accompagnamento agli strumenti dell’accesso e del monitoraggio civico, quando la legge anticorruzione avrà fissato almeno quei necessari paletti che in parte ancora mancano, allora la campagna morirà. Perché significherà che, in qualche modo, la macchina del futuro avrà riacceso i motori. a cura di Leonardo Ferrante Nomen omen 21 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie Memoria e impegno Trent’anni dopo Nell’estate 1985, a distanza di dieci giorni, Cosa nostra uccide due giovani poliziotti: Beppe Montana e Roberto Antiochia. Montana viene raggiunto alle spalle da diversi colpi di pistola – una Magnum 357 – mentre si trova con la fidanzata a Porticello (frazione del comune di Santa Flavia), nei pressi del porto dove era ormeggiato il suo motoscafo. Aveva 33 anni, ed era a capo della neonata sezione Catturandi. Roberto Antiochia viene ucciso il 6 agosto, a 23 anni. Agente di polizia, dopo l’omicidio di Montana, nonostante fosse stato trasferito a Roma, decide volontariamente (rientrando dalle ferie) di affiancare il vice questore Ninni Cassarà, consapevole dei rischi ai quali entrambi erano esposti. Quella mattina, un gruppo di nove persone, armate di kalashnikov e appostate nella palazzina di fronte all’abitazione di Cassarà, aprono il fuoco sull’Alfetta dalla quale erano appena scesi il vice questore e il poliziotto. Antiochia, nel disperato tentativo di fare da scudo con il proprio corpo all’obiettivo di Cosa nostra, viene ucciso. Aveva 23 anni. Ninni Cassarà, gravemente ferito, raggiunge le scale della sua abitazione e muore tra le braccia della moglie Laura. Nelle prossime pagine, il ricordo dei due poliziotti affidato a Dario Montana, fratello di Beppe, e a Jole Garuti, direttrice del Centro Studi Saveria Antiochia Omicron, dedicato alla mamma di Roberto Antiochia. 22 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie Mio fratello, Beppe Montana Il 28 luglio 1985, Cosa nostra uccise Giuseppe ‘Beppe’ Montana, commissario della squadra mobile di Palermo. Aveva 33 anni, ‘Beppe’, ed era a capo della neonata sezione “Catturandi”. In queste pagine, in occasione del trentennale della sua morte, il ricordo nelle parole di chi continua ad alimentarne, attraverso il proprio impegno, la memoria di Dario Montana Estate 1985. Gli italiani fischiettavano per le strade gli ultimi successi della stagione: L’estate sta finendo dei Righeira e Ragazzi di oggi di Luis Miguel. Pagando con una banconota da mille lire, si poteva acquistare il quotidiano e bere un caffè al bar. Francesco Cossiga era stato eletto Presidente della Repubblica, succedendo all’amatissimo Sandro Pertini; il Presidente del Consiglio era l’onorevole Bettino Craxi, mentre Giulio Andreotti era ministro degli Esteri. A Palermo si iniziava ad allestire l’aula bunker dell’Ucciardone, dove si sarebbe tenuto il primo maxiprocesso alla mafia: 456 imputati alla sbarra, tre gradi di giudizio e la sentenza, il 30 gennaio 1992, della Cassazione che sancirà l’esistenza di un’organizzazione criminale di stampo mafioso denominata “Cosa nostra”. Fu nell’estate 1985 che i giudici Borsellino e Falcone furono mandati sull’Asinara per preparare l’istruttoria del maxi processo; un esilio per il quale lo Stato chiese loro le spese di vitto, alloggio e consumi delle utenze. Il Paese discuteva sull’esistenza delle mafie, nonostante pochi mesi prima, il 2 aprile, si fosse consumata la strage di Pizzolungo alla quale scampò il giudice Carlo Palermo ma nella quale morirono Barbara Rizzo e i suoi gemellini Salvatore e Giuseppe, di sei anni. Il 23 settembre di quello stesso anno, a Napoli sarebbe stato ucciso il giovane giornalista Giancarlo Siani. Omicidio in riva al mare. A Palermo, nell’estate 1985 la mafia continuava a versare sangue innocente lungo le strade. L’omicidio di mio fratello Beppe Montana si consumò il 28 luglio. Fu raggiunto alle spalle da diversi colpi di pistola – una Magnum 357 – mentre 23 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie si trovava con la fidanzata a Porticello (frazione del comune di Santa Flavia), nei pressi del porto dove era ormeggiato il suo motoscafo. Il giorno dopo avrebbe dovuto iniziare le ferie. Una settimana prima, aveva condotto un’operazione che aveva portato all’arresto di otto persone appartenenti alla famiglia di Pino Greco detto Scarpuzzedda, che però riuscì a non essere sul luogo dell’operazione. Il funerale di Beppe Montana coincise con il primo atto pubblico del neo eletto sindaco di Palermo Leoluca Orlando, che avrebbe dato vita alla cosiddetta “primavera di Palermo”. In occasione del trigesimo dell’omicidio di Beppe, mio padre chiese la pubblicazione, a pagamento, nella rubrica dei necrologi, del seguente testo: “La famiglia con rabbioso rimpianto ricorda alla collettività il sacrificio di Beppe Montana – commissario di P.S. – rinnovando ogni disprezzo alla mafia e ai suoi anonimi sostenitori”. Incredibilmente, l’impiegato del giornale La Sicilia gli rispose che sarebbe dovuto andare a chiedere alla direzione l’autorizzazione per la pubblicazione; al suo ritorno, affermò categoricamente a mio padre che il testo veniva respinto allo sportello su insindacabile disposizione del direttore, Mario Ciancio Sanfilippo. Nel 1994, durante un processo, il pentito di mafia Francesco Marino Mannoia (arrestato dallo stesso Montana pochi giorni prima dell’agguato di Porticello), dichiarò che per gli omicidi di Montana e Cassarà un ruolo fondamentale sarebbe stato svolto da una “talpa” della squadra mobile, un poliziotto corrotto appartenente alla stessa sezione Catturandi. Per l’omicidio di Beppe Montana furono condannati all’ergastolo Totò Riina, Michele Greco, Francesco ed Antonio Madonia, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, Raffaele e Domenico Ganci, Salvatore Buscemi, Giuseppe e Vincenzo Galatolo. Carcere a vita anche per l’esecutore materiale, Giuseppe Lucchese. L’album dei ricordi. La nostra è stata una famiglia felice, fino a quel maledetto 28 luglio del 1985. Una famiglia borghese. Papà era un direttore del Banco di Sicilia; mia madre, innamoratissima di lui, era una casalinga; poi c’eravamo noi tre fratelli: Beppe, Gigi ed io, Dario. Tra mio padre e Beppe c’era un legame speciale. Mio fratello era un uomo felice, non avrebbe mai accettato dalla vita un mestiere diverso. L’investigazione era la sua passione, oltre che la sua professione. Ripeteva spesso che un poliziotto a Palermo non può avere troppi amici: “Questa è una città avvolgente, se frequenti i salotti della città bene puoi correre il rischio di trovarti ad indagare proprio sul padrone di casa che ti ha invitato”. Beppe era molto amato dai suoi collaboratori, aveva un fortissimo senso dell’ironia, ostentava e infondeva sicurezza; a chi gli chiedeva se non avesse paura, rispondeva sorridendo che “sono i mafiosi a dovere avere paura di noi”, ma in realtà confidava in privato che “questo è un lavoro dove bisogna imparare a convivere con la paura e questa può salvarti la vita”. Aveva deciso di vivere vicino al mare, la sua grande passione, e di cavalcarne le onde con il suo piccolo motoscafo. La scelta di vivere tra Aspra e Porticello era dettata anche dal grande amore che aveva per la sua splendida compagna, Assia, che a Catania gestiva una scuola di danza molto nota in città. La sua vita era molto semplice e piena. Un boccale di birra e una pizza alla “Taverna di Johnny” in compagnia di uno dei suoi collaboratori o con il giovanissimo figlio di Boris Giuliano, Alessandro, che spesso lo andava a trovare nel suo ufficio, dove accanto al crocifisso e alla foto del Presidente della Repubblica faceva bella mostra di sé la foto di suo padre Boris (ucciso il 29 luglio del 1979, freddato con sette colpi di pistola alle spalle mentre pagava un caffè in via Di Blasi). Agli amici giornalisti confidava che “per fare questo lavoro ci vuole molta fantasia: è affascinante ricostruire la vita di una persona, ricostruire i suoi legami partendo da una bolletta della luce o dal consumo di energia di un contatore, sono la lettura dei libri gialli un buon manuale di polizia, solo che la realtà supera sempre la fantasia dello scrittore più smaliziato”. Era assolutamente informale, non amava le cravatte, che teneva nel cassetto per ogni evenienza, non amava stare in ufficio: preferiva “riposarsi” in macchina con i suoi uomini. Andava in giro per le strade della città con l’inseparabile Lillo Zucchetto, un giovane e bravissimo investigatore palermitano che sarà ucciso il 15 novembre del 1982 in via Notarbartolo, davanti al bar Collica. In quell’occasione Beppe ebbe modo di affermare con la solita lucidità: “Quando gli avvertimenti si trasformano in attentati, siamo tutti sotto tiro, ormai siamo nel mirino”. All’indomani dei funerali di Lillo Zucchetto, disertati dai palermitani, Beppe e Ninni Cassarà diedero vita all’omonimo Comitato e iniziarono a incontrare gli studenti nelle scuole. Non era un eroe Beppe, ma una persona normale innamorata del proprio lavoro. Non era un eroe, ma un uomo il cui valore sembra ancora più grande nella memoria di chi, nonostante tutto, continua a fare con dedizione, responsabilità ed umanità il proprio lavoro. A casa Beppe non faceva trapelare alcuna preoccupazione, era sempre sorridente, anche quando mio padre gli confidò di aver ricevuto una telefonata in ufficio di un parente di Santapaola – il capomafia catanese che ha legami organici con Cosa nostra palermitana – che richiedeva, senza mezzi termini, le sue dimissioni dalla polizia garantendogli contemporaneamente un nuovo impiego a Catania. Capitava che mio fratello rientrasse a casa in piena notte e mia mamma lo rimproverava: “Ma non potevi avvertirmi! Non capisco come puoi fare il tutore dell’ordine proprio tu che sei il re del disordine!”. Dopo quel 28 luglio, la notte i miei non si svegliavano più perché c’era Beppe che suonava alla porta, ma solo per piangere e interrogarsi su come era potuta succedere una tragedia così travolgente, che ti cambia la vita per sempre. Fortunatamente, grazie all’amore 24 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie che li ha legati, si alternavano nei grandi momenti di depressione. Papà aveva continuato a lavorare in banca, ma ormai gli mancava la necessaria energia e aveva deciso di mettersi in pensione qualche mese dopo l’omicidio. Le sue giornate erano scandite dalla rassegna stampa dei giornali e dai continui viaggi a Palermo, per seguire le udienze più importanti del maxiprocesso, interrotte da qualche incontro organizzato con i ragazzi delle scuole e delle associazioni che richiedevano la sua testimonianza. Anche dopo aver scoperto di avere un tumore, cercava di essere presente alle udienze del processo di Beppe. Oggi mio padre e mia madre non ci sono più. Mio fratello ed io abbiamo deciso di costituirci parte civile nel procedimento pendente a carico di Mario Ciancio Sanfilippo, per concorso esterno in associazione mafiosa. Il Giudice per l’udienza preliminare si è riservato di decidere sull’ammissione delle parti civili e ha rinviato l’udienza al 14 ottobre 2015. Dall’esito di questo processo, probabilmente, la storia dei rapporti tra Cosa nostra e il sistema di potere che ha gestito Catania potrebbe essere riscritta. Al momento della sottoscrizione della costituzione di parte civile contro Ciancio, il pensiero è andato ai miei genitori e all’indimenticabile Roberto Morrione, presidente della fondazione Liberainformazione, con il quale abbiamo condiviso tante riflessioni per rompere il monopolio dell’informazione a Catania. Oggi mi chiedo quali sarebbero stati i suoi suggerimenti e le sue valutazioni. Questa però è un’altra storia. Sezione Catturandi, l’Università della Polizia All’indomani della strage di via Carini (3 settembre 1982), lo Stato risponde aumentando gli organici della polizia: un’occasione irripetibile per Beppe Montana, che, dopo aver vinto il concorso per entrare in Polizia, aveva appena finito il corso presso l’Istituto Superiore di Polizia. La sezione investigativa della squadra mobile di Palermo è la sua prima destinazione. Beppe conquista velocemente l’amicizia e la fiducia di Ninni Cassarà, il vice dirigente della squadra mobile che sarà ucciso pochi giorni dopo di lui, il 6 agosto. Grazie alle numerose operazioni concluse con successo, gli propongono di dirigere la sezione Narcotici della squadra mobile. Beppe non è d’accordo e propone di dare vita ad una sezione specializzata nella ricerca dei grandi latitanti. Ritiene infatti essenziale, nella strategia di contrasto alle mafie, la cattura dei capi e lo smantellamento della rete dei legami che costituisce la zona grigia delle mafie. Ricercare un la- titante vuol dire disarticolare la rete di protezione e spezzare i legami con la cosiddetta zona grigia: professionisti, prestanome e teste di legno, rapporti con la politica e il mondo delle imprese, rapporti con i favoreggiatori e il territorio che li protegge e rafforza. Si tratta di un lavoro lungo, sotterraneo e faticoso. I successi non mancano. Ai propri uomini Beppe raccomanda di pensare e di vivere come mafiosi, li invita ad andare per strada, frequentare la vita dei quartieri a forte densità mafiosa, frequentare le feste di piazza, conoscere il territorio, giocare a biliardo, parlare con la gente perché “così troveremo i boss; dimenticate le pistole e andate a sconcicare i fimmini”. Si realizza così una delle sue intuizioni professionali: la costituzione di una sezione specializzata nella ricerca dei principali latitanti. Non solo. Beppe Montana si è reso conto che un capo mafia, per poter esercitare il controllo del territorio e il potere sui propri affiliati, non può allontanarsi per troppo tempo, pena la perdita del potere che passerebbe di mano a chi lo sostituisce realmente sul territorio. Si devono cercare i latitanti proprio all’interno dei mandamenti nei quali esercitano il loro controllo. Per mettere in pratica tutto questo, mio fratello saltava ferie e riposi, tra le critiche di alcuni suoi colleghi che, anni dopo, saranno condannati con sentenza passata in giudicato per concorso esterno in associazione mafiosa. Anche così si isolano le persone. Come contraltare, poteva avvalersi della collaborazione di tanti giovani colleghi che in lui vedevano un esempio da emulare. Per le strade, in quegli anni, i giovani e la polizia si sparavano addosso, il sangue di giovani poliziotti e di giovani che volevano cambiare il mondo si mescolava. Grazie al lavoro degli uomini della Catturandi inventata e diretta da Beppe Montana, i palermitani hanno cominciato a fare il tifo per gli investigatori e per lo Stato. 25 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie Il ragazzo che non voleva diventare un eroe Era da tutti definito come “un giovane allegro, affettuoso, vivace”. Amava la sua famiglia, era innamorato della sua fidanzata con la quale progettava di costruire un futuro, e amava il suo lavoro. Un mestiere, una passione che l’ha condotto alla morte, insieme al vice questore Ninni Cassarà, il 6 agosto 1985 di Jole Garuti Roberto Antiochia era un giovane allegro e irrequieto. Da ragazzo passava ore e ore a leggere libri gialli, a immaginare di catturare ladri o banditi. La ragazza di un suo compagno di scuola era morta di overdose e lui pensava che impegnarsi contro gli spacciatori fosse un dovere morale. A 17 anni aveva chiesto il permesso di arruolarsi in polizia e lasciare la scuola, ma sua madre Saveria si era rifiutata di firmare la richiesta. “Chi usa i pennelli non può usare le armi”, era il suo motto. Lui non aveva protestato, consapevole che l’anno dopo avrebbe ricevuto la cartolina rosa. C’era solo da aspettare un anno. Non era tipo da scenate, Roberto, non amava i litigi. A scuola tutti gli volevano bene. Non studiava molto ma non pretendeva voti immeritati. Le cose che gli interessavano di più erano la simpatia e l’amicizia dei compagni. Al liceo classico Giulio Cesare, uno dei più in di Roma, non lo avevano mai visto con un cappotto o un giubbotto normale. Arrivava, alto e magro com’era, con un maglione peruviano lungo fin quasi al ginocchio e in testa a coprire i capelli rossi un berretto a punta che si vedeva lontano un chilometro. A lui piaceva così. Lasciò infine gli studi classici per il liceo artistico, avvicinandosi all’ambiente di famiglia. Mamma dipingeva e insegnava arredamento all’Accademia, Alessandro, il maggiore dei fratelli, scriveva poesie e incideva su rame. Nella nuova scuola trovò materie più affascinanti e una didattica più viva. Certi giorni arrivava a scuola in tuta, con la sacca sportiva al posto dei libri, perché doveva correre agli allenamenti di canottaggio. All’artistico trovò anche l’amore della sua vita, Cristina. In casa era stato educato al ri- 26 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie La passione per la divisa. Entrare in polizia per Roberto significava combattere i malviventi e i criminali ma anche sfrecciare su moto veloci, fare moltissimo sport, allenarsi a sparare: una vita movimentata che corrispondeva pienamente alle sue esigenze, ai suoi bisogni, ai suoi ideali. Voleva impegnarsi contro i prepotenti, gli arroganti, coloro che spacciano droga e seminano morte, coloro che uccidono persone innocenti. In una parola, in difesa dei deboli. Non voleva certo diventare un eroe. A Cristina impaurita ripeteva scherzando: «Non hanno ancora inventato i proiettili per sparare ai ‘rosci’ (rossi)». Ai corsi di addestramento dimostrò grande bravura nella mira, tanto che gli chiesero di diventare istruttore di tiro. Ma un lavoro di routine non era adatto a lui. Prestò servizio in varie Questure del Nord e fu poi mandato a Palermo. Lì, alla Squadra Sognava una Palermo senza mafia, Antonino – detto Ninnì – Cassarà – e credeva profondamente di poter realizzare quel sogno attraverso il proprio lavoro, insieme ad alcuni suoi colleghi. Ma un gruppo di nove uomini armati, il 6 agosto 1985, mise fine ai suoi sogni, che però hanno trovato forza e seguito in moltissime altre persone. Era un “bravo poliziotto” – come fu definito in un documentario che gli dedicò Rai Storia – che aveva prestato servizio nelle questure di Reggio Calabria e di Trapani , dove conobbe Giovanni Falcone, diventandone uno stretto collaboratore. Proprio grazie al lavoro di Cassarà e dei suoi uomini, si arrivò al cosiddetto “rapporto dei 161+1”, attraverso il quale si rivelò la struttura dei mandamenti mafiosi, ottimo punto di partenza per le future indagini condotte da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Fu poi trasferito a Palermo, dove divenne vice questore aggiunto e, successivamente, vice dirigente della squadra mobile. Numerose le operazioni