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ANNO XI NUMERO 264 - PAG 3 EDITORIALI La chimera non è più una chimera Scienziati inglesi vogliono produrre embrioni ibridi animali-uomo L a Hfea, autorità inglese per la fecondazione umana e l’embriologia, ha da ieri tre mesi di tempo per decidere se rilasciare, a due diverse équipe di ricerca (una guidata da Stephen Minger, del King’s College di Londra, e l’altra da Lyle Armstrong, del North East England Stem Cell Institute di Newcastle), una licenza che autorizzi la creazione di ibridi con ovociti di vacche, conigli e capre inseminati con sperma umano. Scopo dichiarato degli esperimenti è quello di trarre cellule staminali dagli embrioni “allo 0,1 per cento animali e al 99,9 per cento umani” che ne risulterebbero, in vista di ipotetici usi terapeutici in malattie incurabili, come distrofia muscolare, morbo di Parkinson e Alzheimer. La procedura d’urgenza scelta dai richiedenti farà sì che, se la Hfea non darà il proprio parere nei temini stabiliti, varrà il principio del silenzio-assenso. Tutto questo significa che ciò che sarebbe stato impensabile fino a poco tempo fa, e cioè la contaminazione di umano e animale nella genesi della vita (la stessa Hfea aveva giudicato inammissibile, nel 1990, la mescolanza di gameti umani e animali) risulterà avallato da un atto poco più che amministrativo, in nome del superiore interesse della ri- cerca. Che ha sempre molta fretta e non può aspettare, nemmeno in un campo di così evidente delicatezza, le normali procedure di discussione e di approfondimento. La creazione di chimere uomoanimale è la strada scelta dai ricercatori inglesi per sopperire alla cronica carenza di ovociti necessari alle pratiche di clonazione (cosiddetta) terapeutica, dato che sono sempre troppo scarse le donne disposte a donare i propri gameti. Poco male se il risultato assomiglia all’incubo descritto dallo scrittore inglese H.G. Wells ne “L’isola del dottor Moreau”. Nella finzione letteraria, lo scienziato pazzo creava uomini-leone guerrieri, uomini-cane servitori e uominibue operai. Nella realtà dei laboratori britannici, diventerà pratica corrente fabbricare esseri con percentuali variabili di umanità, da usare come riserva di staminali. Sempre che non riesca a farsi sentire il fronte degli oppositori al progetto chimera. Ieri, l’attivista pro-life Josephine Quintavalle ha definito “aberrante” l’idea di mescolare umano e animale nell’identità genetica. “E’ un sentimento umano primario – ha dichiarato al Telegraph – l’idea che animali e creature umane non debbano essere mescolati”. La “sofferenza” di Amato Per la sicurezza il ministro dell’Interno dovrebbe provvedere, non esternare I l ministro dell’Interno ha comunicato la sua “sofferenza” per l’indulto approvato dal Parlamento. Quello della Giustizia ha replicato spiegando che quella sofferenza, sentita anche da lui nel promuovere l’atto di clemenza, era però necessaria. E’ comprensibile, persino fisiologico che il responsabile dell’ordine pubblico non veda di buon occhio provvedimenti di questo genere, che peraltro non sono affatto gli unici, come dice egli stesso, a negare il principio della certezza della pena. I ministri, però, non dovrebbero limitarsi a esternare sentimenti, ma agire con provvedimenti. Clemente Mastella, con l’indulto, la sua parte l’ha fatta, assumendosi una difficile responsabilità. Ora – dopo che il Csm, criticando l’effetto dell’indulto che renderebbe inutili moltissimi pro- cessi in corso, ha implicitamente chiesto di accompagnarlo a un’amnistia – il Guardasigilli non se la sente di proporre da solo nuovi provvedimenti che poi altri ministri contesterebbero. Giuliano Amato, invece, che evoca problemi senza indicare soluzioni, non sembra esercitare al meglio le proprie delicate funzioni. Sembra quasi che, prendendosela con l’indulto, Amato voglia scaricare su di esso preventivamente il prevedibile peggioramento delle condizioni di sicurezza che sarà provocato dal lassismo del