Mafie in Puglia

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Mafie in Puglia
1 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
31
Mafie in Puglia
Anniversari
21
4
Fotoinchiesta
Caporalato
in Puglia
Giornalismo in Grecia
48
2 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
4 | settembre/ottobre 2015
Il giornale è dedicato a Gian­carlo Siani
simbolo dei giornalisti uccisi dalle mafie
Direzione Luigi Ciotti (direttore responsabile)
Giuseppe Baldessarro (direttore editoriale)
Redazione
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Comitato scientifico
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Rubriche a cura di: Corrado De Rosa, Leonardo Ferrante
Massimiliano Ferraro, Andrea Giordano, Giulia Panepinto, Livio Pepino, Marcello Ravveduto
Hanno collaborato a questo numero: Mara Chiarelli, Donatella D’Acapito, Giovanni dello Iacovo, Riccardo Christian Falcone, Fabrizio Feo,
Rosella Fierro, Lorenzo Frigerio, Jole Garuti, Dario Montana, Leo
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Questo numero è stato chiuso in redazione il 15/09/2015
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3 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
e
h
c
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f
a
L
scuote le
coscienze
Giovedì 3 settembre. Molti quotidiani pubblicano la foto di Aylan,
un bambino di tre anni, curdo
siriano. La maglietta rossa, i pantaloncini blu, le scarpe ai piedi.
Ordinatissimo. Sdraiato sulla spiaggia. Non sta dormendo. È morto.
Annegato mentre, a bordo di un
gommone, cercava di lasciare la
Turchia, insieme alla famiglia, per
raggiungere l’Europa. Il Manifesto
gli dedica metà della prima pagina:
sulla fotografia campeggia la scritta “Niente asilo”. È una foto che
– non certo per volontà del piccolo Aylan e della sua famiglia –
entrerà nella storia. Come quella,
per restare nel dopoguerra, della
piccola vietnamita Kim Phuc, in
fuga, nuda, dal napalm. La foto –
inutile illudersi – non cambierà i
comportamenti dei “grandi della
terra”. Ma già ora ha contribuito a
svegliare coscienze, a suscitare
pratiche di accoglienza e solidarietà, a moltiplicare reazioni.
Da mesi il messaggio, ossessivamente ripetuto da media e da politici di ogni colore, in Italia e in
Europa, è che bisogna finirla con
il buonismo e prendere atto che
per rifugiati e migranti in genere
non c’è posto “a casa nostra”. Di
qui il rincorrersi, in un crescendo
senza fine, di proposte definite
risolutive: rinchiuderli in campi
aldilà del Mediterraneo, ricacciarli nei Paesi da dove vengono, bombardare i barconi che attraversano
il mare, costruire muri e potenziare reticolati di filo spinato sulla
terraferma. E, a fianco, un distillato di odio e xenofobia che sembra mettere nell’angolo e inferiorizzare chi invita alla ragione e
all’accoglienza. Così i giornali, i
talk show televisivi e i social sono
invasi da volgarità razziste e la
scena è dominata da invettive provocatorie come quelle del segretario leghista che intima a vescovi,
alte cariche dello Stato e buonisti
in genere di «prendersi i clandestini a casa loro» quasi che la solidarietà potesse (e dovesse) sostituire la politica più di quanto già
non accade. Contro questa deriva
poco hanno potuto, fino ad oggi,
i princìpi: l’uguaglianza, la solidarietà, la dignità delle persone.
Nonostante il messaggio cristiano
richiamato con forza dal Papa venuto da lontano. Nonostante la
miglior cultura dell’occidente,
transitata dall’illuminismo al socialismo. Nonostante la nostra
Costituzione del 1948, il cui articolo 10 attribuisce “il diritto d’asilo nel territorio della Repubblica”
allo “straniero al quale sia impe-
di Livio Pepino
dito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche”.
Nonostante la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il cui
articolo 11 prevede che “ogni individuo ha il diritto di cercare e
di godere in altri paesi asilo dalle
persecuzioni”. E poco hanno potuto le dure lezioni della storia che
mostrano l’immancabile sbocco
della xenofobia, soprattutto nei
momenti di crisi economica e di
disgregazione sociale, in persecuzioni e pulizie etniche praticate
da “camicie” di diverso colore.
Con aggressioni di gruppo, linciaggi, cacce all’uomo, pogrom nei
confronti dei diversi. Con, alla
base, la costruzione del «capro
espiatorio» che fa apparire naturali e spontanei anche l’annientamento e la distruzione fisica. E ciò
ancorché, a ben guardare, la pratica del rifiuto, lungi dal fondarsi
su dati e fatti, poggi su luoghi
comuni, chiacchiere, falsi (come
l’incombente invasione di milioni
di islamisti sanguinari e l’esistenza di spese spropositate per l’accoglienza) che acquistano dignità
di argomenti solo grazie a ripetizioni ossessive e a mancate confutazioni.
Oggi la foto di un bambino indifeso, ucciso dall’intolleranza e dal
rifiuto, ha scosso le coscienze di
molti (insieme a molte immagini
analoghe e, da ultimo, a quelle di
uomini che, come settant’anni fa,
marchiano altre donne e altri uomini con numeri impressi indelebilmente sulle braccia). Di qui il
crescere di manifestazioni di solidarietà e di ribellione a una “legalità” che uccide, respinge,
costruisce muri (come è accaduto
da ultimo in Ungheria). E, ancora
una volta, il protagonismo delle
donne e degli uomini ha cambiato
gli scenari e spiazzato la politica,
spingendo Germania e Austria a
dichiarare una disponibilità generalizzata all’accoglienza dei
profughi siriani. È un fatto importante, positivo e, fino a ieri,
imprevedibile. Ma guai ai trionfalismi e alla retorica a buon
mercato. All’indomani dell’apertura dei confini tedeschi e austriaci sono fioccate le dissociazioni. I più (anche in Italia) hanno scelto il silenzio. E molti si
sono dissociati: l’Ungheria, i
Paesi dell’Est, ma anche, di fatto,
l’Inghilterra e la Spagna. E sono
cominciati i distinguo: sulla nazionalità e la religione dei profughi
da accogliere, sulla non assimilabilità ai profughi dei migranti tout
court (come se fuggire dalla fame
fosse diverso dal fuggire dalle guerre), sulla necessità, comunque, di
rispettare il trattato di Dublino (che
demanda l’accoglienza, in via esclusiva, ai Paesi di confine).
Nonostante tutto, peraltro, una
falla si è aperta nel fronte del rifiuto e della xenofobia. Ed è una
falla che può ingrandirsi. Ma solo
se la mobilitazione, la solidarietà,
la protesta di oggi si moltiplicheranno e si tradurranno in iniziativa politica capace di incalzare
forze politiche e governi.
4 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
Uomini
senza
caporali
Zakaria Ben Hassine, Paola Clemente e
Abdullah Mohamed. Le vittime non sono
mai vittime per caso. Su di loro, sulla loro
quotidianità, sulle loro vite sofferte, sui
loro sudori, sulle loro mani callose, tra luglio e agosto, si è abbattuta la mannaia del
sistema del caporalato. I loro nomi, appena
tre macchie nel grande rumore del turismo
balneare e ballerino di Puglia, che hanno
distratto i bagnanti il tempo della scorsa
di un giornale. Le loro storie, che vengono
da lontano e che non raccontano nulla
di nuovo se non quello che da secoli è la
condizione del bracciantato in Puglia, sono
storie private del lieto fine, fagocitate dalla
protervia di un sistema antico che rimuove
ogni diritto, a tutto vantaggio del guadagno.
Le notti in viaggio sui furgoni o sui pulmini,
dieci ore di massacrante lavoro nei campi o
sotto i tendoni dell’acinellatura dell’uva per
miserie di paghe che non possono neppure
chiamarsi salari.
Ogni ingiustizia, si alimenta di silenzio. Lo
sfruttamento del lavoro non fa eccezione.
Bisogna parlarne, e nella maniera giusta. Per
rompere il muro che lo nasconde.
di Piero Ferrante
altarisoluzione
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7 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
Un caffé
che fa… bene
A Battipaglia, lo scorso 8 luglio, l’inaugurazione del Caffè 21
marzo, bene confiscato all’imprenditore Antonio Campione,
attiguo agli ambienti della camorra della Piana del Sele.
Un luogo d’incontro e confronto che costituisce una ricchezza culturale e sociale e dà anche lavoro a due carcerati
dell’Icat di Eboli
di Riccardo Christian Falcone e Rossella Fierro
l’antimafiacivile
cosenostre
8 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
La primavera di Battipaglia
può partire da questo bene
confiscato. E può arrivare anche in piena estate, in questo
caso l’8 luglio, quando è stata
alzata la serranda del ‘Caffé 21
marzo’ di fronte a moltissima
gente . Ad assaporare il primo
caffè, anche don Luigi Ciotti.
Le parole di Angelo Mammone,
referente del presidio di Libera
del paesone della Piana del
Sele, raccontano una grande
voglia di riscatto.
Un lavoro prezioso e tutto
volontario, che in poco più
di un anno ha restituito alla
collettività un bar confiscato
alla camorra, trasformando un
luogo di spartizione di potere
e affari, in un altro di incontro
socio-culturale.
Il bar in questione è un locale
di circa 110 metri quadri, in
via generale Gonzaga, a pochi
passi dalla piazza del Comune
e dal corso principale della
città. Apparteneva (con altri
beni anch’essi oggetto di confisca definitiva) ad Antonio
Campione, imprenditore tra i
più noti della Piana del Sele.
Il locale era chiuso da tempo,
a testimoniare l’azione dello
Stato contro la malavita, ma anche, purtroppo, la difficoltà ad
andare fino in fondo, cogliendo
in pieno lo spirito più alto della
legge sul riutilizzo sociale.
Ci sono voluti i commissari
straordinari, inviati a prendere
in mano le redini di una città fatta oggetto di un decreto
di scioglimento per mafia del
consiglio comunale, per andare
fino in fondo. Ci sono voluti i
ragazzi e le ragazze di cinque
associazioni del territorio e lo
9 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
spirito combattivo della direttrice dell’Istituto a Custodia
Attenutata per il Trattamento
delle Tossicodipendenze di
Eboli (struttura che accoglie
circa 50 detenuti). C’è voluto
l’impegno e l’accompagnamento di Libera.
Cosa sia diventato, oggi, lo
racconta il suo nome: ‘Caffé
21 marzo’. Il primo giorno di
primavera, segno di rinascita,
di cambiamento. Il giorno che
Libera ha scelto per ricordare
tutte le vittime innocenti della
violenza criminale e mafiosa.
Un progetto complesso e coraggioso quello con il quale l’Ats
“P’o bene ro paese”, composta
dalle sei realtà che hanno deciso di mettersi insieme per rispondere al bando del Comune
(Gruppo Agesci Battipaglia 1,
dall’Associazione Back to life,
dall’Associazione Mariarosa,
dal Cicolo Vento in faccia di
Legambiente, dalla Cooperativa Lazzarelle e dall’Icatt di
Eboli), è diventata il soggetto
gestore del bar di via Gonzaga.
Un progetto che affonda le sue
radici in un contesto difficile,
lacerato dalle divisioni, dove
ancora si fa fatica a riconoscere
la presenza mafiosa come un
tappo allo sviluppo sociale,
culturale ed economico di un
territorio dalle mille potenzialità. E questo nonostante
lo scioglimento del consiglio
comunale per infiltrazioni
mafiose fosse stata la prova
plastica della complessità
della situazione. Il consiglio
comunale di Battipaglia, già
sciolto a causa delle dimissioni
rassegnate dalla maggioranza dei consiglieri eletti nelle
consultazioni amministrative
del 6 e 7 giugno 2009, è stato
oggetto di un altro decreto di
scioglimento per infiltrazioni
malavitose, adottato dal Presidente della Repubblica il 7
aprile 2014, su proposta del
ministro dell’Interno Angelino
Alfano. Nella sua relazione
Alfano parla di un quadro allarmante di “ingerenza della
criminalità organizzata che
ha compromesso la libera determinazione e l’imparzialità
degli organi eletti nonché il
buon andamento dell’Amministrazione e il funzionamento
dei servizi”.
È grazie a questo provvedimento che a Battipaglia arrivano tre commissari: i viceprefetti Gerlando Iorio e
Ada Ferrara e il funzionario
economico-finanziario Carlo
Picone. È Iorio, con alle spalle
una pregressa esperienza di
collaborazione con Libera nel
procedimento di nascita della
Cooperativa ‘Le Terre di don
Peppe Diana’ all’epoca del suo
servizio presso la prefettura di
Caserta, a chiedere e ottenere
un incontro con i dirigenti regionali di Libera dando di fatto
il via alla nuova stagione di
rinascita dei beni confiscati del
paese. Incontro che si svolge
l’11 giugno 2014 e che porta a
mappare e visitare alcuni dei
beni confiscati già trasferiti
o in via di trasferimento al
patrimonio dell’Ente.
Tra questi, il bar. Un locale in
ottimo stato di conservazione e ancora provvisto delle
attrezzature necessarie all’esercizio dell’attività. Nasce
così il bando pubblico “per la
realizzazione di un progetto
avente finalità sociali mediante
l’affidamento in concessione
d’uso a titolo gratuito di un
immobile confiscato alla criminalità organizzata da destinare
ad attività a servizio delle fasce
più giovani della comunità
quale luogo di incontro socioculturale e di aggregazione per
offrire concrete opportunità
occupazionali anche a soggetti
lavorativamente svantaggiati”,
del 4 novembre 2014.
La domanda di partecipazione è presentata unicamente
dall’Ats-Associazione temporanea di scopo denominata
“P’o ben r’o Paes”. Di qui il
cammino che porterà all’8 luglio, anche se già a maggio oltre
cinquanta volontari, armati di
scope e detersivi, alzano simbolicamente la saracinesca del
locale per un’intensa giornata
di pulizia. Le mura sono state
ridipinte, gli interni adattati al
nuovo uso, le attrezzature igienizzate e rimesse in funzione.
Oggi il ‘Caffé 21 marzo’ rappresenta una grande opportunità
di riscatto e di dignità per tutta
la città. Ma non solo. È anche
il luogo delle opportunità occupazionali per quattro giovani, due dei quali provenienti
dall’esperienza carceraria.
Eppure, i mesi precedenti l’inaugurazione sono stati accompagnati da una notevole atten-
zione dell’opinione pubblica.
Mammone racconta dell’appoggio della Cassa rurale di
Battipaglia, che ha concesso un finanziamento a tasso
agevolato e che finanzierà le
spese per la costituzione della
cooperativa sociale, ma anche
di un continuo «attacco arrivato soprattutto da ambienti
politici» e lanciato «attraverso
manifesti, i giornali e i socialnetwork».
Ma il lavoro comincia adesso.
In calendario non ci sono attività commerciali, ma corsi
di fotografia, chitarra e recitazione. Per risvegliare, con
un caffè, la partecipazione di
una città troppo a lungo addormentata.
11 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
Mafie e informazione
Il coraggio
della denuncia
Aveva compiuto da pochi giorni
26 anni, Giancarlo Siani. Era
giovane, allegro, e abusivo. Termine usato come dispregiativo
per etichettare chi lavorava nelle redazioni senza un regolare
contratto. Siani era di Napoli,
ma ogni giorno si recava a Torre
Annunziata, per raccontare le
cronache di quella che è stata definita la “Fort Apache”.
Anzi “Fortapàsc”, come il titolo
dell’omonimo film di Marco
Risi a lui dedicato. Una pellicola
di denuncia, di impegno civile
e sociale, che ha fissato nella
mente degli spettatori la differenza tra “giornalista-giornalista” e “giornalista-impiegato”,
con la memorabile scena sul
lungomare.
Giancarlo Siani era un “giornalista-giornalista”, così come lo
erano Cosimo Cristina, Mauro
De Mauro, Giovanni Spampinato, Giuseppe Impastato, Mario
Francese, Giuseppe Fava, Giancarlo Siani, Mauro Rostagno,
Beppe Alfano. Tutti uccisi dalla
criminalità organizzata. Tutti
fermati perché svolgevano bene
il proprio mestiere, incarnato
nelle parole di Giuseppe Fava:
“Io ho un concetto etico del
giornalismo. Ritengo infatti che
in una società democratica e
libera quale dovrebbe essere
quella italiana, il giornalismo
rappresenti la forza essenziale
della società. Un giornalismo
fatto di verità impedisce molte
corruzioni, frena la violenza
della criminalità, accelera le
opere pubbliche indispensabili,
pretende il funzionamento dei
servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai
politici il buon governo”.
A distanza di trent’anni dalla
morte di Giancarlo Siani, la
redazione di Narcomafie – dedicato proprio al giovane giornalista campano – ha deciso di
ricordare chi è stato ucciso in
nome della verità e della libertà
di informazione. In particolare,
abbiamo deciso di ricordare altri
due “giornalisti-giornalisti”:
Ilaria Alpi e Miran Hrovatin,
la cui morte è ancora avvolta
nel mistero.
12 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
Intervista a Luciana Alpi di Donatella D’Acapito
Chi ha ucciso mia figlia?
Luciana Riccardi, vedova di Giorgio Alpi e madre di Ilaria Alpi, racconta il
dolore della sua famiglia, da ventuno anni alla ricerca di verità e giustizia e
non di un colpevole a tutti i costi.
«Voglio la verità. A questo
punto è evidente che un depistaggio c’è stato: c’è un fatto
chiaro che lo dimostra. Voglio
la verità perché non mi resta
più molto tempo… lo sa il buon
Dio quanto mi resta».
Luciana ci accoglie nella sua casa.
Il volto segnato dal tempo e gli occhi verdi, chiarissimi e determinati
di chi vuole sapere cosa, chi, le ha
portato via la figlia.
Ahmed Ali Raghe detto ‘Gelle’,
la carta più importante dell’accusa nei tre processi celebrati,
ha ritrattato le affermazioni
fatte contro il suo connazionale, come era accaduto tredici
anni fa anche se nessuno gli
aveva dato ascolto. Ora Hashi
Omar Hassan, indicato come
uno dei responsabili del delitto, processato e condannato
con sentenza definitiva, è stato
scarcerato; non per la ritrattazione di ‘Gelle’ che, dal punto
di vista giudiziario, è come se
non esistesse, ma perché ha
di fatto finito di scontare la
condanna.
Anche se d’impatto può apparire strano, la prima ad esserne
contenta è Luciana Riccardi
Alpi, mamma di Ilaria, convinta
da sempre dell’innocenza del
somalo.
«Chiedo giustizia in senso com-
pleto. Non voglio un colpevole
come lo è stato Hashi Omar
Hassan, che per noi è sempre
stato innocente poiché avevamo capito che si trattava di un
capro espiatorio per tenerci
tranquilli. Gli esecutori materiali sono sicuramente persone
che ucciderebbero chiunque
per pochi spiccioli. Io voglio
conoscere il nome dei mandanti, che sono ancora qui, di
chi in tutto questo tempo ci ha
ricoperto di bugie e depistaggi.
Se fossero persone di poco conto i nomi sarebbero già usciti.
Voglio sapere chi sono. Voglio
poterli guardare in faccia. Ho
ricevuto – prosegue – la telefonata di Hashi che mi diceva
d’essere contento, ovviamente,
della scarcerazione. Quando
parla con me lo fa chiamandomi
sempre mamma».
Luciana si lascia andare, racconta quel dettaglio con una
leggera smorfia fra il disilluso
e il tenero, ché quella parola da
troppi anni non la sente più pronunciata da chi vorrebbe. Poi
aggiunge: «Adesso spetterà agli
avvocati di Hassan chiedere un
processo di revisione, perché
noi vogliamo sapere chi ha organizzato i due depistaggi: uno,
quello di mettere in carcere
Hashi da innocente; il secondo,
quello che ha dichiarato Gelle,
e cioè che Ilaria e Miran sono
stati assassinati per una rapina
andata a male. Quest’ultima
è una versione che, alla luce
di indizi e prove esistenti, è
impossibile accettare».
Parla quasi sempre al plurale,
Luciana, come per abbracciare
ancora la sua Ilaria e il suo Giorgio. Loro ci sono. E continua:
«Io sono davvero angosciata,
perché non vedo niente. Vedo
soltanto il buio».
Scandisce le parole alzando
un poco il tono, quel poco
che lascia trapelare fermezza, determinazione: «Il giorno dopo l’intervista di Rai3
a ‘Gelle’, Domenico D’Amati,
il mio avvocato, ha mandato alla Procura di Roma una
memoria sulla vicenda. C’è il
Procuratore Pignatone che fa
il suo lavoro egregiamente; c’è
una magistrata che ha in mano
l’inchiesta sulla tragedia di mia
figlia. Chiedo di sapere e che
facciano quel che devono». La
voce scappa via, troppo rapida.
«Io sono qua in attesa, sempre.
Solo io non ho più molto tempo,
perché la maggior parte della
mia vita è già passata. Io ho
fretta. Capisco che a qualcuno
possa non interessare nulla,
ma vorrei che non succedes-
se come già successo a mio
marito, che è morto disperato
senza avere giustizia e verità.
Prima di morire io vorrei avere
giustizia, per Ilaria e per il suo
collega Miran».
La rogatoria in Inghilterra, dove
vive ‘Gelle’, l’incidente probatorio, sono passaggi fondamentali per questo. Ma intanto come
non soffermarsi a riflettere un
attimo, a guardare quello che
è stato fatto in questi 21 anni,
e soprattutto quello che non è
stato fatto? Personaggi come
Gelle scompaiono, ma poi è così
semplice ritrovarli. E quando
tredici anni fa aveva già detto
una serie di bugie nulla si era
mosso.
«C’è sempre stata una forte
motivazione a non agire, qualcosa si sarebbe dovuto fare.
Sapevano tutti dov’era Gelle.
Lo sapevano tutti ma non fecero
niente per portarlo qui e fargli
finalmente dire che cosa era
successo. Gelle dice d’essere
stato pagato, di essere stato
chiamato per proporre questa
versione. Noi vogliamo sapere
chi è stato».
E a questo punto Luciana Alpi
non nasconde un timore :
«E se facessero tacere per sempre anche Gelle, chi racconterà
la verità su Ilaria e Miran?»
13 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
Il disegno era chiaro: diamogli
un colpevole, procuriamogli
una condanna. I genitori di
Ilaria così staranno tranquilli,
la smetteranno di andare in giro
a far rumore. Il ragionamento
deve essere stato questo. Lo fa
capire Gelle ammettendo di
aver detto il falso su Hashi e
spiegando perché lo ha fatto. Un
tentativo che però si è infranto
contro la caparbia disperata
ricerca della verità, il bisogno
di risposte dei genitori di Ilaria.
Non c’è però solo la vicenda
delle false accuse del somalo.
Sono troppe le cose che non
tornano. Luciana Alpi potrebbe parlare per ore solo a farne
l’elenco: «Per dirne una, in
Commissione d’inchiesta fu
interrogato il sultano di Bosaso:
disse che Ilaria gli aveva fatto
una intervista di 2-3 ore. In
Italia sono tornati 35 minuti
di girato. Che fine ha fatto il
resto? Sono sparite videocassette, taccuini…».
Le incongruenze della vicenda
sono tantissime, alcuni fatti
sono strani quando non assurdi,
altri ancora appaiono inspiegabili, come ad esempio il ruolo
dei militari italiani che erano
li in Somalia, a Mogadiscio.
«Nessuno dei militari italiani
– dichiara Luciana Alpi – va
lì sul luogo del delitto, eppure
conoscevano Ilaria perché era
la settima volta che andava in
Somalia. Voglio però distinguere, ci sono militari e militari:
sono sicura che se ci fosse stato
il Generale Bruno Loi, Ilaria
sarebbe stata trattata in altro
modo. Sarebbe stata soccorsa,
anche se purtroppo non sarebbe
sopravvissuta perché la ferita
era letale».
Difficile rassegnarsi se si pensa
che Ilaria è arrivata al Porto
Vecchio ancora viva, dopo 4550 minuti dall’agguato. E ci
sono particolari che appaiono
come fatti inspiegabili. Luciana
Alpi racconta la storia delle
salme che arrivano di notte a
Ciampino, del corpo di Ilaria
che passa da una bara all’altra
senza che ci fosse un magistrato a controllare. Ricorda di
quando a lei e al marito Giorgio
dicono che il corpo è crivellato da colpi di kalashnikov. I
coniugi non se la sentono di
effettuare il riconoscimento della
salma – «volevamo ricordarla
com’era» – che spetta agli zii di
Ilaria Alpi; quando tornano da
Giorgio e Luciana Alpi, però,
descrivono un corpo integro con
solo la testa fasciata, per il colpo
d’arma da fuoco alla nuca.
Luciana Riccardi sa bene chi
era la giornalista Ilaria Alpi.
Lo ricorda con orgoglio: Ilaria
apparteneva al Tg3, aveva vinto
un concorso arrivando prima
fra 6200 concorrenti agli scritti.
Già, la storia esemplare di una
giovane donna che conosceva
lingue difficili come l’arabo,
che aveva voluto fare la giornalista ed era entrata in Rai
dimostrando ciò che valeva.
Quando alla mamma di Ilaria
domandi quanto, secondo lei,
potrebbe ancora fare il mondo
dell’informazione per cercare la
verità, chiarisce: «C’è chi tra i
suoi colleghi ha fatto il proprio
dovere fino in fondo. Ma poi a
volte mi fermo a pensare che
altri si siano disinteressati al
caso e non so perché…».
E c’è comunque una cosa che dà
forza a Luciana Alpi: «L’unica
cosa che mi consola in tutta
questa tragedia è l’opinione
pubblica. Ancora ricevo telefonate in cui mi si chiede di
andare all’inaugurazione di una
scuola, di un asilo o addirittura
di una associazione che porta
il nome di mia figlia. Esco per
la strada e vengo avvicinata da
persone che non conosco e che
mi incitano a non mollare, ad
andare avanti. Ma non è sempre
facile. Soprattutto se si è stanchi e con qualche problema di
salute. Ma resisto e vado avanti
finché posso. Loro però non
dovrebbero abusare della mia
età. Perché è logico: finita io,
finito tutto il resto».
