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Lessinia
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Lessinia
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Lessinia
Lessinia
Situata per la maggior parte nella provincia di Verona e,
parzialmente in quella di Vicenza, chiusa a Nord dalla profonda e selvaggia Valle dei Ronchi e dal maestoso gruppo del Carega, delimitata ad Est dalla Valle del Leogra,
a Sud dal corso dell’Adige e dall’alta pianura veronese e
ad Ovest dalla Val Lagarina, la Lessinia è quasi un’unità
a sé stante nell’ambito delle Prealpi Venete. La solcano
numerose valli che dagli alti pascoli scendono e si spiegano a ventaglio verso Verona e la pianura. Procedendo da
Ovest verso Est, troviamo le valli di Fumane, di Marano e
di Negrar (che insieme costituiscono un’unità che ha più
carattere storico che geografico: la Valpolicella) e poi le
valli Pantena, di Squaranto, di Mezzane, d’Illasi, le valli Tramigna, d’Alpone, di Chiampo e dell’Agno. Le sue
alture ad Ovest rientrano nelle Prealpi Venete, con cime
tra i 1500 e i 1800 m., e il gruppo del Carega a Nord-Est
(che supera i 2200 m.). La fascia centrale si attesta invece
tra i 1000 e i 1300 metri. Il territorio rientra soprattutto
nei confini della provincia di Verona e in parte minore in
quelli delle province di Vicenza e di Trento.
Storia della Lessinia
La testimonianza umana più antica della Lessinia è l’amigdala litica acheuleana di Lughezzano, uno strumento di
selce a forma di mandorla di sette per tredici centimetri,
che era impugnata direttamente o fornita di manico (come
un’ascia), risalente ad un’età compresa tra i 300.000 ed
i 150.000 anni fa. Altri reperti preistorici sono i ritrovamenti di castellieri, cioè di costruzioni in pietra, di forma semi- circolare, a terrazze successive, che risalgono
all’epoca dei metalli (Breonio, Sottosengia, demolito nel
1973). La parte alta dei Lessini fu a lungo disabitata e
utilizzata solo per la caccia ed il pascolo dagli abitanti dei
castellieri, e continuò ad esserlo fino al XIV secolo.
Nel 1287 avvenne la prima colonizzazione della zona, da
parte di gruppi bavaro-tirolesi provenienti dal vicentino,
che si dedicarono soprattutto alla lavorazione del legno
ed alla produzione del carbone. In seguito, con l’aumento della popolazione, si moltiplicarono il numero delle
contrade e dei paesi stabilmente abitati, finché si costituì
la Comunità dei 13 Comuni con sede a Velo, che rimase
durante il Medioevo e la dominazione veneziana. In tale
periodo si ebbe un notevole disboscamento con il taglio e
la scomparsa di interi boschi.
Nel XVIII secolo si costituì il Vicariato delle Montagne
tra i 13 Comuni di Cerro, Bosco, Camposilvano, Roverè,
Velo, Valdiporro, Selva di Progno, S. Bortolo delle Montagne, Sprea con Progno, Saline, Tavernele, Azzarino ed
Erbezzo. Al Vicariato Venezia concesse l’autonomia, ma
questa fu revocata nel 1797 dai Francesi di Napoleone.
Alla fine del XIX secolo e negli anni 50, l’emigrazione
verso i centri di pianura ed all’estero, dovuta soprattutto
al deprezzamento dei prodotti agricoli, ha salassato i centri della Lessinia con punte fino al 30% della popolazione
residente. Ora la tendenza sta invertendosi per la meccanizzazione agricola, per il notevole sviluppo zootecnico e
per il turismo.