alle quali prese parte, tra cui “Pizza Connection”, in collaborazione con il commissario Beppe Montana. Quando quest’ultimo fu assassinato, il 28 luglio 1985, fu come se il cerchio intorno a Cassarà si stringesse. Il clima di lavoro era molto difficile, il “bravo poliziotto” fu isolato anche da diversi colleghi e funzionari. Uno, però, nonostante fosse da poco stato trasferito a Roma, decise di stare al suo fianco: Roberto Antiochia, che volontariamente rientrò dalle ferie. Il 6 agosto 1985, Ninnì Cassarà fu accompagnato a casa proprio da Antiochia; scese dall’Alfetta e si diresse verso la propria abitazione, in via Croce Rossa 81 a Palermo. Fu raggiunto da diversi colpi di kalashnikov esplosi da un commando di nove uomini, appostati nella palazzina di fronte. Roberto Antiochia morì nel tentativo di fargli da scudo con il proprio corpo; Cassarà riuscì a raggiungere le scale d’ingresso del proprio condominio, ma morì tra le braccia della moglie Laura. Aveva 38 anni ed era padre di tre bambini. Anche nel caso del delitto Cassarà, una mano ‘misteriosa’ sottrasse l’agenda che egli teneva in questura e sulla quale, verosimilmente, aveva annotato importanti notizie. Il bravo poliziotto spetto dei diritti e dei doveri, alla solidarietà. La casa di mamma Saveria, dopo la morte del papà, era sempre aperta per i compagni di scuola dei figli, per gli amici boyscout, e tutti ci andavano volentieri perché potevano studiare ma anche suonare e chiacchierare in piena libertà. Gli amici erano più importanti dei pavimenti lucidi. Mobile, si trovò nell’ambiente ideale. Il commissario Beppe Montana lo scelse subito per la Squadra Catturandi. Fino a quel momento nessuno aveva cercato in città e nei dintorni i mafiosi latitanti, prestando fede alle dicerie che li immaginavano in paesi lontani. Montana era invece convinto che stavano tranquillamente a Palermo e che li si poteva scoprire e arrestare. La Catturandi aveva a disposizione solo automobili scassate, rattoppate, riconoscibili anche dai bambini, non aveva computer né armi sofisticate. Non erano possibili intercettazioni come avviene oggi, quindi i poliziotti dovevano avvalersi di soffiate di confidenti (che pagavano di tasca propria) e poi andare di persona, in vespa o in auto o facendosi prestare quella di un amico, nelle strade dove erano annidati i latitanti. Ne catturarono parecchi e scoprirono anche nascondigli di armi e raffinerie di droga. Roberto amava questa vita avventurosa e si sentiva utile, realizzava i suoi obiettivi ad ogni cattura, ad ogni scoperta di fortini o depositi illegali. L’eroina arrivava dall’Asia, veniva raffinata in laboratori segreti e poi esportata soprattutto negli Stati Uniti. La Catturandi era formata da uomini altamente motivati e capaci di sacrifici. Montana era chiamato Serpico perché si muoveva come il poliziotto dei telefilm. Il capo della sezione investigativa era il vicequestore Ninni Cassarà, grande amico di Montana e di Roberto. Vivevano praticamente insieme: di giorno studiavano le attività dei mafiosi, verificavano le segnalazioni ricevute da informatori 27 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie e ispezionavano strade, case, zone intorno a Palermo. Di sera cenavano a casa di Cassarà o in pizzeria, ma neppure la notte era un riposo sicuro. La Catturandi piombava all’improvviso dove aveva saputo che si poteva catturare un latitante, e l’ordine poteva arrivare a qualunque ora. Cristina, appena diventata maggiorenne, era corsa a vivere a Palermo con il suo Roberto. Quasi ogni giorno lui arrivava a casa con un mazzo di fiori per scusarsi del ritardo. Una volta tornò tre giorni dopo, a causa di una spedizione notturna sulle montagne vicine. Non aveva potuto avvisarla e Cristina era impazzita di paura. Lui arrivò a casa con la testa fasciata alla meglio e i vestiti insanguinati perché nel buio aveva urtato contro un tondino di ferro. In questura l’ambiente era teso. Capo della Squadra Mobile era Ignazio D’Antone, di cui né Roberto né gli altri si fidavano. Non per nulla D’Antone è stato poi condannato a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa. «Anche i muri hanno orecchie», diceva Roberto telefonando a Saveria da una cabina esterna alla Questura, e per questo le aveva chiesto di non chiamarlo mai in ufficio. A mamma lui raccontava molte cose, sia le spedizioni fallite a causa dell’intervento di D’Antone, sia i risultati ottenuti. Trasferito a Roma alla fine del 1984, era in ferie, al mare con Cristina, quando spararono a Beppe Montana, approdato a Porticello da un giro in barca, il 28 luglio 1985. Disperato, si precipitò a Palermo e piombò in una realtà tragica. Nei giorni successivi i poliziotti furibondi per la morte di Mon- tana interrogarono brutalmente, anzi torturarono, un giovane calciatore, Salvatore Marino, di Porticello, che ne morì. Cassarà non c’entrava, non gli avevano assegnato le indagini sulla morte di Montana, non era neppure in Questura quella notte, ma venne fatta circolare la voce che la morte del giovane fosse colpa sua. Roberto si rese conto che Ninni era solo, senza nessun aiuto né protezione, del tutto isolato. Bastava ricordare le parole di Falcone per respirare l’aria di morte che aleggiava sul vicequestore: “Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno”. Ninni era esattamente in quella condizione. Roberto fece domanda per rimanere a Palermo a fare da scorta volontaria a Cassarà. I suoi familiari lo supplicavano di tornare a Roma ma lui disse che se fosse capitato qualcosa a Ninni non se lo sarebbe mai perdonato. Non era neppure facile proteggerlo, perché Ninni, consapevole dei pericoli, non voleva essere scortato. “Siamo cadaveri che camminano” aveva detto un giorno a Paolo Borsellino e a Beppe Montana. Cassarà non si era mosso dalla Questura per diversi giorni, il 6 agosto improvvisamente telefonò alla moglie Laura che avrebbe fatto un salto a casa ed è probabile che dalla Questura una talpa abbia avvisato i mafiosi. Roberto dovette trovare una scusa per non farlo andare solo (“La accompagniamo a casa perché dopo andiamo a mangiare una pizza lì vicino”). Ma i mafiosi avevano già da giorni preparato l’agguato micidiale. Furono almeno duecento i colpi esplosi dai kalaschnikov appostati nel caseggiato di via Croce Rossa appena l’Alfetta bianca del vicequestore arrivò davanti al portone. Roberto uscì dall’auto e fu colpito alla testa, Cassarà riuscì a trascinarsi fino al portone e spirò tra le braccia della moglie Laura, precipitatasi giù per le scale. I giornali scrissero: “Non era solo abnegazione, fedeltà, dovere. Ma amicizia, affetto”. A un amico, Antiochia aveva detto: «Darei la vita per difendere Montana e Cassarà». Il ministero degli Interni gli ha conferito la medaglia d’oro al valor civile. Roberto ha continuato a vivere nelle parole di Saveria, che da quel 6 agosto ha sublimato nell’impegno civile il suo dolore di madre. Non c’è stato momento, negli incontri con gli studenti di tutta Italia, nelle trasmissioni TV o nelle relazioni personali, in cui Saveria non abbia agito in nome di Roberto, dando voce ai suoi ideali e sentimenti. Insieme ai figli Alessandro e Corrado, Saveria scrisse un comunicato stampa che è di incredibile attualità: “La vita e la morte di questi uomini testimonia che questo nostro paese, ferito dalle stragi, inquinato dalla corruzione, dalla malavita e dai troppi scandali che ci hanno addirittura nauseati, è anche un paese capace di produrre uomini che vivono totalmente e consapevolmente i valori più alti dell’umanità, del dovere e del coraggio. Valori che purtroppo per tanti oggi sono solo retorica sorpassata”. 28 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie Nata il 6 agosto Nella sede nazionale di Libera, in via IV Novembre a Roma, il primo volto sorridente che accoglie chi entra è il suo: Saveria Antiochia, la madre del giovane poliziotto Roberto. Ferita a morte nell’anima quel 6 agosto 1985, e rinata quello stesso giorno, per portare avanti la memoria di suo figlio: raccontando della sua giovane vita spezzata, ricordando che “gli agenti di scorta” uccisi per mano della criminalità organizzata avevano un nome e un cognome di Jole Garuti “Quando ti uccidono un figlio sparano anche su di te. A me avevano sparato col kalashnikov, quel giorno… ha le radici dentro di te, un figlio”. Così diceva Saveria Antiochia dopo che la mafia aveva ucciso suo figlio Roberto, a Palermo, il 6 agosto 1985, insieme al commissario Ninni Cassarà. Roberto aveva 23 anni, era un giovane poliziotto ricco di ideali generosi, aveva insistito per fargli da scorta, come volontario. La mafia li aspettava per massacrarli insieme. Dopo quel giorno Saveria è rinata, dedicando ogni energia all’impegno antimafia di Roberto. “Ci parliamo, facciamo tutto insieme” diceva. Scrisse subito una lettera al ministro Scalfaro per denunciare le condizioni disastrose della Squadra mobile di Palermo, lasciata senza attrezzature, senza uomini, senza aiuti. La lettera venne pubblicata su Repubblica: una denuncia struggente e documentata, un susseguirsi di sentimenti e di fatti che provocò grande emozione. Qualcuno osò dire che non poteva averla scritta la mamma di un poliziotto. Evidentemente non conosceva la cultura e l’intelligenza di Saveria. Un mese dopo la strage chiese a Nando dalla Chiesa di far parte del Circolo Società Civile che stava nascendo a Milano. Aderì con entusiasmo al Coordinamento antimafia di Palermo, venne eletta al Consiglio comunale. Ma la politica non era il suo mondo. Fu invitata nelle scuole di tutta Italia e raccontò, senza lacrime, gli ideali e le passioni di Roberto, la sua volontà di contrastare la violenza mafiosa, di difendere i diritti dei più deboli, di lottare per un’Italia libera e democratica. Il silenzio che si generava nelle aule quando Saveria parlava aveva qualcosa di magico. Mai nessuno si alzava o distraeva i compagni. Nei dibattiti TV si imponeva con logica ferrea e con i dati di una memoria sicura. Si indignava per leggi sbagliate o lassiste o per le timidezze di qualche politico contro la mafia. In quei casi non esitava a prendere la penna o il telefono e a far sentire la sua voce fremente. Quando nacque Libera, Saveria fu naturalmente tra i fondatori e con modestia e straordinaria dedizione cercò ogni modo per essere utile, per proteggere e far crescere quella nuova importante creatura antimafia, di cui intuiva le potenzialità. A Milano nel 2006 è nata in suo onore l’associazione Saveria Antiochia Omicron (ora Saveria Antiochia Osservatorio antimafia-“SAO”), che si propone di far conoscere la sua personalità e i suoi ideali, la sua capacità di indignarsi e la sua incrollabile volontà di contrastare la diffusione delle cosche criminali, nel ricordo di Roberto (www. centrostudisao.org). Sono tre i pilastri fondanti dell’associazione e della biblioteca specializzata che ne è nata: mafia e antimafia, educazione alla legalità, diritti umani e civili. Progetti di Educazione alla legalità nelle scuole di ogni ordine e grado, stage per studenti universitari, presentazione di libri e organizzazione dibattiti sono l’attività quotidiana. Il progetto più importante è ora il progetto europeo “Icaro”, di cui “SAO” è partner. Significa “come tenere in vita un’azienda confiscata alle mafie”. 29 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie seduti l’uno di fronte all’altro, si comprende che i tre stanno chiudendo un accordo di vendita su una partita di droga. Il dato più interessante è che uno dei due uomini arrivati in motoscafo parla in perfetto spagnolo e si rivolge in dialetto calabrese al suo compagno. Basta questa disinvolta alternanza di codici linguistici per comprendere il senso di tutto il film: una mafia che si muove con agilità tra contesti locali e mercati internazionali. Si nota, inoltre, che tra le parti in causa c’è una consolidata prassi di relazioni finanziarie e un rispetto per i ruoli ricoperti nelle reciproche organizzazioni. Le immagini poi ci portano a Milano, nella sede di una banca, dove altri due ’ndranghetisti stanno ritirando una gran somma di denaro in contanti con l’avallo del direttore. Gli stessi due, nella scena successiva, sono in un cantiere edile (il gioco dell’associazione logica ci induce a pensare all’Expo). Entrano in un container e con i soldi ritirati in banca, preparano la paga per gli operai, tutti extracomunitari. Si intuisce, visto che i soldi sono consegnati in una busta senza cedolino, che il denaro proveniente dal narcotraffico viene riciclato da un lato alimentando l’economia sommersa, dall’altro sovvenzionando un esercito di riserva irregolare sfruttato come massa di manovra illegale. Nella terza sequenza si scopre che i due uomini di Amsterdam e i due di Milano sono parenti consanguinei. Il capo è quello che ha trattato con il colombiano. Tuttavia si capisce che il fratello, uno dei due “imprenditori edili”, comincia ad avere un atteggiamento distaccato e infastidito rispetto all’atteggiamento “primitivo” degli altri componenti del gruppo: vive a Milano, è sposato con una donna del Nord e non sopporta l’eccentricità da parvenu dei familiari. Vuole essere a tutti gli effetti legittimato come imprenditore, anche se i capitali d’investimento sono frutto di transazioni criminali. Una volta rientrati in Calabria, però, riemerge la cultura ancestrale che condiziona l’agire collettivo: le usanze pastorali, la legge dell’onore, le alleanze matrimoniali, le faide tra clan avversari. Attraverso il film si può cogliere la pendolarità del sistema mafioso che oscilla tra modernità e tradizione, come se dietro la facciata ultra tecnologica dell’Italia contemporanea e dell’Europa dei mercati si nascondesse un’ineliminabile Medioevo oscurantista. Allo stesso tempo si comprende la forza della ’ndrangheta capace, grazie all’oscillazione pendolare, di tenere insieme globalizzazione (di cui il narcotraffico è colonna economica portante) e codice antropologico territoriale. Ciò che fino ad oggi era celato ai più, malgrado i numerosi studi scientifici sull’argomento, diventa materia di interesse pubblico che può arrivare ad un’audience più vasta dell’associazionismo antimafia. In virtù del potere amplificatore delle immagini e della suggestione cinematografica anche la ’ndrangheta entra nel novero dell’immaginario mafioso, nella speranza che “Anime nere” non rimanga un caso isolato. a cura di Marcello Ravveduto I “luoghi” dell’immaginario devono essere sondati perché sono gli unici ambienti virtuali in cui si è reso visibile ciò che nella realtà rimane invisibile. Il film Anime nere, che ha vinto ben otto statuette del David di Donatello, è un caso esemplare. L’immaginario collettivo è materia malleabile e facilmente strumentalizzabile a causa della sua natura mediale. Eppure è un contesto divulgativo strategico per studiare la fenomenologia mafiosa. Certo, nel contesto massmediologico le mafie sono ridotte a semplificazioni banali, molto spesso dovute alla necessità di rendere comprensibile un tema complesso che unisce economia, politica, società civile, poteri occulti, tradizioni culturali e innovazioni tecnologiche. La ’ndrangheta è stata a lungo un “oggetto” nascosto sul quale nessun cineasta, fino ad ora, si è cimentato, al di là della documentaristica o dei B movie (qualche volta persino più utili dei film d’autore per leggere il contesto di riferimento, come le sceneggiate di Mario Merola). Come inizia Anime nere? Ci sono due uomini, non olandesi, che attendono un motoscafo ad Amsterdam. Stanno in silenzio l’uno accanto all’altro come se fossero un sol uomo. S’intendono con gli sguardi. Salgono sul natante e giungono, rimanendo muti per tutto il tragitto, su uno yacht attraccato in uno dei canali della Venezia del nord. Ad attenderli c’è un latino americano criollo. Un colombiano. Li riceve con cortesia ma senza esternazioni eccessive. Solo a quel punto, quando sono dialogo tra antimafia virtuale e antimafia reale L’immaginario della ‘ndrangheta Antonio Rossetti, fumettista tarantino classe 1990. Dipendente dal mercato discografico e artistico underground. Noto ai più sotto il nome di holdenaccio, ha lavorato per “RareLives” con una serie a strisce. Membro attivo del collettivo Sbucciaginocchi, ha pubblicato con loro la prima antologia “CARTA VETRATA: il tema delle elementari”, in uscita a fine settembre. 