14 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
Mafie e informazione
Le tappe del caso
Alpi-Hrovatin
Ripercorriamo oltre un ventennio di ricerche, domande, ipotesi,
delusioni e speranze nel nome della verità sulla morte dell’inviata
del Tg3 Ilaria Alpi e del suo collega, l’operatore Miran Hrovatin,
uccisi in Somalia il 20 marzo 1994 da ciò che viene indicato
immediatamente come un “commando somalo”. Ilaria e Miran
erano in Somalia per seguire l’evolversi della guerra tra fazioni e
la missione Onu “Restor Hope”, lanciata dagli Usa con l’appoggio
di numerose nazioni alleate compresa l’Italia, per porre fine alla
guerra interna e ristabilire la legalità nello scenario somalo
di Donatella D’Acapito
15 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
1994
23 MARZO: A Roma è il giorno
dei funerali per Ilaria. Il pm
Andrea De Gasperis dispone
un esame medico esterno sul
corpo di Ilaria, mentre a Trieste,
su quello di Miran, si procede
con un’autopsia.
Quando i bagagli dei due giornalisti arrivano a Roma, ci si
accorge che i sigilli sono stati
violati: mancano i taccuini con
gli appunti di Ilaria e alcune
delle cassette girate da Miran
ma vengono ritrovati solo due
block-notes intonsi.
4 LUGLIO: Giorgio, padre di
Ilaria, parla dell’omicidio della
figlia come di un’esecuzione:
sottolinea che poco prima di
morire, infatti, la figlia aveva
intervistato Abdullah Mussa
Bogor, il sultano di Bosaso,
che nell’aprile ’95 sarà iscritto nel registro degli indagati
come mandante del delitto, ma
uscirà dall’inchiesta grazie ad
un’archiviazione. Gli appunti
di quell’intervista sarebbero
stati scritti su uno dei taccuini
scomparsi.
DICEMBRE: Si conosce l’esito
della prima perizia balistica: la
Alpi è stata uccisa da un colpo
di fucile sparato probabilmente
da lontano.
1996
20 MARZO: Michele Coiro, procuratore capo di Roma, decide di
affiancare Giuseppe Pititto al pm
Andrea De Gasperis; il 4 maggio
Pititto dispone la riesumazione
del corpo della giornalista, ne
ordina l’esame autoptico e nomina consulenti medici e balistici.
25 GIUGNO: Anche la seconda perizia balistica accerta che
il colpo che ha ucciso Ilaria fu
sparato da lontano; i periti della
famiglia Alpi dissentono. Il pm
ordina quindi una superperizia,
che stabilisce che il colpo mortale
è stato sparato a bruciapelo.
NOVEMBRE: Il pm della Procura
di Asti Luciano Tarditi, assieme
ad un pool di investigatori specializzati in indagini sul traffico
internazionale di rifiuti tossici e
radioattivi, indaga su commerci
e su interessi italiani in Somalia. Dall’inchiesta emergono le
generalità dei faccendieri che
dirigono nell’ombra numerosi
traffici, gli intrecci con i mercanti
d’armi, una mappa completa di
interessi che, all’epoca del duplice omicidio, convergevano
sulla Somalia e sui territori di
altri Paesi dell’Africa costiera. La
documentazione non sarà però
utilizzata nelle indagini.
1997
15 LUGLIO: Due giorni prima che il pm Pititto, con la
collaborazione della Digos di
Udine, riesca a far arrivare a
Roma l’autista e la guardia del
corpo di Ilaria (entrambi testimoni oculari dell’omicidio),
il Procuratore capo di Roma
Salvatore Vecchione, avoca a
sé l’inchiesta, affiancato dal pm
Franco Ionta.
1998
10 GENNAIO: Il somalo Hashi
Omar Hassan è a Roma per
testimoniare in commissione
parlamentare sulle presunte
violenze dei soldati italiani in
Somalia. Due giorni dopo viene
arrestato per concorso nel duplice omicidio, identificato da Sid
Ali Mohamed Abdi (autista di
Ilaria Alpi) e da Ali Rage Ahmed
detto ‘Gelle’. Il 18 gennaio 1999
inizia il processo.
1999
30 APRILE: Per la terza perizia
chiesta dal pm Ionta, vengono
nominati Pietro Benedetti e Carlo
Torre (che si occuperanno anche
del caso Giuliani), secondo i quali
il colpo fu accidentale e sparato
da lontano.
9 LUGLIO: Hashi Omar Hassan
viene assolto dal Tribunale di
Roma. Il pm aveva chiesto la
condanna all’ergastolo. Condanna
che gli sarà inflitta in Appello, con
la sentenza del 20 novembre 2000
che lo riconosce come uno dei
sette componenti del commando
cha ha ucciso Ilaria e Miran.
2001
10 OTTOBRE: La Prima Sezione Penale della Cassazione
annulla la sentenza impugnata
“limitatamente all’aggravante
della premeditazione e al diniego delle circostanze attenuanti
generiche”.
2002
10 MAGGIO: Inizia il processo
d’appello bis davanti alla corte
d’Assise d’Appello di Roma presieduta da Enzo Rivellese. Il 24
giugno, il sostituto procuratore
generale Salvatore Cantaro chiede la conferma dell’ergastolo
per Hassan.
2003
28 MARZO: Esce il film Il più
crudele dei giorni, di Ferdinando Vicentini Orgnani, con Giovanna Mezzogiorno nella parte
di Ilaria Alpi.
6 GIUGNO: Durante la nona
edizione del Premio Ilaria Alpi,
a Riccione, il deputato dei Ds Valerio Calzolaio annuncia di aver
depositato la proposta bipartisan
di istituire una Commissione
parlamentare d’inchiesta sull’omicidio di Ilaria Alpi e Miran
Hrovatin. La Commissione si
insedierà il 21 gennaio 2004.
2006
28 FEBBRAIO: La Commissione
parlamentare d’inchiesta ha concluso i lavori. Mentre i deputati
di maggioranza hanno approvato le conclusioni proposte
dal Presidente Carlo Taormina, l’opposizione trasmette al
Presidente della Camera una
relazione di minoranza (a firma
di Raffaello De Brasi, Carmen
Motta, Raffaella Mariani, Roberta Pinotti, Elettra Deiana, Rosy
Bindi e Domenico Tuccillo) contro le conclusioni di Taormina.
Contemporaneamente, anche
il deputato dei Verdi Mauro
Bulgarelli presenta una propria
relazione.
03 GIUGNO: L’Associazione
Ilaria Alpi scrive al Presidente
del Consiglio, Romano Prodi,
affinché il Governo si attivi per
fare piena luce sulla morte di
Ilaria e Miran, sottolineando
la disponibilità del governo somalo a collaborare con quello
italiano.
20 GIUGNO: Il Presidente del
Consiglio Romano Prodi riceve
Giorgio e Luciana Alpi, promettendo loro un “serio impegno”;
il 18 luglio, i genitori della giornalista saranno ricevuti anche
dal Presidente della Camera
Fausto Bertinotti.
2007
25 GIUGNO: La Commissione Esteri del Senato valuta gli
elementi che motivano la costituzione di una nuova commissione parlamentare d’inchiesta
sulla morte di Ilaria e Miran.
La proposta sarà nuovamente
valutata il 9 gennaio 2008. La
nuova commissione non sarà
mai istituita.
10 LUGLIO: Il pm Franco Ionta,
neoprocuratore aggiunto della
Repubblica a Roma e titolare
16 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
del procedimento sul caso AlpiHrovatin, ne chiede l’archiviazione, ritenendo impossibile
identificare altri responsabili
per il duplice omicidio all’infuori di Hashi Omar Hassan.
Richiesta bocciata il 14 febbraio
2010 dal gip Emanuele Cerosino
che ritiene si sia trattato di un
omicidio su commissione.
2010
18 MARZO: Ali Rage Ahmed,
principale accusatore di Hashi
Omar Hassan, rischia di finire
in giudizio a Roma per il reato
di calunnia. Il gip Maurizio Silvestri, respingendo una richiesta
di archiviazione sollecitata dal
pm Giancarlo Amato, dispone
per il 45enne ‘Jelle’ l’imputazione coatta. Viene invece
archiviata, la posizione di Ali
Mohamed Abdi Said, autista dei
due italiani nonché altro teste
d’accusa contro Hassan, poiché
deceduto in Somalia.
APRILE: L’Associazione Ilaria
Alpi lancia un appello e una
raccolta firme, chiedendo la
riapertura del processo; Luciana
Alpi annuncia che, se dovesse
essere confermata la riapertura
del caso, la famiglia si costituirà
parte civile, aggiungendo che la
stessa è da 16 anni in attesa della
verità, dubbiosa sulla colpevolezza di Hashi Omar Hassan.
2012
25 MARZO: Un’inchiesta su Il
Fatto Quotidiano dei giornalisti
Andrea Palladino e Luciano
Scalettari mostra dei documenti inediti inviati il 14 marzo
del ’94, il giorno in cui Ilaria e
Miran erano appena arrivati a
Bosaso, dal Sios di La Spezia (il
comando del servizio segreto
della Marina Militare) a Balad
in Somalia. Al termine di una
complessa ricostruzione, i giornalisti concludono: “L’omicidio
di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin potrebbe dunque
nascondere qualcosa
che va al di là di ogni
ipotesi immaginata
fino ad oggi, traffici che hanno visto
il coinvolgimento
di apparati dello
Stato, coperti per
diciotto anni,
grazie a silenzi e
depistaggi”.
2013
18 MARZO:
Non ci sono
‘’elementi
probatori per
ritenere che
‘l’imputato
abbia voluto
scientemente incolpare
falsamente
Omar Hassan Hashi di aver partecipato al gruppo di esecutori
materiali del duplice omicidio consumato in Mogadiscio
(…)’’. È quanto scrivono nelle
motivazioni della sentenza i
giudici della II sezione penale
del tribunale di Roma che hanno
assolto dall’accusa di calunnia
Ahmed Alì Rahge.
16 DICEMBRE: Su iniziativa di
Laura Boldrini, la Presidenza
della Camera avvia la procedura di desecretazione degli
atti acquisiti dalle Commissioni
parlamentari d’inchiesta sui rifiuti e sul caso Alpi-Hrovatin, in
risposta a una lettera di Greenpeace e sostenuta dal quotidiano
Il Manifesto.
2014
20 MARZO: Rai Storia celebra il
ventennale del duplice omicidio
trasmettendo il documentario
“Ilaria Alpi vent’anni dopo”.
MAGGIO-OTTOBRE: «L’impressione è che nella fase iniziale delle indagini si sarebbe
potuto fare molto di più, c’erano
delle piste da seguire: il traffico
di armi, ma anche di rifiuti tossici. Non so perché non si siano
seguite. È tutto ancora da fare».
Così Domenico D’Amati, legale
della famiglia di Ilaria Alpi,
commenta i documenti desecretati. Dai documenti emergono informazioni contrastanti,
smentite e un informatore d a
coprire.
Tra i documenti secretati dal
governo, c’è una nota scritta a
mano da un agente del Sismi,
datata 23 marzo 1994: “Appare
evidente la volontà di Unosom
(il comando delle Nazioni Unite,
a guida statunitense) di minimizzare sulle reali cause che
avrebbero portato all’uccisione
della giornalista italiana e del
suo operatore”. La nota è zeppa
di cancellature.
2015
18 FEBBRAIO: A “Chi l’ha visto?”, su Rai3, parla Ahmed
Ali Rage, il supertestimone
del processo: «Ho accusato un
innocente, e non ho neppure
preso i soldi che mi erano stati
promessi». L’uomo, che si nasconde in Inghilterra, racconta
che gli italiani avevano fretta di
chiudere il caso e gli avevano
promesso denaro in cambio di
una sua testimonianza attraverso
la quale doveva accusare un somalo del duplice omicidio. Gelle
indicò il giovane Hashi Omar
Hassan al pm Ionta durante un
interrogatorio, ma poi non si
presentò a deporre al processo
e fuggì all’estero. L’intervista
di Ahmed Ali Rage finisce sul
tavolo della Procura di Roma.
12 APRILE: Va in onda in prima
visione su Rai3 la docufiction
Ilaria Alpi -L’ultimo viaggio,
prodotta dalla Rai e che prova ad
accendere qualche nuova luce
sull’inchiesta che Ilaria Alpi
stava facendo in Somalia sul
traffico internazionale di armi.
15 APRILE: L’uomo rintracciato
vicino a Londra nel febbraio
2015 dal programma di Rai3
“Chi l’ha visto?”, per la procura di Roma sarebbe proprio
Ahmed Ali Rage, incastrato da
una comparazione delle immagini mandate in onda dal
programma di Rai3 con quelle
in possesso degli inquirenti. La
procura inoltra una rogatoria alla
Gran Bretagna per chiedere di
interrogare il somalo sui fatti avvenuti a Mogadiscio il 20 marzo
1994 e sulla ritrattazione delle
sue accuse già fatta nel corso di
una telefonata ad un giornalista
della BBC anni prima.
17 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
Mafie e informazione
“Chiediamo
verità e
giustizia”
Il giornalista Rai chiede che l’appello lanciato da Luciana
Riccardi, mamma di Ilaria Alpi, non rimanga inascoltato. La
donna chiede non solo la verità sulla morte della figlia e del
collega Miran Hrovatin, ma anche di conoscere i nomi di chi
per vent’anni ha mosso le fila di depistaggi e insabbiamenti di
indagini
di Fabrizio Feo
18 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
A 21 anni dall’agguato in cui
Ilaria e Miran furono uccisi, il
caso Alpi-Hrovatin è giunto ad
un bivio. Due fatti nuovi dicono
che o si afferra ora il bandolo della matassa di misteri e
depistaggi, oppure la ricerca
della verità rischia di essere
compromessa per sempre.
Mi rivolgo per questo alla magistratura, agli investigatori, ai
miei colleghi e alla Rai affinché
non cada nel vuoto l’appello
lanciato da Luciana Riccardi Alpi il 20 giugno scorso in
una intervista al TG3. «Voglio
sapere – ha detto con forza
la signora Luciana – chi ha
costruito false piste, chi ha
lavorato per allontanare ogni
possibilità di individuare chi
ha ordinato il duplice omicidio
di Mogadiscio».
Chiedo di sostenere l’appello
di Giuseppe Giulietti e di Articolo21 perché, costi quel che
costi, vengano battute tutte le
strade per arrivare alla verità e
alla giustizia, seguendo fino in
fondo le piste dei traffici illeciti e delle eventuali coperture
politiche, italiane e non.
La nuova clamorosa ritrattazione delle accuse fatta da Ahmed
Ali Rage detto ‘Gelle’ – stavolta
davanti alle telecamere – e la
scarcerazione avvenuta 4 mesi
fa per buona condotta di Hashi
Omar Hassan – che per quelle
accuse ha scontato 16 anni di
galera – ricordano a tutti cosa sono
state le inchieste di questi anni.
Sì, le inchieste. Perché quelle
giudiziarie sono state più di
una. E perché, poi, c’è anche l’inchiesta parlamentare.
In queste inchieste, insieme
a tanto impegno leale nella
ricerca di colpevoli e moventi,
compaiono atti, passaggi, che
lasciano esterrefatti; scelte o
“buchi nell’acqua” che devono
essere spiegati. Un esempio?
Proprio il fatto che Ahmed Ali
Rage detto Gelle probabilmente
si poteva trovarlo già dieci anni
fa quando ritrattò per la prima
volta le accuse contro Hashi , e
proprio lì dove la trasmissione
di Rai3 “Chi l’ha visto?” lo ha
rintracciato.
Dunque al Procuratore Pignatone che, con la pm cui ha
delegato l’inchiesta, ha ora avviato nuove indagini non tocca
un compito facile. Ancora una
volta molti muri da abbattere.
Molto vecchi e alti. Ahmed Ali
Rage, ritrattando, ha ribadito
che per fargli dire menzogne
gli avevano promesso soldi e
un visto per l’Italia. Questa
affermazione, se riscontrata,
dimostrerebbe una volta per
tutte che il duplice omicidio di
Mogadiscio non fu conseguenza
di una rapina finita male, non
fu un fatto casuale. Dimostrerebbe che in tutti questi anni
in tanti hanno avuto interesse
a nascondere le ragioni del delitto. Anche personaggi seduti
su scranni molto alti delle istituzioni di questo Paese.
All’azione della Procura di
Roma deve affiancarsi l’attenzione della pubblica opinione
– che pure non ha fatto mancare
negli anni la sua solidarietà ai
familiari di Ilaria e Miran – e
soprattutto l’impegno dei media.
Non solo singoli o piccoli gruppi
di giornalisti. Ma di una categoria intera, a cominciare da NOI
colleghi di Ilaria, consapevoli
che la battaglia per difendere
il diritto/dovere di informare
comincia dalla richiesta della
verità su questa e altre drammatiche vicende uguali a quella di
Ilaria e Miran.
Leggo l’elenco di titoli e servizi
della nostra videoteca, quella
dei tg e delle trasmissioni, degli
approfondimenti Rai; guardo
cosa è stato fatto, quanto abbiamo fatto, non per ‘ricordare’ e
‘commemorare’, ma per cercare o
anche solo per chiedere la verità
o seguire le tappe dell’inchiesta. Rileggo, e mi convinco che
se anche molto è stato fatto, si
poteva, si può e si deve fare di
più. Tutti i giorni.
Sta ad ognuno di noi. E il momento è questo.
19 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
Era una sera del settembre 2012
quando, a un giovane ed eterogeneo gruppo di attivisti di Libera
e Gruppo Abele, fu consegnata
l’eredità della campagna Corrotti,
che qualche anno prima aveva
ricordato all’Italia le tante convenzioni internazionali firmate e
non ancora pienamente ratificate
nel nostro Paese.
Ricominciare da quel milione
e 300 mila cartoline raccolte e
consegnate a Giorgio Napolitano, allora Presidente della Repubblica, non era un’impresa
né semplice né scontata, perché
le aspettative della società civile
per un impegno sui temi si erano
fatte sempre più forti ed esigenti.
Soprattutto perché l’Italia, in
linea con un processo mondiale,
era cambiata e si era data altri
strumenti: il digitale, i social
network, i dati aperti, le petizioni
online. Di lì a poco si sarebbe
data anche una nuova legge anticorruzione, la 190 del novembre del 2012, che introduceva la
prevenzione come strumento di
lotta alla corruzione, portando in
sé un principio che nel giro di
pochi mesi sarebbe esploso con
il decreto sulla trasparenza, il
n.33 del marzo 2013: il diritto
di sapere e monitorare da parte
della cittadinanza.
In un clima di fermento culturale
ma anche politico che pareva
volgere al cambiamento e che
invece si tradusse in uno stallo
di mesi, quale era l’autunno del
2012, una cosa era certa: il nome
della nascente campagna non
doveva contenere il problema
(come nella precedente edizione)
bensì la rappresentazione di quel
mondo che volevamo.
Un altro aspetto altrettanto evidente era la necessità di aggiornare il messaggio usando strumenti
attuali. Se Libera è nata proprio
con una mobilitazione di campagna senza precedenti, che ha
saputo mettere insieme più di un
milione di persone per chiedere il
riuso sociale dei beni confiscati,
ugualmente dovevamo fare nel
2013, ma dotandoci dei più efficaci strumenti di campaigning
digitale e delle più adeguate prassi comunicative. Perché se si
vuole cambiare una percezione
diffusa, non basta parlare a pochi:
è necessario correre il rischio di
semplificare i temi senza banalizzarli, mettendo da parte le
proprie narrative affinché siano
compresi dal maggior numero di
persone possibile. Ecco quindi
il prezioso ruolo giocato da un
gruppo di creativi, comunicatori,
grafici, campaigner che ci ha
accompagnato durante questo
complesso percorso, in una relazione non sempre facile ma,
come tutte le reti vere che in sé
hanno sempre una parte di difficoltà dovuta a linguaggi e modi
differenti, dal forte impatto. La
nostra battaglia sarebbe quindi
servita a condannare corrotti e
corruttori a far parte del passato,
liberando il nostro futuro.
Ed eccolo, il futuro, che un film
cult degli anni ‘80 voleva far tornare: appunto, Ritorno al futuro.
Ma per chi è nato proprio negli
anni ‘80, ha senso che il futuro ricominci e non che ritorni.
Così, a qualcuno è saltata alla
mente una frase di Ambrogio
Mauri, imprenditore brianzolo,
un uomo onesto, morto suicida
perché risoluto a non pagare tan-
genti. Nella sua lettera-testamento scrisse che “quel che è peggio
è che non credo più nel futuro”
e che si sentiva “isolato dalla
cosiddetta società civile”. Non è
un caso che la prima testimonial
sia stata proprio Roberta Mauri,
figlia di Ambrogio, a cui resta
dedicata la campagna.
La nostra campagna doveva significare un “mai più” e doveva
farlo subito. Siamo stati la prima
iniziativa che, alla luce della
nuova disciplina anticorruzione, ha chiesto l’applicazione dei
nuovi criteri di prevenzione e
conoscibilità. Ancora oggi, a tre
anni di distanza, giochiamo, di
sponda con altri soggetti, il ruolo
di pionieri sui temi. Tornando a
quella sera di settembre 2012, a
un centro punto qualcuno gridò:
“Riparte il futuro!”. Emblematico che si sia persa la memoria
di chi sia stato, poiché il fine
della campagna non è ricordare
i singoli, quanto concretizzare le
parole di Lev Tolsotj, che scrisse:
“Se i corrotti fanno dell’unione
la loro forza, gli onesti devono
fare lo stesso”.
Per questo, la campagna è nata
con una data di scadenza: quando
riusciremo a fare in modo che
la cittadinanza sappia, a livello
diffuso, i rischi che la corruzione
comporta, quando concluderemo il nostro accompagnamento
agli strumenti dell’accesso e del
monitoraggio civico, quando la
legge anticorruzione avrà fissato
almeno quei necessari paletti che
in parte ancora mancano, allora
la campagna morirà.
Perché significherà che, in qualche modo, la macchina del futuro
avrà riacceso i motori.
a cura di Leonardo Ferrante
Nomen omen
21 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
Memoria e impegno
Trent’anni dopo
Nell’estate 1985, a distanza di
dieci giorni, Cosa nostra uccide
due giovani poliziotti: Beppe
Montana e Roberto Antiochia.
Montana viene raggiunto alle
spalle da diversi colpi di pistola
– una Magnum 357 – mentre si
trova con la fidanzata a Porticello (frazione del comune di
Santa Flavia), nei pressi del
porto dove era ormeggiato il
suo motoscafo. Aveva 33 anni,
ed era a capo della neonata
sezione Catturandi.
Roberto Antiochia viene ucciso
il 6 agosto, a 23 anni. Agente di polizia, dopo l’omicidio
di Montana, nonostante fosse
stato trasferito a Roma, decide
volontariamente (rientrando
dalle ferie) di affiancare il
vice questore Ninni Cassarà,
consapevole dei rischi ai quali
entrambi erano esposti. Quella
mattina, un gruppo di nove
persone, armate di kalashnikov
e appostate nella palazzina di
fronte all’abitazione di Cassarà, aprono il fuoco sull’Alfetta
dalla quale erano appena scesi
il vice questore e il poliziotto.
Antiochia, nel disperato tentativo di fare da scudo con
il proprio corpo all’obiettivo
di Cosa nostra, viene ucciso.
Aveva 23 anni. Ninni Cassarà,
gravemente ferito, raggiunge
le scale della sua abitazione
e muore tra le braccia della
moglie Laura.
Nelle prossime pagine, il ricordo dei due poliziotti affidato a
Dario Montana, fratello di Beppe, e a Jole Garuti, direttrice del
Centro Studi Saveria Antiochia
Omicron, dedicato alla mamma
di Roberto Antiochia.
22 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
Mio fratello,
Beppe Montana
Il 28 luglio 1985, Cosa nostra uccise Giuseppe ‘Beppe’ Montana, commissario della squadra mobile di Palermo. Aveva 33
anni, ‘Beppe’, ed era a capo della neonata sezione “Catturandi”. In queste pagine, in occasione del trentennale della sua
morte, il ricordo nelle parole di chi continua ad alimentarne,
attraverso il proprio impegno, la memoria
di Dario Montana
Estate 1985. Gli italiani fischiettavano per le strade gli ultimi
successi della stagione: L’estate
sta finendo dei Righeira e Ragazzi di oggi di Luis Miguel.
Pagando con una banconota da
mille lire, si poteva acquistare il
quotidiano e bere un caffè al bar.
Francesco Cossiga era stato eletto Presidente della Repubblica, succedendo all’amatissimo
Sandro Pertini; il Presidente
del Consiglio era l’onorevole
Bettino Craxi, mentre Giulio
Andreotti era ministro degli
Esteri.
A Palermo si iniziava ad allestire l’aula bunker dell’Ucciardone, dove si sarebbe tenuto il
primo maxiprocesso alla mafia:
456 imputati alla sbarra, tre
gradi di giudizio e la sentenza,
il 30 gennaio 1992, della Cassazione che sancirà l’esistenza
di un’organizzazione criminale
di stampo mafioso denominata
“Cosa nostra”.
Fu nell’estate 1985 che i giudici
Borsellino e Falcone furono
mandati sull’Asinara per preparare l’istruttoria del maxi
processo; un esilio per il quale
lo Stato chiese loro le spese di
vitto, alloggio e consumi delle
utenze.