1. Il Parco Naturale Regionale della Lessinia
Il Parco Naturale Regionale della Lessinia si estende
sull’altopiano dei Monti Lessini alle spalle di Verona, al
confine con la provincia di Trento. Occupa un’area di oltre 10.000 ettari nella quale si alternano boschi di carpino,
faggio, abete rosso, prati, pascoli e spettacolari fenomeni
d’origine carsica, unici in Europa, come il Ponte di Veia,
la voragine della Spluga della Preta, il Covolo di Camposilvano e le città di roccia della Valle delle Sfingi. Solcato da cinque profonde valli che si aprono a ventaglio, il
parco custodisce all’interno dei suoi confini testimonianze storiche, archeologiche e naturalistiche d’inestimabile
valore. L’offerta turistica e culturale del Parco comprende
proposte per scolaresche e famiglie, ragazzi e adulti che
hanno oggi a disposizione un’ampia rete di sentieri da
percorrere a piedi, in mountain-bike o a cavallo, un Centro d’Educazione Ambientale e un sistema di sette Centri
Visitatori dislocati in altrettanti Musei in cui si trovano
reperti unici in Europa. Tale ricchezza di testimonianze
storiche, archeologiche e naturalistiche rende il Parco
della Lessinia una meta ideale per turisti alla ricerca di
un contatto più autentico con la natura e con le tradizioni
antiche delle genti di montagna.
Il Parco è stato istituito ai sensi della legge regionale n.
12, del 30 gennaio 1990, per tutelare il ricco patrimonio
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Mappa
Varie
Giardini e parchi
Il Parco Naturale Reg. della Lessinia.........1 Alpicoltura...............................................29
Le Cascate di Molina.................................2 Alto Vajo dell’Anguilla............................30
Foresta dei Folignani................................30
Architettura in Lessinia............................31
Musei da visitare
Bolca - Museo dei fossili...........................3 Basalti Colonnari e orizzonte...................32
I Musei.......................................................4 Camposilvano..........................................33
Museo Botanico della Lessinia..................5 Covolo e valle delle Sfingi.......................33
Museo dei Cimbri......................................6 Capitelli....................................................34
Museo dei Fossili.......................................7 Carbone....................................................35
Museo dei Trombini...................................8 Colonnette................................................36
Museo Faunistico del Parco di Molina......9 Confini e Valli..........................................37
Museo Geopaleontologico.......................10 Fauna e Habitat........................................38
Museo L’Uomo e l’Ambiente..................11 Ghiaccio...................................................39
Museo Paleontologico e Preistorico.........12 I Cimbri....................................................40
I Covoli di Velo........................................41
I Forti.......................................................42
Itinerari
Il Corno d’Aquilio....................................43
La Lessinia dei villaggi di pietra e degli
antichi borghi...........................................13 la Spluga della Preta.................................43
La Lessinia delle grotte e del carsismo....14 Il Ponte di Veja.........................................44
La Lessinia delle tradizioni e del folclore...15 La Comunità Montana.............................45
Roverè - Camposilvano............................16 La Foresta di Giazza................................46
Sengia Sbusa............................................17 La Lessinia e la pietra..............................47
Colombare................................................17 la Pesciara di Bolca..................................48
Ponte di Veia............................................17 La Pietra di Prun......................................49
Spluga della Preta....................................17 Il Monte Loffa..........................................49
Grotta del Ciabattino................................17 Le Attività................................................50
le Contrade...............................................51
Meridiane.................................................52
Da visitare nei dintorni
Badia Calavena........................................18 Pitture Murali...........................................53
Bosco Chiesanuova..................................19 Vegetazione e Flora..................................54
Cerro Veronese.........................................20
Erbezzo....................................................21
Roverè Veronese......................................22
San Giovanni Ilarione..............................23
San Mauro di Saline.................................24
Sant’Anna d’Alfaedo...............................25
Selva di Progno (e Giazza)......................26
Velo Veronese...........................................27
Vestenanova.............................................28
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Lessinia
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naturalistico, ambientale, storico ed etnico del territorio.
Le principali finalità del Parco sono:la protezione del suolo e del sottosuolo, della flora, della fauna, dell’acqua la
tutela, la valorizzazione, il mantenimento ed il restauro
dell’ambiente naturale, storico e architettonico nella sua
unitarietà nonché il recupero di eventuali parti alterate la
cura e la difesa delle particolarità antropologiche, paleontologiche, geomorfologiche, floro-faunistiche e archeologiche della zona la sua fruizione per fini scientifici,
culturali e didattici la promozione delle attività preposte
alla manutenzione degli elementi protetti del parco, delle attività economiche tradizionali, nonché delle risorse e
attrattive di chiaro richiamo turistico e dei servizi per il
tempo libero lo sviluppo sociale, culturale ed economico
delle popolazioni che vivono e gravitano nel Parcol’organizzazione dei flussi turistici la tutela e la valorizzazione
del patrimonio etnico, storico, culturale e linguistico delle
popolazioni cimbre.