31 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie inchiesta Mafie in Puglia Non esiste una sola mafia pugliese. La geografia della criminalità organizzata della regione di Levante, oggi come da decenni a questa parte, è riassunta in una mappa composita e complessa, fatta di autonomie, connessioni e alleanze. Ma anche di guerre intestine che hanno insanguinato le città e i paesi dal Gargano al Salento, mietendo oltre sessanta vittime innocenti. E se i clan del tacco continuano ad essere, insieme con quelli campani e calabresi, improntati alla violenza, sono gli affari la nuova dimensione delle mafie in Puglia: dall’estorsione agli appalti pubblici, dal riciclaggio al ciclo dei rifiuti, dalle attività commerciali al controllo delle slot. Viaggio in una terra dove i rituali da telefilm convivono con le nuove prospettive criminali Mafie in Puglia 32 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie Bari, una bomba a orologeria Con un territorio ampiamente segmentato e suddiviso, l’area cittadina di Bari si presenta come un delicato gioco d’incastri. Diversi clan, diverse famiglie, diverse nazionalità e spesso interessi conflittuali. Si tratta di equilibri di potere finemente intessuti che fondano la propria sussistenza su spartizioni, nel mercato degli stupefacenti ma non solo, create ad arte di Leo Palmisano Quando, la sera del 28 maggio di quest’anno, è stato ucciso Nicola Telegrafo, Bari ha scoperto di essere nel bel mezzo di una nuova sanguinosa guerra di mafia. Il trentanovenne assassinato era il cognato di uno dei boss più influenti della mala del capoluogo pugliese: Domenico Strisciuglio, soprannominato Mimmo La Luna, in carcere da anni ma sempre al comando del più rilevante clan della città assieme a quello di Savino Parisi. L’omicidio di Telegrafo si è consumato alle otto di sera, nella piazza principale del quartiere Carbonara. Il capomafia era seduto al tavolino di un bar quando un uomo armato di pistola gli ha esploso contro quattro colpi, tutti a segno. Con pochi margini di dubbio, si trattava di un professionista. Questo omicidio è uno dei più pesanti degli ultimi anni, benché ormai da quattro a Bari si spari con una certa frequenza. Ovvero da quando, nell’agosto del 2011, a cadere è stato Cesare Diomede, rampollo di una storica famiglia mafiosa operante nei quartieri di Carrassi e San Paolo. Diomede fu ucciso in un rocambolesco agguato nel suo territorio, a Carrassi, mentre inseguiva un gruppo di scissionisti decisi a passare con i clan Caracciolese o Fiore del contiguo rione di San Pasquale. Da inseguitore a vittima, Diomede fu liquidato a colpi di pistola dopo un lungo inseguimento da far west dalle parti della Chiesa Russa, in una zona popolare poco distante dalla stazione centrale e dove sono prosperati negli ultimi anni ambigui investimenti russi e cinesi. Il suo omicidio ha rappresentato la fine della pax che regnava in città da quasi un decennio, disegnando una lunga scia di sangue che arriva fino all’assassinio di Nicola Telegrafo e che rischia di prolungarsi. I fronti aperti. Sono diverse le famiglie coinvolte nei recenti fatti di sangue baresi. I Diomede (dei quartieri Carrassi e San Paolo), i Mercante (del San Paolo) loro alleati, i Vavalle (del San Paolo) alleati dei Mercante, i Montani/Misceo e i Telegrafo (del San Paolo) loro nemici, i Fiore/Caracciolese un tempo alleati e ora nemici per fatti di amore e di sangue (del quartiere San Pasquale), gli Strisciuglio (del San Paolo e del Libertà) alleati dei Telegrafo, i Di Cosola (di Carbonara ma ramificati nell’hinterland), i Campanale (del quartiere San Girolamo) alleati degli Strisciuglio, i Parisi (del quartiere Japigia), i Capriati (di Bari Vecchia), gli Stramaglia (di Valenzano, ramificati nell’hinterland) alleati dei Parisi. Sono al momento i clan più forti: cognomi che hanno ricevuto o offerto piombo in cambio di sangue. Nel corso dei decenni, ciascuna di queste famiglie ha operato costantemente, impegnata in una o più attività, ma sempre sotto la tacita copertura dei clan più forti, secondo una regola non scritta che prescrive norme e comportamenti, definisce i territori e azzera la concorrenza. Le cose sono andate così fino ad agosto del 2011. La vecchia pace mafiosa era stata siglata quando Mimmo La Luna e Savinuccio Parisi, i boss più forti dell’ultimo ventennio, furono assicurati alla giustizia. I due capiclan, mai davvero avversari e mai davvero alleati, si erano spartiti lo smercio dell’eroina, della cocaina, delle armi e dei tabacchi esteri. Gli Strisciuglio a nord della città, fino a Enziteto, e i Parisi a sud, prevalentemente a Japigia. In quegli anni i Parisi importavano la droga direttamente dai siciliani, dai calabresi e dagli albanesi, forti di un legame di lunga data con i pezzi grossi della Sacra corona unita e con la famiglia di mafia di Salvatore Buscemi. Gli Strisciuglio, invece, erano dediti di più al contrabbando di sigarette e alla compravendita di armi da e per la ex Jugoslavia (prioritariamente dal Montenegro, luogo di lunga latitanza per parecchi ricercati dei clan di Bari Vecchia). L’hashish, al contrario, arrivava e arriva per tutti nel porto di Bari dall’Albania, dopo aver fatto rotta in Grecia e Turchia. E da lì a Bari Vecchia – il quartiere in mano all’antica famiglia Capriati – da dove il traffico s’irradia ancora nel resto della città e della provincia, con magazzini e laboratori chimici attivi lungo il tragitto che da Modugno porta alla Murgia. Quelli sono stati gli anni d’oro della mafia barese, un periodo lungo di ricchezze e di bagordi, di spese pazze e di efferati regolamenti di conti, di strettissimi accordi con la politica e di grande paura nel capoluogo di regione. Di quegli anni restano faide aperte, morti invendicate, fuochi che covano sotto la cenere e che, di quando in quando, alzano la cupa fiamma del conflitto. Come quando a Poggiofranco (quartiere ricco e residenziale) è stato ucciso tre anni fa Antonio Campanale, il grande capo dell’omonimo clan – da sempre monopolista nei Mafie in Puglia 33 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie 34 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie Mafie in Puglia parcheggi abusivi del centro cittadino. La risposta s’è fatta attendere un paio d’anni, ed è arrivata con una sequenza di omicidi nel quartiere dei Campanale. Politica e mafia, un legame duraturo. Anche a Bari la mafia e la politica intessono da molto relazioni strette, condividendo interessi e affari. Dalle confessioni del pentito tranese Salvatore Annacondia, è noto l’impegno di Savino Parisi e di Antonio Carpiati nell’incendio del teatro Petruzzelli, allora gestito da un direttore artistico di dichiarata fede socialista e craxiana, Ferdinando Pinto. Ma tutto lascia credere sia in atto una nuova, possibile saldatura tra politica e mafia. Il fenomeno s’è mostrato chiaramente in occasione delle ultime elezioni amministrative della città metropolitana levantina ed è esploso, non senza qualche sorpresa, nella compagine di centrosinistra. Basti pensare che le operazioni di voto delle primarie – che vedevano contrapposti Antonio Decaro, attuale sindaco del Pd, Gia- como Olivieri, ex consigliere regionale di Forza Italia ed ex sodale della discussa famiglia di costruttori Degennaro, ed Elio Sannicandro, ex assessore comunale allo Sport e all’Urbanistica nonché presidente regionale del Coni –, il 23 febbraio 2014, furono modificate in corso d’opera per scongiurare una palese compravendita di voti. Soltanto a mezzogiorno, il Partito democratico, sollecitato dall’intero schieramento, decise di negare agli elettori la riscossione della ricevuta per l’obolo volontario, dopo che fuori dai seggi di Carrassi, del Libertà e di Japigia era stata segnalata la presenza di personalità di spicco della mala barese alle quali venivano esibiti i cedolini da intere comitive di votanti, stranieri inclusi. Neppure le denunce e qualche – piccola – eco mediatica però incisero per determinare una maggiore trasparenza. E così, nelle liste a sostegno del candidato Decaro, furono inglobati nomi poco limpidi. Per esempio, Esperanza Diomede, figlia dell’influente boss Michele, fu inserita nella lista Semplicittà, capeggiata dall’ex assessore e regista del Coni pugliese Sannicandro. A Carrassi, i suoi manifesti elettorali hanno fatto mostra per mesi, anche ben dopo le elezioni. Realtà Italia, lista facente capo all’ex forzista Olivieri – oltre ad aver candidato ed eletto la figlia di un impresentabile ex consigliere comunale ed ex consigliere d’amministrazione della decrepita Azienda Municipale Trasporti Autofiloviari Baresi – diede invece un posto al poi non eletto Francesco Laraspata, figlio di quel Leonardo capoclan barivecchiano ucciso nel 2000. Sul suo ‘santino’ elettorale, Laraspata indicava con grande visibilità il suo soprannome: Terremoto. A ciò bisogna aggiungere che all’attuale assessore comunale espressione di Realtà Italia è stata paradossalmente assegnata la delega al Patrimonio, che, tra le altre cose, si occupa anche di beni confiscati alla mafia. Spaventa la penetrazione di certi nomi e di certi legami nel centrosinistra, ma non stupisce, perché non va dimenticato che la città viene da antiche, trasversali collaborazioni tra politica, impresa e criminalità. Un esempio su tutti: il vecchio scandalo sanitario delle Case di Cura Riunite di Francesco Cavallari, che travolse negli anni Novanta nomi importanti della Dc e del Psi come gli onorevoli Sorice, Formica e Lenoci. Segni di un legame mai del tutto tagliato, reso oggi più pericoloso dalla debolezza dei partiti cittadini e dalla discutibile autorevolezza morale delle cosiddette liste civiche. La posta in gioco. Che la posta in gioco sia altissima, lo dimostrano le operazioni messe a segno dalle forze dell’ordine nel 2014 contro il clan Vavalle del San Paolo. Azioni che hanno portato al sequestro di oltre 50 milioni di euro, proventi del controllo che il clan esercitava su slot machine e videopoker. Un business milionario che permette alla mala di riciclare e reimmettere sul mercato denaro sporco. Un’enorme e sicurissima lavatrice. Tra i beni confiscati c’è anche un’impresa di import/export attiva nel settore dell’ortofrutta, a testimoniare la capacità di penetrazione in questo segmento produttivo un tempo considerato lontano dalle mire dei clan baresi. Ad aprile di quest’anno sono stati arrestati oltre cinquanta esponenti del clan Di Cosola (dei quartieri di Ceglie e di Loseto), dediti al controllo e all’imposizione della manodopera nei cantieri edili della città, come nelle campagne di Noicattaro e Rutigliano. All’inizio di luglio è stata la volta del clan Strisciuglio, decimato dopo un’indagine che ha appurato l’esistenza di un siste- ma consolidato di imposizione del pizzo e della manodopera a parecchi imprenditori edili della città; agli arresti (in tutto una quarantina) ha fatto seguito il sequestro di un arsenale di guerra (compresa una bomba a mano) tumulato nel cimitero dalle donne della cosca. La cappa dei clan sulla città è riscontrabile anche dai tanti bar ed esercizi commerciali, molti del centro, sequestrati e confiscati negli ultimi anni al clan Parisi: uno su tutti, il bar Gasperini, nei cui locali i lavoratori del vicino teatro Petruzzelli erano obbligati a versare un pizzo sulla busta paga al prestanome del boss di Japigia. O il singolare caso di Emanuele Degennaro – esponente della già citata famiglia di costruttori e rettore della Libera Università Mediterranea Jean Monnet di Casamassima – indagato per concorso nel riciclaggio di oltre tre milioni di euro del clan Parisi/Stramaglia tramite compravendite fittizie di immobili. L’inchiesta Degennaro/Parisi ha raggiunto il territorio di Fasano, in provincia di Brindisi, dove la cosca di Japigia ha intrattenuto rapporti stretti con la mafia brindisina. I clan stranieri, dal Caucaso alla Bulgaria. Come tutte le città di mare attraversate per due decenni da importanti flussi migratori, anche Bari conta i suoi clan stranieri, alcuni dei quali estremamente rilevanti nella cornice del crimine organizzato internazionale. I più importanti sono i georgiani di Kutaisi, dediti al furto e alla ricettazione, che gestiscono una florida agenzia di import/ export a poche decine di metri dalla stazione centrale, in Piazza Aldo Moro. Il clan fa parte di una grande cupola della mafia georgiano-caucasica attiva fino in Ungheria, Repubblica Ceca e Dubai. La loro presenza è diventata di dominio pubblico quando, il 6 gennaio 2012 in Piazza Moro, fu ucciso, dai suoi avversari di Rustavi e di Tibilisi, il Kutaisi Tchuradze Reza. Un omicidio deciso tra Milano e Dubai per appianare una sanguinosa controversia nella cupola euroasiatica. Nel marzo del 2014, i Kutaisi sono stati colpiti da una raffica di arresti nelle province di Bari, di Taranto e della Bat, fatto che ha reso noto a tutti la loro predominanza sul clan concorrente e la loro capacità di penetrazione in territori storici della ricettazione e del furto (quali Trani e Andria). È inoltre del marzo di quest’anno la notizia dell’arresto di altri quattro affiliati ai Kutaisi operanti nella provincia di Bari, mentre il 29 giugno una bomba carta ha fatto saltare in aria la centralissima agenzia di spedizione georgiana Cinex Group, appartenente, pare, a una concorrente ‘pulita’ dei Kutaisi. Meno organizzati ma presenti sono i microclan bulgari. Nell’ottobre del 2014 è finito in manette Marin Todorov, capo di un piccolo gruppo dedito alla tratta e allo sfruttamento di mendicanti diversamente abili ,comprati in Grecia e rivendibili su altri mercati europei. Il fatto interessante è che questi mendicanti erano fatti alloggiare nelle ex stalle del boss Savino Parisi su via Oberdan; gli stessi dati alle fiamme da ignoti pochi giorni dopo l’arresto. C’è poi il mercato della prostituzione, gestito da una costellazione di Mafie in Puglia 35 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie Mafie in Puglia 36 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie microclan stranieri (nigeriani e rumeni, in prevalenza) legati alle famiglie di mafia baresi più grosse. I gruppi stranieri dediti allo sfruttamento della prostituzione risiedono principalmente nei quartieri controllati dagli Strisciuglio e dai Parisi, e con questi hanno intessuto nel tempo relazioni fondate sul consumo e sullo spaccio di cocaina. Il proliferare di una suddivisione ‘etnica’ degli interessi criminali è dovuto alla compresenza stratificata di più business nell’area metropolitana, cosa che richiede specializzazioni un tempo impensabili e divisioni di ruolo efficaci e non affidate al caso. È pur sempre vero, però, che mentre i nuovi mercati del crimine si impongono, restano ancora validi i vecchi e violenti dispositivi sanzionatori come l’omicidio, tanto per gli stranieri quanto per i baresi. Nuove frontiere di affari. È evidente il pericolo di un coinvolgimento della mafia barese negli affari milionari della città metropolitana. Ci stanno già pensando i clan della Murgia, le famiglie Mangione/Gigante/Matera di Gravina in Puglia, divenute egemoni nell’altipiano dopo l’uccisione, nel 2010, dell’importante boss di Altamura, Bartolo Dambrosio. Al tempo della sua scomparsa, Dambrosio vantava un cugino come presidente del consiglio comunale di Altamura capeggiato dal sindaco Stacca, esponente di centrodestra, e rilevanti investimenti in società con imprenditori edili in odore di voto di scambio e di corruzione. Successivamente il clan Dambrosio ha trovato in Mario, fratello di Bartolo, un violento prosecutore degli affari di famiglia: Mario è stato arrestato il 20 giugno scorso per strage, con l’accusa di aver fatto esplodere tre mesi prima una bomba contro una sala giochi provocando il ferimento grave di otto ragazzi presenti nel locale. Ma chi comanda davvero sulla Murgia sono, si diceva, i Mangione/Gigante/Matera, noti per aver investito nell’usura, nelle slot machine, nella cocaina, nell’agricoltura, nella ristorazione, nella ricezione turistica e nell’immancabile edilizia. In quest’ultimo settore hanno investito nel sud est barese – una volta terra di Savino Parisi – nei comuni privi di Piani urbanistici generali e governati da amministrazioni spesso troppo leggere. A imprese edili gravinesi, sostenute dalle tre famiglie, sono stati sequestrati beni per parecchie decine di milioni di euro, e non soltanto in Puglia. A marzo del 2013, al clan vengono sequestrati immobili, cantieri e suoli edificabili a Turi, in provincia di Bari, una villa a Corigliano Calabro, un immobile a Gallarate e un altro a Monfalcone. In questo caso è stato il forte dinamismo imprenditoriale a mettere in allarme la magistratura. I sequestri di quest’anno – beni e società per cinquanta milioni di euro, tra i quali un noto ristorante a Venosa, nel potentino, più un resort e un bar a Gravina – hanno rivelato la forte intraprendenza transregionale e l’immensa dotazione di liquidi di Saverio Sorangelo, cassiere del clan. Liquidi provenienti da traffico di droga importata, pare, dalla ’ndrangheta. Infatti, la Murgia è diventata un portone d’ingresso dell’eroina e della cocaina, come dimostrano gli arresti di giugno ad Altamura, dove è stato scoperto un attrezzatissimo laboratorio per la raffinazione della droga appartenente a un ex affiliato di Savino Parisi. Le vie dello spaccio, dalla Murgia, raggiungono il capoluogo, facendo scalo a Bitonto e nella zona industriale di Modugno, passando per Terlizzi, dove lo spaccio ha generato una sanguinosa faida tra le famiglie Baldassarre e Dellorusso. L’altipiano soppianta quindi Andria nella compravendita di stupefacenti, irrobustendo il rapporto con i clan baresi e indebolendo la Bat, ancora sotto il parziale controllo dell’ambigua mafia foggiana. L’aumento dell’importazione di droga è determinato dall’aumento del consumo registrato dappertutto, in Puglia, con picchi rilevanti durante la stagione turistica quando, dalla provincia di Bari, i corrieri scendono verso il Salento (Otranto, Gallipoli e relativi locali notturni, lidi e discoteche) passando per il brindisino (Fasano, Ostuni, Cisternino, Mesagne, Ceglie Messapico): terre di Sacra Corona Unita. Foggia, la città assaltata Una città in mano alla criminalità? Un ritratto in cui sembra essere questo il profilo che emerge dalla cronaca su Foggia. Una città che si deve misurare con le organizzazioni mafiose, con un contrasto da parte dello stato spesso inefficace e con la paura. Foggia e il Gargano non assurgono sovente quanto dovrebbero agli onori della cronaca nazionale, come invece accade per altre località nel meridione di Giovanni Dello Iacovo Mafie in Puglia 37 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie Mafie in Puglia 38 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie Il Magirus Trakker è l’autocarro classico che usano i Vigili del Fuoco, di quelli che si attrezzano con serrande, scala retrattile, cisterne e boccagli per l’acqua. Oppure di quelli che servono per il movimento terra nei lavori stradali. A Cerignola, un mezzo del genere era stato elaborato con un doppio fondo ricoperto di ghiaia: sotto, un sistema di videocamere e di ventilazione consentiva a sei persone di stare acquattate e pronte per quelle spettacolari operazioni di assalto ai portavalori che corrono lungo l’Adriatica, autostrada o la parallela strada statale che sia. Non a caso si sono mobilitati il Reparto prevenzione criminale di Pescara, la Squadra Mobile di Foggia e il Commissariato di Cerignola, portando a termine il blitz organizzato dal Servizio centrale operativo della Polizia che ha portato a sventare un colpo in preparazione e a sequestrare kalashnikov, pistole, giubbotti antiproiettile, decine di caricatori e centinaia di cartucce. Appena qualche giorno prima dell’exploit cerignolano, avevano fatto clamore tre episodi avvenuti nel capoluogo dauno. Il primo, un inseguimento con sparatoria tra due auto, in pieno pomeriggio, il giorno di San Giovanni; il secondo, una “serenata” sotto la finestra, con colpi di pistola al torace del trentenne che si era affacciato rispondendo all’appello; il terzo, un altro inseguimento con la polizia che, in pieno centro cittadino, ha sparato alle gomme di un’auto che non si era fermata a un posto di blocco. Senza contare la lunga teoria di attentati a San Severo, letti qua- si come sfida al neo-presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, ex magistrato antimafia ed ex sindaco di Bari, per un anno chiamato a fare l’assessore alla Sicurezza e alla Legalità dal sindaco della città dell’Alto Tavoliere e presidente della Provincia, Francesco Miglio. Da poco più di un anno, a Foggia e in provincia, si va avanti così: tra suggestioni di cronaca, assecondate dalla nuova attitudine delle forze dell’ordine a “sceneggiare” arresti e sequestri con filmati e presentazioni, degni delle grandi serie tv, e letture tanto allarmistiche quanto ripetitive rispetto a letture e linguaggi che segnarono la stagione più popolare dell’antimafia civile. Il punto di emersione fu un’azione davvero eclatante. Notte di San Giovanni 2014, la città è ancora in fermento per le appena concluse elezioni amministrative. Una decina di uomini armati tenta l’assalto al caveau di una società di vigilanza privata, che ha la sede nel Villaggio Artigiani, prima periferia del capoluogo dauno. I banditi usano camion e caterpillar rubati, chiudono per quattro ore tutte le vie di accesso e di uscita dalla città inscenando finti incidenti oppure mettendo le auto di traverso, bloccano e spaventano, armi in pugno, ignari automobilisti, ingaggiano un lunghissimo conflitto a fuoco con poliziotti e carabinieri usando kalashnikov e bombe a mano. La città intera è in ostaggio. Alla fine, sono costretti a fuggire. Questa ‘mafia pop’ incalza con episodi sempre più temerari che generano processi imitativi in delinquenti isolati, popolano l’immaginario della spavalderia criminale e della paura sociale, ingenerano confusione in un’opinione pubblica ormai disabituata all’analisi prudente. Il 13 settembre 2013, Roberto Saviano, in un post su Facebook linka un video di repubblica.it in cui, ripreso da telecamere di sorveglianza, si vede un omicidio non riuscito solo perché si era inceppata l’arma usata in pieno giorno e scrive: “Il video di questa esecuzione mostra come Foggia abbia una realtà criminale del tutto ignorata eppure potente. Il territorio foggiano è infiltrato a ogni livello dall’organizzazione mafiosa Società foggiana in grado di interloquire anche con ’ndrangheta e camorra. Foggia e tutto il Gargano vivono una pressione criminale spesso ignorata dai media nazionali. È proprio vero che se Bari ha la malavita, il potere mafioso pugliese è a Foggia e nel Gargano”. “Illegalità diffusa che fa paura”. Un anno dopo, il sito di Repubblica diffonde un’articolata e allarmata ricostruzione del contesto criminale foggiano, inquadrandolo nella cornice mafiosa. “La nuova mafia che assedia Foggia”, il titolo del pezzo a firma di Giuseppe Caporale, si conclude con un documento: è l’audizione, che il giornalista definisce “scioccante”, del questore di Foggia, Piernicola Silvis, davanti alla Commissione parlamentare per i reati contro gli amministratori pubblici, presieduta dalla senatrice del Partito democratico Doris Lo Moro. È il 28 giugno 2014 e si è verificato da poco l’assalto con camion incendiati e caterpillar. 