governo nei confronti dell’immigrazione clandestina. In una situazione in cui in varie aree del paese il livello di criminalità è allarmante, da un governo che si proclama serio ci si aspetterebbero iniziative, non uno scaricabarile tra ministri. Ha ragione Alesina Il Sole 24 Ore dice “Europa meglio degli Usa”, l’economista lo critica I eri il professor Alberto Alesina, in un editoriale sul Sole 24 Ore, ha giustamente polemizzato con un articolo di venerdì scorso, dello stesso giornale, intitolato “L’Europa meglio degli Stati Uniti”. L’articolo spiegava: le ragioni per cui l’Europa nel terzo trimestre di questo anno avrebbe una performance economica migliore di quella americana starebbero nel fatto che, per la prima volta, in Germania la disoccupazione è scesa sotto il 10 per cento (mentre negli Stati Uniti la riduzione della disoccupazione, nel terzo trimestre, è molto modesta), e nel fatto che nel terzo trimestre in Europa la crescita del pil è stata mediamente superiore al 2 per cento (in particolare, appunto, in Germania), mentre negli Stati Uniti sembra sia stata leggermente inferiore. Alesina ha ragione di osservare, con una certa ironia, che il motivo per cui alla notizia è stato dato dal Sole 24 Ore tanto risalto è che essa è insolita. Peraltro, è errata. Infatti mentre in Germania la disoccupazione rimane sensibilmente al di sopra del 9 per cento, negli Stati Uniti essa è arrivata al 4,4 per cento. Alesina per non infierire non ha aggiunto una piccola notazione tecnica: quando la disoccu- pazione scende di 0,3 punti in Germania, il decremento è inferiore di quando essa scende di 0,1 negli Stati Uniti, perché la percentuale si riferisce a un valore di rifermento molto diverso. Inoltre da entrambi i dati va detratta la cosiddetta disoccupazione frizionale del 2,5-3 per cento che dipende dal tempo in cui i disoccupati e coloro che cambiano occupazione (magari perché si trasferiscono da un luogo all’altro) trovano il nuovo posto. In Germania, come in altri paesi europei con un grande stato del benessere, vi è un grosso problema di disoccupazione (in parte mascherato dai “lavori socialmente utili”, come in Svezia) che invece non c’è nell’economia americana dopo la scossa reaganiana. E quanto al tasso di crescita del pil nel 2006, quello degli Stati Uniti è sempre più elevato di quello europeo, essendo attorno al 3 per cento e non al 2,6. Anche qui – come Alesina osserva – va notato che il rallentamento degli Stati Uniti segue a un ciclo quinquennale di espansione al 3 per cento mentre in Europa la maggior crescita succede a un periodo sotto il due. E purtroppo l’Europa non ha ancora ritrovato la via dello sviluppo. Una vita in Prima Linea Sergio Segio poteva risparmiarci la sua autobiografia, soprattutto il titolo A qualcuno dell’ufficio marketing della Rizzoli magari sarà sembrata una bella idea, una pensata da talk show, un bel giochino di parole. Manco avessero a che fare con Ligabue e la sua “Una vita da mediano”. E così si è deciso di intitolare il libro di memorie di Sergio Segio – uno dei capi di Prima Linea, una feroce banda di terroristi rossi che uccise ventitrè persone – in questo modo volgare e irrispettoso per quelle stesse vittime: “Una vita in Prima Linea”, ah ah ah che spasso, capito il doppio senso?, afferrata l’ironia?, percepita la sottigliezza? E’ la storia di un gruppo di assassini e un lungo elenco di morti innocenti, con dentro – a leggere l’ampia anticipazione offerta ieri da Repubblica – le solite pippe parasociologiche, “ci sentivamo in guer- ra”, le solite pippe parapoetiche, “confondemmo il tramonto con l’aurora”, le solite pippe parabuoniste, “si provi a indagare e a conoscere anche le motivazioni dell’altro” (ecco, magari ci può provare qualcuno dall’aldilà). Insomma, le solite pippe della solita stucchevole pubblicistica da ex terrorista – il genere di chi pensa di raccontarti che pasta mangiavano mentre Moro era prigioniero nella stanza a fianco. Uno potrebbe fare lo sforzo generoso