2. Le Cascate di Molina
Molina ha il caratteristico aspetto di un tranquillo borgo
medievale, dove si possono osservare numerose costruzioni nella tipica architettura della Lessinia. Il nome le
deriva dai numerosi mulini che furono costruiti in passato
per sfruttare la ricchezza d’acqua della zona; oggi, accantonata la necessità di sfruttare la forza idraulica, le numerose fonti d’acqua sono diventate una nuova ricchezza per
il paese di Molina, che ha circoscritto la zona, proteggendola con l’istituzione del Parco delle Cascate.
La spettacolare oasi naturalistica copre un’area di circa
150 mila metri quadrati, in cui sono racchiuse bellezze
paesaggistiche di grande suggestione: cascate, cascatelle,
laghetti e una vegetazione rigogliosa che accompagna il
visitatore lungo tutto il percorso.
Appena superato l’ingresso, il sentiero scende verso il
centro della gola, seguendo il percorso del torrente che
scorre lento, formando piccoli laghetti dal colore verde
smeraldo. In alcuni tratti però, lo stesso prende vigore e
forma suggestive e fragorose cascate, che scendono dalle
pareti vertiginose di roccia nuda: si ammireranno la Cascata verde, la Cascata del pozzo dell’orso, la Cascata del
marmittone, la Cascata polverosa, fenomeni naturali i cui
nomi rievocano situazioni e suggestioni in un parco da
vedere e da ascoltare.
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3. Bolca - Museo dei fossili e luoghi di scavo
Il giacimento a pesci e piante fossili di Bolca - per varietà delle specie, qualità della conservazione e numero
dei reperti è considerato il più importante deposito fossilifero del periodo Cenozoico. La sua formazione risale
all’Eocene (50 milioni d’anni fa), quando su tutta l’area
dei Monti Lessini si estendeva un caldo mare a carattere
tropicale, ricco di flora e di fauna. Sul fondo di quest’antico mare, si depositarono resti di piante e d’animali che
vennero poi sepolti ed inglobati da fanghiglie calcaree,
entro le quali a poco a poco si fossilizzarono.
Con il passare dei millenni fanghiglie ed altri sedimenti si
solidificarono, diventando dura roccia. Gli strati rocciosi,
a loro volta, sotto le spinte di potentissimi movimenti della crosta terrestre, si sollevarono e s’innalzarono, dando
origine alla Catena Alpina. Così dove un tempo c’era il
mare oggi sorgono le montagne, che conservano al loro
interno i pesci e gli altri organismi pietrificati.
Il Museo è dedicato all’esposizione di questi fossili, ed
all’illustrazione delle tematiche scientifiche legate allo
straordinario giacimento della “Pesciara”. Sorto nel 1969,
il museo è stato ampliato e completamente rinnovato nel
1996. Con le sue belle sale, realizzate secondo i più avanzati criteri espositivi, il Museo ricorda che Bolca e i suoi
fossili sono un patrimonio unico ed irripetibile dell’intera
umanità.
All’ingresso, in una vetrina sospesa dal disegno innovativo, sette pesci fossili - perfetti per stato di conservazione
e cosi rari da essere definiti “gioielli” - accolgono il visitatore. Con la loro bellezza vogliono essere una prima
testimonianza delle meravigliose faune fossili di Bolca.
Essi provengono tutti dalla Pesciara che è sicuramente il
giacimento fossilifero più famoso della zona, e quello che
ha la maggiore importanza scientifica. Ma non è l’unico. Nella valle del fiume Alpone, infatti, sono conosciute
da secoli altre significative località fossilifere. Esse sono:
Monte Postale, Monte Purga e Spilecco che sono situate nelle parte alta della valle, assai vicino alla Pesciara
e all’abitato di Bolca; San Giovanni Ilarione e Roncà si
trovano invece a quota più bassa, vicino alla pianura.