39 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie chiamata ‘la Società’, che è una vera e propria associazione per delinquere di stampo mafioso: commette omicidi efferati (ce ne sono stati sei o sette dall’inizio dell’anno), commette estorsioni violente (tutta la città è estorta), c’è stata anche l’esplosione di un’autobomba all’inizio di marzo (non parlo di un petardo ma di una vera e propria autobomba) che per fortuna non ha fatto vittime, di fronte alla sede dell’azienda di un noto costruttore. Una città dove tre, quattro bande di gangster si spartiscono il territorio e ogni tanto vanno in conflitto, si sparano e si ammazzano, ma dove non c’è ancora un’associazione antiracket. Tano Grasso, che tutti voi conoscete, è riuscito a costituire una buona associazione antiracket a Vieste, combattendo le associazioni criminali che operano sul Gargano, ma non è riuscito a crearla a Foggia. Ci riusciremo probabilmente a breve, ma nel 2014 una città massacrata dagli omicidi, anche di chi non ha pagato il pizzo, ancora non vede nascere un’associazione di questo tipo, perché la gente ha paura. A Foggia, i nomi delle famiglie mafiose non si dicono neanche in famiglia. Ci sono omicidi, autobombe, estorsioni dovunque». L’attenzione si sposta poi tra la ‘scoperta’ del carattere mafioso della criminalità foggiana: «Si sta sottovalutando il fatto che sta nascendo un’associazione da 416-bis che non è più la Sacra corona unita», chiosa Lo Moro, presidente della Commissione sulle intimidazioni agli amministratori locali e senatrice Pd. Non resta che la sconsolata osservazione dell’as- senza di un’antimafia sociale: «Bisogna creare un’attenzione nazionale: se la società cresce e migliora, anche le minacce nei confronti degli amministratori politici e comunali scemano: questo è matematico. Deve crescere la società», conclude il questore. Le mani sulla città. Il punto è proprio un dibattito fermo alla stagione dei grandi processi che certificarono i caratteri dell’articolo 416-bis del codice penale: il processo per l’assassinio del costruttore Giovanni Panunzio, ucciso il 6 novembre 1992, concluso con la sentenza del 13 ottobre 1999 della Corte di Cassazione che per la prima volta riconosce la Società Foggiana e le sue batterie come una vera e propria organizzazione di tipo mafioso. Un’occasione persa per incidere sulla struttura dell’economia pubblica locale, è l’operazione “Piazza Pulita” che il 6 aprile 2012 svelò l’infiltrazione mafiosa nell’azienda foggiana che allora si occupava del ciclo dei rifiuti, interamente partecipata dal Comune. Gli arresti della Direzione distrettuale antimafia di Bari arrivarono 4 mesi dopo il fallimento dell’Amica Spa e dopo che, per almeno due anni, si era vissuto un clima incandescente intorno a Palazzo di Città, con aggressioni e pressioni pressoché quotidiane intorno alla gestione dei servizi pubblici locali, messa in crisi dallo stato di pre-dissesto finanziario attivato dal Comune. L’inchiesta della Dda rivelò episodi gravi di connivenze ed estorsioni, illuminò retrospettivamente episodi come il blocco dei mezzi della raccolta Mafie in Puglia Silvis è foggiano e parla della sua esperienza a Oristano, in Sardegna, che ha concluso sei mesi prima: “Non si può dire che la Puglia, la Sardegna, la Calabria e la Campania sono uguali”, dice alla presidente Lo Moro, un ex magistrato, che è stata sindaco di Lamezia Terme subito dopo lo scioglimento per mafia dell’importante comune calabrese, molto attiva in Libera. Vale la pena rileggerle, oggi, le parole del questore: «Per quanto riguarda la provincia di Foggia (…) c’è una galassia di episodi che coinvolgono amministratori comunali: minacce, incendi di automobili, invio di proiettili, lettere anonime, telefonate, facce strane per strada che ti sfidano. (…) C’è un’illegalità diffusa che fa paura. C’è una microcriminalità scatenata (...) Nel Gargano, che ricorda per alcuni versi le terre sarde, perché come quelle è terra di montanari, alligna però il benessere del turismo, perché in estate il Gargano letteralmente esplode sotto quel profilo. Ebbene, si è creata un’organizzazione criminale nel Gargano che estorce tutti gli esercenti pubblici. In una situazione del genere, in cui si è affogati dalle organizzazioni criminali, lei può immaginare come possa stare tranquillo un sindaco di Cerignola, di Vieste o di Monte Sant’Angelo. Vogliamo parlare della città di Foggia e di San Severo? Approfitto di questa sede per dire formalmente che Foggia, con 160 mila abitanti, è una città dove l’illegalità diffusa è dovunque, dove la microcriminalità è dovunque e dove vi è un’associazione criminale Mafie in Puglia 40 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie che erano stati vissuti dentro la normale dialettica politica. Ma non ha fatto lievitare una consapevolezza piena delle scelte più strutturali che dovrebbero riguardare la qualità del sistema degli appalti e della regolazione dei servizi pubblici, che restano prevalentemente impostati con la regola del massimo ribasso, spezzettati per abbassare le soglie di accesso o influenzati da “clausole sociali” che riducono la concorrenza fino ad annullarla. Basti pensare che sono ormai sei anni che vanno deserte le gare per il servizio di illuminazione pubblica di una città capoluogo con oltre 150 mila abitanti e un territorio ottavo in Italia per estensione. O che, malgrado la gara europea per i servizi del verde pubblico disposta nel 2013, al Consorzio aggiudicatario è stato, alla fine, imposto di farsi carico (dimezzandone gli stipendi), di tutti gli ex dipendenti di un sistema cooperativistico lambito dall’inchiesta della Dda su Amica. Le connessioni e gli affari. I piani considerati decisivi nel dibattito nazionale antimafia sono l’economia e la regolazione, ma a Foggia si rischia di focalizzare troppo l’attenzione su sparatorie, racket estorsivo e altri aspetti eclatanti. Invece, anche nell’ottica della magistratura specializzata, la “modernizzazione” della Società è vista benissimo e seguita nei suoi tragitti nazionali e internazionali. È vero che la Dda ha dovuto subire un brusco stop quando, con l’inchiesta “Vela 2” del 2003 che tornò a investire la locale Confindustria e alcuni esponenti di vertice del mondo politicoistituzionale, provò invano a far passare al vaglio processuale il tema complesso delle interposizioni fittizie nella titolarità di imprese criminali, specie, come nel caso foggiano, quando operano nel settore dell’edilizia e delle compravendite immobiliari. Ma in altre direzioni le inchieste hanno fatto passi avanti importanti, confermando l’impressione che, con il quinquennio di omicidi che liquidò le figure storiche e più carismatiche (Franco Spiritoso nel 2007, Antonio Bernardo nel 2008, Michele Mansueto nel 2011 e Giosuè Rizzi nel 2012), la Società abbia compiuto la definitiva svolta verso gli affari, che l’aveva portata a difendere la propria autonomia, negli anni Ottanta, da una Nuova camorra organizzata poco incline al basso profilo e, negli anni Novanta, da una Sacra corona unita troppo irruente e spesso inutilmente sanguinaria. Nella relazione 2012-2013 della Direzione nazionale antimafia, si legge di “assoggettamento ed anche contiguità tra la locale imprenditoria e la criminalità mafiosa”, giudizio tratto in particolar modo dall’operazione “Corona” che, secondo la Dna, “offre il quadro più attuale della Società Foggiana e delle attività illecite da questa svolte”. Ma le dinamiche verso l’esterno si raffinano. Se le estorsioni sono il mezzo ordinario di approvvigionamento, offrono anche l’opportunità di accesso in ditte e imprese che consentono la ‘legalizzazione’ del sistema criminale e restano l’espressione più efficace del dominio territoriale in cui consiste l’impianto mafioso. Un’inchiesta della Dda di Bari ha scoperto il modo raffinatissimo e poggiato su complicità di cassieri e croupier con cui esponenti della Società foggiana ripulivano il denaro sporco nel Casinò di Venezia ricorrendo a giocate fittizie, cambiando rilevanti somme di denaro in più occasioni, in modo da sfuggire alle segnalazioni previste dalla legge e ottenendo a fine serata un assegno emesso dalla più antica casa da gioco del mondo. Ma, nell’anno dell’Expo, la fotografia forse più precisa dell’evoluzione della mafia foggiana la scatta la sentenza del processo Bacchus, che non solo testimonia l’investimento in settori strategici come quello vitivinicolo, con le prime ramificazioni verso il nord Italia e il Ravennate in particolare. Racconta anche come e quanto deve essere estesa la rete delle contiguità e connivenze attive e passive: dai funzionari di banca che non segnalano operazioni anche da 8 milioni di euro, fatte da società troppo piccole per non destare sospetti, ai professionisti che hanno costituito e mantenuto società fittizie che movimentavano fatture senza IVA che ‘ritornavano’ saldate con l’Iva maggiorata; dagli imprenditori carnefici che truffano l’Unione europea, agli imprenditori indeboliti da una concorrenza sleale che diventano parti del gioco (con l’eccezione di colui che lo ha denunciato, facendolo saltare). Gargano criminale. Lo scorso 16 luglio, la prima sezione penale del Tribunale di Foggia ha riconosciuto il quadro tracciato dalla Dda, con ciò scrivendo una pagina importante della storia giudiziaria della mafia foggiana. Una pagina che illustra perché micro e macro non sono dimensioni scindibili: in Bacchus, minacce, estorsioni, usura, riciclaggio, false fatturazioni, truffe comunitarie si tengono assieme; più in generale, il dominio dei gruppi criminali egemoni si esprime e si conferma sia con l’imposizione “fiscale” del pizzo estorsivo, che con il “diritto di pascolo” concesso alla cosiddetta microcriminalità per furti, rapine o scippi. Il giorno dopo l’attesa sentenza, la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha approvato lo scioglimento del consiglio comunale di Monte Sant’Angelo, “dove sono state accertate forme di condizionamento da parte della criminalità organizzata”. Un provvedimento a lungo discusso in sede prefettizia, che ha travolto prudenze e buone intenzioni degli amministratori, ma che suggella un’attenzione progressivamente più affinata su un contesto emerso chiarissimo, nella sua gravità, in due grandi inchieste chiuse nel 2011 e nel 2012: Medioevo e Rinascimento. Dalle indagini si evince che nemmeno un bar poteva essere aperto a Monte, senza ‘autorizzazione’ del potente boss arrestato dopo due anni di latitanza domestica. E poi l’intreccio con i clan manfredoniani e la Società foggiana, gli affari in comune con i Casalesi, l’adesione al dominio criminale assai oltre la misura passiva della connivenza. Per penetrare un modello culturale di questo genere bisogna avere almeno due punti cardinali con cui orientare le indagini antimafia. Il primo è il piano della prova processuale, su cui rischiano di sfaldarsi quadri accusatori troppo pieni di giudizi di valore: con questo rinnovato rigore nell’applicazione del diritto probatorio, stabilizzano acquisizioni documentali utilissime considerando il principio della ‘circolazione della prova’ che consente di utilizzarle in tutti i possibili processi di mafia oppure riescono ad aggredire i patrimoni costituiti illecitamente con ciò colpendo l’anima delle nuove mafie. Il secondo punto cardinale è quello che gli addetti ai lavori chiamano ‘pluralismo operativo’, un metodo di lavoro che si sta dimostrando indispensabile per indagini che ormai agiscono in contesti senza più alcun confine plateale tra lecito e illecito. Si costituiscono gruppi di lavoro “ad hoc” a Roma, a Bari e a Foggia. Il modello del pool è un dato acquisito e, in tutte le indagini antimafia, alla Direzione distrettuale antimafia sono applicati uno o due sostituti della Procura ordinaria foggiana. Lo stesso schema si replica a livello di polizia giudiziaria, con gruppi di lavoro che sono stati costituiti da elementi dello Sco, della Squadra Mobile di Foggia e di Bari, dei Ros e anche a livelli di Commissariato. Questa strutturazione è la più funzionale: da un lato serve per fare analisi sul fenomeno mafioso; dall’altro, per tenere sempre aggiornata la lettura del territorio. Soprattutto sembra garantire efficienza, integrità e sicurezza, le tre qualità necessarie per combattere ad armi pari le cosche mafiose. Mafie in Puglia 41 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie Mafie in Puglia 42 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie Scu, la quarta mafia ha radici in Salento La ‘quarta mafia’, quella forte aggregazione su base socioculturale che controlla i business illeciti e si annida nelle pieghe dell’economia salentina, ha compiuto l’ennesimo salto di qualità. A lei il controllo di grosse fette di res pubblica grazie al “consenso” di una parte della cittadinanza, di chi fino ad ora aveva subìto l’imposizione della legge della violenza e del sopruso, assoggettati ai clan mafiosi e sottomessi alla regola dell’omertà di Mara Chiarelli Dal 1983 ad oggi – 32 anni di storia criminale, bagnata di sangue e nutritasi di droga ed estorsioni – la Sacra corona unita (Scu) ha manifestato sempre più concretamente la sua capacità di mutare pelle, adeguandosi di volta in volta alle necessità che l’intero sistema socio-economico imponeva. Dalla provincia brindisina, terra intrisa di quella cultura mafiosa per averne dato i natali, fino a Gallipoli, tacco d’Italia, attraversando comuni e campagne, “accomodandosi” nel largo Salento e lambendo anche la provincia tarantina. Erano alte le aspettative di quel Pino Rogoli, piastrellista mesagnese che, in carcere per un omicidio commesso durante una rapina, decise di contrastare proprio nel Salento l’avanzata della Nuova camorra dei cutoliani, in odore di ricostituzione. E di fondare una organizzazione mafiosa, che nelle intenzioni del sanguinoso padrino, avrebbe avuto principalmente identità di ‘anti Stato’ nel cuore dello Stato stesso: «Qui, nelle patrie galere – spiegava il 14 maggio 1984 Rogoli all’allora giudice istruttore barese, Alberto Maritati – succedono tante cose gravi e io, come più grande, più saggio, è vero che dò dei consigli. Più volte, e lei lo può constatare dal contenuto delle lettere, io sono intervenuto anche per far risparmiare da un vero e proprio massacro alcuni detenuti che erano indicati come autori di soffiate. Per quanto attiene alla Sacra corona unita, non è stata creata per commettere reati, ma solo per regolare e decidere le varie questioni insorte tra i detenuti». Gli anni bui della violenza e il silenzio dei giudici. E la neonata organizzazione, così abilmente diretta, adotta sin dal principio il metodo mafioso, “con il ricorso sistematico alla violenza, all’interno e all’esterno dell’associazione, spesso con modalità connotate da sinistra spettacolarità”, come si legge negli atti giudiziari (la sentenza di secondo grado a 33 persone, emessa il 12 febbraio 2002 dalla Corte d’Assise d’Appello di Lecce). Arrivano gli omicidi, tanti ed efferati, eseguiti con i metodi più eclatanti, aperta dimostrazione della potenza bellica e intimidatoria: la grande disponibilità di armi e la totale mancanza di inibizione alla violenza tracciano la strada di sangue battuta dalla Scu. Mentre i giudici processavano ma non riconoscevano la “mafiosità” della Sacra corona unita (la sentenza di condanna del 24 ottobre 1986 escludeva la sussistenza dell’articolo 416 bis), si ponevano le basi di quella che sarebbe diventata una mafia tentacolare, capace di passare da ben tre attentati dinamitardi (due al Palazzo di giustizia di Lecce e il terzo, fallito, alla linea ferroviaria Lecce-Bologna), al controllo delle aste giudiziarie, alle infiltrazioni negli appalti, nell’economia pulita, nel calcio e nell’energia alternativa, ottenendo sponde e appoggi da politici e amministratori. Per la prima volta, solo nel 1991 la Sacra corona unita ebbe dalla magistratura il riconoscimento di associazione di stampo mafioso. I semi erano già germogliati. La trasformazione. Gli anni ’90 sono passati e la Sacra corona unita ha imparato la lezione dei siciliani, di quella mafia storica che era entrata nella sua stessa formazione culturale. Le “malerbe” sono cresciute facilmente, nutritesi dei proventi di droga, usura ed estorsioni, principali attività di sostentamento delle organizzazioni