di dimenticarli, gli assassini; gli assassini, però, avrebbero il dovere di far di tutto per farsi dimenticare. Invece si danno alla letteratura, alla memorialistica, al sermone generazionale. Ma la cosa peggiore è poi trovare qualcuno che mandi in libreria tutto questo con un titolo che sembra uno sghignazzo. IL FOGLIO QUOTIDIANO MERCOLEDÌ 8 NOVEMBRE 2006 • L’ex ministro dell’Interno Chevènement si candida alle presidenziali di Francia. Gelo a sinistra. Pure Sarko ha un rivale in più Il ritorno dell’eterno “Che” spettina i piani di sua maestà Royal Parigi. La lunga marcia di Ségolène Royal verso l’Eliseo ha di fronte a sé un nuovo e pericoloso ostacolo. A qualche giorno dalle primarie del Partito socialista, secondo una rilevazione Ifop, la credibilità presidenziale della favorita dei sondaggi è in calo, mentre recupera terreno Dominique Strauss-Khan, il migliore presidente socialista secondo il 39 per cento dei francesi. Ma la notizia peggiore è arrivata lunedì sera dalla televisione, quando Jean-Pierre Chevènement, presidente del Movimento repubblicano e cittadino ed ex ministro dell’Interno del governo Jospin, ha annunciato di voler correre nuovamente per le elezioni presidenziali. “Sì, ho preso la decisione di candidarmi”, ha dichiarato con solennità al telegiornale di Tf1: “Questa decisione si è imposta progressivamente e con la forza dell’evidenza”. I tre candidati socialisti sono legati a un programma che “su molti punti è ambiguo, insufficiente o pericoloso”, ha spiegato Chevènement. “La Francia va male”, ci sono le delocalizzazioni, i licenziamenti, le grandi imprese in crisi, e soltanto lui è in grado di “mettere la sinistra di fronte alle sue responsabilità” con l’obiettivo di “raddrizzare” il paese. Quanto all’ipotesi di un ritiro in corsa, è da escludere: per Chevènement, “quando si parte, è per andare fino in fondo”. Anche a costo di far perdere i socialisti e l’intera sinistra. Così era andata cinque anni fa. Perché Chevènement era stato l’artigiano della disfatta socialista del 21 aprile 2002: il suo 5,33 per cento era stato decisivo per la mancata presenza di Lionel Jospin al secondo turno presidenziale. Oggi, di fronte al moltiplicarsi delle candidature antisistema – oltre Chevènement, ci sono la trotzkista Arlette Laguiller, il postino altermondialista Olivier Besancenot, la verde Dominique Voynet, il no global José Bové, la comunista Marie-George Buffet – l’incubo di una ripetizione della “disunione della sinistra” è sempre più attuale. A vantaggio di Nicolas Sarkozy e, come nel 2002, di Jean-Marie Le Pen. I socialisti sono irritati. Ma ancor di più lo sono i “ségolisti”: sul telegiornale di France2, nello stesso momento in cui Chevènement annunciava la sua candidatura, Royal stava tessendo le lodi dell’ex collega di governo, che aveva “sempre sostenuto” e da cui si era ispirata per “l’inquadramento dei giovani”, invitandolo a “unirsi” a lei in caso di investitura del suo partito. François Hollande, primo segretario del Partito socialista e compagno di Ségolène, ha “preso atto” dell’annuncio di Chevènement, cercando di minimizzarne l’impatto politico e rilanciando con un baratto: “In cambio di una candidatura comune alle presidenziali, offriamo circoscrizioni (alle elezioni legislative, ndr), sulla base di un accordo di governo”, ha spiegato Hollande. Ma, tra i sostenitori della favorita dei sondaggi, a prevalere è il panico: Chevènement candidato “ravviva lo spettro delle divisioni”, ha commentato Gilles Savary, uno dei tanti portavoce di Ségolène. “Non abbiamo interesse a ricominciare l’esperienza del 2002”, ha fatto sapere l’ex primo ministro socialista Edith Cresson; “è veramente ridicolo”, ha chiosato il “neoségolista”, ma ancora verde, Daniel Cohn-Bendit. La candidatura di Chevènement complica di molto la strategia di Royal. Il suo credo laico-repubblicano non ha pari tra i socialisti. In economia si autodefinisce “il migliore candidato antiliberale”. Sui temi della sicurezza e dell’immigrazione, al