Il Paese discuteva sull’esistenza delle mafie, nonostante pochi mesi prima, il 2 aprile, si
fosse consumata la strage di
Pizzolungo alla quale scampò
il giudice Carlo Palermo ma
nella quale morirono Barbara
Rizzo e i suoi gemellini Salvatore e Giuseppe, di sei anni. Il
23 settembre di quello stesso
anno, a Napoli sarebbe stato
ucciso il giovane giornalista
Giancarlo Siani.
Omicidio in riva al mare. A
Palermo, nell’estate 1985 la
mafia continuava a versare sangue innocente lungo le strade.
L’omicidio di mio fratello Beppe Montana si consumò il 28
luglio. Fu raggiunto alle spalle da diversi colpi di pistola
– una Magnum 357 – mentre
23 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
si trovava con la fidanzata a
Porticello (frazione del comune di Santa Flavia), nei pressi
del porto dove era ormeggiato il suo motoscafo. Il giorno
dopo avrebbe dovuto iniziare
le ferie. Una settimana prima,
aveva condotto un’operazione
che aveva portato all’arresto di
otto persone appartenenti alla
famiglia di Pino Greco detto
Scarpuzzedda, che però riuscì
a non essere sul luogo dell’operazione.
Il funerale di Beppe Montana
coincise con il primo atto pubblico del neo eletto sindaco
di Palermo Leoluca Orlando,
che avrebbe dato vita alla cosiddetta “primavera di Palermo”. In occasione del trigesimo
dell’omicidio di Beppe, mio
padre chiese la pubblicazione,
a pagamento, nella rubrica dei
necrologi, del seguente testo:
“La famiglia con rabbioso rimpianto ricorda alla collettività
il sacrificio di Beppe Montana
– commissario di P.S. – rinnovando ogni disprezzo alla mafia
e ai suoi anonimi sostenitori”.
Incredibilmente, l’impiegato
del giornale La Sicilia gli rispose che sarebbe dovuto andare a
chiedere alla direzione l’autorizzazione per la pubblicazione;
al suo ritorno, affermò categoricamente a mio padre che il testo
veniva respinto allo sportello
su insindacabile disposizione
del direttore, Mario Ciancio Sanfilippo.
Nel 1994, durante un processo,
il pentito di mafia Francesco
Marino Mannoia (arrestato
dallo stesso Montana pochi
giorni prima dell’agguato di
Porticello), dichiarò che per gli
omicidi di Montana e Cassarà
un ruolo fondamentale sarebbe
stato svolto da una “talpa” della
squadra mobile, un poliziotto
corrotto appartenente alla stessa sezione Catturandi.
Per l’omicidio di Beppe Montana furono condannati all’ergastolo Totò Riina, Michele
Greco, Francesco ed Antonio
Madonia, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, Raffaele
e Domenico Ganci, Salvatore
Buscemi, Giuseppe e Vincenzo
Galatolo. Carcere a vita anche
per l’esecutore materiale, Giuseppe Lucchese.
L’album dei ricordi. La nostra
è stata una famiglia felice, fino
a quel maledetto 28 luglio del
1985. Una famiglia borghese.
Papà era un direttore del Banco
di Sicilia; mia madre, innamoratissima di lui, era una
casalinga; poi c’eravamo noi
tre fratelli: Beppe, Gigi ed io,
Dario. Tra mio padre e Beppe
c’era un legame speciale. Mio
fratello era un uomo felice, non
avrebbe mai accettato dalla vita
un mestiere diverso. L’investigazione era la sua passione,
oltre che la sua professione.
Ripeteva spesso che un poliziotto a Palermo non può avere
troppi amici: “Questa è una
città avvolgente, se frequenti
i salotti della città bene puoi
correre il rischio di trovarti ad
indagare proprio sul padrone di
casa che ti ha invitato”.
Beppe era molto amato dai suoi
collaboratori, aveva un fortissimo senso dell’ironia, ostentava
e infondeva sicurezza; a chi gli
chiedeva se non avesse paura, rispondeva sorridendo che
“sono i mafiosi a dovere avere
paura di noi”, ma in realtà confidava in privato che “questo è
un lavoro dove bisogna imparare a convivere con la paura
e questa può salvarti la vita”.
Aveva deciso di vivere vicino al
mare, la sua grande passione, e
di cavalcarne le onde con il suo
piccolo motoscafo. La scelta di
vivere tra Aspra e Porticello era
dettata anche dal grande amore
che aveva per la sua splendida
compagna, Assia, che a Catania
gestiva una scuola di danza
molto nota in città. La sua vita
era molto semplice e piena. Un
boccale di birra e una pizza
alla “Taverna di Johnny” in
compagnia di uno dei suoi collaboratori o con il giovanissimo
figlio di Boris Giuliano, Alessandro, che spesso lo andava
a trovare nel suo ufficio, dove
accanto al crocifisso e alla foto
del Presidente della Repubblica
faceva bella mostra di sé la foto
di suo padre Boris (ucciso il 29
luglio del 1979, freddato con
sette colpi di pistola alle spalle
mentre pagava un caffè in via
Di Blasi).
Agli amici giornalisti confidava
che “per fare questo lavoro ci
vuole molta fantasia: è affascinante ricostruire la vita di
una persona, ricostruire i suoi
legami partendo da una bolletta
della luce o dal consumo di
energia di un contatore, sono
la lettura dei libri gialli un
buon manuale di polizia, solo
che la realtà supera sempre
la fantasia dello scrittore più
smaliziato”. Era assolutamente
informale, non amava le cravatte, che teneva nel cassetto
per ogni evenienza, non amava stare in ufficio: preferiva
“riposarsi” in macchina con
i suoi uomini. Andava in giro
per le strade della città con
l’inseparabile Lillo Zucchetto,
un giovane e bravissimo investigatore palermitano che sarà
ucciso il 15 novembre del 1982
in via Notarbartolo, davanti al
bar Collica. In quell’occasione
Beppe ebbe modo di affermare
con la solita lucidità: “Quando
gli avvertimenti si trasformano
in attentati, siamo tutti sotto
tiro, ormai siamo nel mirino”.
All’indomani dei funerali di
Lillo Zucchetto, disertati dai
palermitani, Beppe e Ninni
Cassarà diedero vita all’omonimo Comitato e iniziarono a
incontrare gli studenti nelle
scuole.
Non era un eroe Beppe, ma una
persona normale innamorata
del proprio lavoro. Non era un
eroe, ma un uomo il cui valore sembra ancora più grande
nella memoria di chi, nonostante tutto, continua a fare
con dedizione, responsabilità
ed umanità il proprio lavoro.
A casa Beppe non faceva trapelare alcuna preoccupazione,
era sempre sorridente, anche
quando mio padre gli confidò
di aver ricevuto una telefonata in ufficio di un parente
di Santapaola – il capomafia
catanese che ha legami organici
con Cosa nostra palermitana
– che richiedeva, senza mezzi
termini, le sue dimissioni dalla
polizia garantendogli contemporaneamente un nuovo impiego a Catania. Capitava che
mio fratello rientrasse a casa in
piena notte e mia mamma lo
rimproverava: “Ma non potevi
avvertirmi! Non capisco come
puoi fare il tutore dell’ordine
proprio tu che sei il re del disordine!”. Dopo quel 28 luglio, la
notte i miei non si svegliavano
più perché c’era Beppe che
suonava alla porta, ma solo
per piangere e interrogarsi su
come era potuta succedere una
tragedia così travolgente, che ti
cambia la vita per sempre. Fortunatamente, grazie all’amore
24 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
che li ha legati, si alternavano
nei grandi momenti di depressione. Papà aveva continuato a
lavorare in banca, ma ormai gli
mancava la necessaria energia
e aveva deciso di mettersi in
pensione qualche mese dopo
l’omicidio. Le sue giornate
erano scandite dalla rassegna
stampa dei giornali e dai continui viaggi a Palermo, per seguire le udienze più importanti
del maxiprocesso, interrotte da
qualche incontro organizzato
con i ragazzi delle scuole e
delle associazioni che richiedevano la sua testimonianza.
Anche dopo aver scoperto di
avere un tumore, cercava di
essere presente alle udienze
del processo di Beppe.
Oggi mio padre e mia madre
non ci sono più. Mio fratello
ed io abbiamo deciso di costituirci parte civile nel procedimento pendente a carico
di Mario Ciancio Sanfilippo,
per concorso esterno in associazione mafiosa. Il Giudice
per l’udienza preliminare si è
riservato di decidere sull’ammissione delle parti civili e ha
rinviato l’udienza al 14 ottobre
2015. Dall’esito di questo processo, probabilmente, la storia
dei rapporti tra Cosa nostra
e il sistema di potere che ha
gestito Catania potrebbe essere
riscritta.
Al momento della sottoscrizione della costituzione di
parte civile contro Ciancio,
il pensiero è andato ai miei
genitori e all’indimenticabile
Roberto Morrione, presidente
della fondazione Liberainformazione, con il quale abbiamo
condiviso tante riflessioni per
rompere il monopolio dell’informazione a Catania. Oggi mi
chiedo quali sarebbero stati
i suoi suggerimenti e le sue
valutazioni. Questa però è
un’altra storia.
Sezione Catturandi,
l’Università della Polizia
All’indomani della strage di via
Carini (3 settembre 1982), lo Stato
risponde aumentando gli organici
della polizia: un’occasione irripetibile per Beppe Montana, che, dopo
aver vinto il concorso per entrare in
Polizia, aveva appena finito il corso
presso l’Istituto Superiore di Polizia.
La sezione investigativa della squadra mobile di Palermo è la sua prima destinazione. Beppe conquista
velocemente l’amicizia e la fiducia
di Ninni Cassarà, il vice dirigente
della squadra mobile che sarà ucciso
pochi giorni dopo di lui, il 6 agosto.
Grazie alle numerose operazioni
concluse con successo, gli propongono di dirigere la sezione Narcotici
della squadra mobile. Beppe non è
d’accordo e propone di dare vita
ad una sezione specializzata nella
ricerca dei grandi latitanti. Ritiene
infatti essenziale, nella strategia di
contrasto alle mafie, la cattura dei
capi e lo smantellamento della rete
dei legami che costituisce la zona
grigia delle mafie. Ricercare un la-
titante vuol dire disarticolare la rete
di protezione e spezzare i legami con
la cosiddetta zona grigia: professionisti, prestanome e teste di legno,
rapporti con la politica e il mondo
delle imprese, rapporti con i favoreggiatori e il territorio che li protegge e
rafforza. Si tratta di un lavoro lungo,
sotterraneo e faticoso. I successi non
mancano. Ai propri uomini Beppe
raccomanda di pensare e di vivere
come mafiosi, li invita ad andare
per strada, frequentare la vita dei
quartieri a forte densità mafiosa, frequentare le feste di piazza, conoscere
il territorio, giocare a biliardo, parlare
con la gente perché “così troveremo i
boss; dimenticate le pistole e andate
a sconcicare i fimmini”.
Si realizza così una delle sue intuizioni
professionali: la costituzione di una
sezione specializzata nella ricerca dei
principali latitanti. Non solo. Beppe
Montana si è reso conto che un capo
mafia, per poter esercitare il controllo
del territorio e il potere sui propri
affiliati, non può allontanarsi per
troppo tempo, pena la perdita del
potere che passerebbe di mano a
chi lo sostituisce realmente sul territorio. Si devono cercare i latitanti
proprio all’interno dei mandamenti
nei quali esercitano il loro controllo.
Per mettere in pratica tutto questo,
mio fratello saltava ferie e riposi, tra
le critiche di alcuni suoi colleghi
che, anni dopo, saranno condannati
con sentenza passata in giudicato
per concorso esterno in associazione mafiosa. Anche così si isolano le
persone. Come contraltare, poteva
avvalersi della collaborazione di tanti
giovani colleghi che in lui vedevano
un esempio da emulare. Per le strade,
in quegli anni, i giovani e la polizia
si sparavano addosso, il sangue di
giovani poliziotti e di giovani che
volevano cambiare il mondo si mescolava. Grazie al lavoro degli uomini
della Catturandi inventata e diretta
da Beppe Montana, i palermitani
hanno cominciato a fare il tifo per
gli investigatori e per lo Stato.
25 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
Il ragazzo che
non voleva
diventare un eroe
Era da tutti definito come “un giovane allegro, affettuoso, vivace”. Amava la sua famiglia, era innamorato della sua fidanzata
con la quale progettava di costruire un futuro, e amava il suo
lavoro. Un mestiere, una passione che l’ha condotto alla morte,
insieme al vice questore Ninni Cassarà, il 6 agosto 1985
di Jole Garuti
Roberto Antiochia era un giovane allegro e irrequieto. Da
ragazzo passava ore e ore a leggere libri gialli, a immaginare
di catturare ladri o banditi. La
ragazza di un suo compagno di
scuola era morta di overdose
e lui pensava che impegnarsi
contro gli spacciatori fosse un
dovere morale.
A 17 anni aveva chiesto il permesso di arruolarsi in polizia e
lasciare la scuola, ma sua madre
Saveria si era rifiutata di firmare
la richiesta. “Chi usa i pennelli
non può usare le armi”, era il
suo motto.
Lui non aveva protestato, consapevole che l’anno dopo avrebbe
ricevuto la cartolina rosa. C’era
solo da aspettare un anno. Non
era tipo da scenate, Roberto,
non amava i litigi. A scuola
tutti gli volevano bene. Non
studiava molto ma non pretendeva voti immeritati. Le cose
che gli interessavano di più
erano la simpatia e l’amicizia
dei compagni. Al liceo classico Giulio Cesare, uno dei più
in di Roma, non lo avevano
mai visto con un cappotto o un
giubbotto normale. Arrivava,
alto e magro com’era, con un
maglione peruviano lungo fin
quasi al ginocchio e in testa a
coprire i capelli rossi un berretto
a punta che si vedeva lontano un
chilometro. A lui piaceva così.
Lasciò infine gli studi classici
per il liceo artistico, avvicinandosi all’ambiente di famiglia.
Mamma dipingeva e insegnava arredamento all’Accademia,
Alessandro, il maggiore dei fratelli, scriveva poesie e incideva
su rame. Nella nuova scuola
trovò materie più affascinanti
e una didattica più viva. Certi
giorni arrivava a scuola in tuta,
con la sacca sportiva al posto
dei libri, perché doveva correre
agli allenamenti di canottaggio.
All’artistico trovò anche l’amore
della sua vita, Cristina.
In casa era stato educato al ri-
26 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
La passione per la divisa.
Entrare in polizia per Roberto
significava combattere i malviventi e i criminali ma anche
sfrecciare su moto veloci, fare
moltissimo sport, allenarsi a
sparare: una vita movimentata
che corrispondeva pienamente
alle sue esigenze, ai suoi bisogni,
ai suoi ideali. Voleva impegnarsi
contro i prepotenti, gli arroganti, coloro che spacciano droga
e seminano morte, coloro che
uccidono persone innocenti. In
una parola, in difesa dei deboli.
Non voleva certo diventare un
eroe. A Cristina impaurita ripeteva scherzando: «Non hanno
ancora inventato i proiettili per
sparare ai ‘rosci’ (rossi)».
Ai corsi di addestramento dimostrò grande bravura nella
mira, tanto che gli chiesero di
diventare istruttore di tiro. Ma
un lavoro di routine non era
adatto a lui.
Prestò servizio in varie Questure del Nord e fu poi mandato a Palermo. Lì, alla Squadra
Sognava una Palermo senza mafia,
Antonino – detto Ninnì – Cassarà –
e credeva profondamente di poter
realizzare quel sogno attraverso il
proprio lavoro, insieme ad alcuni
suoi colleghi. Ma un gruppo di nove
uomini armati, il 6 agosto 1985, mise
fine ai suoi sogni, che però hanno
trovato forza e seguito in moltissime
altre persone.
Era un “bravo poliziotto” – come fu
definito in un documentario che gli
dedicò Rai Storia – che aveva prestato
servizio nelle questure di Reggio
Calabria e di Trapani , dove conobbe
Giovanni Falcone, diventandone uno
stretto collaboratore. Proprio grazie al
lavoro di Cassarà e dei suoi uomini,
si arrivò al cosiddetto “rapporto dei
161+1”, attraverso il quale si rivelò
la struttura dei mandamenti mafiosi,
ottimo punto di partenza per le future indagini condotte da Giovanni
Falcone e Paolo Borsellino.
Fu poi trasferito a Palermo, dove
divenne vice questore aggiunto e,
successivamente, vice dirigente
della squadra mobile. Numerose le
operazioni alle quali prese parte, tra
cui “Pizza Connection”, in collaborazione con il commissario Beppe
Montana. Quando quest’ultimo fu
assassinato, il 28 luglio 1985, fu
come se il cerchio intorno a Cassarà
si stringesse. Il clima di lavoro era
molto difficile, il “bravo poliziotto”
fu isolato anche da diversi colleghi
e funzionari. Uno, però, nonostante
fosse da poco stato trasferito a Roma,
decise di stare al suo fianco: Roberto Antiochia, che volontariamente
rientrò dalle ferie.
Il 6 agosto 1985, Ninnì Cassarà fu
accompagnato a casa proprio da
Antiochia; scese dall’Alfetta e si
diresse verso la propria abitazione,
in via Croce Rossa 81 a Palermo.
Fu raggiunto da diversi colpi di kalashnikov esplosi da un commando
di nove uomini, appostati nella palazzina di fronte. Roberto Antiochia
morì nel tentativo di fargli da scudo
con il proprio corpo; Cassarà riuscì
a raggiungere le scale d’ingresso del
proprio condominio, ma morì tra le
braccia della moglie Laura. Aveva
38 anni ed era padre di tre bambini.
Anche nel caso del delitto Cassarà,
una mano ‘misteriosa’ sottrasse l’agenda che egli teneva in questura e
sulla quale, verosimilmente, aveva
annotato importanti notizie.
Il bravo poliziotto
spetto dei diritti e dei doveri,
alla solidarietà. La casa di mamma Saveria, dopo la morte del
papà, era sempre aperta per i
compagni di scuola dei figli,
per gli amici boyscout, e tutti
ci andavano volentieri perché
potevano studiare ma anche
suonare e chiacchierare in
piena libertà. Gli amici erano
più importanti dei pavimenti
lucidi.
Mobile, si trovò nell’ambiente
ideale. Il commissario Beppe
Montana lo scelse subito per
la Squadra Catturandi. Fino a
quel momento nessuno aveva
cercato in città e nei dintorni i
mafiosi latitanti, prestando fede
alle dicerie che li immaginavano
in paesi lontani. Montana era
invece convinto che stavano
tranquillamente a Palermo e che
li si poteva scoprire e arrestare.
La Catturandi aveva a disposizione solo automobili scassate,
rattoppate, riconoscibili anche
dai bambini, non aveva computer né armi sofisticate. Non
erano possibili intercettazioni
come avviene oggi, quindi i
poliziotti dovevano avvalersi
di soffiate di confidenti (che
pagavano di tasca propria) e poi
andare di persona, in vespa o in
auto o facendosi prestare quella
di un amico, nelle strade dove
erano annidati i latitanti. Ne
catturarono parecchi e scoprirono anche nascondigli di armi
e raffinerie di droga. Roberto
amava questa vita avventurosa
e si sentiva utile, realizzava i
suoi obiettivi ad ogni cattura,
ad ogni scoperta di fortini o
depositi illegali.
L’eroina arrivava dall’Asia, veniva raffinata in laboratori segreti
e poi esportata soprattutto negli
Stati Uniti.
La Catturandi era formata da
uomini altamente motivati e
capaci di sacrifici. Montana
era chiamato Serpico perché
si muoveva come il poliziotto
dei telefilm. Il capo della sezione
investigativa era il vicequestore
Ninni Cassarà, grande amico
di Montana e di Roberto. Vivevano praticamente insieme: di
giorno studiavano le attività dei
mafiosi, verificavano le segnalazioni ricevute da informatori
27 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
e ispezionavano strade, case,
zone intorno a Palermo. Di sera
cenavano a casa di Cassarà o in
pizzeria, ma neppure la notte
era un riposo sicuro. La Catturandi piombava all’improvviso
dove aveva saputo che si poteva
catturare un latitante, e l’ordine
poteva arrivare a qualunque
ora. Cristina, appena diventata
maggiorenne, era corsa a vivere
a Palermo con il suo Roberto.
Quasi ogni giorno lui arrivava a
casa con un mazzo di fiori per
scusarsi del ritardo. Una volta
tornò tre giorni dopo, a causa di
una spedizione notturna sulle
montagne vicine. Non aveva
potuto avvisarla e Cristina era
impazzita di paura. Lui arrivò
a casa con la testa fasciata alla
meglio e i vestiti insanguinati
perché nel buio aveva urtato
contro un tondino di ferro.
In questura l’ambiente era teso.
Capo della Squadra Mobile era
Ignazio D’Antone, di cui né
Roberto né gli altri si fidavano.
Non per nulla D’Antone è stato
poi condannato a dieci anni per
concorso esterno in associazione mafiosa.
«Anche i muri hanno orecchie»,
diceva Roberto telefonando a Saveria da una cabina esterna alla
Questura, e per questo le aveva
chiesto di non chiamarlo mai in
ufficio. A mamma lui raccontava
molte cose, sia le spedizioni
fallite a causa dell’intervento di
D’Antone, sia i risultati ottenuti.
Trasferito a Roma alla fine del
1984, era in ferie, al mare con
Cristina, quando spararono a
Beppe Montana, approdato a
Porticello da un giro in barca,
il 28 luglio 1985.
Disperato, si precipitò a Palermo
e piombò in una realtà tragica.
Nei giorni successivi i poliziotti
furibondi per la morte di Mon-
tana interrogarono brutalmente,
anzi torturarono, un giovane
calciatore, Salvatore Marino, di
Porticello, che ne morì. Cassarà
non c’entrava, non gli avevano
assegnato le indagini sulla morte
di Montana, non era neppure
in Questura quella notte, ma
venne fatta circolare la voce che
la morte del giovane fosse colpa
sua. Roberto si rese conto che
Ninni era solo, senza nessun
aiuto né protezione, del tutto
isolato. Bastava ricordare le parole di Falcone per respirare
l’aria di morte che aleggiava
sul vicequestore: “Si muore
generalmente perché si è soli
o perché si è entrati in un gioco
troppo grande. Si muore spesso
perché non si dispone delle
necessarie alleanze, perché si
è privi di sostegno”.
Ninni era esattamente in quella condizione. Roberto fece
domanda per rimanere a Palermo a fare da scorta volontaria
a Cassarà. I suoi familiari lo
supplicavano di tornare a Roma
ma lui disse che se fosse capitato qualcosa a Ninni non se
lo sarebbe mai perdonato. Non
era neppure facile proteggerlo, perché Ninni, consapevole
dei pericoli, non voleva essere
scortato. “Siamo cadaveri che
camminano” aveva detto un
giorno a Paolo Borsellino e a
Beppe Montana. Cassarà non
si era mosso dalla Questura
per diversi giorni, il 6 agosto
improvvisamente telefonò alla
moglie Laura che avrebbe fatto
un salto a casa ed è probabile
che dalla Questura una talpa
abbia avvisato i mafiosi. Roberto dovette trovare una scusa
per non farlo andare solo (“La
accompagniamo a casa perché
dopo andiamo a mangiare una
pizza lì vicino”). Ma i mafiosi
avevano già da giorni preparato l’agguato micidiale. Furono
almeno duecento i colpi esplosi
dai kalaschnikov appostati nel
caseggiato di via Croce Rossa appena l’Alfetta bianca del
vicequestore arrivò davanti al
portone. Roberto uscì dall’auto
e fu colpito alla testa, Cassarà
riuscì a trascinarsi fino al portone e spirò tra le braccia della
moglie Laura, precipitatasi giù
per le scale.
I giornali scrissero: “Non era
solo abnegazione, fedeltà, dovere. Ma amicizia, affetto”. A un
amico, Antiochia aveva detto:
«Darei la vita per difendere
Montana e Cassarà». Il ministero degli Interni gli ha
conferito la medaglia d’oro al
valor civile.
Roberto ha continuato a vivere
nelle parole di Saveria, che
da quel 6 agosto ha sublimato nell’impegno civile il suo
dolore di madre. Non c’è stato
momento, negli incontri con
gli studenti di tutta Italia, nelle
trasmissioni TV o nelle relazioni personali, in cui Saveria
non abbia agito in nome di
Roberto, dando voce ai suoi
ideali e sentimenti.
Insieme ai figli Alessandro e
Corrado, Saveria scrisse un
comunicato stampa che è di
incredibile attualità: “La vita
e la morte di questi uomini
testimonia che questo nostro
paese, ferito dalle stragi, inquinato dalla corruzione, dalla
malavita e dai troppi scandali
che ci hanno addirittura nauseati, è anche un paese capace
di produrre uomini che vivono
totalmente e consapevolmente
i valori più alti dell’umanità, del
dovere e del coraggio. Valori che
purtroppo per tanti oggi sono
solo retorica sorpassata”.
28 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
Nata il 6 agosto
Nella sede nazionale di Libera, in via IV Novembre a Roma, il primo volto sorridente che accoglie chi entra è il suo: Saveria Antiochia, la madre del giovane poliziotto Roberto. Ferita a morte nell’anima quel 6 agosto 1985, e rinata quello stesso giorno, per portare
avanti la memoria di suo figlio: raccontando della sua giovane vita
spezzata, ricordando che “gli agenti di scorta” uccisi per mano della
criminalità organizzata avevano un nome e un cognome
di Jole Garuti
“Quando ti uccidono un figlio
sparano anche su di te. A me
avevano sparato col kalashnikov, quel giorno… ha le radici
dentro di te, un figlio”.
Così diceva Saveria Antiochia
dopo che la mafia aveva ucciso
suo figlio Roberto, a Palermo, il
6 agosto 1985, insieme al commissario Ninni Cassarà. Roberto
aveva 23 anni, era un giovane
poliziotto ricco di ideali generosi, aveva insistito per fargli
da scorta, come volontario. La
mafia li aspettava per massacrarli insieme.