Il Museo si compone di tre sezioni. La prima sala illustra, servendosi di didascalie e disegni, le caratteristiche
geologiche ed ambientali della Lessinia, mentre valide
ricostruzioni spiegano i fenomeni che si verificarono in
Lessinia
questa zona milioni d’anni fa e che portarono all’anomala
fossilizzazione dei pesci. La seconda raccoglie i preziosi
ritrovamenti della Pesciara e mostra al visitatore un elevato numero di specie di pesci in perfetto stato di conservazione: fiore all’occhiello della collezione è un magnifico esemplare di “pesce angelo”. La terza sala espone
i fossili rinvenuti nell’ultimo anno di lavoro: la ricerca
e l’estrazione avvengono ancora oggi, portate avanti da
generazioni dalla famiglia Cerato, che segue il lavoro con
una perizia e una tecnica degne d’ammirazione, affinate
da anni d’esperienza e passione.
Di fronte alle decine di migliaia di fossili estratti dalla Pesciara, specialisti e visitatori si sono sempre chiesti quali
siano state le cause della morte di tanti pesci e perché si
siano conservati. Di norma, infatti, i pesci muoiono perché mangiati da altri animali (specialmente se non possono fuggire velocemente perché vecchi o malati) e quindi
non lasciano alcuna traccia di sé. Per spiegare l’enorme
quantità di ittioliti (pesci di pietra) trovati in queste rocce,
bisogna dunque cercare qualche motivo fuori dal comune. Oggi prevale l’idea che un rapidissimo sviluppo d’alghe microscopiche abbia avvelenato improvvisamente le
acque, facendo morire tutti gli animali che le abitavano.
Questo fenomeno, oggi piuttosto frequente e detto delle
“acque rosse” per il colore che fa assumere al mare, si
sarebbe verificato ripetutamente a Bolca, sterminando nel
corso di millenni un’immensa quantità di pesci.
Il secondo fatto fuori dal comune è la perfetta conservazione degli ittioliti. La spiegazione è che una volta morti
e scesi sul fondo questi pesci non trovarono né gli animali
“spazzini”, che mantengono puliti i fondali mangiando
tutto quello che vi si deposita, e neppure i microrganismi
che avrebbero potuto causarne la putrefazione. Infatti, sul
fondo della laguna di Bolca non c’era abbastanza ossigeno perché un qualunque animale potesse sopravvivervi. I
resti vennero quindi ricoperti dal sottilissimo fango calcare che si accumulava molto rapidamente sul fondale e che
seppellì i pesci proteggendoli dall’ambiente esterno e che,
indurendosi fino a diventare roccia, ne conservò la forma
fino nei minimi particolari.
L’attuale sito naturalistico collegato al museo di Bolca è
la famosa “Pesciara” che dal settembre 1998 è stata dotata
di un percorso attrezzato.
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4. I Musei
Il cosiddetto sistema museale della Lessinia è costituito
da nove musei tematicì che illustrano gli aspetti naturalistici, etnografici, paesaggistici della Lessinia. In realtà, i
nove musei si possono considerare solo teoricamente un
“sistema museale”, dato che quest’ultimo è stato definito
come “un insieme di musei, coerenti e vicini, collegati tra loro per
lo scambio di risorse d’ogni genere”. Fra i musei della Lessinia,
manca l’elemento fondamentale costituito dal collegamento concreto ed operativo. I musei si sono sviluppati in
tempi diversi dagli anni ‘60 per volontà d’alcune persone
autoctone cui si è aggiunta la collaborazione delle Amministrazioni e della Comunità Montana della Lessinia.
L’intervento degli enti locali è stato importante, poiché
ha garantito una continuità nelle scelte di fondo e ha permesso il radicarsi delle iniziative nelle singole realtà. Nei
pressi di ciascun museo esistono località di grande interesse naturalistico, o etnografico, o storico, così che una
delle caratteristiche del sistema museale della Lessinia
è proprio quella di sviluppare ed incentivare uno stretto
legame con il territorio in modo che il messaggio didattico trasmesso dal museo si completi attraverso la scoperta
del territorio. I musei diventano quindi parte integrante
del paesaggio attraverso dei percorsi naturalistici, che necessitano però di un potenziamento e miglioramento per
rendere l’offerta turistica in Lessinia unica e sempre più
appetibile agli occhi del turista.