centro della campagna di Ségolène, l’ex ministro dell’Interno è sulla stessa linea del suo successore e leader dell’Ump, Nicolas Sarkozy, cui può peraltro sottrarre voti al centro. Tuttavia, è sull’Europa che Chevènement rischia di fare la differenza: una volta che le primarie socialiste avranno eliminato Laurent Fabius, toccherà a lui incarnare il “no” al Trattato costituzionale del 29 maggio 2005. Non a caso in libreria è appena uscito un suo libro: “La Faute de M. Monnet”, atto d’accusa contro il padre fondatore dell’Ue, che “ha scelto l’impero americano” e imposto alla Francia il “dispotismo illuminato” di Bruxelles per far avanzare il disegno federalista senza preoccuparsi dei popoli. • Cassonetti bruciati, strade bloccate e arresti tra i religiosi che si ricompattano dopo la crisi del ritiro da Gaza. L’esito del ricorso In Israele l’orgoglio ultraortodosso va in piazza contro quello gay Gerusalemme. “Abominevole”. Così l’hanno definito. Un evento che ferisce la santità di Gerusalemme. Il gay pride si terrà venerdì in Israele, organizzato dalla Jerusalem Open House, gay center nazionale. E i gruppi ebrei ultraortodossi non si sono ancora rassegnati. Da giorni manifestano violentemente nei quartieri più religiosi della città. Lo hanno fatto ancora ieri. Succede soprattutto verso sera. Nell’ultima settimana è stato difficile avvicinarsi alla zona di Mea Shearim, quartiere ultraortodosso. La polizia a cavallo è ogni giorno impegnata a calmare decine di persone che per protestare contro l’evento di venerdì incendiano cassonetti della spazzatura e bloccano strade. Ci sono stati per ora quaranta arresti di haredim, ebrei religiosi ultraortodossi. Marceranno anche venerdì, in un contro corteo che rischia di diventare pericoloso: i leader religiosi hanno già annunciato di voler fer- mare il gay pride anche con mezzi non pacifici. Un tribunale di rabbini ultraortodossi ha perfino minacciato di essere pronto a lanciare una “pulsa denura” contro gli organizzatori: in aramaico, frusta di fuoco. Nella tradizione della Cabala si tratta di una maledizione di morte entro l’anno. Yitzhak Rabin, nel 1995, e Ariel Sharon, prima del ritiro da Gaza, ne sono stati oggetto. Non sono soltanto gli ebrei più oltranzisti a opporsi alla marcia nella città santa. Anche i leader religiosi cristiani e musulmani hanno fatto sentire le loro voci. Ma ad agitare le strade sono gli ebrei ultraortodossi: due giorni fa si sono spinti perfino fuori dai confini delle loro roccaforti per manifestare nel laico quartiere residenziale di Rehavia. La polizia, dopo giorni di incertezze, di comune accordo con gli organizzatori, ha ieri fatto sapere che il gay pride si farà. Dodicimila agenti saranno a guardia dell’evento. Oggi si attende il responso della Corte di giustizia sul ricorso degli ultraortodossi che chiedono la cancellazione della marcia. Lo stesso primo ministro, Ehud Olmert, si è rimesso alle forze di sicurezza, dopo aver però detto che quest’anno, a differenza del passato (il secondo gay pride di Gerusalemme si è tenuto nel 2003 quando il premier era sindaco) la marcia è “un atto provocatorio”, perché gli stessi organizzatori hanno voluto essere provocatori. Per Olmert le proteste degli haredim sono legittime. Perfino per alcuni attivisti gay la marcia è controversa. Non c’è bisogno di altro confronto, ha detto al Foglio Uzi Even, ex deputato della Knesset, il Parlamento israeliano, per il partito di ultrasinistra Meretz. Nel 1993 si fece portavoce, con successo, della campagna per l’uguaglianza dei diritti di gay e lesbiche all’interno dell’esercito. Reputa la marcia un’occasione, regalata al movimento religioso, indebolito nello scontro frontale con Sharon durante il ritiro da Gaza, per ricompattarsi. Even vive a Tel Aviv con il suo compagno, Amit Kama, attivista gay. I due si sono sposati in Canada e hanno adottato un figlio. Entrambi temono che eventuali violenze, il giorno della marcia, possano inimicare ai gay il pubblico