Dopo quel giorno Saveria è rinata, dedicando ogni energia
all’impegno antimafia di Roberto. “Ci parliamo, facciamo tutto
insieme” diceva. Scrisse subito
una lettera al ministro Scalfaro
per denunciare le condizioni
disastrose della Squadra mobile
di Palermo, lasciata senza attrezzature, senza uomini, senza
aiuti. La lettera venne pubblicata
su Repubblica: una denuncia
struggente e documentata, un
susseguirsi di sentimenti e di
fatti che provocò grande emozione. Qualcuno osò dire che non
poteva averla scritta la mamma
di un poliziotto. Evidentemente
non conosceva la cultura e l’intelligenza di Saveria.
Un mese dopo la strage chiese a
Nando dalla Chiesa di far parte
del Circolo Società Civile che
stava nascendo a Milano. Aderì
con entusiasmo al Coordinamento antimafia di Palermo,
venne eletta al Consiglio comunale. Ma la politica non era
il suo mondo.
Fu invitata nelle scuole di tutta
Italia e raccontò, senza lacrime, gli ideali e le passioni di
Roberto, la sua volontà di contrastare la violenza mafiosa, di
difendere i diritti dei più deboli,
di lottare per un’Italia libera
e democratica. Il silenzio che
si generava nelle aule quando
Saveria parlava aveva qualcosa
di magico. Mai nessuno si alzava o distraeva i compagni. Nei
dibattiti TV si imponeva con
logica ferrea e con i dati di una
memoria sicura. Si indignava
per leggi sbagliate o lassiste o per
le timidezze di qualche politico
contro la mafia. In quei casi non
esitava a prendere la penna o
il telefono e a far sentire la sua
voce fremente.
Quando nacque Libera, Saveria
fu naturalmente tra i fondatori
e con modestia e straordinaria
dedizione cercò ogni modo per
essere utile, per proteggere e far
crescere quella nuova importante creatura antimafia, di cui
intuiva le potenzialità.
A Milano nel 2006 è nata in suo
onore l’associazione Saveria
Antiochia Omicron (ora Saveria
Antiochia Osservatorio antimafia-“SAO”), che si propone di far
conoscere la sua personalità e
i suoi ideali, la sua capacità di
indignarsi e la sua incrollabile
volontà di contrastare la diffusione delle cosche criminali,
nel ricordo di Roberto (www.
centrostudisao.org).
Sono tre i pilastri fondanti
dell’associazione e della biblioteca specializzata che ne è nata:
mafia e antimafia, educazione
alla legalità, diritti umani e civili. Progetti di Educazione alla
legalità nelle scuole di ogni ordine e grado, stage per studenti
universitari, presentazione di
libri e organizzazione dibattiti sono l’attività quotidiana. Il
progetto più importante è ora
il progetto europeo “Icaro”, di
cui “SAO” è partner. Significa
“come tenere in vita un’azienda
confiscata alle mafie”.
29 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
seduti l’uno di fronte all’altro,
si comprende che i tre stanno
chiudendo un accordo di vendita
su una partita di droga.
Il dato più interessante è che uno
dei due uomini arrivati in motoscafo parla in perfetto spagnolo
e si rivolge in dialetto calabrese
al suo compagno. Basta questa
disinvolta alternanza di codici
linguistici per comprendere il
senso di tutto il film: una mafia
che si muove con agilità tra contesti locali e mercati internazionali.
Si nota, inoltre, che tra le parti in
causa c’è una consolidata prassi di
relazioni finanziarie e un rispetto
per i ruoli ricoperti nelle reciproche organizzazioni. Le immagini
poi ci portano a Milano, nella
sede di una banca, dove altri due
’ndranghetisti stanno ritirando
una gran somma di denaro in contanti con l’avallo del direttore. Gli
stessi due, nella scena successiva,
sono in un cantiere edile (il gioco
dell’associazione logica ci induce
a pensare all’Expo). Entrano in un
container e con i soldi ritirati in
banca, preparano la paga per gli
operai, tutti extracomunitari. Si
intuisce, visto che i soldi sono
consegnati in una busta senza
cedolino, che il denaro proveniente dal narcotraffico viene
riciclato da un lato alimentando
l’economia sommersa, dall’altro
sovvenzionando un esercito di
riserva irregolare sfruttato come
massa di manovra illegale. Nella terza sequenza si scopre che
i due uomini di Amsterdam e
i due di Milano sono parenti
consanguinei. Il capo è quello
che ha trattato con il colombiano.
Tuttavia si capisce che il fratello,
uno dei due “imprenditori edili”,
comincia ad avere un atteggiamento distaccato e infastidito
rispetto all’atteggiamento “primitivo” degli altri componenti del
gruppo: vive a Milano, è sposato
con una donna del Nord e non
sopporta l’eccentricità da parvenu dei familiari. Vuole essere a
tutti gli effetti legittimato come
imprenditore, anche se i capitali
d’investimento sono frutto di
transazioni criminali.
Una volta rientrati in Calabria,
però, riemerge la cultura ancestrale che condiziona l’agire
collettivo: le usanze pastorali,
la legge dell’onore, le alleanze
matrimoniali, le faide tra clan
avversari.
Attraverso il film si può cogliere
la pendolarità del sistema mafioso che oscilla tra modernità e
tradizione, come se dietro la facciata ultra tecnologica dell’Italia
contemporanea e dell’Europa dei
mercati si nascondesse un’ineliminabile Medioevo oscurantista.
Allo stesso tempo si comprende
la forza della ’ndrangheta capace,
grazie all’oscillazione pendolare,
di tenere insieme globalizzazione
(di cui il narcotraffico è colonna
economica portante) e codice
antropologico territoriale. Ciò che
fino ad oggi era celato ai più, malgrado i numerosi studi scientifici
sull’argomento, diventa materia
di interesse pubblico che può
arrivare ad un’audience più vasta
dell’associazionismo antimafia.
In virtù del potere amplificatore
delle immagini e della suggestione cinematografica anche
la ’ndrangheta entra nel novero
dell’immaginario mafioso, nella
speranza che “Anime nere” non
rimanga un caso isolato.
a cura di Marcello Ravveduto
I “luoghi” dell’immaginario devono essere sondati perché sono
gli unici ambienti virtuali in cui
si è reso visibile ciò che nella
realtà rimane invisibile. Il film
Anime nere, che ha vinto ben otto
statuette del David di Donatello,
è un caso esemplare.
L’immaginario collettivo è materia malleabile e facilmente
strumentalizzabile a causa della
sua natura mediale. Eppure è un
contesto divulgativo strategico
per studiare la fenomenologia
mafiosa. Certo, nel contesto
massmediologico le mafie sono
ridotte a semplificazioni banali,
molto spesso dovute alla necessità di rendere comprensibile
un tema complesso che unisce
economia, politica, società civile,
poteri occulti, tradizioni culturali
e innovazioni tecnologiche.
La ’ndrangheta è stata a lungo
un “oggetto” nascosto sul quale
nessun cineasta, fino ad ora, si è
cimentato, al di là della documentaristica o dei B movie (qualche
volta persino più utili dei film
d’autore per leggere il contesto di
riferimento, come le sceneggiate
di Mario Merola).
Come inizia Anime nere? Ci sono
due uomini, non olandesi, che
attendono un motoscafo ad Amsterdam. Stanno in silenzio l’uno
accanto all’altro come se fossero
un sol uomo. S’intendono con
gli sguardi. Salgono sul natante
e giungono, rimanendo muti per
tutto il tragitto, su uno yacht attraccato in uno dei canali della Venezia del nord. Ad attenderli c’è
un latino americano criollo. Un
colombiano. Li riceve con cortesia
ma senza esternazioni eccessive.
Solo a quel punto, quando sono
dialogo tra antimafia virtuale e antimafia reale
L’immaginario
della ‘ndrangheta
Antonio Rossetti, fumettista tarantino classe 1990. Dipendente dal mercato discografico
e artistico underground. Noto ai più sotto il nome di holdenaccio, ha lavorato per “RareLives” con una serie a strisce. Membro attivo del collettivo Sbucciaginocchi, ha pubblicato con loro la prima antologia “CARTA VETRATA: il tema delle elementari”, in uscita a
fine settembre.
31 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
inchiesta
Mafie in
Puglia
Non esiste una sola mafia pugliese. La geografia della criminalità organizzata della regione di Levante, oggi come da decenni a
questa parte, è riassunta in una mappa composita e complessa,
fatta di autonomie, connessioni e alleanze. Ma anche di guerre
intestine che hanno insanguinato le città e i paesi dal Gargano
al Salento, mietendo oltre sessanta vittime innocenti. E se i clan
del tacco continuano ad essere, insieme con quelli campani e
calabresi, improntati alla violenza, sono gli affari la nuova dimensione delle mafie in Puglia: dall’estorsione agli appalti pubblici,
dal riciclaggio al ciclo dei rifiuti, dalle attività commerciali al
controllo delle slot. Viaggio in una terra dove i rituali da telefilm
convivono con le nuove prospettive criminali
Mafie in Puglia
32 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
Bari,
una bomba
a orologeria
Con un territorio ampiamente segmentato e suddiviso, l’area
cittadina di Bari si presenta come un delicato gioco d’incastri.
Diversi clan, diverse famiglie, diverse nazionalità e spesso
interessi conflittuali. Si tratta di equilibri di potere finemente
intessuti che fondano la propria sussistenza su spartizioni, nel
mercato degli stupefacenti ma non solo, create ad arte
di Leo Palmisano
Quando, la sera del 28 maggio
di quest’anno, è stato ucciso
Nicola Telegrafo, Bari ha scoperto di essere nel bel mezzo
di una nuova sanguinosa guerra di mafia. Il trentanovenne
assassinato era il cognato di
uno dei boss più influenti della
mala del capoluogo pugliese:
Domenico Strisciuglio, soprannominato Mimmo La Luna, in
carcere da anni ma sempre al
comando del più rilevante clan
della città assieme a quello
di Savino Parisi. L’omicidio
di Telegrafo si è consumato
alle otto di sera, nella piazza
principale del quartiere Carbonara. Il capomafia era seduto al
tavolino di un bar quando un
uomo armato di pistola gli ha
esploso contro quattro colpi,
tutti a segno. Con pochi margini
di dubbio, si trattava di un professionista. Questo omicidio è
uno dei più pesanti degli ultimi
anni, benché ormai da quattro
a Bari si spari con una certa
frequenza. Ovvero da quando,
nell’agosto del 2011, a cadere è
stato Cesare Diomede, rampollo
di una storica famiglia mafiosa
operante nei quartieri di Carrassi e San Paolo. Diomede
fu ucciso in un rocambolesco
agguato nel suo territorio, a
Carrassi, mentre inseguiva un
gruppo di scissionisti decisi a
passare con i clan Caracciolese
o Fiore del contiguo rione di
San Pasquale. Da inseguitore
a vittima, Diomede fu liquidato a colpi di pistola dopo
un lungo inseguimento da far
west dalle parti della Chiesa
Russa, in una zona popolare
poco distante dalla stazione
centrale e dove sono prosperati negli ultimi anni ambigui
investimenti russi e cinesi. Il
suo omicidio ha rappresentato
la fine della pax che regnava
in città da quasi un decennio,
disegnando una lunga scia di
sangue che arriva fino all’assassinio di Nicola Telegrafo e che
rischia di prolungarsi.
I fronti aperti. Sono diverse le
famiglie coinvolte nei recenti
fatti di sangue baresi. I Diomede
(dei quartieri Carrassi e San Paolo), i Mercante (del San Paolo)
loro alleati, i Vavalle (del San
Paolo) alleati dei Mercante, i
Montani/Misceo e i Telegrafo
(del San Paolo) loro nemici, i
Fiore/Caracciolese un tempo
alleati e ora nemici per fatti di
amore e di sangue (del quartiere
San Pasquale), gli Strisciuglio
(del San Paolo e del Libertà)
alleati dei Telegrafo, i Di Cosola
(di Carbonara ma ramificati
nell’hinterland), i Campanale
(del quartiere San Girolamo)
alleati degli Strisciuglio, i Parisi (del quartiere Japigia), i
Capriati (di Bari Vecchia), gli
Stramaglia (di Valenzano, ramificati nell’hinterland) alleati
dei Parisi. Sono al momento
i clan più forti: cognomi che
hanno ricevuto o offerto piombo in cambio di sangue. Nel
corso dei decenni, ciascuna
di queste famiglie ha operato
costantemente, impegnata in
una o più attività, ma sempre
sotto la tacita copertura dei clan
più forti, secondo una regola
non scritta che prescrive norme
e comportamenti, definisce i
territori e azzera la concorrenza.
Le cose sono andate così fino
ad agosto del 2011. La vecchia
pace mafiosa era stata siglata
quando Mimmo La Luna e Savinuccio Parisi, i boss più forti
dell’ultimo ventennio, furono
assicurati alla giustizia. I due
capiclan, mai davvero avversari
e mai davvero alleati, si erano
spartiti lo smercio dell’eroina,
della cocaina, delle armi e dei
tabacchi esteri. Gli Strisciuglio
a nord della città, fino a Enziteto, e i Parisi a sud, prevalentemente a Japigia. In quegli anni
i Parisi importavano la droga
direttamente dai siciliani, dai
calabresi e dagli albanesi, forti
di un legame di lunga data
con i pezzi grossi della Sacra
corona unita e con la famiglia
di mafia di Salvatore Buscemi.
Gli Strisciuglio, invece, erano
dediti di più al contrabbando di
sigarette e alla compravendita
di armi da e per la ex Jugoslavia
(prioritariamente dal Montenegro, luogo di lunga latitanza
per parecchi ricercati dei clan
di Bari Vecchia). L’hashish, al
contrario, arrivava e arriva per
tutti nel porto di Bari dall’Albania, dopo aver fatto rotta in
Grecia e Turchia. E da lì a Bari
Vecchia – il quartiere in mano
all’antica famiglia Capriati – da
dove il traffico s’irradia ancora nel resto della città e della
provincia, con magazzini e laboratori chimici attivi lungo il
tragitto che da Modugno porta
alla Murgia. Quelli sono stati gli
anni d’oro della mafia barese,
un periodo lungo di ricchezze
e di bagordi, di spese pazze e
di efferati regolamenti di conti,
di strettissimi accordi con la
politica e di grande paura nel
capoluogo di regione. Di quegli
anni restano faide aperte, morti
invendicate, fuochi che covano
sotto la cenere e che, di quando
in quando, alzano la cupa fiamma del conflitto. Come quando
a Poggiofranco (quartiere ricco
e residenziale) è stato ucciso tre
anni fa Antonio Campanale, il
grande capo dell’omonimo clan
– da sempre monopolista nei
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parcheggi abusivi del centro
cittadino. La risposta s’è fatta
attendere un paio d’anni, ed
è arrivata con una sequenza
di omicidi nel quartiere dei
Campanale.
Politica e mafia, un legame
duraturo. Anche a Bari la mafia e la politica intessono da
molto relazioni strette, condividendo interessi e affari. Dalle
confessioni del pentito tranese
Salvatore Annacondia, è noto
l’impegno di Savino Parisi e di
Antonio Carpiati nell’incendio
del teatro Petruzzelli, allora
gestito da un direttore artistico
di dichiarata fede socialista e
craxiana, Ferdinando Pinto. Ma
tutto lascia credere sia in atto
una nuova, possibile saldatura
tra politica e mafia. Il fenomeno
s’è mostrato chiaramente in
occasione delle ultime elezioni amministrative della città
metropolitana levantina ed è
esploso, non senza qualche
sorpresa, nella compagine di
centrosinistra. Basti pensare
che le operazioni di voto delle primarie – che vedevano
contrapposti Antonio Decaro,
attuale sindaco del Pd, Gia-
como Olivieri, ex consigliere
regionale di Forza Italia ed ex
sodale della discussa famiglia
di costruttori Degennaro, ed
Elio Sannicandro, ex assessore
comunale allo Sport e all’Urbanistica nonché presidente
regionale del Coni –, il 23 febbraio 2014, furono modificate
in corso d’opera per scongiurare
una palese compravendita di
voti. Soltanto a mezzogiorno,
il Partito democratico, sollecitato dall’intero schieramento,
decise di negare agli elettori la
riscossione della ricevuta per
l’obolo volontario, dopo che
fuori dai seggi di Carrassi, del
Libertà e di Japigia era stata
segnalata la presenza di personalità di spicco della mala barese alle quali venivano esibiti
i cedolini da intere comitive di
votanti, stranieri inclusi.
Neppure le denunce e qualche – piccola – eco mediatica
però incisero per determinare una maggiore trasparenza.
E così, nelle liste a sostegno
del candidato Decaro, furono
inglobati nomi poco limpidi.
Per esempio, Esperanza Diomede, figlia dell’influente boss
Michele, fu inserita nella lista
Semplicittà, capeggiata dall’ex
assessore e regista del Coni
pugliese Sannicandro. A Carrassi, i suoi manifesti elettorali
hanno fatto mostra per mesi,
anche ben dopo le elezioni.
Realtà Italia, lista facente capo
all’ex forzista Olivieri – oltre
ad aver candidato ed eletto la
figlia di un impresentabile ex
consigliere comunale ed ex
consigliere d’amministrazione
della decrepita Azienda Municipale Trasporti Autofiloviari
Baresi – diede invece un posto
al poi non eletto Francesco Laraspata, figlio di quel Leonardo
capoclan barivecchiano ucciso
nel 2000. Sul suo ‘santino’ elettorale, Laraspata indicava con
grande visibilità il suo soprannome: Terremoto. A ciò bisogna aggiungere che all’attuale
assessore comunale espressione
di Realtà Italia è stata paradossalmente assegnata la delega
al Patrimonio, che, tra le altre
cose, si occupa anche di beni
confiscati alla mafia. Spaventa
la penetrazione di certi nomi e
di certi legami nel centrosinistra, ma non stupisce, perché
non va dimenticato che la città
viene da antiche, trasversali
collaborazioni tra politica, impresa e criminalità. Un esempio
su tutti: il vecchio scandalo
sanitario delle Case di Cura
Riunite di Francesco Cavallari,
che travolse negli anni Novanta
nomi importanti della Dc e del
Psi come gli onorevoli Sorice,
Formica e Lenoci. Segni di un
legame mai del tutto tagliato,
reso oggi più pericoloso dalla
debolezza dei partiti cittadini e
dalla discutibile autorevolezza
morale delle cosiddette liste
civiche.
La posta in gioco. Che la posta
in gioco sia altissima, lo dimostrano le operazioni messe a
segno dalle forze dell’ordine nel
2014 contro il clan Vavalle del
San Paolo. Azioni che hanno
portato al sequestro di oltre 50
milioni di euro, proventi del
controllo che il clan esercitava
su slot machine e videopoker.
Un business milionario che
permette alla mala di riciclare e
reimmettere sul mercato denaro
sporco. Un’enorme e sicurissima lavatrice. Tra i beni confiscati c’è anche un’impresa di
import/export attiva nel settore
dell’ortofrutta, a testimoniare
la capacità di penetrazione in
questo segmento produttivo
un tempo considerato lontano
dalle mire dei clan baresi. Ad
aprile di quest’anno sono stati
arrestati oltre cinquanta esponenti del clan Di Cosola (dei
quartieri di Ceglie e di Loseto),
dediti al controllo e all’imposizione della manodopera nei
cantieri edili della città, come
nelle campagne di Noicattaro
e Rutigliano.
All’inizio di luglio è stata la
volta del clan Strisciuglio, decimato dopo un’indagine che ha
appurato l’esistenza di un siste-
ma consolidato di imposizione
del pizzo e della manodopera
a parecchi imprenditori edili
della città; agli arresti (in tutto
una quarantina) ha fatto seguito
il sequestro di un arsenale di
guerra (compresa una bomba
a mano) tumulato nel cimitero
dalle donne della cosca.
La cappa dei clan sulla città è
riscontrabile anche dai tanti
bar ed esercizi commerciali,
molti del centro, sequestrati
e confiscati negli ultimi anni
al clan Parisi: uno su tutti, il
bar Gasperini, nei cui locali
i lavoratori del vicino teatro
Petruzzelli erano obbligati a
versare un pizzo sulla busta
paga al prestanome del boss di
Japigia. O il singolare caso di
Emanuele Degennaro – esponente della già citata famiglia
di costruttori e rettore della
Libera Università Mediterranea
Jean Monnet di Casamassima
– indagato per concorso nel
riciclaggio di oltre tre milioni di
euro del clan Parisi/Stramaglia
tramite compravendite fittizie
di immobili. L’inchiesta Degennaro/Parisi ha raggiunto il
territorio di Fasano, in provincia di Brindisi, dove la cosca di
Japigia ha intrattenuto rapporti
stretti con la mafia brindisina.
I clan stranieri, dal Caucaso
alla Bulgaria. Come tutte le città di mare attraversate per due
decenni da importanti flussi
migratori, anche Bari conta i
suoi clan stranieri, alcuni dei
quali estremamente rilevanti
nella cornice del crimine organizzato internazionale. I più
importanti sono i georgiani di
Kutaisi, dediti al furto e alla
ricettazione, che gestiscono
una florida agenzia di import/
export a poche decine di metri
dalla stazione centrale, in Piazza Aldo Moro. Il clan fa parte di
una grande cupola della mafia
georgiano-caucasica attiva fino
in Ungheria, Repubblica Ceca
e Dubai. La loro presenza è
diventata di dominio pubblico
quando, il 6 gennaio 2012 in
Piazza Moro, fu ucciso, dai
suoi avversari di Rustavi e di
Tibilisi, il Kutaisi Tchuradze
Reza. Un omicidio deciso tra
Milano e Dubai per appianare
una sanguinosa controversia
nella cupola euroasiatica. Nel
marzo del 2014, i Kutaisi sono
stati colpiti da una raffica di
arresti nelle province di Bari, di
Taranto e della Bat, fatto che ha
reso noto a tutti la loro predominanza sul clan concorrente e
la loro capacità di penetrazione
in territori storici della ricettazione e del furto (quali Trani e
Andria). È inoltre del marzo di
quest’anno la notizia dell’arresto di altri quattro affiliati ai
Kutaisi operanti nella provincia
di Bari, mentre il 29 giugno una
bomba carta ha fatto saltare in
aria la centralissima agenzia
di spedizione georgiana Cinex
Group, appartenente, pare, a
una concorrente ‘pulita’ dei
Kutaisi. Meno organizzati ma
presenti sono i microclan bulgari. Nell’ottobre del 2014 è finito
in manette Marin Todorov, capo
di un piccolo gruppo dedito
alla tratta e allo sfruttamento di
mendicanti diversamente abili
,comprati in Grecia e rivendibili
su altri mercati europei. Il fatto
interessante è che questi mendicanti erano fatti alloggiare
nelle ex stalle del boss Savino
Parisi su via Oberdan; gli stessi
dati alle fiamme da ignoti pochi
giorni dopo l’arresto. C’è poi il
mercato della prostituzione,
gestito da una costellazione di
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microclan stranieri (nigeriani
e rumeni, in prevalenza) legati
alle famiglie di mafia baresi più
grosse. I gruppi stranieri dediti
allo sfruttamento della prostituzione risiedono principalmente nei quartieri controllati
dagli Strisciuglio e dai Parisi,
e con questi hanno intessuto
nel tempo relazioni fondate
sul consumo e sullo spaccio
di cocaina. Il proliferare di una
suddivisione ‘etnica’ degli interessi criminali è dovuto alla
compresenza stratificata di più
business nell’area metropolitana, cosa che richiede specializzazioni un tempo impensabili e
divisioni di ruolo efficaci e non
affidate al caso. È pur sempre
vero, però, che mentre i nuovi
mercati del crimine si impongono, restano ancora validi i
vecchi e violenti dispositivi
sanzionatori come l’omicidio,
tanto per gli stranieri quanto
per i baresi.
Nuove frontiere di affari.
È evidente il pericolo di un
coinvolgimento della mafia
barese negli affari milionari
della città metropolitana. Ci
stanno già pensando i clan della
Murgia, le famiglie Mangione/Gigante/Matera di Gravina
in Puglia, divenute egemoni
nell’altipiano dopo l’uccisione,
nel 2010, dell’importante boss
di Altamura, Bartolo Dambrosio. Al tempo della sua scomparsa, Dambrosio vantava un
cugino come presidente del
consiglio comunale di Altamura capeggiato dal sindaco
Stacca, esponente di centrodestra, e rilevanti investimenti in
società con imprenditori edili
in odore di voto di scambio e
di corruzione. Successivamente
il clan Dambrosio ha trovato
in Mario, fratello di Bartolo,
un violento prosecutore degli
affari di famiglia: Mario è stato
arrestato il 20 giugno scorso per
strage, con l’accusa di aver fatto
esplodere tre mesi prima una
bomba contro una sala giochi
provocando il ferimento grave
di otto ragazzi presenti nel locale. Ma chi comanda davvero
sulla Murgia sono, si diceva,
i Mangione/Gigante/Matera,
noti per aver investito nell’usura, nelle slot machine, nella
cocaina, nell’agricoltura, nella
ristorazione, nella ricezione
turistica e nell’immancabile
edilizia. In quest’ultimo settore hanno investito nel sud
est barese – una volta terra di
Savino Parisi – nei comuni privi
di Piani urbanistici generali e
governati da amministrazioni
spesso troppo leggere. A imprese edili gravinesi, sostenute
dalle tre famiglie, sono stati
sequestrati beni per parecchie
decine di milioni di euro, e non
soltanto in Puglia. A marzo del
2013, al clan vengono sequestrati immobili, cantieri e suoli
edificabili a Turi, in provincia
di Bari, una villa a Corigliano
Calabro, un immobile a Gallarate e un altro a Monfalcone.