criminali pugliesi. E hanno capito che, come insegna Cosa nostra, occorreva dismettere i vecchi abiti sporchi di sangue, occorreva mettere un freno a quell’attività di proselitismo che si basava sulle affiliazioni mafiose: basta omicidi, perché attirano l’attenzione delle forze dell’ordine, meno ricorso ai “battesimi” che fidelizzano i nuovi soldati – è vero – ma mettono a rischio la tenuta stessa del gruppo, della “famiglia”, esponendoli a un più elevato rischio di pentimenti. Tra i diversi gruppi operanti sul territorio si viene dunque a creare un nuovo sodalizio, una pax mafiosa funzionale al proseguimento, se non all’accrescimento dei nuovi business. Mentre dal carcere, nonostante i capi storici della Scu siano sottoposti a regime di isolamento (il cosiddetto “carcere duro”), continuano a filtrare ordini e disposizioni. «L’esperienza ci ha insegnato che essere riservati fa bene, evitare determinate liti, determinate regole che si usavano in passato, fa bene a evitare i guai», spiega Ercole Penna, al secolo Lino u’ bionnu, il più importante collaboratore di giustizia della Sacra corona Unita, pentitosi dopo 22 anni di militanza ai vertici della frangia brindisina. Mafie in Puglia 43 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie Mafie in Puglia 44 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie I rituali mafiosi. I ‘battesimi’ non sono scomparsi, ma ridotti e valutati a seconda del contesto. Spiega Penna: «L’affiliazione, oggi come oggi, è relativa, nel senso che io la definisco antiquata, nel senso che non siamo più negli anni ’80, quindi oggi molte persone che ci sono vicine, ci sono vicine anche senza essere state affiliate, anzi fanno più dell’affiliato, e quindi non guarderei l’affiliazione come una cosa rigida, con quelle regole che c’erano 20 anni fa, oggi non è così». Cambiano le ‘formazioni’ nella Scu ma non cambia la sostanza: «Noi abbiamo spodestato i capi storici – racconta Penna – ma i simboli e tutto il resto è rimasto quello che ha portato Pino Rogoli negli anni ’80, è sempre quella, è la stessa cosa. Ci sono state delle guerre nostre, delle scissioni, ma sempre quella. Ecco perché quando parlo di Sacra corona libera o Sacra corona unita è la stessissima cosa, cambiano i capi, i vertici, ma è la stessa cosa». Cambiano, dunque, solo le strategie che si evolvono di pari passo alle operazioni di polizia giudiziaria, agli arresti e ai processi, modellandosi e cambiando pelle. Il consenso sociale. Fondamentale in questa situazione magmatica e dinamica è, paradossalmente, l’appoggio delle stesse ‘vittime’ dei reati: la ricerca del consenso sociale diventa quindi prioritaria per la quarta mafia che vuole espandersi e arricchirsi. E così dà prestiti a chi è in difficoltà, procura lavoro, difende dai torti. In alcuni casi sono le stesse vittime a offrire spontaneamente denaro e cadeau ai boss, chiedendone se necessario la protezione. Accade a Squinzano (in provincia di Lecce) con il clan Pellegrino che professava “se tutto va bene è merito nostro”, accade a Mesagne, come riferisce lo stesso Penna: «Siamo sempre disponibili nei confronti della gente comune, che fa affidamento su di noi, anche per i problemi economici per i quali si rivolge a noi, e siamo pronti a risolverli anche dando denaro a fondo perduto. Si può dire che gli abitanti di Mesagne (nel Brindisino, lì dove nasce la Scu) nella maggior parte solidarizzino con noi». E ancora, «in virtù dell’elevato grado di credibilità raggiunto dall’associazione sotto il profilo criminale, sono spesso gli stessi imprenditori che, di iniziativa, consegnano somme di denaro a titolo di pensiero. Tale pensiero non veniva fatto solo attraverso il versamento di somme di denaro ma anche attraverso la consegna gratuiti di prodotti trattati dall’azienda interessata, nonché a mezzo di assunzioni di dipendenti». Situazione stigmatizzata più volte, negli ultimi tempi, dal procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta: «In occasione di alcuni arresti – ha raccontato – ci siamo trovati a dover fare i conti con amici e parenti che contestavano ed ostacolavano addirittura le forze dell’ordine. Da tutto questo viene fuori uno spaccato davvero preoccupante che capovolge le regole e che fa crescere il consenso attorno alla criminalità facendo perdere forza agli apparati dello Stato». Un consenso che ha radici lontane e molte affinità con le strutture criminali di altre province pugliesi. Di aneddoti esemplari ce ne sono diversi: da quello che disegna l’arresto del boss Massimo Pasimeni e di sua moglie, a Mesagne nel febbraio 2010. Mentre la coppia veniva portata via dalla polizia, gli abitanti del quartiere scesero in strada per manifestare solidarietà: «Massimo torna presto, vi vogliamo bene. Gioconda, al tuo cagnolino ci pensiamo noi, ci mancherete». Un mese dopo, a Squinzano (Lecce) il ritorno in libertà del figlio di un “capozona”, Antonio Pellegrino, fu celebrato con una festa nel campo sportivo e i fuochi d’artificio. Botti e gioia anche per la scarcerazione di Andrea Leo, referente per la zona di Vernole. Dolore e partecipazione per la morte di Salvatore Padovano, storico boss di Gallipoli, ucciso per ordine di suo fratello nel settembre 2008: Nino bomba aveva cambiato vita, dopo aver scontato 20 anni di carcere, ormai dedito, asseriva, a scrittura e letteratura. Al suo funerale, il parroco lo accomunò al Cristo morente e invitò i presenti a ricordare «Salvatore con affetto e senza covare rancore». Nelle prime file del corteo funebre, con tanto di fascia tricolore, parlamentari e autorità cittadine e provinciali. La movida, il mare e la politica. Mentre i tentacoli dell’organizzazione si insinuano nelle pieghe dell’economia pulita, grazie anche all’appoggio di politici consenzienti e pronti ad un do ut des mai originale, restano sempre più che valide le storiche fonti di sostentamento: lo spaccio di droga che trova terreno favorevole nei locali della movida salentina, l’usura e le estorsioni. Le ultime due attività illecite, da sempre strettamente collegate, attraversano i decenni con forme e tecniche sempre più affinate: dal racket sul pescato dei pescherecci, passando per i giostrai nelle feste di paese, strozzando incondizionatamente commercianti e imprenditori. Per la mafia salentina, così come per le altre organizzazioni criminali italiane, ogni attività che funzioni è suscettibile di taglieggiamento. Nel febbraio 2014 polizia e carabinieri hanno arrestato 36 persone (43 quelle indagate) per aver piegato all’estorsione i principali stabilimenti balneari fra Torre Specchia e San Foca: i titolari erano tenuti a versare alla Scu il 25 per cento sui ricavi, oltre a concedere l’esclusiva sulla gestione dei parcheggi delle zone circostanti. Anche la guardiania e i servizi di vigilanza non erano lasciati al libero mercato, ma imposti. Proprio in quella zona, nei mesi estivi, si erano verificati numerosi incendi di natura dolosa ai danni di auto e locali. Alcuni imprenditori, negando di aver mai subito estorsioni, sono stati denunciati per favoreggiamento. Gli uomini. La storia della Sacra corona unita è costellata di figure da raccontare, di boss sanguinari, pentiti eccellenti, menti abbrutite e lungimiranti; di vittime da ricordare e di quelle che ancora oggi lottano per non subire. C’è l’ambizioso Giovanni De Tommasi, da referente diretto di Rogoli e poi, in rotta con lui, fondatore della Rosa dei venti. Nella nuova ‘famiglia’ nata in seno alla Scu e benedetta dalla ’ndrina calabrese di San Luca, De Tommasi aveva il grado di ‘imperatore’. Condannato all’ergastolo per cinque omicidi e tre tentativi, in cella scrive lettere su blog e siti di associazioni che si occupano della tutela dei diritti dei detenuti. C’è il lucido Dario Toma, affiliato con il grado di “diritto al medaglione con catena” (il massimo grado nella scala gerarchica mafiosa). Pentitosi nel 2001, affida a un memoriale le sue preghiere: «Voglia la misericordia di Dio concedere alla mia bambina un futuro di serenità al riparo da atti di violenza trasversale». C’è il sanguinario Filippo Cerfeda, il cui programma egemonico aveva provocato tra il 2001 e il 2003 una decina di morti e una sequela di agguati, gambizzazioni e ferimenti. Dopo essere stato tra i primi trenta latitanti italiani più pericolosi e arrestato, dopo quattro mesi di carcere chiese di collaborare, presentando al procuratore Cataldo Motta un primo memoriale di 196 pagine, con un indice dei reati confessati e, a parte, un “elenco dei fatti di sangue”. A chi lo interrogava, precisò: «Gli appunti esibiti riguardano fatti di sangue commessi negli ultimi due anni, a partire dall’estate 2001, e nell’esporli ho seguito in linea di massima un criterio cronologico». C’è Ercole Penna, il superpentito mesagnese, l’asso nella manica della Dda salentina. Colui cioè che in un anno di collaborazione ha svelato agli inquirenti i nuovi assetti organizzativi della Scu, come la potente organizzazione criminale non si fosse mai ridimensionata ma avesse, al contrario, accresciuto potere grazie al ‘cambio di pelle’. A 15 anni riceve il suo battesimo, seguendo una rapida carriera criminale che lo porta ad avere a soli 36 anni il più alto grado mafioso: «Io da piccolo sono stato preso in braccio da Pino Rogoli, da Antonio Antonica, questi sono gli ambienti in cui sono vissuto, è stato naturale nei primi anni ’90 affiliarmi, ecco». Ha spiegato cosa significhi essere un boss, «Non è che uno si alza la mattina e Mafie in Puglia 45 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie Mafie in Puglia 46 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie dice ‘Faccio il capo’. Quando uno comunque è un certo personaggio e si trova ai vertici di una organizzazione, non è che c’è un reato che lo fai e un altro che non lo fai. Non c’è una cosa che eviti, dove ci sono i soldi c’è la malavita e ci sta tutto il resto». Penna, considerato l’ideatore del federalismo mafioso: «Federalismo? Come lo vogliamo chiamare? Ecco, autonomia decisionale sul basso del vertice, anche se la politica che si segue è la politica di noi mesagnesi». E c’è, rappresentativo di tutte le vittime che non si sono piegate alla quarta mafia, Paride Margheriti. Lui non è cresciuto tra i boss, non si è nutrito di mafia. Lui era un assicuratore, una vita normale, che come tante vede momenti economicamente difficili. Poi lo scivolo che ti porta agli usurai, i prestiti, gli interessi impossibili, il racket che punisce. Oggi coordina ben sette associazioni antimafia e antiracket, che coprono un largo territorio della provincia brindisina, la prima fondata a Erchie nel 2013, proprio quando la sua assurda storia sta raggiungendo livelli che scoraggerebbero chiunque. Nell’agosto 2012 ha denunciato i suoi aguzzini, che sono stati arrestati e processati per ben due volte. Entrambe le volte chi lo aveva picchiato e lasciato per terra è stato rimesso in libertà, per un vizio di forma e uno procedurale. Oggi è bersaglio di minacce, più o meno dirette. Ci sono le lettere anonime: “Sei un morto che cammina”, “Nessuna protezione ti salverà insieme a te e per quelle (….) di Brindisi Oggi, per quella merda del tuo avvocato e per tuo padre per primo”. Ci sono poi i proiettili mandati per posta, i cassonetti incendiati sotto casa, le auto bruciate e quelle fatte ritrovare poco dopo il furto. Pur essendo testimone di giustizia ha solo una blanda sorveglianza, confermata di recente dal prefetto di Brindisi, Nicola Prete: il passaggio di un’auto dei carabinieri, di tanto in tanto, sotto la sua abitazione. Le donne della quarta mafia. A reggere le fila della Sacra corona unita, quando mariti, fratelli, figli, sono detenuti, a tenere in riga i ‘soldati’ e curare gli interessi economici della famiglia, c’è in Salento una lunga storia di donne. Donne che negli anni sono andate evolvendosi, al punto di potersi permettere di raccomandare al boss di riferimento la carriera mafiosa di altri, al punto di essere affiliate con il titolo di ‘sorelle di omertà’, ricoprendo incarichi di prestigio, rispetto, di comando. Come Domenica Biondi, moglie di Pino Rogoli, quella donna Mimina che faceva da trait d’union fra suo marito in carcere e i fedelissimi in libertà, capace di inventarsi stratega per il bene della famiglia. Intervistata con sua figlia nel 1994, nella lussuosa casa di Mesagne, si dichiarò vittima della giustizia e dei giudici. Ada Bevilacqua, madre di Cosimo Cirfeta, metteva a disposizione casa sua per le riunioni degli affiliati, prendeva ordini dal carcere durante la detenzione di suo figlio, ordinava omicidi per suo conto e gestiva il denaro proveniente dalle attività illecite. Stesso ruolo ricoperto da Antonia Caliandro e Maria Rosaria Buccarella, rispettivamente moglie e sorella di Salvatore Buccarella, capoclan della frangia brindisina, abilitate al ruolo di comando e brave a colmare il vuoto lasciato dai congiunti, disponendo se necessario, l’eliminazione fisica di persone scomode. Ma più di tutte, quella che incarna meglio in una sola persona le funzioni tradizionali femminili della donna di mafia con azioni ferocemente maschili, è Anna morte, al secolo Anna Addolorata De Matteis Cataldo. Moglie di Luigi Giannelli (capo della frangia del basso Salento) e condannata a due ergastoli e altre lunghe condanne per alcuni delitti di cui era stata istigatrice, è considerata la mandante dell’omicidio di Paola Rizzello e di sua figlia Angelica, di soli due anni, la più giovane vittima della Sacra corona unita. La bimba era con sua madre quando la donna fu prelevata per strada e portata in un casolare. Un colpo uccise Paola, un altro di rimbalzo colpì Angelica a un piedino. Perché smettesse di piangere, all’assassino arrivò l’ordine di ucciderla. Il delitto avvenne con metodi brutali: la piccola fu sbattuta più volte contro un muro. I cadaveri furono ritrovati tempo dopo, a distanza di parecchi anni l’uno dall’altro, nelle campagne circostanti. La Sacra corona unita non è finita. Tutte le valutazioni degli inquirenti, ad eccezione di alcune minimizzazioni fatte a scopo politico negli ultimi anni, non è mai finita, si è solo trasformata. Perché, come spiega Ercole Penna: «Ma non è che l’associazione ha un inizio e una fine. Quando uno è mafioso, è mafioso. Nei modi lo è sempre». 47 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie La discarica Calvi Risorta putabile al clan dei Casalesi, egemone in questa zona per decenni. A confermare la probabile matrice camorristica dei veleni sono proprio le parole del generale Costa, secondo cui: «Nell’area ex Pozzi di Calvi Risorta i rifiuti sono stati tombati secondo un sistema quasi scientifico usato dal clan dei Casalesi. Il nostro è uno spunto investigativo che va approfondito ma abbiamo constatato che qui a Calvi Risorta come in altre zone del Casertano, dove i rifiuti sono stati sotterrati dai Casalesi, sono state usate modalità che rendono il terreno compatto e non franoso, con vari strati di rifiuti e terra che si sovrappongono fino all’ultimo strato superficiale di poche decine di centimetri di terreno in buono stato. Quel che sembra certo è che chi ha eseguito il tombamento dei rifiuti è un soggetto diverso da chi l’ha commissionato». Sono dieci le persone indagate dalla procura di Santa Maria Capua Vetere, per loro non è escluso che venga contestato il reato di disastro ambientale, anche se per ora la parola d’ordine è prudenza: «Il materiale è in fase di campionamento – si legge in una nota diffusa dalla stessa procura – solo all’esito delle analisi si potrà valutare l’effettiva natura dei rifiuti e quindi la loro eventuale potenzialità dannosa». Intanto il ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, ha già incaricato il Corpo Forestale di «compiere immediate e dettagliate verifiche sull’inquinamento ambientale delle aree interessate». Le prime verifiche dei Vigili del Fuoco di Caserta del Nucleo NBCR (NucleareBiologico-Chimico-Radiologico) nell’area degli interramenti non hanno rilevato la presenza di sostanze radioattive. «Presto saremo in grado di stabilire anche a chi sono stati venduti questi prodotti realizzati all’estero», ha assicurato il generale Costa. Mentre si continua a scavare, un migliaio di persone appartenenti ad una rete di associazioni sono scese in piazza a Calvi Risorta chiedendo maggiori controlli per un territorio rimasto da troppo tempo abbandonato nelle mani della Camorra dei veleni. Preoccupato per quanto è stato scoperto nell’alto casertano anche il parroco di Caivano, don Maurizio Patriciello, sempre in prima linea nella lotta all’ecomafia in Campania: «Per questo la gente continua a morire di tumore, e non solo nella zona nota come Terra dei fuochi, ma anche qui, nell’alto casertano, dove non ci aspettavamo di trovare una situazione del genere». Dalle colonne di Avvenire, don Patriciello ha anche invitato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ad andare di persona a Calvi Risorta per rendersi conto con i suoi occhi della drammatica situazione. «Già qualche mese fa scrissi una lettera al capo dello Stato in cui l’ho invitato a venire nelle nostre terre per stare vicino alla gente e vedere di persona questo scempio – ha detto il parroco di Caivano – ora spero che dopo la scoperta di questa bomba ecologica possa accettare l’invito e venire a Calvi». a cura di Massimiliano Ferraro Immaginate una discarica grande come venti campi da calcio. Venticinque ettari di rifiuti, due milioni di metri cubi di fanghi industriali, bustoni di sostanze chimiche tossiche, plastiche lavorate e fusti deteriorati con residui di vernici e solventi. Immaginate trent’anni di interramenti clandestini nella terra di Gomorra, venuti alla luce soltanto adesso. Calvi Risorta, alto casertano, la discarica sotterranea più grande d’Europa è qui, nell’area industriale ex Pozzi, dove da metà giugno continuano ad emergere dal terreno rifiuti speciali, soprattutto di provenienza estera, sulla cui reale pericolosità nessuno può ancora esprimersi. La scoperta eclatante è avvenuta per caso grazie alla denuncia fatta un anno fa da due giornalisti della testata online Calvi Risorta News alla Procura di Santa Maria Capua Vetere. Confrontando lo stato attuale dell’area con delle vecchie immagini, i due cronisti si erano accorti di alcune evidenti anomalie del terreno. Da qui l’indagine che, senza poter contare sulle dichiarazioni di alcun pentito, ha portato gli uomini della Forestale a scoprire una bomba ecologica senza precedenti. «Abbiamo incrociato centinaia di migliaia di ortofotogrammetrie del luogo – ha spiegato il generale Sergio Costa, del Corpo Forestale dello Stato – incrociando poi il dato con il calcolo dei campi