Oltre a quelli presentati qui di seguito, vanno ricordati il
Museo Ergologico “La Giassàra” di Cerro Veronese, ed il
Museo Arti e Mestieri de “Na ‘olta” di Cogollo.
5. Museo Botanico della Lessinia
Il Museo Botanico della Lessinia è dedicato all’insigne
medico e botanico Giovanni Zantedeschi (1773-1845),
che ha scoperto e descritto per primo il “laserpizio nitido”, pianta indigena ed endemica. Il lavoro di preparazione della raccolta è stato svolto con piante raccolte
esclusivamente nel Parco delle Cascate di Molina, anche
per dare l’occasione ai visitatori di confrontare e di riconoscere le erbe che essi stessi possono osservare dal vivo,
percorrendo i sentieri del Parco.
Ogni pianta è stata sistemata su di un pannello e, per
quanto possibile, ne sono state poste in evidenza le parti che assumono maggiore importanza dal punto di vista
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sistematico, quali ad esempio fiori, frutti, foglie, radici.
Sono tali parti, infatti, quelle che insieme con altre meno
appariscenti consentono di classificare, ossia assegnare il
giusto nome ad ogni pianta. Accanto ad ogni esemplare
sono inoltre specificati: il luogo e la data di raccolta, la
famiglia, il nome scientifico, il nome volgare ed il nome
locale. Nella sistemazione si è cercato anche di unire alla
rigorosità scientifica il senso estetico, non tanto per voler
fare dei quadri con materiale naturalistico, che pare oggi
siano abbastanza di moda, quanto per invitare i visitatori
a fermare lo sguardo un attimo di più e per portarli a considerare quanto vario e complesso e insieme affascinante
sia il mondo vegetale. Un mondo in cui l’uomo è immerso
e da cui strettamente dipende, un mondo che l’uomo deve
imparare a rispettare e a difendere se non vuole distruggere anche se stesso.
Il piccolo museo mostra come nella cosiddetta “fascia del
Castagno” - che si spinge dai primi colli fino ai 900-1000
metri d’altitudine - e in tutta la zona delle Prealpi Venete,
l’uomo abbia apportato profonde modifiche alla vegetazione originaria, che era rappresentata dal bosco di latifoglie, distruggendo boschi per utilizzare il legname o per
creare, dove era possibile, zone destinate al pascolo o alla
coltivazione e introducendo alberi a crescita più rapida,
come il carpino nero e il castagno, e lasciando diffondere
negli ultimi decenni la robinia pseudo-acacia, che sta assumendo l’aspetto d’infestante.
Ancora l’esposizione insegna ai gitanti che l’uomo dipende dal verde, e che il verde è il nostro laboratorio per la
vita.
Il sito naturalistico collegato al museo è il Parco delle Cascate di Molina, area di particolare interesse per la presenza di cascate d’acqua, fitti boschi di faggi e numerose
cavità carsiche, tra le quali alcune abitate fin dalla preistoria (riparo Scalucce).
6. Museo dei Cimbri
È un museo etnografico realizzato nel 1972 per illustrare
l’affascinante tema di quelle popolazioni d’origine bavarese che dal XIII secolo hanno iniziato a popolare la Lessinia.
I lavori di ristrutturazione del museo, conclusi nell’estate
del 1998, il diverso itinerario espositivo e la realizzazione di nuovi pannelli, permettono al visitatore di avere un
Lessinia
quadro molto chiaro sui Cimbri. La parte espositiva è realizzata su due piani. Vengono trattati 21 argomenti che descrivono vari aspetti della vita del popolo cimbro (il culto
dei santi, la toponomastica, la famiglia, l’agricoltura, la
caccia, la produzione della calce, del ghiaccio, del carbone ecc.). Inoltre, nel museo sono esposti immagini sacre
in pietra, antichi documenti e vecchi attrezzi da lavoro.
I siti collegati al museo sono, certamente, il paese di Giazza, che ospita la struttura museale e conserva l’antica lingua e le tradizioni delle popolazioni d’origine bavarese, e
le vicine valli di Revolto e Fraselle in cui si respira ancora
“aria cimbra”.