In questo caso è stato il forte
dinamismo imprenditoriale a
mettere in allarme la magistratura. I sequestri di quest’anno
– beni e società per cinquanta
milioni di euro, tra i quali un
noto ristorante a Venosa, nel
potentino, più un resort e un
bar a Gravina – hanno rivelato la forte intraprendenza
transregionale e l’immensa dotazione di liquidi di Saverio
Sorangelo, cassiere del clan.
Liquidi provenienti da traffico
di droga importata, pare, dalla
’ndrangheta. Infatti, la Murgia è
diventata un portone d’ingresso dell’eroina e della cocaina,
come dimostrano gli arresti di
giugno ad Altamura, dove è stato scoperto un attrezzatissimo
laboratorio per la raffinazione
della droga appartenente a un
ex affiliato di Savino Parisi. Le
vie dello spaccio, dalla Murgia,
raggiungono il capoluogo, facendo scalo a Bitonto e nella
zona industriale di Modugno,
passando per Terlizzi, dove
lo spaccio ha generato una
sanguinosa faida tra le famiglie Baldassarre e Dellorusso.
L’altipiano soppianta quindi
Andria nella compravendita
di stupefacenti, irrobustendo
il rapporto con i clan baresi e
indebolendo la Bat, ancora sotto
il parziale controllo dell’ambigua mafia foggiana. L’aumento
dell’importazione di droga è
determinato dall’aumento del
consumo registrato dappertutto, in Puglia, con picchi
rilevanti durante la stagione
turistica quando, dalla provincia di Bari, i corrieri scendono
verso il Salento (Otranto, Gallipoli e relativi locali notturni,
lidi e discoteche) passando per
il brindisino (Fasano, Ostuni,
Cisternino, Mesagne, Ceglie
Messapico): terre di Sacra Corona Unita.
Foggia, la città
assaltata
Una città in mano alla criminalità? Un ritratto in cui sembra
essere questo il profilo che emerge dalla cronaca su Foggia.
Una città che si deve misurare con le organizzazioni mafiose,
con un contrasto da parte dello stato spesso inefficace e con la
paura. Foggia e il Gargano non assurgono sovente quanto dovrebbero agli onori della cronaca nazionale, come invece accade per altre località nel meridione
di Giovanni Dello Iacovo
Mafie in Puglia
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Il Magirus Trakker è l’autocarro classico che usano i Vigili
del Fuoco, di quelli che si attrezzano con serrande, scala
retrattile, cisterne e boccagli
per l’acqua. Oppure di quelli
che servono per il movimento
terra nei lavori stradali. A Cerignola, un mezzo del genere era
stato elaborato con un doppio
fondo ricoperto di ghiaia: sotto,
un sistema di videocamere e
di ventilazione consentiva a
sei persone di stare acquattate
e pronte per quelle spettacolari operazioni di assalto ai
portavalori che corrono lungo
l’Adriatica, autostrada o la parallela strada statale che sia.
Non a caso si sono mobilitati il
Reparto prevenzione criminale
di Pescara, la Squadra Mobile
di Foggia e il Commissariato di
Cerignola, portando a termine
il blitz organizzato dal Servizio
centrale operativo della Polizia che ha portato a sventare
un colpo in preparazione e a
sequestrare kalashnikov, pistole, giubbotti antiproiettile,
decine di caricatori e centinaia
di cartucce.
Appena qualche giorno prima
dell’exploit cerignolano, avevano fatto clamore tre episodi
avvenuti nel capoluogo dauno. Il primo, un inseguimento
con sparatoria tra due auto, in
pieno pomeriggio, il giorno di
San Giovanni; il secondo, una
“serenata” sotto la finestra, con
colpi di pistola al torace del
trentenne che si era affacciato
rispondendo all’appello; il terzo, un altro inseguimento con
la polizia che, in pieno centro
cittadino, ha sparato alle gomme di un’auto che non si era
fermata a un posto di blocco.
Senza contare la lunga teoria di
attentati a San Severo, letti qua-
si come sfida al neo-presidente
della Regione Puglia, Michele
Emiliano, ex magistrato antimafia ed ex sindaco di Bari, per un
anno chiamato a fare l’assessore
alla Sicurezza e alla Legalità
dal sindaco della città dell’Alto
Tavoliere e presidente della
Provincia, Francesco Miglio.
Da poco più di un anno, a
Foggia e in provincia, si va
avanti così: tra suggestioni di
cronaca, assecondate dalla
nuova attitudine delle forze
dell’ordine a “sceneggiare”
arresti e sequestri con filmati
e presentazioni, degni delle
grandi serie tv, e letture tanto
allarmistiche quanto ripetitive
rispetto a letture e linguaggi
che segnarono la stagione più
popolare dell’antimafia civile.
Il punto di emersione fu un’azione davvero eclatante. Notte di San Giovanni 2014, la
città è ancora in fermento per
le appena concluse elezioni
amministrative. Una decina
di uomini armati tenta l’assalto al caveau di una società
di vigilanza privata, che ha la
sede nel Villaggio Artigiani,
prima periferia del capoluogo
dauno. I banditi usano camion
e caterpillar rubati, chiudono
per quattro ore tutte le vie di
accesso e di uscita dalla città inscenando finti incidenti oppure
mettendo le auto di traverso,
bloccano e spaventano, armi
in pugno, ignari automobilisti, ingaggiano un lunghissimo
conflitto a fuoco con poliziotti e
carabinieri usando kalashnikov
e bombe a mano. La città intera
è in ostaggio. Alla fine, sono
costretti a fuggire.
Questa ‘mafia pop’ incalza con
episodi sempre più temerari
che generano processi imitativi
in delinquenti isolati, popolano
l’immaginario della spavalderia
criminale e della paura sociale, ingenerano confusione in
un’opinione pubblica ormai
disabituata all’analisi prudente.
Il 13 settembre 2013, Roberto
Saviano, in un post su Facebook
linka un video di repubblica.it
in cui, ripreso da telecamere di
sorveglianza, si vede un omicidio non riuscito solo perché
si era inceppata l’arma usata in
pieno giorno e scrive: “Il video
di questa esecuzione mostra
come Foggia abbia una realtà
criminale del tutto ignorata
eppure potente. Il territorio
foggiano è infiltrato a ogni livello dall’organizzazione mafiosa
Società foggiana in grado di
interloquire anche con ’ndrangheta e camorra. Foggia e tutto il
Gargano vivono una pressione
criminale spesso ignorata dai
media nazionali. È proprio vero
che se Bari ha la malavita, il
potere mafioso pugliese è a
Foggia e nel Gargano”.
“Illegalità diffusa che fa paura”. Un anno dopo, il sito di
Repubblica diffonde un’articolata e allarmata ricostruzione
del contesto criminale foggiano,
inquadrandolo nella cornice
mafiosa. “La nuova mafia che
assedia Foggia”, il titolo del
pezzo a firma di Giuseppe
Caporale, si conclude con un
documento: è l’audizione, che
il giornalista definisce “scioccante”, del questore di Foggia,
Piernicola Silvis, davanti alla
Commissione parlamentare per
i reati contro gli amministratori
pubblici, presieduta dalla senatrice del Partito democratico
Doris Lo Moro. È il 28 giugno
2014 e si è verificato da poco
l’assalto con camion incendiati
e caterpillar.
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chiamata ‘la Società’, che è una
vera e propria associazione per
delinquere di stampo mafioso: commette omicidi efferati
(ce ne sono stati sei o sette
dall’inizio dell’anno), commette estorsioni violente (tutta la
città è estorta), c’è stata anche
l’esplosione di un’autobomba
all’inizio di marzo (non parlo
di un petardo ma di una vera
e propria autobomba) che per
fortuna non ha fatto vittime, di
fronte alla sede dell’azienda di
un noto costruttore.
Una città dove tre, quattro bande di gangster si spartiscono il
territorio e ogni tanto vanno in
conflitto, si sparano e si ammazzano, ma dove non c’è ancora
un’associazione antiracket.
Tano Grasso, che tutti voi conoscete, è riuscito a costituire una
buona associazione antiracket
a Vieste, combattendo le associazioni criminali che operano
sul Gargano, ma non è riuscito
a crearla a Foggia. Ci riusciremo
probabilmente a breve, ma nel
2014 una città massacrata dagli
omicidi, anche di chi non ha
pagato il pizzo, ancora non
vede nascere un’associazione
di questo tipo, perché la gente
ha paura. A Foggia, i nomi delle
famiglie mafiose non si dicono
neanche in famiglia. Ci sono
omicidi, autobombe, estorsioni
dovunque».
L’attenzione si sposta poi tra la
‘scoperta’ del carattere mafioso
della criminalità foggiana: «Si
sta sottovalutando il fatto che
sta nascendo un’associazione
da 416-bis che non è più la
Sacra corona unita», chiosa Lo
Moro, presidente della Commissione sulle intimidazioni
agli amministratori locali e
senatrice Pd. Non resta che la
sconsolata osservazione dell’as-
senza di un’antimafia sociale:
«Bisogna creare un’attenzione
nazionale: se la società cresce e
migliora, anche le minacce nei
confronti degli amministratori
politici e comunali scemano:
questo è matematico. Deve
crescere la società», conclude
il questore.
Le mani sulla città. Il punto
è proprio un dibattito fermo
alla stagione dei grandi processi che certificarono i caratteri
dell’articolo 416-bis del codice
penale: il processo per l’assassinio del costruttore Giovanni
Panunzio, ucciso il 6 novembre
1992, concluso con la sentenza
del 13 ottobre 1999 della Corte
di Cassazione che per la prima
volta riconosce la Società Foggiana e le sue batterie come una
vera e propria organizzazione
di tipo mafioso.
Un’occasione persa per incidere
sulla struttura dell’economia
pubblica locale, è l’operazione
“Piazza Pulita” che il 6 aprile
2012 svelò l’infiltrazione mafiosa nell’azienda foggiana che
allora si occupava del ciclo dei
rifiuti, interamente partecipata
dal Comune. Gli arresti della
Direzione distrettuale antimafia
di Bari arrivarono 4 mesi dopo
il fallimento dell’Amica Spa
e dopo che, per almeno due
anni, si era vissuto un clima
incandescente intorno a Palazzo di Città, con aggressioni e
pressioni pressoché quotidiane
intorno alla gestione dei servizi
pubblici locali, messa in crisi
dallo stato di pre-dissesto finanziario attivato dal Comune.
L’inchiesta della Dda rivelò
episodi gravi di connivenze
ed estorsioni, illuminò retrospettivamente episodi come il
blocco dei mezzi della raccolta
Mafie in Puglia
Silvis è foggiano e parla della
sua esperienza a Oristano, in
Sardegna, che ha concluso sei
mesi prima: “Non si può dire
che la Puglia, la Sardegna, la
Calabria e la Campania sono
uguali”, dice alla presidente Lo
Moro, un ex magistrato, che è
stata sindaco di Lamezia Terme
subito dopo lo scioglimento
per mafia dell’importante comune calabrese, molto attiva
in Libera.
Vale la pena rileggerle, oggi,
le parole del questore: «Per
quanto riguarda la provincia di
Foggia (…) c’è una galassia di
episodi che coinvolgono amministratori comunali: minacce,
incendi di automobili, invio di
proiettili, lettere anonime, telefonate, facce strane per strada
che ti sfidano. (…)
C’è un’illegalità diffusa che fa
paura. C’è una microcriminalità scatenata (...) Nel Gargano,
che ricorda per alcuni versi le
terre sarde, perché come quelle
è terra di montanari, alligna
però il benessere del turismo,
perché in estate il Gargano letteralmente esplode sotto quel
profilo. Ebbene, si è creata
un’organizzazione criminale
nel Gargano che estorce tutti
gli esercenti pubblici. In una
situazione del genere, in cui si
è affogati dalle organizzazioni
criminali, lei può immaginare
come possa stare tranquillo un
sindaco di Cerignola, di Vieste
o di Monte Sant’Angelo.
Vogliamo parlare della città
di Foggia e di San Severo?
Approfitto di questa sede per
dire formalmente che Foggia,
con 160 mila abitanti, è una
città dove l’illegalità diffusa è
dovunque, dove la microcriminalità è dovunque e dove
vi è un’associazione criminale
Mafie in Puglia
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che erano stati vissuti dentro la
normale dialettica politica. Ma
non ha fatto lievitare una consapevolezza piena delle scelte
più strutturali che dovrebbero
riguardare la qualità del sistema
degli appalti e della regolazione
dei servizi pubblici, che restano
prevalentemente impostati con
la regola del massimo ribasso,
spezzettati per abbassare le
soglie di accesso o influenzati
da “clausole sociali” che riducono la concorrenza fino ad
annullarla. Basti pensare che
sono ormai sei anni che vanno
deserte le gare per il servizio
di illuminazione pubblica di
una città capoluogo con oltre
150 mila abitanti e un territorio
ottavo in Italia per estensione.
O che, malgrado la gara europea
per i servizi del verde pubblico
disposta nel 2013, al Consorzio aggiudicatario è stato, alla
fine, imposto di farsi carico
(dimezzandone gli stipendi),
di tutti gli ex dipendenti di un
sistema cooperativistico lambito dall’inchiesta della Dda
su Amica.
Le connessioni e gli affari. I
piani considerati decisivi nel
dibattito nazionale antimafia
sono l’economia e la regolazione, ma a Foggia si rischia di
focalizzare troppo l’attenzione
su sparatorie, racket estorsivo
e altri aspetti eclatanti. Invece,
anche nell’ottica della magistratura specializzata, la “modernizzazione” della Società
è vista benissimo e seguita nei
suoi tragitti nazionali e internazionali. È vero che la Dda
ha dovuto subire un brusco
stop quando, con l’inchiesta
“Vela 2” del 2003 che tornò
a investire la locale Confindustria e alcuni esponenti di
vertice del mondo politicoistituzionale, provò invano a
far passare al vaglio processuale
il tema complesso delle interposizioni fittizie nella titolarità
di imprese criminali, specie,
come nel caso foggiano, quando
operano nel settore dell’edilizia
e delle compravendite immobiliari. Ma in altre direzioni
le inchieste hanno fatto passi
avanti importanti, confermando l’impressione che, con il
quinquennio di omicidi che
liquidò le figure storiche e più
carismatiche (Franco Spiritoso
nel 2007, Antonio Bernardo nel
2008, Michele Mansueto nel
2011 e Giosuè Rizzi nel 2012),
la Società abbia compiuto la
definitiva svolta verso gli affari,
che l’aveva portata a difendere
la propria autonomia, negli
anni Ottanta, da una Nuova camorra organizzata poco incline
al basso profilo e, negli anni
Novanta, da una Sacra corona
unita troppo irruente e spesso
inutilmente sanguinaria.
Nella relazione 2012-2013 della
Direzione nazionale antimafia,
si legge di “assoggettamento ed
anche contiguità tra la locale
imprenditoria e la criminalità
mafiosa”, giudizio tratto in particolar modo dall’operazione
“Corona” che, secondo la Dna,
“offre il quadro più attuale della
Società Foggiana e delle attività
illecite da questa svolte”.
Ma le dinamiche verso l’esterno
si raffinano. Se le estorsioni
sono il mezzo ordinario di approvvigionamento, offrono anche l’opportunità di accesso in
ditte e imprese che consentono
la ‘legalizzazione’ del sistema
criminale e restano l’espressione più efficace del dominio
territoriale in cui consiste l’impianto mafioso. Un’inchiesta
della Dda di Bari ha scoperto il
modo raffinatissimo e poggiato
su complicità di cassieri e croupier con cui esponenti della
Società foggiana ripulivano il
denaro sporco nel Casinò di
Venezia ricorrendo a giocate
fittizie, cambiando rilevanti
somme di denaro in più occasioni, in modo da sfuggire
alle segnalazioni previste dalla
legge e ottenendo a fine serata
un assegno emesso dalla più
antica casa da gioco del mondo.
Ma, nell’anno dell’Expo, la
fotografia forse più precisa
dell’evoluzione della mafia
foggiana la scatta la sentenza
del processo Bacchus, che non
solo testimonia l’investimento
in settori strategici come quello
vitivinicolo, con le prime ramificazioni verso il nord Italia
e il Ravennate in particolare.
Racconta anche come e quanto
deve essere estesa la rete delle
contiguità e connivenze attive e
passive: dai funzionari di banca
che non segnalano operazioni
anche da 8 milioni di euro, fatte
da società troppo piccole per
non destare sospetti, ai professionisti che hanno costituito
e mantenuto società fittizie
che movimentavano fatture
senza IVA che ‘ritornavano’
saldate con l’Iva maggiorata;
dagli imprenditori carnefici
che truffano l’Unione europea,
agli imprenditori indeboliti
da una concorrenza sleale che
diventano parti del gioco (con
l’eccezione di colui che lo ha
denunciato, facendolo saltare).
Gargano criminale. Lo scorso
16 luglio, la prima sezione penale del Tribunale di Foggia ha
riconosciuto il quadro tracciato
dalla Dda, con ciò scrivendo
una pagina importante della
storia giudiziaria della mafia
foggiana. Una pagina che illustra perché micro e macro non
sono dimensioni scindibili: in
Bacchus, minacce, estorsioni,
usura, riciclaggio, false fatturazioni, truffe comunitarie si
tengono assieme; più in generale, il dominio dei gruppi criminali egemoni si esprime e si
conferma sia con l’imposizione
“fiscale” del pizzo estorsivo,
che con il “diritto di pascolo”
concesso alla cosiddetta microcriminalità per furti, rapine o
scippi.
Il giorno dopo l’attesa sentenza,
la Presidenza del Consiglio dei
Ministri ha approvato lo scioglimento del consiglio comunale
di Monte Sant’Angelo, “dove
sono state accertate forme di
condizionamento da parte della
criminalità organizzata”. Un
provvedimento a lungo discusso in sede prefettizia, che ha
travolto prudenze e buone intenzioni degli amministratori,
ma che suggella un’attenzione
progressivamente più affinata
su un contesto emerso chiarissimo, nella sua gravità, in
due grandi inchieste chiuse
nel 2011 e nel 2012: Medioevo
e Rinascimento. Dalle indagini
si evince che nemmeno un bar
poteva essere aperto a Monte,
senza ‘autorizzazione’ del potente boss arrestato dopo due
anni di latitanza domestica. E
poi l’intreccio con i clan manfredoniani e la Società foggiana, gli affari in comune con i
Casalesi, l’adesione al dominio
criminale assai oltre la misura
passiva della connivenza.
Per penetrare un modello culturale di questo genere bisogna avere almeno due punti
cardinali con cui orientare le
indagini antimafia. Il primo è
il piano della prova processuale, su cui rischiano di sfaldarsi quadri accusatori troppo pieni di giudizi di valore:
con questo rinnovato rigore
nell’applicazione del diritto
probatorio, stabilizzano acquisizioni documentali utilissime
considerando il principio della
‘circolazione della prova’ che
consente di utilizzarle in tutti
i possibili processi di mafia
oppure riescono ad aggredire
i patrimoni costituiti illecitamente con ciò colpendo l’anima
delle nuove mafie. Il secondo
punto cardinale è quello che
gli addetti ai lavori chiamano ‘pluralismo operativo’, un
metodo di lavoro che si sta
dimostrando indispensabile per
indagini che ormai agiscono in
contesti senza più alcun confine
plateale tra lecito e illecito. Si
costituiscono gruppi di lavoro
“ad hoc” a Roma, a Bari e a
Foggia. Il modello del pool è
un dato acquisito e, in tutte le
indagini antimafia, alla Direzione distrettuale antimafia sono
applicati uno o due sostituti
della Procura ordinaria foggiana. Lo stesso schema si replica
a livello di polizia giudiziaria,
con gruppi di lavoro che sono
stati costituiti da elementi dello
Sco, della Squadra Mobile di
Foggia e di Bari, dei Ros e anche
a livelli di Commissariato.
Questa strutturazione è la più
funzionale: da un lato serve
per fare analisi sul fenomeno
mafioso; dall’altro, per tenere
sempre aggiornata la lettura
del territorio.
Soprattutto sembra garantire
efficienza, integrità e sicurezza,
le tre qualità necessarie per
combattere ad armi pari le cosche mafiose.
Mafie in Puglia
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Scu, la quarta
mafia ha radici
in Salento
La ‘quarta mafia’, quella forte aggregazione su base socioculturale che controlla i business illeciti e si annida nelle pieghe dell’economia salentina, ha compiuto l’ennesimo salto di
qualità. A lei il controllo di grosse fette di res pubblica grazie
al “consenso” di una parte della cittadinanza, di chi fino ad
ora aveva subìto l’imposizione della legge della violenza e del
sopruso, assoggettati ai clan mafiosi e sottomessi alla regola
dell’omertà
di Mara Chiarelli
Dal 1983 ad oggi – 32 anni
di storia criminale, bagnata
di sangue e nutritasi di droga
ed estorsioni – la Sacra corona unita (Scu) ha manifestato
sempre più concretamente la
sua capacità di mutare pelle,
adeguandosi di volta in volta
alle necessità che l’intero sistema socio-economico imponeva.
Dalla provincia brindisina, terra
intrisa di quella cultura mafiosa per averne dato i natali,
fino a Gallipoli, tacco d’Italia,
attraversando comuni e campagne, “accomodandosi” nel
largo Salento e lambendo anche
la provincia tarantina. Erano
alte le aspettative di quel Pino
Rogoli, piastrellista mesagnese
che, in carcere per un omicidio commesso durante una
rapina, decise di contrastare
proprio nel Salento l’avanzata della Nuova camorra dei
cutoliani, in odore di ricostituzione. E di fondare una
organizzazione mafiosa, che
nelle intenzioni del sanguinoso padrino, avrebbe avuto
principalmente identità di
‘anti Stato’ nel cuore dello
Stato stesso: «Qui, nelle patrie
galere – spiegava il 14 maggio
1984 Rogoli all’allora giudice
istruttore barese, Alberto Maritati – succedono tante cose
gravi e io, come più grande,
più saggio, è vero che dò dei
consigli. Più volte, e lei lo può
constatare dal contenuto delle
lettere, io sono intervenuto
anche per far risparmiare da
un vero e proprio massacro
alcuni detenuti che erano indicati come autori di soffiate.
Per quanto attiene alla Sacra
corona unita, non è stata creata
per commettere reati, ma solo
per regolare e decidere le varie
questioni insorte tra i detenuti».
Gli anni bui della violenza
e il silenzio dei giudici. E la
neonata organizzazione, così
abilmente diretta, adotta sin
dal principio il metodo mafioso, “con il ricorso sistematico
alla violenza, all’interno e
all’esterno dell’associazione,
spesso con modalità connotate da sinistra spettacolarità”,
come si legge negli atti giudiziari (la sentenza di secondo
grado a 33 persone, emessa il 12 febbraio 2002 dalla
Corte d’Assise d’Appello di
Lecce). Arrivano gli omicidi,
tanti ed efferati, eseguiti con
i metodi più eclatanti, aperta
dimostrazione della potenza bellica e intimidatoria:
la grande disponibilità di
armi e la totale mancanza
di inibizione alla violenza
tracciano la strada di sangue
battuta dalla Scu. Mentre i
giudici processavano ma non
riconoscevano la “mafiosità”
della Sacra corona unita (la
sentenza di condanna del
24 ottobre 1986 escludeva la
sussistenza dell’articolo 416
bis), si ponevano le basi di
quella che sarebbe diventata
una mafia tentacolare, capace
di passare da ben tre attentati
dinamitardi (due al Palazzo
di giustizia di Lecce e il terzo,
fallito, alla linea ferroviaria
Lecce-Bologna), al controllo
delle aste giudiziarie, alle
infiltrazioni negli appalti,
nell’economia pulita, nel
calcio e nell’energia alternativa, ottenendo sponde e
appoggi da politici e amministratori. Per la prima volta,
solo nel 1991 la Sacra corona
unita ebbe dalla magistratura
il riconoscimento di associazione di stampo mafioso. I
semi erano già germogliati.
La trasformazione. Gli anni ’90
sono passati e la Sacra corona
unita ha imparato la lezione
dei siciliani, di quella mafia
storica che era entrata nella sua
stessa formazione culturale. Le
“malerbe” sono cresciute facilmente, nutritesi dei proventi
di droga, usura ed estorsioni,
principali attività di sostentamento delle organizzazioni
criminali pugliesi. E hanno
capito che, come insegna Cosa
nostra, occorreva dismettere i
vecchi abiti sporchi di sangue,
occorreva mettere un freno a
quell’attività di proselitismo
che si basava sulle affiliazioni
mafiose: basta omicidi, perché
attirano l’attenzione delle forze dell’ordine, meno ricorso
ai “battesimi” che fidelizzano
i nuovi soldati – è vero – ma
mettono a rischio la tenuta
stessa del gruppo, della “famiglia”, esponendoli a un più
elevato rischio di pentimenti.
Tra i diversi gruppi operanti
sul territorio si viene dunque
a creare un nuovo sodalizio,
una pax mafiosa funzionale al proseguimento, se non
all’accrescimento dei nuovi
business. Mentre dal carcere,
nonostante i capi storici della
Scu siano sottoposti a regime
di isolamento (il cosiddetto
“carcere duro”), continuano a
filtrare ordini e disposizioni.
«L’esperienza ci ha insegnato
che essere riservati fa bene,
evitare determinate liti, determinate regole che si usavano
in passato, fa bene a evitare i
guai», spiega Ercole Penna, al
secolo Lino u’ bionnu, il più
importante collaboratore di
giustizia della Sacra corona
Unita, pentitosi dopo 22 anni
di militanza ai vertici della
frangia brindisina.