magnetici e abbiamo riscontrato importanti anomalie del sottosuolo». Il sospetto è che si tratti dell’ennesimo disastro ambientale im- 48 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie Giornalismo in Grecia Potere e incertezza Alcuni hanno osservato come l’attività politica di Tsipras, quest’anno, abbia in alcune occasioni sovvertito l’ordine del discorso politico. La Open Society Fondation ha segnalato la difficoltà nel garantire la libertà di informazione in Grecia, in uno studio del primo maggio scorso. L’influenza e la risonanza del discorso politico, in questa vicenda, attraverso i media, costituisce forse un esempio delle dinamiche legate a cosiddetti poteri grigi in una “società dell’informazione-matura”, secondo Luciano Floridi, e in una “società liquida” secondo Zygmunt Bauman. di Marta Pellegrini 49 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie La Grecia è stata protagonista di una vicenda complessa che ancora non è del tutto risolta e i mezzi di informazione hanno, in più occasioni, riflesso lo stato in cui versavano le istituzioni. Per tracciarne un profilo sintetico, partiamo dallo studio pubblicato il primo maggio di quest’anno, dalla Open Society Foundation, firmato da Petros Iosifidis (City University of London) e Dimitris Boucas (London School of Economics), intitolato Media Policy and independent journalism in Greece. Nel documento si tracciava un ritratto della situazione dei media in Grecia, alla luce dei decorsi storici e dell’attuale condizione in cui versa il paese. Dopo la dittatura dei Colonnelli, dal ‘74, i media greci hanno visto un periodo di forte espansione durante il quale si è operata una deregolamentazione del settore. Il risultato è stato un eccesso di offerta in un mercato piuttosto ridotto (circa 11 milioni di persone). Al momento sono disponibili circa 160 canali televisivi privati e 200 stazioni radio, la maggior parte dei quali dotati di licenze a tempo determinato, o in parte sprovvisti. A questi si affianca un broadcaster pubblico: la Ellinikì Radiofonìa Tileòrasi (ERT). Questioni di diaploki. La ERT è stata chiusa a causa delle misure di austerità eseguite dal governo Samaras, per essere sostituita da una società più snella e compiacente chiamata NERIT. In un articolo del 2 febbraio, su Il Manifesto, Angelo Mastrandrea riportava l’esperienza di Panaiotis Kalfagiannis, ex responsabile tecnico-amministrativo e sindacalista alla ERT, che, come molti altri, ha deciso di prendere parte all’avventura pirata. In molti hanno scelto di occupare la sede della ERT e proprio da lì hanno proseguito a lavorare, trasmettendo in digitale. Nel 2009 il personale avrebbe accettato di auto-decurtarsi lo stipendio e rinunciato a 4 milioni di arretrati, insieme ad altre misure utili a riportare in attivo i conti della società. «[…] Nel 2011 l’ERT aveva ripagato i debiti ed era tornata in attivo» affermava Kalfagiannis. A seguito della chiusura della ERT 2650 persone, di cui 300 precarie, sono state licenziate. La ERT è stata riaperta solo nel mese di giugno grazie al nuovo governo Tsipras. Il problema appare complesso e, da un lato, rappresentativo di alcune dinamiche che affliggono le cosiddette società dell’informazione mature, dall’altro, radicato nel sistema socio-politico del paese, in particolare, legato a un triangolo di potere chiamato in greco diaploki. Si tratta di un ampio panorama d’interessi strettamente intrecciati. Secondo lo studio della Open Society Foundation, i media greci sono stati ‘colonizzati’, grazie alla deregolamentazione, da gruppi di imprenditori, i quali, avendo altre attività dipendenti dalla sfera pubblica attraverso appalti e progetti, avrebbero sfruttato il controllo sui media per coltivare ulteriormente i propri interessi nell’ambito di un sistema fortemente corrotto e clientelare. Questo tipo di organizzazione, oltre a violare molti dei principi d’im- parzialità dell’informazione o di trasparenza, ha visto un grandissimo spreco di denaro, anche (e soprattutto) pubblico. A causa della struttura del sistema greco, le attività economicamente rilevanti nel paese (legate al settore petrolifero, dei trasporti anche navali, spedizioni, costruzioni ecc.) dipendono ampiamente da appalti pubblici e il diaploki rafforzerebbe notevolmente dinamiche clientelari e dalla trasparenza dubbia. Nel corso della storia, anche per via della dittatura (dal ’67 al ’74) e della censura statale passate, nel paese si sarebbe generato uno ‘stile’ giornalistico estremamente ‘cauto’. Iosifidis e Boucas concludono osservando come il diaploki sembra essersi, da un lato, rafforzato grazie all’austerity e, dall’altro, indebolito grazie al crescente disincanto tra la popolazione. La situazione appare complessa e i media greci si sarebbero trovati in un limbo istituzionale, in cui è venuta a mancare anche la tutela degli organi di controllo statali (come il Consiglio nazionale per la radio e la televisione in Grecia, NCRTV). Iosifidis e Boucas notano infine come spesso anche «i giornalisti dovrebbero prendere su di sé la responsabilità di onorare la professione.» Tra le speranze per il futuro ci sono le organizzazioni di giornalisti indipendenti. Il potere nell’incertezza. In conclusione, il 5 luglio, Ida Dominijanni scriveva su Internazionale: «Alexis Tsipras e Yannis Varoufakis […] hanno il merito storico di avere riaperto una partita politica 50 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie e culturale […]. Non si vince solo ottenendo risultati: si vince anche, anzi in primo luogo, modificando l’ordine del discorso, il regime del dicibile e dell’indicibile, del visibile e dell’invisibile.» Una riflessione attinente alla sfera politica europea che potrebbe però essere applicata, mutatis mutandis, al settore dell’informazione. La situazione dei media greci potrebbe essere vista come pertinente a un inasprimento delle condizioni d’incertezza di una società liquida così come descritta da Zygmunt Bauman. Un’incertezza organizzativa, legata alle strutture aziendali, ma non solo. Così riportava le riflessioni dell’eminente stu- dioso, il 25 settembre 2010, il Corriere della Sera: “La strategia precipua di ogni lotta di potere consiste nello strutturare la condizione dell’avversario e “destrutturare”, cioè deregolamentare, la propria. Ciò a cui puntano le parti che si contendono il potere è lasciare i loro subordinati senz’altra scelta che accettare remissivamente la routine che i loro superiori intendono imporre”. A questo potrebbe fare eco un’incertezza dell’informazione caratteristica dell’epoca corrente, potenzialmente sana purché in dosi limitate. A parlarne è stato Luciano Floridi, professore di Filosofia ed etica dell’informazione al St. Cross College di Oxford e membro del Consiglio Consultivo di Google per il diritto all’oblio. Secondo Floridi l’incertezza costituisce un elemento importante anche nell’esercizio del cosiddetto potere grigio nell’infosfera, ed è legata strettamente alla possibilità di formulare domande. Per questo vengono chiamati in causa i media e i motori di ricerca. Ha scritto Floridi, in un suo articolo intitolato “Le nuove eminenze grigie vivono in Silicon Valley”, del 30 luglio 2015, sul blog Che Futuro!: “Chi controlla le domande controlla le risposte. Chi controlla le risposte controlla la realtà (…); oggi, nelle società dell’informazione mature, la trasformazione delle informazioni in un’altra merce significa che le risposte non valgono più nulla[…] Il loro controllo non conferisce più un potere grigio, che si è spostato ulteriormente dietro le quinte, passando dal controllo delle informazioni sulle cose al controllo delle domande che generano informazioni sulle cose». Una riflessione che, insieme a quella di Bauman, potrebbe offrire un’interessante chiave interpretativa per la vicenda greca. Floridi ha concluso: «Abbiamo bisogno di capire meglio il probabile sviluppo del nuovo potere grigio che sta emergendo, come una forma di controllo sull’incertezza; (…) abbiamo bisogno di capire che cosa si può fare per garantire che il controllo sulla morfologia dell’incertezza possa essere esercitato senza secondi fini, tenuto sotto controllo da legittimi poteri socio-giuridici e politici, e non sostituito da tipi ancora peggiori di potere grigio». 51 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie Antimafia in America Latina Un battito d’Ali internazionale La rete Alas nasce diversi anni fa, grazie a Libera International, con l’intento di portare in America latina il modello di lavoro in rete per il contrasto alle mafie e alla criminalità organizzata nato in Italia. Dal 9 al 15 maggio scorso, le organizzazioni partner di Alas si sono ritrovate a Città del Messico per dare corpo al progetto e conoscersi di persona. Questa giornata è stata il frutto di una lunga e complessa attività del settore internazionale di Libera, che ha consentito di mettere in rete organizzazioni che condividono principi, valori e obiettivi simili, nella cornice dell’impegno per l’antimafia sociale nel contesto latino americano di Marta Pellegrini 52 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie Quando si parla di mafie, da diversi anni a questa parte, si parla di un fenomeno di internazionalizzazione che, per esempio, in Europa si sarebbe ramificato già negli anni precedenti la sospensione dei controlli di frontiera tra Paesi membri dell’Ue. Tra l’attività di contrasto e la criminalità organizzata si riscontra spesso un distacco di anni, un notevole gap da colmare. In questo senso, la società civile così come il sistema giuridico e giudiziario, risentono della difficoltà data dai confini nazionali e dalla diversa percezione del fenomeno criminale. A questo proposito si parla di ‘capitalismo mafioso’, in un’epoca in cui parlare di globalizzazione ormai è scontato e la società si affida in sempre più occasioni, diverse tra loro, a sistemi di comunicazione, organizzazioni, società, imprese (e altro ancora) articolate in strutture che vanno ben oltre la giurisdizione e il controllo degli Stati nazionali. L’organizzazione di una rete per l’antimafia sociale in America latina (Alas) si colloca in questo panorama e cerca di stimolare il confronto tra associazioni, insieme alla condivisione delle esperienze, in funzione di una collaborazione che valorizzi le iniziative locali ma mantenga anche uno sguardo più ampio. Abbiamo affrontato l’argomento intervistando Giulia Poscetti, che si occupa di coordinare l’attività di Alas in qualità di referente del progetto per Libera International. Attraverso Libera International avete lavorato molto per realizzare l’incontro di Città del Messico. Qual è stata l’importanza di questo incontro e quali sono le vostre speranze future? L’incontro di Alas è andato oltre le più rosee aspettative. Le organizzazioni si sono confrontate tra loro, dando vita a un’occasione di scambio davvero importante. Il nostro interesse è stato rafforzare i legami, creare un linguaggio comune, unire maggiormente le forze. Non poteva essere fatto altrimenti se non incontrandoci, poiché avevamo percepito che c’era un forte bisogno di portare avanti uno scambio con tutti, di avere modo di vedersi, parlarsi, conoscersi. Libera ha avuto il ruolo di promotore e organizzatore proprio grazie all’expertise che abbiamo su alcuni temi. La rete ha dato un enorme contributo attraverso le esperienze, lotte e progetti su tutti i temi che sono più affini: diritti umani, lotta contro la corruzione, lotta contro quello che chiamano trabajo esclàvo, cioè lo sfruttamento lavorativo a livelli di maggiore violazione dei diritti, appoggio ai familiari di vittime e di migranti. Non cerchiamo di creare un network appiattito su se stesso o aderente al profilo di Libera, cerchiamo di valorizzare degli spunti interessanti e innovativi provenienti dalle organizzazioni e dalla società civile in quei paesi e territori. Adeguiamo il lavoro in base ai contesti sociopolitici ed economici. Com’è strutturata la rete Alas internamente e come funziona? Quali sono i suoi punti di forza e come vi muoverete da adesso in poi? Si tratta di una rete ad organizzazione orizzontale assolutamente operativa. Questo vuol dire che l’assemblea ha partorito una dichiarazione comune condivisa e firmata da tutti, che è disponibile sul sito della nostra associazione. Non abbiamo cercato di creare un organo direttivo nè di redigere uno statuto. L’obiettivo principale è stato rendere la rete il più operativa possibile in vista della fase successiva: l’implementazione di una serie di progetti più piccoli, promossi dalle varie organizzazioni. A luglio abbiamo iniziato a raccogliere le proposte: si tratta di progetti volti a valorizzare i collegamenti all’interno della 53 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie rete, a creare delle connessioni tra le diverse realtà, avendo come filo conduttore i temi della formazione e della sensibilizzazione. L’assemblea ha prodotto una sistematizzazione degli ambiti di azione su cui si muoveranno queste organizzazioni per lo sviluppo dei prossimi progetti. Sono sette macro-aree: antimafia sociale, corruzione politica ed economica, diritti umani e crimini di lesa umanità, equità di genere, giornalismo investigativo, prevenzione sociale e memoria. Il nostro obiettivo è sviluppare una rete forte, unica in America latina, per la quale l’antimafia sociale, così come intesa in Italia, è un modello del tutto nuovo. Questo non perché non si faccia già o non ci siano attività in questa direzione, ma perché non c’è una conoscenza vera e propria del contesto di fondo su cui si può sviluppare ulteriormente l’azione di contrasto; un aspetto che implica la possibilità di dare un valore aggiunto alle attività che già esistono. Si parla spesso di “capitalismo mafioso” e si rimarca come le organizzazioni criminali siano anni avanti rispetto alle attività di contrasto. In Alas pensate che sarà possibile avvicinarsi a una parità, colmare questa distanza, attraverso il lavoro in rete? Siamo ancora in una fase in cui rincorriamo certi fenomeni, quindi colmare questa distanza è sicuramente una grande sfida. La possibilità di impegnarsi condividendo le conoscenze e le esperienze sui territori, facendole valere, è sicuramente un primo passo. La società civile conosce bene i propri territori, quindi potrebbe avere la capacità di “prevenire”; noi mettiamo la valorizzazione di questo aspetto locale e territoriale tra quelli più importanti per la rete Alas. La nostra aspirazione, su cui stiamo ancora lavorando in via sperimentale, è proprio creare un osservatorio internazionale sulla criminalità organizzata che permetta anche di prevenire certi fenomeni che ormai viaggiano su un livello spesso ambiguamente legale. Ciò che si può fare attraverso la rete Alas è valorizzare il più possibile le esperienze delle organizzazioni che hanno aderito al progetto, senza per questo porsi come portatori di conoscenze che di fatto alter organizzazioni hanno già acquisito. Valutando il percorso già fatto: i confini tra gli Stati e l’eterogeneità di fondo, che esiste tra tutte le popolazioni e organizzazioni coinvolte nella rete, hanno rappresentato più un problema o una risorsa? Alla luce dell’assemblea sono apparsi decisamente come una risorsa. In questo tipo di progetti, da parte di tutte le organizzazioni, sono state molto importanti la volontà, la propositività e le dinamiche che si creano dentro una rete. Fa la differenza mettere davanti i protagonismi, portare il proprio caso come il più eclatante, il più urgente, oppure portare le proprie istanze pensando, però, anche di ascoltare, valorizzando tutte le esperienze. Per noi è importantissimo che il lavoro che si sta portando avanti, le iniziative, le attività, siano assolutamente compatibili e si adeguino al contesto dei territori. Non vogliamo uniformare, ma anzi vogliamo tenere conto delle differenze e valorizzare gli elementi di connessione nel contrasto alle mafie. Vogliamo creare un dialogo costruttivo. Un esempio tra tutti è stato poter mettere in collegamento i Cartonéros argentini con il progetto Sicanda del Gruppo Abele, che in Messico, nello stato di Oaxaca, fa un lavoro analogo. Entrambi i progetti cercano di dare dignità a persone che si trovano in condizioni simili; è stato un esempio di come, in contesti diversi, con problematiche diverse, due progetti che senza saperlo affrontavano le stesse sfide, hanno avuto la possibilità di incontrarsi. Quali sono gli obiettivi che sperate di raggiungere da qui a un anno? Sicuramente rafforzare la rete attraverso questi progetti sui sette ambiti che ho citato. Ampliare la rete e rafforzarla, fare in modo che sia il più autonoma e sostenibile possibile e di conseguenza fare in modo che dare importanza al network diventi una priorità anche di tutte le organizzazioni. Cerchiamo di diffondere il messaggio che lavorare da soli è più difficile e frustrante, che essere collegati e in sinergia con altre realtà ha una grande importanza e può aiutare. Tra gli obiettivi che ci prefiggiamo c’è anche la creazione di una sorta di struttura a grappolo, di modo che altre realtà che noi non conosciamo direttamente possano essere sensibilizzate attraverso le organizzazioni partner. 