7. Museo dei Fossili
È stato inaugurato nel 1975, dall’Associazione Paleontologica Gruppo VaI Nera. Il museo è temporaneamente
chiuso in attesa del completamento della ristrutturazione,
da parte dell’Amministrazione comunale, del nuovo edificio che lo ospiterà.
Attualmente, gran parte dei reperti paleontologici sono
esposti in alcune vetrine depositate all’interno di un’ampia sala della locale scuola media. Le collezioni paleontologiche comprendono esclusivamente reperti fossili provenienti dal giacimento di Roncà. Gran parte di queste
collezioni sono state costituite circa trent’anni fa dall’Associazione Paleontologica Gruppo VaI Nera.
I siti naturalistici collegati al museo sono il famoso “Orizzonte paleontologico di Roncà” ed il Monte Calvarina. Il
primo sito, dopo le opportune verifiche, è stato dotato di
un percorso attrezzato, mentre il Monte Calvarina, uno
dei maggiori vulcani dell’Eocene che si sia conservato sui
Monti Lessini, è comodamente raggiungibile a piedi ed
in auto.
8. Museo dei Trombini
Inaugurato nell’estate del 2000, il piccolo museo sorge
in un edificio recentemente ristrutturato nel paese di S.
Bortolo delle Montagne. Il museo è ospitato in due locali;
nel primo sono esposti alcuni “trombini” (detti anche “sciòpi”), possenti archibugi che raggiungono in certi casi
gli ottanta chilogrammi. Essi furono utilizzati nei secoli
scorsi dalle milizie cimbre, per difendere i confini settentrionali della Serenissima; nel secondo locale, si possono
osservare gli oggetti e le varie fasi che portano allo sparo,
nonché documenti, foto d’epoca, strumenti per la fabbricazione ecc. Un video, inoltre, coinvolge il visitatore nello straordinario momento dello sparo.
Il sito collegato al museo è, certamente, il paese di S. Bortolo delle Montagne poiché conserva ancora la tradizione dello sparo dei trombini e la chiesa il cui campanile
è stato eretto nel 1473. S. Bortolo prende il nome dalla
cappella eretta nella metà del Trecento e dedicata a San
Bartolomeo.
9. Museo Faunistico del Parco di Molina
È un piccolo museo privato, di carattere zoologico, aperto
solo su richiesta. Il museo nasce nel 1990 dalle raccolte di Sergio Finali, un appassionato collezionista ed imbalsamatore. Il museo è costituito da un’unica sala con
diorama, dove sono esposti alcuni mammiferi (volpe,
marmotta, capriolo, camoscio) e vari uccelli, tra cui il
gallo cedrone e l’aquila reale. Inoltre, alcune vetrine contengono scatole di farfalle e vari tipi d’insetti provenienti
da tutto il mondo. Il sito naturalistico collegato al Museo
Faunistico è il Parco delle Cascate di Molina.
10. Museo Geopaleontologico
Il Museo dei Fossili della Lessinia di Camposilvano
propone una storia geologica dei Monti Lessini. Infatti,
i reperti, rocce e fossili, sono stati esposti seguendo il
concetto stratigrafico, ossia dai più antichi ai più recenti. Vengono anche fornite indicazioni sugli ambienti che
si succedettero nella montagna veronese nei vari periodi
geologici per una durata di circa duecento milioni d’anni.
È proprio questo il valore della raccolta, i reperti fossili
essendo stati raccolti tenendo conto della loro esatta posizione stratigrafica.
Molti di questi organismi fossili servono come fossiliguida e permettono di stabilire una successione nella formazione degli strati rocciosi. Essi appartengono
ad organismi, con larga distribuzione geografica, che si
sono evoluti rapidamente, che hanno cambiato cioè certe
strutture del loro corpo in tempi geologicamente brevi.
Conoscendo la successione di queste forme è possibile
fissare dunque la successione degli strati che le contengono, in una parola di datarle. Le Ammoniti, per esempio,
Molluschi Cefalopodi, sono i macrofossili più usati per
la datazione degli strati. I loro modelli, ricchi di svaria-
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te ornamentazioni, colpiscono subito l’occhio per la loro
bellezza, e in questo museo ve ne sono esposte di pregevoli, perfettamente conservate ed alcune di forme finora
sconosciute.