israeliano. Provocazione, tra gli abitanti di Gerusalemme, è un termine che sembra ricorrere. Una signora sulla quarantina, proprietaria di un negozio di abbigliamento nella centralissima via Hillel, definisce così il gay pride e assicura che venerdì non aprirà. “Ho un bel negozio, ho paura che me lo devastino”. Dall’altra parte del marciapiede, Nomi, 26 anni, che gestisce un salone di bellezza, dice invece di volere la marcia per non darla vinta agli ultraortodossi. “Per dimostrare che i religiosi non possono fare quello che vogliono a Gerusalemme”. • Pressioni sindacali per pesare al vertice dell’ente che negozia i contratti degli statali. Si prepara un avvicendamento Il risiko sul pubblico impiego prosegue con altri mezzi all’Aran Roma. Dopo mesi di pressioni per ottenere dimissioni spontanee, secondo indiscrezioni il governo avrebbe avviato la procedura di revoca di Raffaele Perna, presidente dell’Aran, l’istituzione che negozia per la parte pubblica i contratti collettivi di lavoro di oltre tre milioni di pubblici dipendenti. Questa scelta si iscrive nella storia del rapporto incestuoso fra la l’esecutivo e le organizzazioni sindacali, Cgil in testa. L’estromissione del consigliere della Camera dei deputati, Perna, non è una storia di spoil system su mandato sindacale. E’ il fronte cigiellino, infatti, che sin dall’inizio della procedura di rinnovo del mandato ha spinto perché slittasse a dopo le elezioni, proprio per condizionare le nomine nel comitato direttivo dell’Aran. Con la Cgil avrebbe giocato di sponda, la Cisl pubblico impiego, il cui segretario, Rino Tarelli, sarebbe in predicato per la presidenza di un ente previdenziale, forse l’Inpdap in scadenza nel 2008. Negli ultimi anni i sindacati del pubblico impiego hanno gestito il potere nell’agenzia. Qualcuno ricorda il caso della giubilazione dell’economista Carlo Dell’Aringa dal comitato direttivo – ministro della Funzione pubblica dell’epoca Franco Bassanini – considerato poco sensibile alle pressioni sindacali. Oggi i sindacati confederali del pubblico impiego (e in particolare Cgil e Cisl) vogliono esercitare un diritto di veto sulle nomine. Secondo alcuni osservatori, così si modifica la natura dell’agenzia: la legge fissa addirittura (uno dei pochissimi casi) il divieto per i componenti del direttivo Aran di ricoprire incarichi sindacali. I sindacati si sono allargati anche alla struttura amministrativa. Negli ultimi sei mesi l’Aran ha sottoscritto più di venti contratti collettivi, portando sostanzialmente a compimento la scorsa stagione contrattuale. Ma i sindacati temono di perdere peso. Per esempio, negli ultimi anni i rapporti trimestrali sulle retribuzioni dei pubblici dipendenti erano diventati documenti criptici e semiclandestini. I due ultimi rapporti invece hanno avuto qualche risonanza e sono stati assai espliciti: le retribuzioni pubbliche negli ultimi cinque anni sono cresciute del 10 per cento in più rispetto alle retribuzioni private. Dati che i capi sindacali del pubblico impiego preferirebbero tenere più coperti. Così, la preoccupazione di garantirsi un vertice amico all’Aran si è rafforzata nella prospettiva di semplificazione radicale del procedimento di negoziazione dei contratti collettivi della quale si discute in questi giorni. Se dovesse essere definitivamente approvato l’emendamento alla Finanziaria concordato fra governo e sindacati che pone un termine perentorio per la conclusione delle trattative, succederebbe che gli accordi negoziati in Aran potrebbero diventare efficaci saltando tutti i controlli (ragioneria generale, Corte dei conti, comitato di settore) oggi previsti. Dunque l’Aran diventerebbe una specie di centro di spesa da cui dipenderebbero per esempio i 3,7 miliardi di euro relativi al rinnovo contrattuale degli statali che questa Finanziaria intende anticipare al 2007 (la cifra andrebbe in realtà raddoppiata perché riferita anche agli aumenti dei dipendenti pubblici non statali: regioni, comuni, sanità). Luigi Nicolais, il