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I rituali mafiosi. I ‘battesimi’
non sono scomparsi, ma ridotti e valutati a seconda del
contesto. Spiega Penna: «L’affiliazione, oggi come oggi, è
relativa, nel senso che io la
definisco antiquata, nel senso
che non siamo più negli anni
’80, quindi oggi molte persone
che ci sono vicine, ci sono vicine anche senza essere state
affiliate, anzi fanno più dell’affiliato, e quindi non guarderei
l’affiliazione come una cosa
rigida, con quelle regole che
c’erano 20 anni fa, oggi non è
così». Cambiano le ‘formazioni’
nella Scu ma non cambia la
sostanza: «Noi abbiamo spodestato i capi storici – racconta
Penna – ma i simboli e tutto
il resto è rimasto quello che
ha portato Pino Rogoli negli
anni ’80, è sempre quella, è la
stessa cosa. Ci sono state delle
guerre nostre, delle scissioni,
ma sempre quella. Ecco perché
quando parlo di Sacra corona
libera o Sacra corona unita è
la stessissima cosa, cambiano
i capi, i vertici, ma è la stessa
cosa». Cambiano, dunque, solo
le strategie che si evolvono di
pari passo alle operazioni di
polizia giudiziaria, agli arresti
e ai processi, modellandosi e
cambiando pelle.
Il consenso sociale. Fondamentale in questa situazione magmatica e dinamica è,
paradossalmente, l’appoggio
delle stesse ‘vittime’ dei reati:
la ricerca del consenso sociale diventa quindi prioritaria
per la quarta mafia che vuole
espandersi e arricchirsi. E così
dà prestiti a chi è in difficoltà,
procura lavoro, difende dai
torti. In alcuni casi sono le
stesse vittime a offrire spontaneamente denaro e cadeau
ai boss, chiedendone se necessario la protezione. Accade
a Squinzano (in provincia di
Lecce) con il clan Pellegrino
che professava “se tutto va bene
è merito nostro”, accade a Mesagne, come riferisce lo stesso
Penna: «Siamo sempre disponibili nei confronti della gente
comune, che fa affidamento su
di noi, anche per i problemi
economici per i quali si rivolge
a noi, e siamo pronti a risolverli
anche dando denaro a fondo
perduto. Si può dire che gli
abitanti di Mesagne (nel Brindisino, lì dove nasce la Scu) nella
maggior parte solidarizzino con
noi». E ancora, «in virtù dell’elevato grado di credibilità raggiunto dall’associazione sotto il
profilo criminale, sono spesso
gli stessi imprenditori che, di
iniziativa, consegnano somme
di denaro a titolo di pensiero.
Tale pensiero non veniva fatto
solo attraverso il versamento
di somme di denaro ma anche
attraverso la consegna gratuiti
di prodotti trattati dall’azienda
interessata, nonché a mezzo
di assunzioni di dipendenti».
Situazione stigmatizzata più
volte, negli ultimi tempi, dal
procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta: «In occasione di
alcuni arresti – ha raccontato
– ci siamo trovati a dover fare
i conti con amici e parenti che
contestavano ed ostacolavano
addirittura le forze dell’ordine.
Da tutto questo viene fuori uno
spaccato davvero preoccupante
che capovolge le regole e che
fa crescere il consenso attorno
alla criminalità facendo perdere
forza agli apparati dello Stato». Un consenso che ha radici
lontane e molte affinità con
le strutture criminali di altre
province pugliesi. Di aneddoti
esemplari ce ne sono diversi:
da quello che disegna l’arresto
del boss Massimo Pasimeni e
di sua moglie, a Mesagne nel
febbraio 2010. Mentre la coppia
veniva portata via dalla polizia,
gli abitanti del quartiere scesero
in strada per manifestare solidarietà: «Massimo torna presto,
vi vogliamo bene. Gioconda, al
tuo cagnolino ci pensiamo noi,
ci mancherete». Un mese dopo,
a Squinzano (Lecce) il ritorno
in libertà del figlio di un “capozona”, Antonio Pellegrino,
fu celebrato con una festa nel
campo sportivo e i fuochi d’artificio. Botti e gioia anche per
la scarcerazione di Andrea Leo,
referente per la zona di Vernole.
Dolore e partecipazione per la
morte di Salvatore Padovano,
storico boss di Gallipoli, ucciso
per ordine di suo fratello nel
settembre 2008: Nino bomba
aveva cambiato vita, dopo aver
scontato 20 anni di carcere, ormai dedito, asseriva, a scrittura
e letteratura. Al suo funerale, il
parroco lo accomunò al Cristo
morente e invitò i presenti a
ricordare «Salvatore con affetto
e senza covare rancore». Nelle
prime file del corteo funebre,
con tanto di fascia tricolore,
parlamentari e autorità cittadine e provinciali.
La movida, il mare e la politica. Mentre i tentacoli dell’organizzazione si insinuano nelle
pieghe dell’economia pulita,
grazie anche all’appoggio di
politici consenzienti e pronti
ad un do ut des mai originale,
restano sempre più che valide
le storiche fonti di sostentamento: lo spaccio di droga che
trova terreno favorevole nei
locali della movida salentina,
l’usura e le estorsioni. Le ultime due attività illecite, da
sempre strettamente collegate, attraversano i decenni con
forme e tecniche sempre più
affinate: dal racket sul pescato
dei pescherecci, passando per
i giostrai nelle feste di paese,
strozzando incondizionatamente commercianti e imprenditori. Per la mafia salentina, così
come per le altre organizzazioni
criminali italiane, ogni attività
che funzioni è suscettibile di
taglieggiamento. Nel febbraio 2014 polizia e carabinieri
hanno arrestato 36 persone (43
quelle indagate) per aver piegato all’estorsione i principali
stabilimenti balneari fra Torre
Specchia e San Foca: i titolari
erano tenuti a versare alla Scu
il 25 per cento sui ricavi, oltre a
concedere l’esclusiva sulla gestione dei parcheggi delle zone
circostanti. Anche la guardiania e i servizi di vigilanza non
erano lasciati al libero mercato,
ma imposti. Proprio in quella
zona, nei mesi estivi, si erano
verificati numerosi incendi di
natura dolosa ai danni di auto
e locali. Alcuni imprenditori,
negando di aver mai subito
estorsioni, sono stati denunciati
per favoreggiamento.
Gli uomini. La storia della Sacra
corona unita è costellata di
figure da raccontare, di boss
sanguinari, pentiti eccellenti,
menti abbrutite e lungimiranti;
di vittime da ricordare e di
quelle che ancora oggi lottano
per non subire. C’è l’ambizioso
Giovanni De Tommasi, da referente diretto di Rogoli e poi,
in rotta con lui, fondatore della
Rosa dei venti. Nella nuova
‘famiglia’ nata in seno alla Scu
e benedetta dalla ’ndrina calabrese di San Luca, De Tommasi
aveva il grado di ‘imperatore’.
Condannato all’ergastolo per
cinque omicidi e tre tentativi, in cella scrive lettere su
blog e siti di associazioni che
si occupano della tutela dei
diritti dei detenuti. C’è il lucido Dario Toma, affiliato con il
grado di “diritto al medaglione
con catena” (il massimo grado
nella scala gerarchica mafiosa).
Pentitosi nel 2001, affida a un
memoriale le sue preghiere:
«Voglia la misericordia di Dio
concedere alla mia bambina un
futuro di serenità al riparo da
atti di violenza trasversale». C’è
il sanguinario Filippo Cerfeda,
il cui programma egemonico
aveva provocato tra il 2001 e il
2003 una decina di morti e una
sequela di agguati, gambizzazioni e ferimenti. Dopo essere
stato tra i primi trenta latitanti
italiani più pericolosi e arrestato, dopo quattro mesi di carcere
chiese di collaborare, presentando al procuratore Cataldo
Motta un primo memoriale di
196 pagine, con un indice dei
reati confessati e, a parte, un
“elenco dei fatti di sangue”. A
chi lo interrogava, precisò: «Gli
appunti esibiti riguardano fatti
di sangue commessi negli ultimi due anni, a partire dall’estate
2001, e nell’esporli ho seguito
in linea di massima un criterio
cronologico». C’è Ercole Penna, il superpentito mesagnese,
l’asso nella manica della Dda
salentina. Colui cioè che in
un anno di collaborazione ha
svelato agli inquirenti i nuovi
assetti organizzativi della Scu,
come la potente organizzazione criminale non si fosse mai
ridimensionata ma avesse, al
contrario, accresciuto potere
grazie al ‘cambio di pelle’. A
15 anni riceve il suo battesimo,
seguendo una rapida carriera
criminale che lo porta ad avere
a soli 36 anni il più alto grado
mafioso: «Io da piccolo sono
stato preso in braccio da Pino
Rogoli, da Antonio Antonica,
questi sono gli ambienti in cui
sono vissuto, è stato naturale
nei primi anni ’90 affiliarmi,
ecco». Ha spiegato cosa significhi essere un boss, «Non è
che uno si alza la mattina e
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dice ‘Faccio il capo’. Quando
uno comunque è un certo personaggio e si trova ai vertici di
una organizzazione, non è che
c’è un reato che lo fai e un altro
che non lo fai. Non c’è una cosa
che eviti, dove ci sono i soldi
c’è la malavita e ci sta tutto
il resto». Penna, considerato
l’ideatore del federalismo mafioso: «Federalismo? Come lo
vogliamo chiamare? Ecco, autonomia decisionale sul basso
del vertice, anche se la politica
che si segue è la politica di noi
mesagnesi». E c’è, rappresentativo di tutte le vittime che
non si sono piegate alla quarta
mafia, Paride Margheriti. Lui
non è cresciuto tra i boss, non
si è nutrito di mafia. Lui era un
assicuratore, una vita normale,
che come tante vede momenti
economicamente difficili. Poi lo
scivolo che ti porta agli usurai,
i prestiti, gli interessi impossibili, il racket che punisce. Oggi
coordina ben sette associazioni
antimafia e antiracket, che coprono un largo territorio della
provincia brindisina, la prima fondata a Erchie nel 2013,
proprio quando la sua assurda
storia sta raggiungendo livelli
che scoraggerebbero chiunque.
Nell’agosto 2012 ha denunciato
i suoi aguzzini, che sono stati
arrestati e processati per ben
due volte. Entrambe le volte chi
lo aveva picchiato e lasciato per
terra è stato rimesso in libertà,
per un vizio di forma e uno
procedurale. Oggi è bersaglio
di minacce, più o meno dirette. Ci sono le lettere anonime:
“Sei un morto che cammina”,
“Nessuna protezione ti salverà
insieme a te e per quelle (….)
di Brindisi Oggi, per quella
merda del tuo avvocato e per
tuo padre per primo”. Ci sono
poi i proiettili mandati per
posta, i cassonetti incendiati
sotto casa, le auto bruciate e
quelle fatte ritrovare poco dopo
il furto. Pur essendo testimone
di giustizia ha solo una blanda
sorveglianza, confermata di
recente dal prefetto di Brindisi,
Nicola Prete: il passaggio di
un’auto dei carabinieri, di tanto
in tanto, sotto la sua abitazione.
Le donne della quarta mafia.
A reggere le fila della Sacra
corona unita, quando mariti,
fratelli, figli, sono detenuti, a
tenere in riga i ‘soldati’ e curare
gli interessi economici della
famiglia, c’è in Salento una
lunga storia di donne. Donne che negli anni sono andate
evolvendosi, al punto di potersi
permettere di raccomandare al
boss di riferimento la carriera
mafiosa di altri, al punto di
essere affiliate con il titolo di
‘sorelle di omertà’, ricoprendo
incarichi di prestigio, rispetto,
di comando. Come Domenica
Biondi, moglie di Pino Rogoli, quella donna Mimina che
faceva da trait d’union fra suo
marito in carcere e i fedelissimi
in libertà, capace di inventarsi
stratega per il bene della famiglia. Intervistata con sua figlia
nel 1994, nella lussuosa casa
di Mesagne, si dichiarò vittima
della giustizia e dei giudici. Ada
Bevilacqua, madre di Cosimo
Cirfeta, metteva a disposizione
casa sua per le riunioni degli
affiliati, prendeva ordini dal
carcere durante la detenzione
di suo figlio, ordinava omicidi
per suo conto e gestiva il denaro proveniente dalle attività
illecite. Stesso ruolo ricoperto
da Antonia Caliandro e Maria
Rosaria Buccarella, rispettivamente moglie e sorella di
Salvatore Buccarella, capoclan
della frangia brindisina, abilitate al ruolo di comando e
brave a colmare il vuoto lasciato
dai congiunti, disponendo se
necessario, l’eliminazione fisica di persone scomode. Ma
più di tutte, quella che incarna
meglio in una sola persona le
funzioni tradizionali femminili della donna di mafia con
azioni ferocemente maschili,
è Anna morte, al secolo Anna
Addolorata De Matteis Cataldo. Moglie di Luigi Giannelli
(capo della frangia del basso
Salento) e condannata a due
ergastoli e altre lunghe condanne per alcuni delitti di cui era
stata istigatrice, è considerata
la mandante dell’omicidio di
Paola Rizzello e di sua figlia
Angelica, di soli due anni,
la più giovane vittima della
Sacra corona unita. La bimba
era con sua madre quando la
donna fu prelevata per strada
e portata in un casolare. Un
colpo uccise Paola, un altro di
rimbalzo colpì Angelica a un
piedino. Perché smettesse di
piangere, all’assassino arrivò
l’ordine di ucciderla. Il delitto
avvenne con metodi brutali: la
piccola fu sbattuta più volte
contro un muro. I cadaveri
furono ritrovati tempo dopo,
a distanza di parecchi anni
l’uno dall’altro, nelle campagne circostanti.
La Sacra corona unita non
è finita. Tutte le valutazioni
degli inquirenti, ad eccezione
di alcune minimizzazioni fatte
a scopo politico negli ultimi
anni, non è mai finita, si è solo
trasformata. Perché, come spiega Ercole Penna: «Ma non è che
l’associazione ha un inizio e una
fine. Quando uno è mafioso, è
mafioso. Nei modi lo è sempre».
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La discarica Calvi Risorta
putabile al clan dei Casalesi,
egemone in questa zona per decenni. A confermare la probabile
matrice camorristica dei veleni
sono proprio le parole del generale Costa, secondo cui: «Nell’area
ex Pozzi di Calvi Risorta i rifiuti
sono stati tombati secondo un
sistema quasi scientifico usato
dal clan dei Casalesi. Il nostro
è uno spunto investigativo che
va approfondito ma abbiamo
constatato che qui a Calvi Risorta
come in altre zone del Casertano,
dove i rifiuti sono stati sotterrati
dai Casalesi, sono state usate
modalità che rendono il terreno
compatto e non franoso, con
vari strati di rifiuti e terra che
si sovrappongono fino all’ultimo strato superficiale di poche
decine di centimetri di terreno
in buono stato. Quel che sembra certo è che chi ha eseguito
il tombamento dei rifiuti è un
soggetto diverso da chi l’ha commissionato».
Sono dieci le persone indagate
dalla procura di Santa Maria
Capua Vetere, per loro non è
escluso che venga contestato il
reato di disastro ambientale, anche se per ora la parola d’ordine
è prudenza: «Il materiale è in
fase di campionamento – si legge
in una nota diffusa dalla stessa
procura – solo all’esito delle
analisi si potrà valutare l’effettiva
natura dei rifiuti e quindi la loro
eventuale potenzialità dannosa».
Intanto il ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, ha
già incaricato il Corpo Forestale di «compiere immediate e
dettagliate verifiche sull’inquinamento ambientale delle aree
interessate». Le prime verifiche
dei Vigili del Fuoco di Caserta
del Nucleo NBCR (NucleareBiologico-Chimico-Radiologico)
nell’area degli interramenti non
hanno rilevato la presenza di
sostanze radioattive. «Presto saremo in grado di stabilire anche
a chi sono stati venduti questi
prodotti realizzati all’estero»,
ha assicurato il generale Costa.
Mentre si continua a scavare, un
migliaio di persone appartenenti
ad una rete di associazioni sono
scese in piazza a Calvi Risorta
chiedendo maggiori controlli per
un territorio rimasto da troppo
tempo abbandonato nelle mani
della Camorra dei veleni.
Preoccupato per quanto è stato
scoperto nell’alto casertano anche il parroco di Caivano, don
Maurizio Patriciello, sempre in
prima linea nella lotta all’ecomafia in Campania: «Per questo
la gente continua a morire di
tumore, e non solo nella zona
nota come Terra dei fuochi, ma
anche qui, nell’alto casertano,
dove non ci aspettavamo di trovare una situazione del genere».
Dalle colonne di Avvenire, don
Patriciello ha anche invitato
il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ad andare
di persona a Calvi Risorta per
rendersi conto con i suoi occhi
della drammatica situazione.
«Già qualche mese fa scrissi una
lettera al capo dello Stato in
cui l’ho invitato a venire nelle
nostre terre per stare vicino alla
gente e vedere di persona questo
scempio – ha detto il parroco di
Caivano – ora spero che dopo la
scoperta di questa bomba ecologica possa accettare l’invito e
venire a Calvi».
a cura di Massimiliano Ferraro
Immaginate una discarica grande come venti campi da calcio.
Venticinque ettari di rifiuti, due
milioni di metri cubi di fanghi
industriali, bustoni di sostanze
chimiche tossiche, plastiche
lavorate e fusti deteriorati con
residui di vernici e solventi.
Immaginate trent’anni di interramenti clandestini nella terra
di Gomorra, venuti alla luce
soltanto adesso.
Calvi Risorta, alto casertano, la
discarica sotterranea più grande
d’Europa è qui, nell’area industriale ex Pozzi, dove da metà
giugno continuano ad emergere
dal terreno rifiuti speciali, soprattutto di provenienza estera, sulla
cui reale pericolosità nessuno
può ancora esprimersi. La scoperta eclatante è avvenuta per
caso grazie alla denuncia fatta
un anno fa da due giornalisti
della testata online Calvi Risorta
News alla Procura di Santa Maria
Capua Vetere. Confrontando lo
stato attuale dell’area con delle
vecchie immagini, i due cronisti
si erano accorti di alcune evidenti anomalie del terreno. Da
qui l’indagine che, senza poter
contare sulle dichiarazioni di
alcun pentito, ha portato gli uomini della Forestale a scoprire
una bomba ecologica senza precedenti. «Abbiamo incrociato
centinaia di migliaia di ortofotogrammetrie del luogo – ha
spiegato il generale Sergio Costa,
del Corpo Forestale dello Stato
– incrociando poi il dato con il
calcolo dei campi magnetici e
abbiamo riscontrato importanti
anomalie del sottosuolo».
Il sospetto è che si tratti dell’ennesimo disastro ambientale im-
48 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
Giornalismo in Grecia
Potere e
incertezza
Alcuni hanno osservato come l’attività politica di Tsipras,
quest’anno, abbia in alcune occasioni sovvertito l’ordine del discorso politico. La Open Society Fondation ha segnalato la difficoltà nel garantire la libertà di informazione in Grecia, in uno
studio del primo maggio scorso. L’influenza e la risonanza del
discorso politico, in questa vicenda, attraverso i media, costituisce
forse un esempio delle dinamiche legate a cosiddetti poteri grigi
in una “società dell’informazione-matura”, secondo Luciano Floridi, e in una “società liquida” secondo Zygmunt Bauman.
di Marta Pellegrini
49 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
La Grecia è stata protagonista
di una vicenda complessa che
ancora non è del tutto risolta e
i mezzi di informazione hanno,
in più occasioni, riflesso lo
stato in cui versavano le istituzioni. Per tracciarne un profilo
sintetico, partiamo dallo studio
pubblicato il primo maggio di
quest’anno, dalla Open Society
Foundation, firmato da Petros
Iosifidis (City University of
London) e Dimitris Boucas
(London School of Economics),
intitolato Media Policy and
independent journalism in
Greece. Nel documento si
tracciava un ritratto della situazione dei media in Grecia,
alla luce dei decorsi storici e
dell’attuale condizione in cui
versa il paese.
Dopo la dittatura dei Colonnelli, dal ‘74, i media greci
hanno visto un periodo di forte
espansione durante il quale si
è operata una deregolamentazione del settore. Il risultato è
stato un eccesso di offerta in un
mercato piuttosto ridotto (circa
11 milioni di persone). Al momento sono disponibili circa
160 canali televisivi privati e
200 stazioni radio, la maggior
parte dei quali dotati di licenze
a tempo determinato, o in parte
sprovvisti. A questi si affianca
un broadcaster pubblico: la
Ellinikì Radiofonìa Tileòrasi
(ERT).
Questioni di diaploki. La ERT
è stata chiusa a causa delle
misure di austerità eseguite dal
governo Samaras, per essere
sostituita da una società più
snella e compiacente chiamata NERIT. In un articolo del
2 febbraio, su Il Manifesto,
Angelo Mastrandrea riportava l’esperienza di Panaiotis
Kalfagiannis, ex responsabile
tecnico-amministrativo e sindacalista alla ERT, che, come
molti altri, ha deciso di prendere parte all’avventura pirata. In
molti hanno scelto di occupare
la sede della ERT e proprio da
lì hanno proseguito a lavorare, trasmettendo in digitale.
Nel 2009 il personale avrebbe
accettato di auto-decurtarsi
lo stipendio e rinunciato a 4
milioni di arretrati, insieme ad
altre misure utili a riportare
in attivo i conti della società.
«[…] Nel 2011 l’ERT aveva ripagato
i debiti ed era tornata in
attivo» affermava Kalfagiannis.
A seguito della chiusura della
ERT 2650 persone, di cui 300
precarie, sono state licenziate.
La ERT è stata riaperta solo nel
mese di giugno grazie al nuovo
governo Tsipras.
Il problema appare complesso
e, da un lato, rappresentativo
di alcune dinamiche che affliggono le cosiddette società dell’informazione mature,
dall’altro, radicato nel sistema
socio-politico del paese, in particolare, legato a un triangolo
di potere chiamato in greco
diaploki. Si tratta di un ampio
panorama d’interessi strettamente intrecciati. Secondo
lo studio della Open Society
Foundation, i media greci sono
stati ‘colonizzati’, grazie alla
deregolamentazione, da gruppi
di imprenditori, i quali, avendo altre attività dipendenti
dalla sfera pubblica attraverso
appalti e progetti, avrebbero
sfruttato il controllo sui media
per coltivare ulteriormente i
propri interessi nell’ambito di
un sistema fortemente corrotto
e clientelare. Questo tipo di
organizzazione, oltre a violare molti dei principi d’im-
parzialità dell’informazione
o di trasparenza, ha visto un
grandissimo spreco di denaro,
anche (e soprattutto) pubblico.
A causa della struttura del
sistema greco, le attività economicamente rilevanti nel paese
(legate al settore petrolifero,
dei trasporti anche navali,
spedizioni, costruzioni ecc.)
dipendono ampiamente da
appalti pubblici e il diaploki
rafforzerebbe notevolmente
dinamiche clientelari e dalla
trasparenza dubbia. Nel corso della storia, anche per via
della dittatura (dal ’67 al ’74)
e della censura statale passate,
nel paese si sarebbe generato
uno ‘stile’ giornalistico estremamente ‘cauto’. Iosifidis e
Boucas concludono osservando come il diaploki sembra
essersi, da un lato, rafforzato
grazie all’austerity e, dall’altro,
indebolito grazie al crescente
disincanto tra la popolazione.
La situazione appare complessa e i media greci si sarebbero
trovati in un limbo istituzionale, in cui è venuta a mancare
anche la tutela degli organi di
controllo statali (come il Consiglio nazionale per la radio e la
televisione in Grecia, NCRTV).
Iosifidis e Boucas notano infine
come spesso anche «i giornalisti dovrebbero prendere
su di sé la responsabilità di
onorare la professione.» Tra le
speranze per il futuro ci sono
le organizzazioni di giornalisti
indipendenti.
Il potere nell’incertezza. In
conclusione, il 5 luglio, Ida
Dominijanni scriveva su Internazionale: «Alexis Tsipras
e Yannis Varoufakis […] hanno il merito storico di avere
riaperto una partita politica
50 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
e culturale […]. Non si vince solo ottenendo risultati:
si vince anche, anzi in primo
luogo, modificando l’ordine
del discorso, il regime del
dicibile e dell’indicibile, del
visibile e dell’invisibile.» Una
riflessione attinente alla sfera
politica europea che potrebbe
però essere applicata, mutatis
mutandis, al settore dell’informazione.
La situazione dei media greci
potrebbe essere vista come pertinente a un inasprimento delle
condizioni d’incertezza di una
società liquida così come descritta da Zygmunt Bauman.
Un’incertezza organizzativa,
legata alle strutture aziendali,
ma non solo. Così riportava le
riflessioni dell’eminente stu-
dioso, il 25 settembre 2010, il
Corriere della Sera: “La strategia precipua di ogni lotta di potere consiste nello strutturare
la condizione dell’avversario
e “destrutturare”, cioè deregolamentare, la propria. Ciò
a cui puntano le parti che si
contendono il potere è lasciare
i loro subordinati senz’altra
scelta che accettare remissivamente la routine che i loro
superiori intendono imporre”.
A questo potrebbe fare eco
un’incertezza dell’informazione caratteristica dell’epoca
corrente, potenzialmente sana
purché in dosi limitate. A parlarne è stato Luciano Floridi,
professore di Filosofia ed etica
dell’informazione al St. Cross
College di Oxford e membro
del Consiglio Consultivo di
Google per il diritto all’oblio.
Secondo Floridi l’incertezza
costituisce un elemento importante anche nell’esercizio
del cosiddetto potere grigio
nell’infosfera, ed è legata strettamente alla possibilità di formulare domande. Per questo
vengono chiamati in causa i
media e i motori di ricerca.
Ha scritto Floridi, in un suo
articolo intitolato “Le nuove
eminenze grigie vivono in Silicon Valley”, del 30 luglio 2015,
sul blog Che Futuro!: “Chi controlla le domande controlla le
risposte. Chi controlla le risposte controlla la realtà (…); oggi,
nelle società dell’informazione
mature, la trasformazione delle
informazioni in un’altra merce
significa che le risposte non
valgono più nulla[…] Il loro
controllo non conferisce più un
potere grigio, che si è spostato
ulteriormente dietro le quinte,
passando dal controllo delle
informazioni sulle cose al controllo delle domande che generano informazioni sulle cose».