Migliaia di persone - soprattutto giovani - accorrono ogni
anno a visitare il museo. Perché questo grande interesse
per le scienze della terra? Il fenomeno pare di carattere
generale, ma dobbiamo anche precisare che Verona e il
suo territorio montano non solo furono la culla di queste scienze (basti ricordare Gerolamo Fracastoro, primo
nell’evo moderno a dare un’esatta spiegazione della natura dei fossili, e Giovanni Arduino, fondatore della geologia stratigrafica), ma permangono campo vastissimo
d’indagine da parte di studiosi italiani e stranieri.
A questi ricercatori professionisti, si aggiungono numerosissimi dilettanti, tra cui possiamo trovare il raccoglitore
casuale di fossili con conoscenze paleontologiche confuse, ma anche l’amatore dotato di una preparazione degna
di un professionista. Una conferma di ciò è data appunto da pur sommarie statistiche circa il tipo del visitatore
del museo di Storia Naturale di Verona e di questi piccoli
musei della Lessinia. Sono centinaia, fra questi visitatori, i giovani che possono sempre più qualificarsi appunto
come amatori dotati di non comune preparazione. Certo:
un tale fenomeno di “appassionamento” crea non pochi
problemi per la protezione del patrimonio geologico e paleontologico. Tutti, infatti, vogliono scavare con o senza
la preparazione necessaria. Ma tali problemi possono essere in gran parte superati con un’opera d’educazione che
passa attraverso la divulgazione delle conoscenze scientifiche e quindi attraverso il museo.
I siti naturalistici collegati al museo sono la Valle delle
Sfingi, il Covolo di Camposilvano, i Covoli di Velo e la
grotta turistica di Monte Capriolo.
11. Museo L’Uomo e l’Ambiente in Lessinia
Il museo di Boscochiesanuova, che è di proprietà comunale, sviluppa il tema del rapporto uomo-ambiente in
Lessinia. E’ quindi un museo etnografico. La disponibilità di amici e collaboratori del museo hanno permesso al
“Centro Culturale Lessinia” di allestire numerose mostre
temporanee e permanenti.
Didascalie e documentazioni fotografiche danno al visitatore la possibilità di essere informato sugli aspetti sto-
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rici ed artistici dei materiali esposti, anche con essenziali
indicazioni bibliografiche. I temi trattati, l’alpeggio, la
pastorizia, la produzione della calce, del ghiaccio e del
carbone, la filatura, la tessitura, la religiosità, e molti altri, sono sviluppati ed illustrati seguendo un percorso culturale che parte dall’illustrazione degli antichi paesaggi
preistorici.
I siti collegati al museo sono il “Baito della Colletta” e
la “Giassàra di Grietz”. Queste due strutture sono state
restaurate verso il 1990 e permettono, rispettivamente, di
osservare gli strumenti per la lavorazione del latte ed il
lavoro del taglio e della conservazione del ghiaccio.
12. Museo Paleontologico e Preistorico
A Sant’Anna d’Alfaedo accanto alla preistoria convive
anche la paleontologia. Infatti, nel suo piccolo Museo, di
proprietà comunale e allestito con l’appoggio di quello di
Verona, vi sono due sezioni: quella preistorica, che è stata
risistemata, e quella paleontologica, che sta registrando
uno straordinario incremento. In quest’ultima confluiscono tutti i reperti rinvenuti durante i lavori nelle cave,
specialmente in quelle del vicino Monte Loffa, forse le
più estese cave di calcari lastriformi oggi attive in Italia.
Si tratta di rocce del Cretaceo superiore che conservano
una ricca fauna a vertebrati marini. Questi fossili - squali
lunghi cinque o sei metri, razze, mosasauri, tartarughe andavano fino a pochi anni fa distrutti.
Fu merito di un gruppo d’abitanti del paese, se ci si rese
conto in loco dell’importanza dei fossili trovati. D’accordo con il Museo di Verona e la Soprintendenza delle
Antichità, iniziò così un’opera didattica per spiegare il significato dei fossili e la loro importanza e per convincere
a portare nel locale Museo i nuovi ritrovamenti. Oggi non
pochi cavatori sono in grado di distinguere le vertebre di
uno squalo da quelle di una razza e le costole di una tartaruga da quelle di un mosasauro. E quando il geologo
visita le cave è sottoposto ad una serie di domande, anche
difficili, che testimoniano un interesse ed una vitalità culturale senza dubbio positivi.