ministro della Funzione pubblica, sta cedendo alla spinte sindacali, anche su pressione degli uomini del suo gabinetto. Qualcuno al ministero dice che in fondo preferisca concentrare la propria attenzione sui temi dell’innovazione tecnologia, che sono più congeniali alla sua storia professionale e scientifica. L’evolversi del conflitto in Aran è interessante anche per il riflesso che ha sul ministero dell’Economia. Tommaso Padoa-Schioppa, che nel suo Dpef aveva indicato i quattro settori su cui intervenire (previdenza, sanità, pubblico impiego, spesa locale), negli ultimi giorni è tornato sulla necessità di introdurre elementi di rigore ed efficienza nella gestione del pubblico impiego (forse unica categoria davvero beneficiata dalla Finanziaria così com’è oggi). Gli osservatori si chiedono se cercherà di esercitare un minimo di peso in questa vicenda, visto che la nomina dei vertici dell’Aran spettano sì alla Funzione pubblica, ma d’intesa con il ministero dell’Economia. • Gli ex gemelli del gol (e dell’Ing.) se le danno di santa ragione a Roma. E il sindaco ritorna un po’ a fare il leader nazionale La guerra fratricida tra Rutelli e Veltroni dilaga in Europa Roma. La duplice sortita domenicale di Walter Veltroni, nella sua ampia intervista a Repubblica su riforme istituzionali e Partito democratico, non poteva non suscitare la dura reazione della sinistra radicale, da sempre ostile alle une e all’altro. Eppure, ieri, la replica più spietata alle parole del sindaco non è venuta da Liberazione, e nemmeno dal Manifesto. A commentare con le parole più dure la sortita veltroniana, affettuosamente ribattezzata “raid”, è stato infatti il quotidiano della Margherita. Secondo Europa, “Veltroni rischia che gli vada come altre volte nel recente passato: dice cose anche condivisibili, per vederle puntualmente cadere per terra inascoltate”. Non certo il ritratto di sé che ogni leader politico sognerebbe di leggere tutti i giorni sulla stampa. La spiegazione offerta dall’editoriale, poi, è anche peggio: “Magari è una tattica, magari serve a poter dire domani di osa univa il grande poeta Johann Wolfgang von Goethe, il giurista Mario C Pagano e il vescovo protestante Friedrich Münter? La comune appartenenza a un particolare ordine massonico, quello degli Illuminati, nato in Baviera nel 1776, con espliciti intenti politici e pedagogici rispetto all’esoterismo della tradizione. Non stupisce trovare tutti gli esponenti della loggia “illuminata” della Philantropia, a partire da Mario Pagano, ai vertici dell’effimera rivoluzione partenopea del 1799. Dal 1786, scrisse un sacerdote liberale un secolo dopo, “su Capodimonte, in luogo appartato di meschino aspetto, custodito lo ingresso da un mendico, era il sacro tempio della futura civiltà partenopea. Il Pagano vi teneva il maglietto di Venerabile”. Ma il vero motore dell’operazione era stato Friedrich Münter. Chi fosse costui, ce lo spiega dopo una puntuale e sorprendente ricerca d’archivio Nico Perrone. Archeologo, filologo, storico della Chiesa, numismatico, naturalista, cono- fronte al collasso del sistema: io l’avevo detto (oppure a farsi dire: vieni e salvaci)”. Ma se questo è l’editoriale in prima, va detto anche che a pagina 6 non manca una scrupolosa cronaca dei fatti, dal titolo: “Pd e nuova legge elettorale, Veltroni non riscalda i cuori democratici”. E dal catenaccio: “Forse neanche tanto paradossalmente l’intervista del sindaco riscuote consensi soprattutto tra gli scettici sul Pd. Riforme, tutti d’accordo sul fatto che vanno completate, ma è gelo sull’idea di una commissione costituente”. Forse neanche tanto paradossalmente, dunque, a scaldarsi è il quotidiano della Margherita. Ultimo atto di una guerra combattuta (finora) a bassa intensità, eppure senza esclusione di colpi: la guerra delle due Rome, quella tra il sindaco e l’ex sindaco della capitale, fino a poco fa gemelli quasi inseparabili, prototipi quasi indistinguibili di un identico modello. E come tali – insieme – so- LIBRI Nico Perrone LA LOGGIA DELLA PHILANTROPIA 274 pp. Sellerio, euro 10 scitore di lingue antiche e moderne, professore all’Università di Copenhagen, vescovo riformato dell’isola di Sjaelland e massone, Münter era una sorta di agitprop dell’ideale massonico. Dal suo viaggio a Napoli, per sistemare l’effervescente ma disordinatissima situazione delle logge del Regno, erano nati una serie di rapporti fraterni epistolari ed erano stati gettati i semi della nuova “officina”. Ma ripercorrere la storia di Münter significa, per Perrone, parlare anche di altro. Dell’influenza delle idee della masso- lennemente investiti del ruolo di leader del futuro Partito democratico da Carlo De Benedetti. Sembra passato un secolo, ma era appena un anno fa: 30 novembre 2006. Lo sparo di Sarajevo di questo conflitto tutto capitolino arriva all’indomani delle elezioni. E colpisce per primo, non a caso, Goffredo Bettini. Il candidato di Veltroni al ministero dei Beni culturali viene scalzato infatti proprio da Rutelli, che piazza pure il fidato Paolo Gentiloni alle Comunicazioni. I due ministeri di maggiore impatto sulla vita della capitale, il cuore della constituency veltroniana: l’industria della cultura e dell’immaginario. A nemmeno tre mesi dalla nascita del governo, il 29 luglio, Rutelli procede alla nomina di presidente e amministratore delegato di Cinecittà holding: un ex senatore della Margherita e un ex assessore in una delle sue giunte. Ed è solo l’inizio. Nella battaglia dei taxi il leader dl non esineria nelle corti europee a sostegno dell’assolutismo illuminato (tra i coronati sotto squadra e compasso, basti ricordare Federico il Grande di Prussia e l’imperatore Giuseppe II d’Austria, iniziato assieme ai fratelli di sangue Pietro Leopoldo e Francesco) e della lotta senza esclusione di colpi con le gerarchie cattoliche e i più occhiuti custodi del conservatorismo. Del complesso rapporto tra Stati nazionali e internazionalismo liberomuratorio. Del punto di non ritorno rappresentato dalla Rivoluzione francese, con conseguente chiusura da parte delle case regnanti rispetto a qualsiasi cosa odorasse di Illuminismo. E dei grandi e tragici fatti napoletani del 1799, la “rivoluzione senza popolo” che proprio dal popolo (le bande di “lazzari” organizzate dal cardinale Francesco Ruffo) fu stroncata, col supporto della flotta di Sua Maestà britannica capitanata da quel “fratello” Oratio Nelson, che pochi scrupoli si fece nel lasciar pendere dalla forca gli altrettanto massoni Francesco Caracciolo e Mario Pagano. ta a chiedere la mano pesante, mentre Veltroni stringe quelle dei rivoltosi. Mentre Veltroni celebra preziosi ritrovamenti romani, Rutelli inaugura prestigiose scoperte etrusche. Per non parlare dello scontro tra la Biennale di Venezia, difesa a spada tratta da Rutelli, e la Festa del Cinema di Veltroni. Un duello, anche allora, ben riassunto dall’ecumenico titolo di Europa: “A Venezia gli autori, a Roma gli affari”. Ma a proposito di affari, è noto come Rutelli abbia già prenotato per uno dei suoi (Paolo Gentiloni o Linda Lanzillotta) la successione a Veltroni in Campidoglio. E dopo avere fatto ampiamente circolare la notizia, ha cominciato a riannodare i contatti con gli imprenditori capitolini, ovviamente non insensibili al tema. Di qui, verosimilmente, la più che comprensibile decisione – da parte dell’attuale sindaco – di dedicare un po’ del suo tempo anche alla politica nazionale. OGGI – Nord: banchi nuvolosi su basso Piemonte, bassa Lombardia e sulle coste liguri. Centro: foschie dense e qualche nebbia al mattino nelle valli e pianure interne. Sud: splendida e mite giornata di sole su tutte le regioni salvo modeste velature. DOMANI – Nord: nubi sparse in mattinata su tutti i settori ma con tendenza a schiarite. Centro: nubi compatte su Toscana, Umbria e Lazio con deboli e sporadiche piogge, più probabili sul settore costiero. Sud: soleggiato su gran parte delle regioni, eccetto qualche banco nuvoloso sulle coste tirreniche.