Una riflessione che, insieme
a quella di Bauman, potrebbe
offrire un’interessante chiave
interpretativa per la vicenda
greca. Floridi ha concluso:
«Abbiamo bisogno di capire
meglio il probabile sviluppo
del nuovo potere grigio che sta
emergendo, come una forma di
controllo sull’incertezza; (…)
abbiamo bisogno di capire che
cosa si può fare per garantire
che il controllo sulla morfologia dell’incertezza possa essere
esercitato senza secondi fini,
tenuto sotto controllo da legittimi poteri socio-giuridici
e politici, e non sostituito da
tipi ancora peggiori di potere
grigio».
51 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
Antimafia in America Latina
Un battito d’Ali
internazionale
La rete Alas nasce diversi anni fa, grazie a Libera International,
con l’intento di portare in America latina il modello di lavoro in
rete per il contrasto alle mafie e alla criminalità organizzata nato
in Italia. Dal 9 al 15 maggio scorso, le organizzazioni partner di
Alas si sono ritrovate a Città del Messico per dare corpo al progetto e conoscersi di persona. Questa giornata è stata il frutto di una
lunga e complessa attività del settore internazionale di Libera, che
ha consentito di mettere in rete organizzazioni che condividono
principi, valori e obiettivi simili, nella cornice dell’impegno per
l’antimafia sociale nel contesto latino americano
di Marta Pellegrini
52 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
Quando si parla di mafie, da
diversi anni a questa parte, si
parla di un fenomeno di internazionalizzazione che, per
esempio, in Europa si sarebbe ramificato già negli anni
precedenti la sospensione dei
controlli di frontiera tra Paesi
membri dell’Ue. Tra l’attività
di contrasto e la criminalità
organizzata si riscontra spesso
un distacco di anni, un notevole
gap da colmare. In questo senso,
la società civile così come il
sistema giuridico e giudiziario, risentono della difficoltà
data dai confini nazionali e
dalla diversa percezione del
fenomeno criminale.
A questo proposito si parla di
‘capitalismo mafioso’, in un’epoca in cui parlare di globalizzazione ormai è scontato e la
società si affida in sempre più
occasioni, diverse tra loro, a
sistemi di comunicazione, organizzazioni, società, imprese
(e altro ancora) articolate in
strutture che vanno ben oltre la
giurisdizione e il controllo degli
Stati nazionali. L’organizzazione di una rete per l’antimafia
sociale in America latina (Alas)
si colloca in questo panorama e
cerca di stimolare il confronto
tra associazioni, insieme alla
condivisione delle esperienze,
in funzione di una collaborazione che valorizzi le iniziative
locali ma mantenga anche uno
sguardo più ampio.
Abbiamo affrontato l’argomento
intervistando Giulia Poscetti,
che si occupa di coordinare
l’attività di Alas in qualità di
referente del progetto per Libera
International.
Attraverso Libera International avete lavorato molto per
realizzare l’incontro di Città
del Messico. Qual è stata l’importanza di questo incontro e
quali sono le vostre speranze
future?
L’incontro di Alas è andato
oltre le più rosee aspettative.
Le organizzazioni si sono confrontate tra loro, dando vita a
un’occasione di scambio davvero importante.
Il nostro interesse è stato rafforzare i legami, creare un
linguaggio comune, unire
maggiormente le forze. Non
poteva essere fatto altrimenti
se non incontrandoci, poiché
avevamo percepito che c’era un
forte bisogno di portare avanti
uno scambio con tutti, di avere modo di vedersi, parlarsi,
conoscersi.
Libera ha avuto il ruolo di promotore e organizzatore proprio
grazie all’expertise che abbiamo
su alcuni temi. La rete ha dato
un enorme contributo attraverso le esperienze, lotte e progetti
su tutti i temi che sono più affini: diritti umani, lotta contro la
corruzione, lotta contro quello
che chiamano trabajo esclàvo,
cioè lo sfruttamento lavorativo
a livelli di maggiore violazione
dei diritti, appoggio ai familiari
di vittime e di migranti.
Non cerchiamo di creare un
network appiattito su se stesso
o aderente al profilo di Libera,
cerchiamo di valorizzare degli
spunti interessanti e innovativi
provenienti dalle organizzazioni e dalla società civile in quei
paesi e territori. Adeguiamo il
lavoro in base ai contesti sociopolitici ed economici.
Com’è strutturata la rete Alas
internamente e come funziona? Quali sono i suoi punti di
forza e come vi muoverete da
adesso in poi?
Si tratta di una rete ad organizzazione orizzontale assolutamente operativa. Questo
vuol dire che l’assemblea ha
partorito una dichiarazione
comune condivisa e firmata
da tutti, che è disponibile sul
sito della nostra associazione.
Non abbiamo cercato di creare
un organo direttivo nè di redigere uno statuto. L’obiettivo
principale è stato rendere la
rete il più operativa possibile
in vista della fase successiva:
l’implementazione di una serie
di progetti più piccoli, promossi dalle varie organizzazioni.
A luglio abbiamo iniziato a
raccogliere le proposte: si tratta
di progetti volti a valorizzare i
collegamenti all’interno della
53 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
rete, a creare delle connessioni
tra le diverse realtà, avendo
come filo conduttore i temi
della formazione e della sensibilizzazione.
L’assemblea ha prodotto una
sistematizzazione degli ambiti
di azione su cui si muoveranno
queste organizzazioni per lo
sviluppo dei prossimi progetti.
Sono sette macro-aree: antimafia sociale, corruzione politica
ed economica, diritti umani e
crimini di lesa umanità, equità
di genere, giornalismo investigativo, prevenzione sociale e
memoria.
Il nostro obiettivo è sviluppare
una rete forte, unica in America
latina, per la quale l’antimafia
sociale, così come intesa in
Italia, è un modello del tutto
nuovo. Questo non perché non
si faccia già o non ci siano attività in questa direzione, ma
perché non c’è una conoscenza
vera e propria del contesto di
fondo su cui si può sviluppare
ulteriormente l’azione di contrasto; un aspetto che implica
la possibilità di dare un valore
aggiunto alle attività che già
esistono.
Si parla spesso di “capitalismo
mafioso” e si rimarca come le
organizzazioni criminali siano
anni avanti rispetto alle attività
di contrasto. In Alas pensate
che sarà possibile avvicinarsi
a una parità, colmare questa
distanza, attraverso il lavoro
in rete?
Siamo ancora in una fase in
cui rincorriamo certi fenomeni,
quindi colmare questa distanza
è sicuramente una grande sfida.
La possibilità di impegnarsi
condividendo le conoscenze
e le esperienze sui territori,
facendole valere, è sicuramente
un primo passo.
La società civile conosce bene i
propri territori, quindi potrebbe
avere la capacità di “prevenire”;
noi mettiamo la valorizzazione
di questo aspetto locale e territoriale tra quelli più importanti
per la rete Alas. La nostra aspirazione, su cui stiamo ancora
lavorando in via sperimentale,
è proprio creare un osservatorio
internazionale sulla criminalità
organizzata che permetta anche
di prevenire certi fenomeni che
ormai viaggiano su un livello
spesso ambiguamente legale.
Ciò che si può fare attraverso la rete Alas è valorizzare
il più possibile le esperienze
delle organizzazioni che hanno
aderito al progetto, senza per
questo porsi come portatori
di conoscenze che di fatto alter organizzazioni hanno già
acquisito.
Valutando il percorso già fatto:
i confini tra gli Stati e l’eterogeneità di fondo, che esiste
tra tutte le popolazioni e organizzazioni coinvolte nella
rete, hanno rappresentato più
un problema o una risorsa?
Alla luce dell’assemblea sono
apparsi decisamente come una
risorsa. In questo tipo di progetti, da parte di tutte le organizzazioni, sono state molto
importanti la volontà, la propositività e le dinamiche che
si creano dentro una rete. Fa
la differenza mettere davanti i
protagonismi, portare il proprio
caso come il più eclatante, il
più urgente, oppure portare le
proprie istanze pensando, però,
anche di ascoltare, valorizzando tutte le esperienze.
Per noi è importantissimo che il
lavoro che si sta portando avanti, le iniziative, le attività, siano
assolutamente compatibili e si
adeguino al contesto dei territori. Non vogliamo uniformare,
ma anzi vogliamo tenere conto
delle differenze e valorizzare
gli elementi di connessione nel
contrasto alle mafie. Vogliamo
creare un dialogo costruttivo.
Un esempio tra tutti è stato
poter mettere in collegamento i
Cartonéros argentini con il progetto Sicanda del Gruppo Abele, che in Messico, nello stato di
Oaxaca, fa un lavoro analogo.
Entrambi i progetti cercano di
dare dignità a persone che si
trovano in condizioni simili;
è stato un esempio di come,
in contesti diversi, con problematiche diverse, due progetti
che senza saperlo affrontavano
le stesse sfide, hanno avuto la
possibilità di incontrarsi.
Quali sono gli obiettivi che
sperate di raggiungere da qui
a un anno?
Sicuramente rafforzare la rete
attraverso questi progetti sui
sette ambiti che ho citato. Ampliare la rete e rafforzarla, fare
in modo che sia il più autonoma e sostenibile possibile e di
conseguenza fare in modo che
dare importanza al network
diventi una priorità anche di
tutte le organizzazioni.
Cerchiamo di diffondere il
messaggio che lavorare da soli
è più difficile e frustrante, che
essere collegati e in sinergia
con altre realtà ha una grande
importanza e può aiutare. Tra
gli obiettivi che ci prefiggiamo
c’è anche la creazione di una
sorta di struttura a grappolo, di
modo che altre realtà che noi
non conosciamo direttamente
possano essere sensibilizzate
attraverso le organizzazioni
partner.
55 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
La sanità e il cattivo
“genio” mafioso
duta da Alfonso Giordano, in cui
diceva: «L’unica mia difesa è la
bocca, e a questa bocca non crede
nessuno. Così me la sono cucita». Poi s’infilò una sigaretta nel
naso per fumare finché, tra una
bizzarria e l’altra, non minacciò il
dottor Giordano dicendo di non
voler partecipare alle udienze,
ritenendolo responsabile della
sua incolumità. La sceneggiata si concluse presto, perché il
giudice proseguì il dibattimento
ritenendolo responsabile delle
sue stesse assenze.
Il più recente “prestigiatore” della
salute è stato Maurizio Zuccaro.
Nipote di Nino e Nitto Santapaola, da anni era ai domiciliari con la
diagnosi di una grave malattia del
sangue che avrebbe determinato
severissime anemie e un concreto
pericolo di vita. Il dubbio della
simulazione nacque grazie alle
dichiarazioni dei collaboratori
di giustizia e per via del sospetto
dato dal fatto che la sua anemia
non aveva spiegazioni. Si scoprì
poi che, il giorno prima degli
esami ematici, Zuccaro si praticava degli auto-salassi con un
ago infilato nelle braccia e nelle
gambe. Se ne accorse la Procura
di Catania, nel 2013, che filmò
tutto con una telecamera inchiodando il boss.
Pippo Fava, spiegando di cosa
fossero capaci i quattro dell’apocalisse mafiosa, scrisse: “Va detto
che la mafia del nostro tempo
ha genio. Anche il demonio ha
genio”. La storia dei cavalieri
della salute catanese ci racconta
che quel genio può finire vittima
di sé stesso e diventare nullità.
a cura di Corrado De Rosa
dino della casa che gli avevano
assegnato. Tra ritorni in carcere e
nuove scarcerazioni, la sua storia
andò avanti per anni, finché non
fu fermato a un posto di blocco e
capì che quella pantomima non
poteva proseguire. A questo punto inscenò un tentativo di suicidio
che finì malissimo. Si legò una
corda al collo, agganciò l’altro
capo al corrimano delle scale del
palazzo in cui abitava e si lanciò
stando seduto su una carrozzina.
Morì poco dopo: prima di buttarsi
aveva telefonato a un’amica che
avrebbe dovuto sventare il gesto all’ultimo minuto. La donna,
però, inconsapevole del piano,
non fece in tempo ad arrivare.
Nino Santapaola, fratello di Nitto, ha giocato con le aberrazioni
della mente per oltre un quarto
di secolo. Frequentatore abituale di manicomi giudiziari, schizofrenico, demente, depresso.
Completamente matto per non
restare in carcere e, allo stesso
tempo, perfettamente sano per
ottenere il rinnovo di patente.
Le malattie lo hanno logorato e
il quadro clinico si è aggravato
strada facendo, ma resta il suo
cursus disonorum da creativo
interprete della follia nelle sue
multiformi rappresentazioni.
Salvatore Ercolano invece, famiglia Santapaola, durante il Maxiprocesso entrò nell’aula bunker
di Palermo con la bocca cucita da
una spillatrice. Era il suo modo
per consigliare ai pentiti di tacere,
ma anche un bizzarro escamotage
per sospendere il processo. Fece
leggere da Masino Spadaro una
lettera rivolta alla Corte presie-
mafia e sanità
Nel primo editoriale della rivista
I siciliani, Pippo Fava definì un
gruppo di imprenditori catanesi
come “i quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”, in grado di
decidere le sorti economiche
dell’isola. Era il gennaio 1983.
Il 28 dicembre dello stesso anno
fu intervistato da Enzo Biagi e
si soffermò sulla tracotanza dei
mafiosi e sulla loro impunità.
Pochi giorni dopo, il 5 gennaio
1984, fu ucciso a Catania.
Riprendendo la similitudine di
Fava e facendo riferimento al suo
sguardo lucidissimo, altri quattro catanesi e la loro tracotanza
avrebbero potuto meritare il titolo
di cavalieri dell’apocalisse, o meglio, della salute: Silvio Balsamo,
Salvatore Ercolano, Nino Santapaola e Maurizio Zuccaro. Questi
“cavalieri” si sono specializzati
nel cercare, attingendo al pozzo
senza fondo della simulazione
delle malattie, di ottenere servizi
e benefici attraverso la giustizia,
allo scopo ultimo di raggiungere
l’impunità.
Silvio Balsamo, nel 2000, era entrato in un centro di riabilitazione romagnolo con una diagnosi
impietosa: “Paraparesi agli arti
inferiori con perdita di controllo
degli sfinteri secondari”, che poi
diventò “siringomielia dorsale”,
una malattia che non fa contrarre
i muscoli e costringe alla paralisi.
Per questa malattia aveva perfino
avuto un aumento della pensione
d’invalidità. Se non che, ottenuti
i domiciliari, organizzava cene a
lume di candela, si scatenava in
balli latinoamericani e preparava
grigliate per gli amici nel giar-
rassegna stampa internazionale
a cura di Giulia Panepinto
56 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
La vita delle
formiche
migratorie
San Salvador Maras in spagnolo, è l’espressione utilizzata per indicare una specie di
formica migratoria originaria
del Centro America, la marabunta, ma anche il termine
“banda”. Nello stato di El
Salvador, maras è il crimine
organizzato.
Fra polizia e maras è in atto
una corsa agli armamenti e le
strade, anche dopo la guerra
civile, non hanno smesso di
essere zona di guerra.
Le maras vogliono ottenere
il pieno controllo del territorio e stanno intensificando gli omicidi, utilizzati per
fare pressione sul governo
e indurlo a cedere come tre
anni fa. Nel 2012, attraverso
la mediazione dello Stato, le
due bande rivali hanno deposto le armi: le vite dei civili
in cambio di un trattamento
favorevole ai loro mareros
all’interno delle carceri. Una
tregua – mai rispettata – che le
maras stesse hanno interrotto
un anno dopo.
Le formiche salvadoregne hanno un’organizzazione sociale.
Il formicaio si chiama clicas, la
regina è un palabrero, bambini
e donne sono formiche operaie
dedite allo spaccio in strada
mentre le formiche guerriero
si distinguono dal colore del
loro torace: i maras hanno una
seconda pelle fatta di tatuaggi
che fa da corazza.
Nel ’59 un primo nucleo di
salvadoregni è fuggito in Usa,
insediandosi a Los Angeles.
Qui però non è stato accettato dai gruppi ispanici già
presenti sul territorio. Si sono
create così le condizioni per
lo sviluppo di una domanda
di protezione che ha favorito
le prime gang salvadoregne
in California nella lotta per il
controllo del territorio.
Quando il governo statunitense ha adottato nel ’96 severe
leggi sul rimpatrio, le condizioni sociali in El Salvador,
dopo la guerra, hanno fatto
in modo che MS-13 e M-18
potessero riprodurre nella loro terra di origine quei
meccanismi criminali nati nei
ghetti di Los Angeles. Consolidandosi con una propria
struttura, ufficializzata da riti
di affiliazione, controllano
il territorio con l’estorsione
e come formiche portano la
droga dei Los Zetas fino al
confine. Si approvvigionano
con i ricavati di rapimenti e
omicidi su commissione.
Il governo Cerén non cede alle
richieste di questo governo
parallelo, che è talmente forte
da riuscire a indurre le compagnie di trasporto pubblico
alla serrata, paralizzando la
città e uccidendo gli autisti
dissidenti.
Durante i primi mesi del 2015
le maras hanno ucciso 2965
persone. La fuga verso gli Usa
è l’unica soluzione dei genitori
per vedere salva la vita dei
propri figli – i cosiddetti
minori non accompagnati
alla frontiera - che vengono arruolati fra le fila dei
maras o uccisi nella guerra
trasversale fra gang. Durante
il periodo nomade le marabunta divorano tutto ciò che
ostacola il loro percorso. La
Mara Salvatrucha e la Barrio
18 stanno disintegrando la
popolazione salvadoregna
ormai inerme.
La storia dei
“falsi positivi”
Medellín Una fossa comune
che contiene quasi 300 corpi
risalenti al 2002, è stata trovata
nei pressi della cittadina di
Medellín, in Colombia. La certezza finora è che sono corpi
di civili, ma a quale massacro
appartengono?
Il report redatto dall’ong Human Rights Watch, potrebbe
impartire una svolta a molti
casi di desaparecidos. Il report
afferma che tra il 2002 e il
2008 i militari di 180 battaglioni hanno compiuto 3700 omicidi extragiudiziari, ovvero
civili sentenziati a morte senza
essere stati prima giudicati nel
corso di un regolare processo.
Il peso pubblico e morale di
questa vicenda – nota come
lo scandalo dei false positive
killing – metterebbe anche
al banco di prova l’efficacia
della giustizia militare colombiana, dato che i vertici
dell’esercito a conoscenza di
questi fatti non hanno mai
intrapreso azioni disciplinari
sui responsabili.
Il contesto nel quale sono
avvenuti questi omicidi extragiudiziari è la guerra civile
fra esercito e Farc. I soldati sono sempre più pressati
dalle richieste dei governi
che chiedono loro di liberarsi
speditamente dei guerriglieri.
All’esercito serve un tasso di
omicidi “adeguato” da mo-
57 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
strare ai vertici, così alcuni
militari decidono di compiere
sistematicamente sequestri
forzati su un campione indistinto di popolazione civile
(anche minorenni) da giustiziare come ribelli.
I militari implicati in questo
crimine avrebbero anche ottenuto promozioni.
Ad oggi sono stati processati
800 uomini che occupano una
posizione esigua all’interno
della gerarchia militare. Dopo
lo scandalo dei false positive il presidente colombiano
Santos ha destituito i principali generali che Hrw denuncia: Mario Montoya e Óscar
González Peña (entrambi in
pensione), il generale Juan
Pablo Rodríguez Barragán, comandante delle forze armate,
e il generale Jaime Lasprilla,
l’ammiraglio Hernando Wills e
il capo dell’aeronautica Guillermo Leon. Secondo Hrw si
corre comunque il rischio di
una sommaria e superficiale
applicazione della giustizia
per i vertici.
Hrw afferma che le indagini
condotte per la realizzazione
del report sono state ostacolate: minacce, stupri punitivi alle mogli dei testimoni e
omicidi.
Nixon de Jesús Cárcamo, assassinato in carcere, aveva confessato i crimini commessi e
fornito informazioni sul ruolo
che avevano avuto i suoi superiori nei casi di “falsi positivi”.
Carlos Eduardo Mora nel 2007
lavorava per l’intelligence. Si
accorse della pratica di false
positive killing e la denunciò
ai suoi superiori. Subito dopo
cominciarono le minacce,
azioni disciplinari ingiustificate al punto di arrivare al
tentativo da parte dei suoi
ufficiali di farlo rinchiudere
in una clinica psichiatrica.
Nonostante ciò Mora è riuscito a testimoniare e a far
mettere sotto processo molti
suoi colleghi. Ripercorrendo
i nodi della “rete” la procura
ha aperto nuovi fascicoli, ampliando le indagini anche su
casi di omicidi extragiudiziali
avvenuti tra il 2001 e il 2003
ad opera della IV Brigata del
generale Montoya.
Da 50 anni la Colombia è martoriata dalle violenze tra gruppi armati comunisti e l’esercito, dai paramilitari fascisti
e dalle vendette dei Cartelli.
La somma dei morti raggiunge
quota 220mila e quella dei
desaparecidos 92mila.
Tutto questo sangue disorienta
e la Colombia ha aumentato
del 44% la superficie di terreno coltivato per la coca. Punti
percentuali che in futuro si
riverseranno sulle vite della
popolazione.
Il governo
dietro le
spedizioni
punitive
Messico Il corpo di Rubén
Espinosa è stato trovato fra
le piastrelle fredde di un
anonimo appartamento nel
quartiere Narvarte, a Città del
Messico. Da pochi mesi si è
trasferito lì per sfuggire alle
minacce di quei poteri forti
che a più di 400 km di distanza
lo vogliono morto. Espinosa è
un giovane foto-reporter che
collabora con il settimanale
di denuncia Proceso – testata
che ha aderito alla piattaforma
whistleblowing Mexicoleaks.
I suoi scatti raccontano le
violenze contro i giornalisti
e il suo obiettivo pungente
ha immortalato le repressioni
inflitte dal governo Duarte
ai manifestanti nella zona
di Veracruz, controllata dai
Los Zetas.
Insieme al corpo di Espinosa
giacciono quelli di quattro
donne seviziate. La morte risalirebbe a luglio di quest’anno. L’identità dei carnefici è
ancora un mistero, nonostante
un video mostri alcuni uomini uscire dall’appartamento
proprio nel giorno del massacro, il 31 luglio scorso. I
corpi femminili appartengono
a Mile Virginia Martin, Alejandra Negrete, Yesenia Quiroz
Alfaro e Nadia Vera, attivista
per i diritti umani che si è
esposta contro il governatore
di Veracruz, Javier Duarte. La
polizia non esclude alcuna
ipotesi, dubita anche della pista passionale, ma chi conosce
il lavoro di Espinosa e Vera,
può notare come trovino in
Duarte il comun denominatore
che ne lega le morti.
Il corpo di Miguel Angel
Jimèrez invece giaceva nel
taxi che utilizzava durante
le sue attività di sostegno alle
famiglie dei desaparecidos.
Jimèrez è riuscito a scoprire
la verità su alcuni di loro,
delegittimando il lavoro di
investigazione svolto dalla
polizia locale a cui viene sempre di più criticata l’inerzia
e l’approssimazione con cui
conduce le indagini.
Le famiglie dei desaparecidos hanno sovente paura a
collaborare con le autorità
e non ritengono il loro aiuto
valido. Così si rivolgono a
persone come Jimèrez, che nel
frattempo ha fondato un’organizzazione che svolge ricerche
fra le colline dell’Iguala, per
scoprire dove sono stati nascosti i 43 studenti spariti nel
nulla il 26 settembre scorso.
Proprio le escursioni di ricerca
condotte per ritrovare gli studenti hanno portato alla luce
nuove fosse comuni, ultimamente una sessantina da cui
sono stati riesumati 129 corpi.
Stando alle dichiarazioni rilasciate nel novembre scorso da
tre componenti dei Guerreros,
la polizia avrebbe prima sequestrato e poi consegnato i
43 studenti ai macellai-narcos
che li avrebbero bruciati vivi.
I presunti mandanti sarebbero
il sindaco di Iguala, José Luis
Abarca Velázquez e sua moglie. Prima di essere sequestrati durante la protesta contro la
riforma scolastica, gli studenti
avevano osteggiato il comizio
della firstlady di Iguala. Lo
Stato del Messico è diventato
ormai una necropoli a cielo
aperto sotto il sole rovente che
scioglie i corpi, ma che rimane
l’unico testimone in grado di
far luce su queste morti.
58 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
criminalità e dintorni
cronachesommerse
di Andrea Giordano
Mancanze di “Intelligence”
Il Regno Unito piange i suoi morti
dopo la strage terroristica di fine
giugno alla spiaggia di Sousse, in
Tunisia (30 le vittime inglesi). Ma
intanto non si arrestano i tentativi
di fuga di cittadini britannici, convertiti all’Islam radicale, alla volta
della Siria per unirsi allo Stato
Islamico (IS), con il potenziale
rischio di un loro futuro ritorno in
patria per organizzarvi attentati.
Ignoto è sinora il destino di un’intera famiglia inglese (12 persone,
tra cui 2 nonni ed un neonato),
scomparsa in maggio ad Istanbul: originari del Bangladesh, i
Mannan potrebbero essere stati
rapiti in Turchia. Stando alla
propaganda dell’IS, il nucleo
familiare avrebbe raggiunto di
sua spontanea volontà i territori
dello Stato Islamico; il Califfato
incita altri europei ad imitarne il
presunto esempio.
Sono sinora almeno 700 i foreign fighters britannici partiti
per combattere in Siria e Iraq. Il
fenomeno non è stato del tutto
arginato dalle autorità, a dispetto
dell’elevata sorveglianza.
Intanto Hani al Sibai, ennesimo
‘predicatore dell’odio’ islamista, è
oggi libero di lanciare da Londra
violenti incitamenti alla jihad.