55 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie La sanità e il cattivo “genio” mafioso duta da Alfonso Giordano, in cui diceva: «L’unica mia difesa è la bocca, e a questa bocca non crede nessuno. Così me la sono cucita». Poi s’infilò una sigaretta nel naso per fumare finché, tra una bizzarria e l’altra, non minacciò il dottor Giordano dicendo di non voler partecipare alle udienze, ritenendolo responsabile della sua incolumità. La sceneggiata si concluse presto, perché il giudice proseguì il dibattimento ritenendolo responsabile delle sue stesse assenze. Il più recente “prestigiatore” della salute è stato Maurizio Zuccaro. Nipote di Nino e Nitto Santapaola, da anni era ai domiciliari con la diagnosi di una grave malattia del sangue che avrebbe determinato severissime anemie e un concreto pericolo di vita. Il dubbio della simulazione nacque grazie alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e per via del sospetto dato dal fatto che la sua anemia non aveva spiegazioni. Si scoprì poi che, il giorno prima degli esami ematici, Zuccaro si praticava degli auto-salassi con un ago infilato nelle braccia e nelle gambe. Se ne accorse la Procura di Catania, nel 2013, che filmò tutto con una telecamera inchiodando il boss. Pippo Fava, spiegando di cosa fossero capaci i quattro dell’apocalisse mafiosa, scrisse: “Va detto che la mafia del nostro tempo ha genio. Anche il demonio ha genio”. La storia dei cavalieri della salute catanese ci racconta che quel genio può finire vittima di sé stesso e diventare nullità. a cura di Corrado De Rosa dino della casa che gli avevano assegnato. Tra ritorni in carcere e nuove scarcerazioni, la sua storia andò avanti per anni, finché non fu fermato a un posto di blocco e capì che quella pantomima non poteva proseguire. A questo punto inscenò un tentativo di suicidio che finì malissimo. Si legò una corda al collo, agganciò l’altro capo al corrimano delle scale del palazzo in cui abitava e si lanciò stando seduto su una carrozzina. Morì poco dopo: prima di buttarsi aveva telefonato a un’amica che avrebbe dovuto sventare il gesto all’ultimo minuto. La donna, però, inconsapevole del piano, non fece in tempo ad arrivare. Nino Santapaola, fratello di Nitto, ha giocato con le aberrazioni della mente per oltre un quarto di secolo. Frequentatore abituale di manicomi giudiziari, schizofrenico, demente, depresso. Completamente matto per non restare in carcere e, allo stesso tempo, perfettamente sano per ottenere il rinnovo di patente. Le malattie lo hanno logorato e il quadro clinico si è aggravato strada facendo, ma resta il suo cursus disonorum da creativo interprete della follia nelle sue multiformi rappresentazioni. Salvatore Ercolano invece, famiglia Santapaola, durante il Maxiprocesso entrò nell’aula bunker di Palermo con la bocca cucita da una spillatrice. Era il suo modo per consigliare ai pentiti di tacere, ma anche un bizzarro escamotage per sospendere il processo. Fece leggere da Masino Spadaro una lettera rivolta alla Corte presie- mafia e sanità Nel primo editoriale della rivista I siciliani, Pippo Fava definì un gruppo di imprenditori catanesi come “i quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”, in grado di decidere le sorti economiche dell’isola. Era il gennaio 1983. Il 28 dicembre dello stesso anno fu intervistato da Enzo Biagi e si soffermò sulla tracotanza dei mafiosi e sulla loro impunità. Pochi giorni dopo, il 5 gennaio 1984, fu ucciso a Catania. Riprendendo la similitudine di Fava e facendo riferimento al suo sguardo lucidissimo, altri quattro catanesi e la loro tracotanza avrebbero potuto meritare il titolo di cavalieri dell’apocalisse, o meglio, della salute: Silvio Balsamo, Salvatore Ercolano, Nino Santapaola e Maurizio Zuccaro. Questi “cavalieri” si sono specializzati nel cercare, attingendo al pozzo senza fondo della simulazione delle malattie, di ottenere servizi e benefici attraverso la giustizia, allo scopo ultimo di raggiungere l’impunità. Silvio Balsamo, nel 2000, era entrato in un centro di riabilitazione romagnolo con una diagnosi impietosa: “Paraparesi agli arti inferiori con perdita di controllo degli sfinteri secondari”, che poi diventò “siringomielia dorsale”, una malattia che non fa contrarre i muscoli e costringe alla paralisi. Per questa malattia aveva perfino avuto un aumento della pensione d’invalidità. Se non che, ottenuti i domiciliari, organizzava cene a lume di candela, si scatenava in balli latinoamericani e preparava grigliate per gli amici nel giar- rassegna stampa internazionale a cura di Giulia Panepinto 56 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie La vita delle formiche migratorie San Salvador Maras in spagnolo, è l’espressione utilizzata per indicare una specie di formica migratoria originaria del Centro America, la marabunta, ma anche il termine “banda”. Nello stato di El Salvador, maras è il crimine organizzato. Fra polizia e maras è in atto una corsa agli armamenti e le strade, anche dopo la guerra civile, non hanno smesso di essere zona di guerra. Le maras vogliono ottenere il pieno controllo del territorio e stanno intensificando gli omicidi, utilizzati per fare pressione sul governo e indurlo a cedere come tre anni fa. Nel 2012, attraverso la mediazione dello Stato, le due bande rivali hanno deposto le armi: le vite dei civili in cambio di un trattamento favorevole ai loro mareros all’interno delle carceri. Una tregua – mai rispettata – che le maras stesse hanno interrotto un anno dopo. Le formiche salvadoregne hanno un’organizzazione sociale. Il formicaio si chiama clicas, la regina è un palabrero, bambini e donne sono formiche operaie dedite allo spaccio in strada mentre le formiche guerriero si distinguono dal colore del loro torace: i maras hanno una seconda pelle fatta di tatuaggi che fa da corazza. Nel ’59 un primo nucleo di salvadoregni è fuggito in Usa, insediandosi a Los Angeles. Qui però non è stato accettato dai gruppi ispanici già presenti sul territorio. Si sono create così le condizioni per lo sviluppo di una domanda di protezione che ha favorito le prime gang salvadoregne in California nella lotta per il controllo del territorio. Quando il governo statunitense ha adottato nel ’96 severe leggi sul rimpatrio, le condizioni sociali in El Salvador, dopo la guerra, hanno fatto in modo che MS-13 e M-18 potessero riprodurre nella loro terra di origine quei meccanismi criminali nati nei ghetti di Los Angeles. Consolidandosi con una propria struttura, ufficializzata da riti di affiliazione, controllano il territorio con l’estorsione e come formiche portano la droga dei Los Zetas fino al confine. Si approvvigionano con i ricavati di rapimenti e omicidi su commissione. Il governo Cerén non cede alle richieste di questo governo parallelo, che è talmente forte da riuscire a indurre le compagnie di trasporto pubblico alla serrata, paralizzando la città e uccidendo gli autisti dissidenti. Durante i primi mesi del 2015 le maras hanno ucciso 2965 persone. La fuga verso gli Usa è l’unica soluzione dei genitori per vedere salva la vita dei propri figli – i cosiddetti minori non accompagnati alla frontiera - che vengono arruolati fra le fila dei maras o uccisi nella guerra trasversale fra gang. Durante il periodo nomade le marabunta divorano tutto ciò che ostacola il loro percorso. La Mara Salvatrucha e la Barrio 18 stanno disintegrando la popolazione salvadoregna ormai inerme. La storia dei “falsi positivi” Medellín Una fossa comune che contiene quasi 300 corpi risalenti al 2002, è stata trovata nei pressi della cittadina di Medellín, in Colombia. La certezza finora è che sono corpi di civili, ma a quale massacro appartengono? Il report redatto dall’ong Human Rights Watch, potrebbe impartire una svolta a molti casi di desaparecidos. Il report afferma che tra il 2002 e il 2008 i militari di 180 battaglioni hanno compiuto 3700 omicidi extragiudiziari, ovvero civili sentenziati a morte senza essere stati prima giudicati nel corso di un regolare processo. Il peso pubblico e morale di questa vicenda – nota come lo scandalo dei false positive killing – metterebbe anche al banco di prova l’efficacia della giustizia militare colombiana, dato che i vertici dell’esercito a conoscenza di questi fatti non hanno mai intrapreso azioni disciplinari sui responsabili. Il contesto nel quale sono avvenuti questi omicidi extragiudiziari è la guerra civile fra esercito e Farc. I soldati sono sempre più pressati dalle richieste dei governi che chiedono loro di liberarsi speditamente dei guerriglieri. All’esercito serve un tasso di omicidi “adeguato” da mo- 57 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie strare ai vertici, così alcuni militari decidono di compiere sistematicamente sequestri forzati su un campione indistinto di popolazione civile (anche minorenni) da giustiziare come ribelli. I militari implicati in questo crimine avrebbero anche ottenuto promozioni. Ad oggi sono stati processati 800 uomini che occupano una posizione esigua all’interno della gerarchia militare. Dopo lo scandalo dei false positive il presidente colombiano Santos ha destituito i principali generali che Hrw denuncia: Mario Montoya e Óscar González Peña (entrambi in pensione), il generale Juan Pablo Rodríguez Barragán, comandante delle forze armate, e il generale Jaime Lasprilla, l’ammiraglio Hernando Wills e il capo dell’aeronautica Guillermo Leon. Secondo Hrw si corre comunque il rischio di una sommaria e superficiale applicazione della giustizia per i vertici. Hrw afferma che le indagini condotte per la realizzazione del report sono state ostacolate: minacce, stupri punitivi alle mogli dei testimoni e omicidi. Nixon de Jesús Cárcamo, assassinato in carcere, aveva confessato i crimini commessi e fornito informazioni sul ruolo che avevano avuto i suoi superiori nei casi di “falsi positivi”. Carlos Eduardo Mora nel 2007 lavorava per l’intelligence. Si accorse della pratica di false positive killing e la denunciò ai suoi superiori. Subito dopo cominciarono le minacce, azioni disciplinari ingiustificate al punto di arrivare al tentativo da parte dei suoi ufficiali di farlo rinchiudere in una clinica psichiatrica. Nonostante ciò Mora è riuscito a testimoniare e a far mettere sotto processo molti suoi colleghi. Ripercorrendo i nodi della “rete” la procura ha aperto nuovi fascicoli, ampliando le indagini anche su casi di omicidi extragiudiziali avvenuti tra il 2001 e il 2003 ad opera della IV Brigata del generale Montoya. Da 50 anni la Colombia è martoriata dalle violenze tra gruppi armati comunisti e l’esercito, dai paramilitari fascisti e dalle vendette dei Cartelli. La somma dei morti raggiunge quota 220mila e quella dei desaparecidos 92mila. Tutto questo sangue disorienta e la Colombia ha aumentato del 44% la superficie di terreno coltivato per la coca. Punti percentuali che in futuro si riverseranno sulle vite della popolazione. Il governo dietro le spedizioni punitive Messico Il corpo di Rubén Espinosa è stato trovato fra le piastrelle fredde di un anonimo appartamento nel quartiere Narvarte, a Città del Messico. Da pochi mesi si è trasferito lì per sfuggire alle minacce di quei poteri forti che a più di 400 km di distanza lo vogliono morto. Espinosa è un giovane foto-reporter che collabora con il settimanale di denuncia Proceso – testata che ha aderito alla piattaforma whistleblowing Mexicoleaks. I suoi scatti raccontano le violenze contro i giornalisti e il suo obiettivo pungente ha immortalato le repressioni inflitte dal governo Duarte ai manifestanti nella zona di Veracruz, controllata dai Los Zetas. Insieme al corpo di Espinosa giacciono quelli di quattro donne seviziate. La morte risalirebbe a luglio di quest’anno. L’identità dei carnefici è ancora un mistero, nonostante un video mostri alcuni uomini uscire dall’appartamento proprio nel giorno del massacro, il 31 luglio scorso. I corpi femminili appartengono a Mile Virginia Martin, Alejandra Negrete, Yesenia Quiroz Alfaro e Nadia Vera, attivista per i diritti umani che si è esposta contro il governatore di Veracruz, Javier Duarte. La polizia non esclude alcuna ipotesi, dubita anche della pista passionale, ma chi conosce il lavoro di Espinosa e Vera, può notare come trovino in Duarte il comun denominatore che ne lega le morti. Il corpo di Miguel Angel Jimèrez invece giaceva nel taxi che utilizzava durante le sue attività di sostegno alle famiglie dei desaparecidos. Jimèrez è riuscito a scoprire la verità su alcuni di loro, delegittimando il lavoro di investigazione svolto dalla polizia locale a cui viene sempre di più criticata l’inerzia e l’approssimazione con cui conduce le indagini. Le famiglie dei desaparecidos hanno sovente paura a collaborare con le autorità e non ritengono il loro aiuto valido. Così si rivolgono a persone come Jimèrez, che nel frattempo ha fondato un’organizzazione che svolge ricerche fra le colline dell’Iguala, per scoprire dove sono stati nascosti i 43 studenti spariti nel nulla il 26 settembre scorso. Proprio le escursioni di ricerca condotte per ritrovare gli studenti hanno portato alla luce nuove fosse comuni, ultimamente una sessantina da cui sono stati riesumati 129 corpi. Stando alle dichiarazioni rilasciate nel novembre scorso da tre componenti dei Guerreros, la polizia avrebbe prima sequestrato e poi consegnato i 43 studenti ai macellai-narcos che li avrebbero bruciati vivi. I presunti mandanti sarebbero il sindaco di Iguala, José Luis Abarca Velázquez e sua moglie. Prima di essere sequestrati durante la protesta contro la riforma scolastica, gli studenti avevano osteggiato il comizio della firstlady di Iguala. Lo Stato del Messico è diventato ormai una necropoli a cielo aperto sotto il sole rovente che scioglie i corpi, ma che rimane l’unico testimone in grado di far luce su queste morti. 58 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie criminalità e dintorni cronachesommerse di Andrea Giordano Mancanze di “Intelligence” Il Regno Unito piange i suoi morti dopo la strage terroristica di fine giugno alla spiaggia di Sousse, in Tunisia (30 le vittime inglesi). Ma intanto non si arrestano i tentativi di fuga di cittadini britannici, convertiti all’Islam radicale, alla volta della Siria per unirsi allo Stato Islamico (IS), con il potenziale rischio di un loro futuro ritorno in patria per organizzarvi attentati. Ignoto è sinora il destino di un’intera famiglia inglese (12 persone, tra cui 2 nonni ed un neonato), scomparsa in maggio ad Istanbul: originari del Bangladesh, i Mannan potrebbero essere stati rapiti in Turchia. Stando alla propaganda dell’IS, il nucleo familiare avrebbe raggiunto di sua spontanea volontà i territori dello Stato Islamico; il Califfato incita altri europei ad imitarne il presunto esempio. Sono sinora almeno 700 i foreign fighters britannici partiti per combattere in Siria e Iraq. Il fenomeno non è stato del tutto arginato dalle autorità, a dispetto dell’elevata sorveglianza. Intanto Hani al Sibai, ennesimo ‘predicatore dell’odio’ islamista, è oggi libero di lanciare da Londra violenti incitamenti alla jihad. Si tratta solo dell’ultimo di una serie (tra cui Abu Qatada, Abu Hamza ed Omar Bakri) di ideologi dell’islamismo radicale, da tempo espulsi o lasciati uscire dal Regno Unito dopo la loro nefasta e protratta opera di proselitismo estremista (poco o nulla disturbata dai servizi segreti inglesi che hanno tentato a lungo, e con scarso successo, di procacciarsi i loro servigi, propiziando tutt’al più un loro infido doppio gioco, assai pericoloso per la sicurezza nazionale ed internazionale). Al Sibai vive a Londra in una casa del valore di un milione e mezzo di euro, e riceve con la moglie sussidi per quasi 70 mila euro all’anno, il tutto a spese dei contribuenti inglesi. Ha richiesto invano asilo politico nel Regno Unito sin dal 1994, ma non è stato mai espulso dal Paese in virtù delle vigenti leggi sui diritti umani. L’Egitto (patria di al Sibai, dove è ricercato con pesanti accuse di terrorismo) non viene infatti ritenuto in grado di assicurare un suo equo e corretto trattamento dopo una possibile deportazione. Dieci anni fa, le finanze di al Sibai sono state ‘congelate’ per effetto di sanzioni dell’Onu e dei dipartimenti del Tesoro americano e britannico. Un appello dell’egiziano, l’anno scorso, alla Corte di Giustizia dell’UE in Lussemburgo, per rientrare in possesso dei suoi beni ha avuto esito negativo, motivato dal fatto che al Sibai “ha fornito supporto materiale ad Al Qaeda, e cospirato per commettere atti di terrorismo”, ha inoltre “viaggiato con documenti falsi, ricevuto addestramento militare e fatto parte di cellule e gruppi impegnati in operazioni terroristiche”. Alleato di lunga data di Al Qaeda, al Sibai ha definito gli attentati del luglio 2005 a Londra “una grande vittoria”, e ha spesso lodato Bin Laden, da lui considerato “uno dei leoni dell’Islam”. L’islamista egiziano è inoltre in rapporto di stima reciproca con Ayman al Zawahiri. Al leader di Al Qaeda avrebbe chiesto l’anno scorso sul Web di chiarire la posizione dell’organizzazione in merito alla proclamazione del Califfato da parte dell’IS. Giungendo poi, in settembre, a sottoscrivere un appello online di islamisti radicali in favore di una tregua tra i jihadisti di al Zawahiri e quelli di al Baghdadi in Siria. Sempre l’anno scorso, al Sibai annunciò addirittura online un’intervista (mai realizzata) con il capo di Al Qaeda. L’egiziano ha un seguito di decine di migliaia di simpatizzanti, grazie all’intensa opera di radicalizzazione esercitata tramite siti Internet, Facebook e Twitter. Al Sibai ha stretti legami con Saifallah ben Hassine, leader del gruppo terroristico tunisino Ansar al Sharia (affiliato all’IS), che avrebbe addestrato in Libia Seifeddine Rezgui, l’autore della strage di Sousse. Indagini sono in corso su possibili contatti tra al Sibai e Mohammed Emwazi, l’ex studente di Londra ora boia dell’IS in Siria (e noto come elemento pericoloso all’MI5, l’ente britannico per la sicurezza interna e il controspionaggio, almeno dal 2009). E allora perché, sempre nel 2009 (stando alle rivelazioni del quotidiano Daily Mail), il governo inglese avrebbe cercato di far rimuovere le sanzioni inflitte ad al Sibai? Si sarebbe trattato forse dell’ennesimo, improvvido tentativo di far collaborare un ‘islamista’ di calibro con i servizi segreti di Sua Maestà, o perlomeno di servirsi di lui come ‘esca’? Se così fosse, l’intelligence britannica mostrerebbe di aver poco appreso dai suoi ripetuti errori del passato. 