Si tratta solo dell’ultimo di una
serie (tra cui Abu Qatada, Abu
Hamza ed Omar Bakri) di ideologi dell’islamismo radicale, da
tempo espulsi o lasciati uscire dal
Regno Unito dopo la loro nefasta
e protratta opera di proselitismo
estremista (poco o nulla disturbata dai servizi segreti inglesi
che hanno tentato a lungo, e con
scarso successo, di procacciarsi
i loro servigi, propiziando tutt’al
più un loro infido doppio gioco,
assai pericoloso per la sicurezza
nazionale ed internazionale).
Al Sibai vive a Londra in una
casa del valore di un milione e
mezzo di euro, e riceve con la
moglie sussidi per quasi 70 mila
euro all’anno, il tutto a spese dei
contribuenti inglesi. Ha richiesto
invano asilo politico nel Regno
Unito sin dal 1994, ma non è stato
mai espulso dal Paese in virtù delle vigenti leggi sui diritti umani.
L’Egitto (patria di al Sibai, dove
è ricercato con pesanti accuse
di terrorismo) non viene infatti
ritenuto in grado di assicurare un
suo equo e corretto trattamento
dopo una possibile deportazione.
Dieci anni fa, le finanze di al
Sibai sono state ‘congelate’ per
effetto di sanzioni dell’Onu e
dei dipartimenti del Tesoro americano e britannico. Un appello
dell’egiziano, l’anno scorso, alla
Corte di Giustizia dell’UE in
Lussemburgo, per rientrare in
possesso dei suoi beni ha avuto
esito negativo, motivato dal fatto
che al Sibai “ha fornito supporto
materiale ad Al Qaeda, e cospirato
per commettere atti di terrorismo”, ha inoltre “viaggiato con
documenti falsi, ricevuto addestramento militare e fatto parte
di cellule e gruppi impegnati in
operazioni terroristiche”.
Alleato di lunga data di Al Qaeda,
al Sibai ha definito gli attentati del
luglio 2005 a Londra “una grande
vittoria”, e ha spesso lodato Bin
Laden, da lui considerato “uno
dei leoni dell’Islam”. L’islamista
egiziano è inoltre in rapporto di
stima reciproca con Ayman al
Zawahiri. Al leader di Al Qaeda
avrebbe chiesto l’anno scorso
sul Web di chiarire la posizione
dell’organizzazione in merito
alla proclamazione del Califfato
da parte dell’IS. Giungendo poi,
in settembre, a sottoscrivere un
appello online di islamisti radicali in favore di una tregua tra i
jihadisti di al Zawahiri e quelli
di al Baghdadi in Siria.
Sempre l’anno scorso, al Sibai
annunciò addirittura online
un’intervista (mai realizzata) con
il capo di Al Qaeda.
L’egiziano ha un seguito di decine di migliaia di simpatizzanti,
grazie all’intensa opera di radicalizzazione esercitata tramite
siti Internet, Facebook e Twitter.
Al Sibai ha stretti legami con
Saifallah ben Hassine, leader
del gruppo terroristico tunisino
Ansar al Sharia (affiliato all’IS),
che avrebbe addestrato in Libia
Seifeddine Rezgui, l’autore della
strage di Sousse. Indagini sono
in corso su possibili contatti tra
al Sibai e Mohammed Emwazi,
l’ex studente di Londra ora boia
dell’IS in Siria (e noto come elemento pericoloso all’MI5, l’ente
britannico per la sicurezza interna
e il controspionaggio, almeno
dal 2009).
E allora perché, sempre nel 2009
(stando alle rivelazioni del quotidiano Daily Mail), il governo
inglese avrebbe cercato di far
rimuovere le sanzioni inflitte
ad al Sibai? Si sarebbe trattato
forse dell’ennesimo, improvvido tentativo di far collaborare
un ‘islamista’ di calibro con i
servizi segreti di Sua Maestà, o
perlomeno di servirsi di lui come
‘esca’? Se così fosse, l’intelligence
britannica mostrerebbe di aver
poco appreso dai suoi ripetuti
errori del passato.
59 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
Cronache dal Messico
Il giornalista e blogger Fabrizio Lorusso racconta, in un appassionante reportage, la realtà del Narco-Stato terra di ognuno e
di nessuno. Una fotografia dell’attuale, che però delinea anche
i contorni di un futuro che potrebbe essere migliore, se affidato
alle persone che amano davvero il Messico
di Piero Ferrante
C’è un’America dove l’inglese lascia il posto allo spagnolo e le frontiere sono erette per marcare distanze umane oltre che nazionali.
È il Messico, quella “faccia triste”
cantata da Jannacci. A volerlo definire geograficamente, diremo si
tratti della periferia più prossima
al centro dell’Impero. Una terra
di tutti e di nessuno, pervasa da
profonde contraddizioni sociali
e politiche. Dove, da decenni,
si combatte una guerra atroce e
senza fine che nessuno ha mai
realmente dichiarato ma che
miete vittime cui nessuno dà
medaglie e di cui non si conoscono i nomi.
Storici connubi e inquietanti
connivenze ne fanno un regno
spietato nel senso letterale del
termine. Un regno che ha nella
strada la sua stanza del trono
e dove i cartelli dei narcotrafficanti, la politica, l’opinione
pubblica, le forze dell’ordine
sono spesso un’entità sola, un
amalgama indistinto impastato
di denaro, di favori, di compiacenza, di violenza e di corruzione. A rimanere schiacciate
da questi meccanismi sono le
maggioranze, quelle ampie fette
di società più povere ridotte
al giogo. Mute. Silenziose. Costrette sotto una lercia coperta
di oppressione, schiacciati tra
una condizione permanente di
miseria da cui uscire e la più
becera violenza come unica e
sola regola che norma la società.
Tutto questo è quello che descrive Fabrizio Lorusso in Narco
Guerra: scene di guerra, raccontate da un Paese che dà la
sensazione di essere stato uno
Stato e che ora è forse qualcosa
di più somigliante ad un inferno
in Terra.
La sua cronaca (significativa
sin dalla copertina) traduce
dati e immagini in un linguaggio ben più vivido di quello
di un classico reportage, un
linguaggio che esplode di una
rabbia satura di interrogativi.
Spaventa leggere le cifre, tanto
più nella consapevolezza che
dietro ognuno di quei numeri si
annidano spesso torture atroci:
ottantamila morti e sedicimila
desaparecidos durante il governo di Felipe Calderon (dal
2006 al novembre 2012); ventimila morti e diecimila scomparsi dal dicembre 2012 a fine
2014, sotto Enrique Pena Nieto.
Lorusso cammina sulle strade
di un Messico ben lontano da
quello immortalato dalle reflex
dei turisti. Un Messico di Madonne scheletriche e tatuaggi
identificativi, dove le cartoline
sono minacciose e sanno restituire al massimo miserie di morte.
In questo senso Narco Guerra è
un lungo reportage di sangue,
che, mentre racconta, si pone
l’intento di sollevare gli animi,
di sollecitare lo sguardo di chi
legge verso l’orizzonte di verità
indicato dalle parole. E questo
atto di verità non è rivolto solo
ai messicani. Perché la potenza
delle gang criminali si alimenta fino all’ingrasso del silenzio
assordante del mondo e di quei
comportamenti di volontaria e
involontaria compiacenza delle popolazioni d’ogni parte del
mondo.
Eppure, in questa lunga saga
del terrore, Lorusso lascia che
entrino anche fasci di speranza.
Quei “buoni“ che esistono e che
possono cambiare le cose. Eroi
normali e non convenzionali.
Eroi senza le luccicanti corazze.
Eroi vulnerabili. Eroi non eroi.
Sono gli indomiti. Uomini e donne dai corpi esili, con occhi che
hanno per troppo tempo guardato teste impilate, impiccati in
mostra dai cavalcavia, “disertori”
sgozzati e abbandonati ai cani, la
terra calpestata che altro non è
che la pancia di un’unica grande
fossa comune.
Dolore più conoscenza più resistenza. Eccola l’operazione
matematica che Lorusso esegue in Narco Guerra. E che, se
risolta, potrebbe dare la stura a
un Messico nuovo.
Fabrizio Lorusso
NARCO GUERRA
Cronache dal messico
dei cartelli della droga
Odoya - 2015
60 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
Libero cinema
in Libera Terra
Segnali
di Marika Demaria
Pier Paolo Pasolini sosteneva
che “Il cinema è un’esplosione
del mio amore per la realtà”.
Da raccontare non in forma
banale, ma critica, profonda,
documentata. Per veicolare
messaggi, per non far dimenticare, per riflettere sul passato,
che molte volte appare quanto
mai presente ed attuale.
È possibile ritrovare tutto questo in “Libero cinema in Libera
Terra”, il festival internazionale di cinema itinerante giunto
alla sua decima edizione e
promosso dalla Cinemovel
Foundation – che vanta come
presidente onorario il cineasta
Ettore Scola – e da Libera.
«I più grandi nemici della mafia – ha dichiarato Scola nel
corso della conferenza stampa
di presentazione del Festival
– sono la cultura e la conoscenza. Il suo migliore amico
è l’ignoranza. Proprio quella
che vediamo diffondersi nel
nostro paese come una nuova
ideologia e per combatterla anche il cinema può fare la sua
parte, l’immagine è l’intuizione
più democratica dell’uomo, è
per tutti».
Gli fa eco don Luigi Ciotti, presidente di Libera: «Le mafie a
volte temono molto di più un
buon film, di una solo annunciata normativa repressiva. Lo
straordinario merito del linguaggio del cinema è quello
di impregnare la nostra cultura
tanto di denuncia quanto di
educazione all’impegno civile».
Dieci le pellicole scelte per
questa decima edizione del
Festival: Le mani sulla città di
Francesco Rosi; Noi e la Giulia
di Edoardo Leo; Anime nere di
Francesco Munzi; Fortapasc di
Marco Risi; La mafia uccide
solo d’estate di Pif; Belluscone
di Franco Maresco; La terra dei
santi di Fernando Muraca; La
zuppa del demonio di Davide
Ferrario; Take Five di Guido
Lombardi; Let’s go di Antonietta De Lillo. Ad anticipare
ogni proiezione, la performance
di Vito Baroncini tra cinema,
fumetto e lavagna luminosa.
La maggior parte delle tappe
di “Libero cinema in Libera
Terra” si è svolta dal primo al
venti luglio, toccando diverse
regioni: Sicilia, Calabria, Puglia, Lazio, Emilia Romagna,
Lombardia, Liguria. Dopo la
pausa estiva, le ultime quattro
tappe si svolgeranno il 2 e il 3
ottobre a Ferrara, nell’ambito
del Festival di Internazionale,
l’11 ottobre a Berlino e, infine,
il 15 ottobre a Parigi.
Ad aprire e chiudere il Festival
è la proiezione del film Le mani
sulla città, in omaggio al suo
regista scomparso all’inizio di
quest’anno. Un film del 1963
che racconta con lungimiranza
e come atto di denuncia sociale
il fenomeno della corruzione
e della speculazione edilizia
dell’epoca; significativa la didascalia del titolo, che recita: “I
personaggi e i fatti qui narrati
sono immaginari, è autentica
invece la realtà sociale e ambientale che li produce”.
Il programma del Festival – promosso da Cinemovel Foudation
e da Libera, con la partnership
di Unipolis, Bnl Gruppo Bnp
e Coop Adriatica – permette
però di assistere, gratuitamente, anche alla proiezione di
pellicole molto più recenti,
come Noi e la Giulia e La mafia
uccide solo d’estate.
Per maggiori informazioni è
possibile visitare il sito www.
cinemovel.tv.
Segnali
61 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
libri
Storia, memoria e informazione
Il sottotitolo è quanto mai significativo: “La Storia che vi
racconteranno non è la mia”.
E infatti, nelle oltre 250 pagine
che hanno però il pregio di
coinvolgere il lettore senza mai
annoiarlo, si racconta, attraverso i documenti e le pagine dei
giornali di allora, un’altra storia
di Peppino Impastato. Quella
secondo la quale sarebbe stato
un terrorista, secondo la quale
si sarebbe suicidato. Una storia
che racconta della non libertà
di informazione e di un giorna-
lismo “incapace di fotografare
la Storia nella sua veridicità e
non nella sua verosimiglianza”.
Senza dimenticare le battaglie
di Felicia Bartolotta, madre del
giovane intellettuale ucciso la
sera del 9 maggio 1978 per
ordine del boss di Cinisi Tano
Badalamenti, e di suo figlio Giovanni Impastato; quest’ultimo,
fratello di Peppino, ha curato
l’introduzione al libro.
commessi nelle singole regioni:
qui sono stati accertati 4.499
reati, oltre a 4.159 denunce e
5 arresti. Il rapporto, attento e
documentato come ogni anno,
ha posto sotto la lente d’ingrandimento
l’Italia intera, restituendoci l’immagine
di una terra letteralmente aggredita e
presa d’assalto.
Legambiente, infine, traccia il profilo
della carta vincente per il business
nei diversi settori ambientali:
i professionisti
dell’ecomafia,
“quel variegato
sottobosco del
sistema imprenditoriale italiano”, e che hanno con le mafie
“un rapporto
stretto, ma non onnipresente”.
Il libro contiene un Dvd con
video e contenuti extra
Simona Della Croce,
“Io sono Peppino”
Edizioni Zem, 2015
dossier
SHARE
le segnalazioni del mese
a cura di Marika Demaria
62 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
Assalto
al Belpaese
Nell’anno in cui gli ecoreati
sono stati inseriti nel codice
penale, il rapporto annuale
di Legambiente cambia veste,
mettendo a fuoco il tema della
corruzione: le sue dinamiche,
gli “schemi di gioco”, le inchieste di questo ultimo anno.
Il rapporto si apre quindi con
un’intervista a Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità
nazionale anticorruzione.
La premessa del libro fotografa
la situazione del 2014 e del
2015, sino al 10 maggio. Secondo i dati raccolti, in Italia
si commettono 4 reati ambientali all’ora, circa 80 al giorno,
29.293 in tutto il 2014, per un
business criminale di circa 22
miliardi di euro, 7 in più rispetto al 2013. La Puglia sostituisce
la Campania al primo posto
della triste classifica dei reati
Legambiente,
“Ecomafia 2015”
Marotta&Cafiero editori
63 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
formazione
università
Master in Analisi, Prevenzione e Contrasto della
Criminalità Organizzata e della Corruzione
Abitare
i margini
Libera – in collaborazione
con il ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – promuove, anche per
quest’anno, una tre giorni di
formazione e riflessione rivolta ai docenti e agli educatori
impegnati nell’educazione alla
cittadinanza.
Gli argomenti fulcro dell’edizione 2015 di “Abitare i Margini” saranno, come si legge
sul sito di Libera, “le risorse e
lo sviluppo alternativo al modello attualmente dominante,
per affermare un concetto di
crescita economico-sociale basato su prassi etiche, legali e
corresponsabili, attraverso le
quali produrre finalmente uno
sviluppo equo, sostenibile, realmente democratico, garantendo
opportunità e spazi di realizzazione per ogni individuo e per
le comunità nel loro insieme”.
L’appuntamento sarà per il
13, 14 e 15 novembre a Monte
Porzio Catone, località vicina
a Frascati; le iscrizioni saranno
aperte a partire dalla seconda
settimana di settembre, contestualmente alla pubblicazione
del programma.
Per maggiori informazioni e
per iscrizioni: www.libera.it
Scadranno il prossimo 12 ottobre le iscrizioni alla quinta
edizione del Master Apc, nato
dalla collaborazione tra il Dipartimento di scienze politiche
dell’Università di Pisa, Libera
e Avviso Pubblico e diretto dal
Professor Alberto Vannucci.
Come riportato dal sito del
Master, lo stesso “rappresenta
la prima esperienza accademica in Italia orientata all’approfondimento teorico e alla
formazione professionalizzante sui temi dell’analisi, della
prevenzione e del contrasto
della criminalità organizzata
di stampo mafioso, e della
corruzione politica e amministrativa”.
Saranno oltre sessanta i relatori che si alterneranno
durante le più di 400 ore
di lezioni frontali, durante le quali durante le quali
l’approfondimento teorico
sarà integrato con specifici
percorsi di formazione sulla
legislazione di prevenzione e
contrasto attualmente in vigore, sulla sua implementazione
e applicazione, nonché sulle
altre politiche per la progettazione di strumenti d’intervento contro la penetrazione
criminale nell’economia legale
e nel ciclo della contrattazione
pubblica.
Sarà inoltre possibile la partecipazione come uditore per chi
non è in possesso dei requisiti
richiesti o per chi volesse seguire solo alcuni moduli o seminari organizzati nell’ambito
del Master. La partecipazione
al Master come uditore non
dà diritto al conseguimento
del titolo.
Per avere maggiori informazioni e per scaricare il bando di iscrizione: http://masterapc.sp.unipi.it/
Master di secondo livello intitolato a Pio La Torre
È uscito il bando di iscrizione
alla quarta edizione del master
universitario di secondo livello in “Gestione e riutilizzo di
beni e aziende confiscati alle
mafie”, intitolato al sindacalista
e politico Pio La Torre, ucciso
dalla mafia il 30 aprile 1982.
Il Master, diretto dalla Professoressa Stefania Pellegrini
del Dipartimento di scienze
giuridiche dell’Università di
Bologna, tratta – come si legge nella presentazione – “le
problematiche relative alla
gestione e al riutilizzo dei beni
e delle aziende confiscati alle
mafie. Tale iniziativa di formazione post-laurea nasce da
un’esigenza concreta: colmare
la lacuna di professionalità
rispetto ad un procedimento
– quello disegnato dal Codice
Antimafia – del tutto peculia-
re, che si presta a coinvolgere
competenze pluri-settoriali in
chiave cooperativa e complementare. Mediante un corpo
docente che annovera i maggiori esperti del settore, il
Master si propone di formare
professionalità altamente qualificate in grado di gestire sia
le procedure per l’amministrazione, sia le strategie per il ri-
utilizzo, partendo dal presupposto che una ricchezza sana
sia fonte di opportunità, di
lavoro e di crescita per il tutto
il territorio. All’interno di un
unico percorso formativo si
offre l’occasione di acquisire
le conoscenze necessarie per
comprendere l’iter seguito dal
bene, dal suo sequestro sino
all’assegnazione”.
Per avere maggiori informazioni e per scaricare
il bando di iscrizione: http://www.unibo.it/it/
64 | settembre/ottobre 2015 | narcomafie
Ciao,
Santo!
In occasione della scomparsa del
nostro Santo Della Volpe, amici
e colleghi ne hanno ricordato
carriera e impegno con parole
cariche di stima, amicizia, rimpianto. Per cercare di aggiungere
qualcosa di significativo, devo
per forza affidarmi al mio personale album dei ricordi.
Le prime due istantanee in cui
il protagonista è Santo sono legate entrambe a Palermo e ad
un luogo divenuto simbolo di
quella città, nel bene e nel male:
l’aula bunker costruita accanto
al carcere dell’Ucciardone.
Nella prima di queste immagini,
quella più sbiadita e ancora in
bianco e nero, Santo è fermo,
davanti all’ingresso dell’aula,
accanto ai soldati e ai blindati
dell’esercito. Sta raccontando
con pazienza e precisione le
udienze del maxiprocesso a Cosa
nostra, il momento davvero epocale nella lotta alla mafia nel
nostro Paese. È il 1986.
Nella seconda istantanea, anche
questa sbiadita ma già a colori, ci
sono anche io. Ci troviamo entrambi all’interno di quell’aula,
allora soprannominata “l’astronave verde”, ma non siamo soli.
Con noi tanti altri colleghi di
giornali e tv: ne ho dovuti conta-
re più di trecento, provenienti da
ogni parte del mondo, registrando diligentemente gli accrediti
per conto dell’ufficio stampa
del Comune di Palermo, dove
all’epoca lavoravo. Operatori dei
mass media, magistrati, avvocati
e gli altri sono lì riuniti per il
processo a Giulio Andreotti, uno
degli uomini politici più potenti
d’Italia, finito alla sbarra con l’accusa infamante di aver aiutato
Cosa nostra. Anche in quella
circostanza Santo racconta il
processo all’Italia intera, con il
consueto impegno professionale
che è anche passione civile nel
suo caso. È il 1995.
Con Santo ci incontreremo
nuovamente in giro per l’Italia,
in occasione di alcuni incontri
pubblici promossi da Libera,
negli anni immediatamente successivi alla sua nascita. E poi,
nella Fondazione Libera Informazione, la nuova realtà voluta
da Libera e da Roberto Morrione
per monitorare il racconto della
mafia e dell’antimafia in Italia,
per costruire ponti virtuosi tra
testate locali e stampa nazionale,
per documentare i fenomeni
criminali e spiegare ai cittadini
quello che normalmente i media non hanno tempo e voglia
di Lorenzo Frigerio
di documentare: da un lato la
stretta mortale di crimine mafioso e corruzione sulla nostra
democrazia, dall’altro le pagine
dell’impegno collettivo e personale che rappresentano la vera
speranza per un domani diverso.
Il rapporto con Santo si è però
fatto più stretto e quotidiano
inevitabilmente con la scomparsa di Roberto nel maggio 2011,
quando entrambi ci siamo trovati
a fare i conti con l’eredità professionale e civile di Morrione.
Il nostro rapporto non è stato
facile all’inizio, anzi diciamo
pure che ci sono state scintille
tra di noi e le nostre visioni
divergevano profondamente.
Ognuno di noi due aveva una
sua personale idea su come muoversi e cosa fare per continuare
a dare vita a Libera Informazione. Al tempo stesso sembrava a
ciascuno di noi che le ragioni
e le proposte dell’altro non tenessero conto della realtà: una
piccola e agguerrita redazione,
i pochi fondi a disposizione e
una difficoltà nel fare quadrare
i conti, una grande richiesta di
presenza di Libera Informazione
sui territori e una ancora più
grande necessità di fare rete,
di fare squadra con quelle che
Morrione chiamava “le tante
tribù del giornalismo italiano”.
Insomma, all’inizio, la nostra
non è stata una convivenza assolutamente facile, visti anche
i rispettivi caratteri, ma doverosamente forzata per il bene
di Libera Informazione. Eppure
proprio in quei giorni, da quelle
difficoltà, anche da quegli scontri ne è nato un rapporto solido,
franco che è evoluto in sintonia
e fiducia e non è sfociata in
amicizia soltanto per mancanza
di tempo. Quel tempo di cui
Santo non è stato più padrone,
una volta che anche lui è stato
colpito da una malattia implacabile. Come è accaduto per
Roberto, Santo non ha lesinato
energie, facendosi letteralmente
in quattro, negli ultimi mesi:
dall’impegno alla Rai al nuovo incarico di presidente della
FNSI, da Articolo 21 a Libera
Informazione, non c’è stato momento in cui sia mancato il suo
apporto e il suo impegno nelle
tante battaglie per i diritti, la
giustizia sociale, in difesa del
giornalismo di denuncia.
Avevamo ancora tanti progetti da
portare avanti, avevamo ancora
tante pagine da scrivere insieme:
chissà cosa ne sarebbe sortito,
non lo sapremo mai..
Ora non ci resta che fare tesoro della sua lezione umana
e professionale e capire cosa
c’è da fare per non disperdere
il patrimonio giornalistico e
civile che Roberto Morrione e
Santo Della Volpe hanno costruito con abilità e costanza,
nel nome di Libera.
numero 4 | 2015 | 3 euro
Bimestrale | Anno XXIII | Poste italiane S.p.A | SPED. IN A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L.27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 1 DCB | To. ISSN 1127-9117
UNA REGIONE, TANTE MAFIE
PUGLIA INFELIX
SOMMARIO
3 | L’EDITORIALE
La foto che scuote le coscienze
di Livio Pepino
Scu, la quarta mafia ha radici
in Salento
di Mara Chiarelli
4 | ALTA RISOLUZIONE
Uomini senza caporali
foto di Cgil Foggia
47 | ECOCRIMINI
La discarica Calvi Risorta
di Massimiliano Ferraro
8 | COSE NOSTRE
Un caffè che fa...bene
di Riccardo Christian Falcone e
Rossella Fierro
48 | GIORNALISMO IN GRECIA
Potere e incertezza
di Marta Pellegrini
11 | MAFIE E INFORMAZIONE
Chi ha ucciso mia figlia?
di Donatella D’Acapito
Le tappe del caso Alpi-Hrovatin
di Donatella D’Acapito
“Chiediamo verità e giustizia”
di Fabrizio Feo
19 | RIPARTE IL FUTURO
Nomen omen
di Leonardo Ferrante
21 | MEMORIA E IMPEGNO
Mio fratello, Beppe Montana
di Dario Montana
Il ragazzo che non voleva
diventare un eroe
di Jole Garuti
Nata il 6 agosto
di Jole Garuti
29 | STROZZATECI TUTTI
L’immaginario della ‘ndrangheta
di Marcello Ravveduto
31 | INCHIESTA MAFIE IN PUGLIA
Bari, una bomba a orologeria
di Leo Palmisano
Foggia, la città assaltata
di Giovanni Dello Iacovo
51 | ANTIMAFIA IN AMERICA LATINA
Un battito d’Ali internazionale
di Marta Pellegrini
55 | MAFIA DA LEGARE
La sanità e il cattivo ‘genio’ mafioso
di Corrado De Rosa
56 | OCCIDENTI
Rassegna stampa internazionale
a cura di Giulia Panepinto
58| CRONACHE SOMMERSE
Mancanze di “Intelligence“
di Andrea Giordano
59 | SEGNALIBRO
Cronache dal Messico
di Piero Ferrante
60 | SEGNALI
Libero cinema in Libera Terra
di Marika Demaria
62 | SHARE
Le segnalazioni del mese
a cura di Marika Demaria
64 | L’OPINIONE
Ciao, Santo!
di Lorenzo Frigerio