59 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie Cronache dal Messico Il giornalista e blogger Fabrizio Lorusso racconta, in un appassionante reportage, la realtà del Narco-Stato terra di ognuno e di nessuno. Una fotografia dell’attuale, che però delinea anche i contorni di un futuro che potrebbe essere migliore, se affidato alle persone che amano davvero il Messico di Piero Ferrante C’è un’America dove l’inglese lascia il posto allo spagnolo e le frontiere sono erette per marcare distanze umane oltre che nazionali. È il Messico, quella “faccia triste” cantata da Jannacci. A volerlo definire geograficamente, diremo si tratti della periferia più prossima al centro dell’Impero. Una terra di tutti e di nessuno, pervasa da profonde contraddizioni sociali e politiche. Dove, da decenni, si combatte una guerra atroce e senza fine che nessuno ha mai realmente dichiarato ma che miete vittime cui nessuno dà medaglie e di cui non si conoscono i nomi. Storici connubi e inquietanti connivenze ne fanno un regno spietato nel senso letterale del termine. Un regno che ha nella strada la sua stanza del trono e dove i cartelli dei narcotrafficanti, la politica, l’opinione pubblica, le forze dell’ordine sono spesso un’entità sola, un amalgama indistinto impastato di denaro, di favori, di compiacenza, di violenza e di corruzione. A rimanere schiacciate da questi meccanismi sono le maggioranze, quelle ampie fette di società più povere ridotte al giogo. Mute. Silenziose. Costrette sotto una lercia coperta di oppressione, schiacciati tra una condizione permanente di miseria da cui uscire e la più becera violenza come unica e sola regola che norma la società. Tutto questo è quello che descrive Fabrizio Lorusso in Narco Guerra: scene di guerra, raccontate da un Paese che dà la sensazione di essere stato uno Stato e che ora è forse qualcosa di più somigliante ad un inferno in Terra. La sua cronaca (significativa sin dalla copertina) traduce dati e immagini in un linguaggio ben più vivido di quello di un classico reportage, un linguaggio che esplode di una rabbia satura di interrogativi. Spaventa leggere le cifre, tanto più nella consapevolezza che dietro ognuno di quei numeri si annidano spesso torture atroci: ottantamila morti e sedicimila desaparecidos durante il governo di Felipe Calderon (dal 2006 al novembre 2012); ventimila morti e diecimila scomparsi dal dicembre 2012 a fine 2014, sotto Enrique Pena Nieto. Lorusso cammina sulle strade di un Messico ben lontano da quello immortalato dalle reflex dei turisti. Un Messico di Madonne scheletriche e tatuaggi identificativi, dove le cartoline sono minacciose e sanno restituire al massimo miserie di morte. In questo senso Narco Guerra è un lungo reportage di sangue, che, mentre racconta, si pone l’intento di sollevare gli animi, di sollecitare lo sguardo di chi legge verso l’orizzonte di verità indicato dalle parole. E questo atto di verità non è rivolto solo ai messicani. Perché la potenza delle gang criminali si alimenta fino all’ingrasso del silenzio assordante del mondo e di quei comportamenti di volontaria e involontaria compiacenza delle popolazioni d’ogni parte del mondo. Eppure, in questa lunga saga del terrore, Lorusso lascia che entrino anche fasci di speranza. Quei “buoni“ che esistono e che possono cambiare le cose. Eroi normali e non convenzionali. Eroi senza le luccicanti corazze. Eroi vulnerabili. Eroi non eroi. Sono gli indomiti. Uomini e donne dai corpi esili, con occhi che hanno per troppo tempo guardato teste impilate, impiccati in mostra dai cavalcavia, “disertori” sgozzati e abbandonati ai cani, la terra calpestata che altro non è che la pancia di un’unica grande fossa comune. Dolore più conoscenza più resistenza. Eccola l’operazione matematica che Lorusso esegue in Narco Guerra. E che, se risolta, potrebbe dare la stura a un Messico nuovo. Fabrizio Lorusso NARCO GUERRA Cronache dal messico dei cartelli della droga Odoya - 2015 60 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie Libero cinema in Libera Terra Segnali di Marika Demaria Pier Paolo Pasolini sosteneva che “Il cinema è un’esplosione del mio amore per la realtà”. Da raccontare non in forma banale, ma critica, profonda, documentata. Per veicolare messaggi, per non far dimenticare, per riflettere sul passato, che molte volte appare quanto mai presente ed attuale. È possibile ritrovare tutto questo in “Libero cinema in Libera Terra”, il festival internazionale di cinema itinerante giunto alla sua decima edizione e promosso dalla Cinemovel Foundation – che vanta come presidente onorario il cineasta Ettore Scola – e da Libera. «I più grandi nemici della mafia – ha dichiarato Scola nel corso della conferenza stampa di presentazione del Festival – sono la cultura e la conoscenza. Il suo migliore amico è l’ignoranza. Proprio quella che vediamo diffondersi nel nostro paese come una nuova ideologia e per combatterla anche il cinema può fare la sua parte, l’immagine è l’intuizione più democratica dell’uomo, è per tutti». Gli fa eco don Luigi Ciotti, presidente di Libera: «Le mafie a volte temono molto di più un buon film, di una solo annunciata normativa repressiva. Lo straordinario merito del linguaggio del cinema è quello di impregnare la nostra cultura tanto di denuncia quanto di educazione all’impegno civile». Dieci le pellicole scelte per questa decima edizione del Festival: Le mani sulla città di Francesco Rosi; Noi e la Giulia di Edoardo Leo; Anime nere di Francesco Munzi; Fortapasc di Marco Risi; La mafia uccide solo d’estate di Pif; Belluscone di Franco Maresco; La terra dei santi di Fernando Muraca; La zuppa del demonio di Davide Ferrario; Take Five di Guido Lombardi; Let’s go di Antonietta De Lillo. Ad anticipare ogni proiezione, la performance di Vito Baroncini tra cinema, fumetto e lavagna luminosa. La maggior parte delle tappe di “Libero cinema in Libera Terra” si è svolta dal primo al venti luglio, toccando diverse regioni: Sicilia, Calabria, Puglia, Lazio, Emilia Romagna, Lombardia, Liguria. Dopo la pausa estiva, le ultime quattro tappe si svolgeranno il 2 e il 3 ottobre a Ferrara, nell’ambito del Festival di Internazionale, l’11 ottobre a Berlino e, infine, il 15 ottobre a Parigi. Ad aprire e chiudere il Festival è la proiezione del film Le mani sulla città, in omaggio al suo regista scomparso all’inizio di quest’anno. Un film del 1963 che racconta con lungimiranza e come atto di denuncia sociale il fenomeno della corruzione e della speculazione edilizia dell’epoca; significativa la didascalia del titolo, che recita: “I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce”. Il programma del Festival – promosso da Cinemovel Foudation e da Libera, con la partnership di Unipolis, Bnl Gruppo Bnp e Coop Adriatica – permette però di assistere, gratuitamente, anche alla proiezione di pellicole molto più recenti, come Noi e la Giulia e La mafia uccide solo d’estate. Per maggiori informazioni è possibile visitare il sito www. cinemovel.tv. Segnali 61 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie libri Storia, memoria e informazione Il sottotitolo è quanto mai significativo: “La Storia che vi racconteranno non è la mia”. E infatti, nelle oltre 250 pagine che hanno però il pregio di coinvolgere il lettore senza mai annoiarlo, si racconta, attraverso i documenti e le pagine dei giornali di allora, un’altra storia di Peppino Impastato. Quella secondo la quale sarebbe stato un terrorista, secondo la quale si sarebbe suicidato. Una storia che racconta della non libertà di informazione e di un giorna- lismo “incapace di fotografare la Storia nella sua veridicità e non nella sua verosimiglianza”. Senza dimenticare le battaglie di Felicia Bartolotta, madre del giovane intellettuale ucciso la sera del 9 maggio 1978 per ordine del boss di Cinisi Tano Badalamenti, e di suo figlio Giovanni Impastato; quest’ultimo, fratello di Peppino, ha curato l’introduzione al libro. commessi nelle singole regioni: qui sono stati accertati 4.499 reati, oltre a 4.159 denunce e 5 arresti. Il rapporto, attento e documentato come ogni anno, ha posto sotto la lente d’ingrandimento l’Italia intera, restituendoci l’immagine di una terra letteralmente aggredita e presa d’assalto. Legambiente, infine, traccia il profilo della carta vincente per il business nei diversi settori ambientali: i professionisti dell’ecomafia, “quel variegato sottobosco del sistema imprenditoriale italiano”, e che hanno con le mafie “un rapporto stretto, ma non onnipresente”. Il libro contiene un Dvd con video e contenuti extra Simona Della Croce, “Io sono Peppino” Edizioni Zem, 2015 dossier SHARE le segnalazioni del mese a cura di Marika Demaria 62 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie Assalto al Belpaese Nell’anno in cui gli ecoreati sono stati inseriti nel codice penale, il rapporto annuale di Legambiente cambia veste, mettendo a fuoco il tema della corruzione: le sue dinamiche, gli “schemi di gioco”, le inchieste di questo ultimo anno. Il rapporto si apre quindi con un’intervista a Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione. La premessa del libro fotografa la situazione del 2014 e del 2015, sino al 10 maggio. Secondo i dati raccolti, in Italia si commettono 4 reati ambientali all’ora, circa 80 al giorno, 29.293 in tutto il 2014, per un business criminale di circa 22 miliardi di euro, 7 in più rispetto al 2013. La Puglia sostituisce la Campania al primo posto della triste classifica dei reati Legambiente, “Ecomafia 2015” Marotta&Cafiero editori 63 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie formazione università Master in Analisi, Prevenzione e Contrasto della Criminalità Organizzata e della Corruzione Abitare i margini Libera – in collaborazione con il ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – promuove, anche per quest’anno, una tre giorni di formazione e riflessione rivolta ai docenti e agli educatori impegnati nell’educazione alla cittadinanza. Gli argomenti fulcro dell’edizione 2015 di “Abitare i Margini” saranno, come si legge sul sito di Libera, “le risorse e lo sviluppo alternativo al modello attualmente dominante, per affermare un concetto di crescita economico-sociale basato su prassi etiche, legali e corresponsabili, attraverso le quali produrre finalmente uno sviluppo equo, sostenibile, realmente democratico, garantendo opportunità e spazi di realizzazione per ogni individuo e per le comunità nel loro insieme”. L’appuntamento sarà per il 13, 14 e 15 novembre a Monte Porzio Catone, località vicina a Frascati; le iscrizioni saranno aperte a partire dalla seconda settimana di settembre, contestualmente alla pubblicazione del programma. Per maggiori informazioni e per iscrizioni: www.libera.it Scadranno il prossimo 12 ottobre le iscrizioni alla quinta edizione del Master Apc, nato dalla collaborazione tra il Dipartimento di scienze politiche dell’Università di Pisa, Libera e Avviso Pubblico e diretto dal Professor Alberto Vannucci. Come riportato dal sito del Master, lo stesso “rappresenta la prima esperienza accademica in Italia orientata all’approfondimento teorico e alla formazione professionalizzante sui temi dell’analisi, della prevenzione e del contrasto della criminalità organizzata di stampo mafioso, e della corruzione politica e amministrativa”. Saranno oltre sessanta i relatori che si alterneranno durante le più di 400 ore di lezioni frontali, durante le quali durante le quali l’approfondimento teorico sarà integrato con specifici percorsi di formazione sulla legislazione di prevenzione e contrasto attualmente in vigore, sulla sua implementazione e applicazione, nonché sulle altre politiche per la progettazione di strumenti d’intervento contro la penetrazione criminale nell’economia legale e nel ciclo della contrattazione pubblica. Sarà inoltre possibile la partecipazione come uditore per chi non è in possesso dei requisiti richiesti o per chi volesse seguire solo alcuni moduli o seminari organizzati nell’ambito del Master. La partecipazione al Master come uditore non dà diritto al conseguimento del titolo. Per avere maggiori informazioni e per scaricare il bando di iscrizione: http://masterapc.sp.unipi.it/ Master di secondo livello intitolato a Pio La Torre È uscito il bando di iscrizione alla quarta edizione del master universitario di secondo livello in “Gestione e riutilizzo di beni e aziende confiscati alle mafie”, intitolato al sindacalista e politico Pio La Torre, ucciso dalla mafia il 30 aprile 1982. Il Master, diretto dalla Professoressa Stefania Pellegrini del Dipartimento di scienze giuridiche dell’Università di Bologna, tratta – come si legge nella presentazione – “le problematiche relative alla gestione e al riutilizzo dei beni e delle aziende confiscati alle mafie. Tale iniziativa di formazione post-laurea nasce da un’esigenza concreta: colmare la lacuna di professionalità rispetto ad un procedimento – quello disegnato dal Codice Antimafia – del tutto peculia- re, che si presta a coinvolgere competenze pluri-settoriali in chiave cooperativa e complementare. Mediante un corpo docente che annovera i maggiori esperti del settore, il Master si propone di formare professionalità altamente qualificate in grado di gestire sia le procedure per l’amministrazione, sia le strategie per il ri- utilizzo, partendo dal presupposto che una ricchezza sana sia fonte di opportunità, di lavoro e di crescita per il tutto il territorio. All’interno di un unico percorso formativo si offre l’occasione di acquisire le conoscenze necessarie per comprendere l’iter seguito dal bene, dal suo sequestro sino all’assegnazione”. Per avere maggiori informazioni e per scaricare il bando di iscrizione: http://www.unibo.it/it/ 64 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie Ciao, Santo! In occasione della scomparsa del nostro Santo Della Volpe, amici e colleghi ne hanno ricordato carriera e impegno con parole cariche di stima, amicizia, rimpianto. Per cercare di aggiungere qualcosa di significativo, devo per forza affidarmi al mio personale album dei ricordi. Le prime due istantanee in cui il protagonista è Santo sono legate entrambe a Palermo e ad un luogo divenuto simbolo di quella città, nel bene e nel male: l’aula bunker costruita accanto al carcere dell’Ucciardone. Nella prima di queste immagini, quella più sbiadita e ancora in bianco e nero, Santo è fermo, davanti all’ingresso dell’aula, accanto ai soldati e ai blindati dell’esercito. Sta raccontando con pazienza e precisione le udienze del maxiprocesso a Cosa nostra, il momento davvero epocale nella lotta alla mafia nel nostro Paese. È il 1986. Nella seconda istantanea, anche questa sbiadita ma già a colori, ci sono anche io. Ci troviamo entrambi all’interno di quell’aula, allora soprannominata “l’astronave verde”, ma non siamo soli. Con noi tanti altri colleghi di giornali e tv: ne ho dovuti conta- re più di trecento, provenienti da ogni parte del mondo, registrando diligentemente gli accrediti per conto dell’ufficio stampa del Comune di Palermo, dove all’epoca lavoravo. Operatori dei mass media, magistrati, avvocati e gli altri sono lì riuniti per il processo a Giulio Andreotti, uno degli uomini politici più potenti d’Italia, finito alla sbarra con l’accusa infamante di aver aiutato Cosa nostra. Anche in quella circostanza Santo racconta il processo all’Italia intera, con il consueto impegno professionale che è anche passione civile nel suo caso. È il 1995. Con Santo ci incontreremo nuovamente in giro per l’Italia, in occasione di alcuni incontri pubblici promossi da Libera, negli anni immediatamente successivi alla sua nascita. E poi, nella Fondazione Libera Informazione, la nuova realtà voluta da Libera e da Roberto Morrione per monitorare il racconto della mafia e dell’antimafia in Italia, per costruire ponti virtuosi tra testate locali e stampa nazionale, per documentare i fenomeni criminali e spiegare ai cittadini quello che normalmente i media non hanno tempo e voglia di Lorenzo Frigerio di documentare: da un lato la stretta mortale di crimine mafioso e corruzione sulla nostra democrazia, dall’altro le pagine dell’impegno collettivo e personale che rappresentano la vera speranza per un domani diverso. Il rapporto con Santo si è però fatto più stretto e quotidiano inevitabilmente con la scomparsa di Roberto nel maggio 2011, quando entrambi ci siamo trovati a fare i conti con l’eredità professionale e civile di Morrione. Il nostro rapporto non è stato facile all’inizio, anzi diciamo pure che ci sono state scintille tra di noi e le nostre visioni divergevano profondamente. Ognuno di noi due aveva una sua personale idea su come muoversi e cosa fare per continuare a dare vita a Libera Informazione. Al tempo stesso sembrava a ciascuno di noi che le ragioni e le proposte dell’altro non tenessero conto della realtà: una piccola e agguerrita redazione, i pochi fondi a disposizione e una difficoltà nel fare quadrare i conti, una grande richiesta di presenza di Libera Informazione sui territori e una ancora più grande necessità di fare rete, di fare squadra con quelle che Morrione chiamava “le tante tribù del giornalismo italiano”. Insomma, all’inizio, la nostra non è stata una convivenza assolutamente facile, visti anche i rispettivi caratteri, ma doverosamente forzata per il bene di Libera Informazione. Eppure proprio in quei giorni, da quelle difficoltà, anche da quegli scontri ne è nato un rapporto solido, franco che è evoluto in sintonia e fiducia e non è sfociata in amicizia soltanto per mancanza di tempo. Quel tempo di cui Santo non è stato più padrone, una volta che anche lui è stato colpito da una malattia implacabile. Come è accaduto per Roberto, Santo non ha lesinato energie, facendosi letteralmente in quattro, negli ultimi mesi: dall’impegno alla Rai al nuovo incarico di presidente della FNSI, da Articolo 21 a Libera Informazione, non c’è stato momento in cui sia mancato il suo apporto e il suo impegno nelle tante battaglie per i diritti, la giustizia sociale, in difesa del giornalismo di denuncia. Avevamo ancora tanti progetti da portare avanti, avevamo ancora tante pagine da scrivere insieme: chissà cosa ne sarebbe sortito, non lo sapremo mai.. Ora non ci resta che fare tesoro della sua lezione umana e professionale e capire cosa c’è da fare per non disperdere il patrimonio giornalistico e civile che Roberto Morrione e Santo Della Volpe hanno costruito con abilità e costanza, nel nome di Libera. numero 4 | 2015 | 3 euro Bimestrale | Anno XXIII | Poste italiane S.p.A | SPED. IN A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L.27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 1 DCB | To. ISSN 1127-9117 UNA REGIONE, TANTE MAFIE PUGLIA INFELIX SOMMARIO 3 | L’EDITORIALE La foto che scuote le coscienze di Livio Pepino Scu, la quarta mafia ha radici in Salento di Mara Chiarelli 4 | ALTA RISOLUZIONE Uomini senza caporali foto di Cgil Foggia 47 | ECOCRIMINI La discarica Calvi Risorta di Massimiliano Ferraro 8 | COSE NOSTRE Un caffè che fa...bene di Riccardo Christian Falcone e Rossella Fierro 48 | GIORNALISMO IN GRECIA Potere e incertezza di Marta Pellegrini 11 | MAFIE E INFORMAZIONE Chi ha ucciso mia figlia? di Donatella D’Acapito Le tappe del caso Alpi-Hrovatin di Donatella D’Acapito “Chiediamo verità e giustizia” di Fabrizio Feo 19 | RIPARTE IL FUTURO Nomen omen di Leonardo Ferrante 21 | MEMORIA E IMPEGNO Mio fratello, Beppe Montana di Dario Montana Il ragazzo che non voleva diventare un eroe di Jole Garuti Nata il 6 agosto di Jole Garuti 29 | STROZZATECI TUTTI L’immaginario della ‘ndrangheta di Marcello Ravveduto 31 | INCHIESTA MAFIE IN PUGLIA Bari, una bomba a orologeria di Leo Palmisano Foggia, la città assaltata di Giovanni Dello Iacovo 51 | ANTIMAFIA IN AMERICA LATINA Un battito d’Ali internazionale di Marta Pellegrini 55 | MAFIA DA LEGARE La sanità e il cattivo ‘genio’ mafioso di Corrado De Rosa 56 | OCCIDENTI Rassegna stampa internazionale a cura di Giulia Panepinto 58| CRONACHE SOMMERSE Mancanze di “Intelligence“ di Andrea Giordano 59 | SEGNALIBRO Cronache dal Messico di Piero Ferrante 60 | SEGNALI Libero cinema in Libera Terra di Marika Demaria 62 | SHARE Le segnalazioni del mese a cura di Marika Demaria 64 | L’OPINIONE Ciao, Santo! di Lorenzo Frigerio