Certo è che se i reperti invece di rimanere a Sant’Anna
fossero stati portati a Verona, questa raccolta che si accresce quasi ogni mese non si sarebbe costituita. Senza tener
conto poi del fatto che a Verona non si saprebbe dove sistemare gli esemplari trovati che hanno lunghezze da un
minimo di un metro fino a sei o sette metri.
Si è affermato che accanto alla sezione paleontologica
c’è, nel Museo di Sant’Anna, una sezione di preistoria.
Quest’ultima accoglie reperti di qui e dell’alta valle di
Fumane (Molina) in grado di offrire al visitatore un quadro completo della I preistoria locale. Un elenco: asce di
selce rozzamente lavorate, punte di freccia peduncolate,
coltelli acuminati, tranchet e pics, percussori, raschiatoi,
lisciatoi di serpentino, punteruoli, bolas, elementi di falcetto, macine per granaglie, pesi da telaio, fusaiole, grani
di collana in calcite, fibule, aghi, punteruoli, punte di freccia, di lancia e di giavellotto in bronzo e in ferro, lame di
pugnale, anelli in bronzo, perle di pasta vitrea, punteruoli
d’osso forato, corna di capriolo e di grosso cervo in parte
lavorate, frontale di bovide, vasi di terracotta, anse lunate,
cocci di vasi con incisioni a crudo, cariossidi di frumento
bruciato, corredo funebre di tomba neolitica, resti di cremazione, denti d’orso (spelaeus) e di cinghiale e monete
romane d’epoche diverse.
Tra il materiale esposto, sono particolarmente interessanti
due alari di tipo gallico in pietra arenaria che costituiscono, forse, la forma di scultura più antica di tutta la Lessinia, nonché le famose “selci strane” (false) che tanto scalpore suscitarono in Italia ed all’estero sul finire dell’800.
In una vetrina si ammira infine uno schema quanto
mai chiaro illustrante la storia geologica dei Lessini di
Sant’Anna d’Alfaedo con materiale fossile fra cui ammoniti, sezioni di baleoniti, campioni di rocce del Lias e
noduli di selce e di pirite abbondanti nei fanghi marnosi
del Cretaceo medio. Non mancano i calcari crinoidi con
pentacrinus basaltiformis, ananchites ovata e concairis,
stenonia tubercolata, cefalopodi ed echinodermi, alghe,
foramminiferi. Un Museo tutto da vedere.
Il sito naturalistico collegato al museo è il maestoso ponte naturale di Veia, alla cui base si aprono alcune grotte
abitate dall’uomo fin dalla preistoria. Esiste un percorso
attrezzato. In prossimità del Ponte di Veia è stato costruito
il modello di un’abitazione preistorica e vi sono tabelle
didattiche.
Foto di Adert
Lessinia
13. La Lessinia dei villaggi di pietra e degli antichi borghi
Uscendo da Verona lungo la Statale del Brennero, prima di Parona si prenda a destra seguendo la segnaletica
«Valpolicella» e si proceda fino a San Pietro Incariano,
11
dove seguendo le indicazioni per Fumane si entra ben
presto nel territorio di questo comune. La strada procede
immersa in bei vigneti a filari, risultato di una moderna
razionalizzazione della coltivazione della vite. In passato
i vigneti erano pochi perché servivano soprattutto a far
fronte all’esigenza di un’economia locale. Le abitazioni
agricole erano racchiuse in «corti» autosufficienti (visibili
anche adesso): il frumento veniva trasformato in casa in
pane, il mais in polenta, l’uva era vinificata direttamente
nelle botti di rovere; vi erano poi piccoli allevamenti di
mucche, maiali ed animali da cortile che fornivano latte, burro, salumi e carni fresche. Inoltre tutte le attrezzature agricole più semplici venivano fatte in loco. Con
il secondo dopoguerra, l’agricoltura si è venuta sempre
più industrializzando e meccanizzando e questo fatto, se
da un lato ha permesso un minor lavoro manuale ed una
diminuzione della fatica fisica, dal lato opposto ha portato all’abbandono dell’agricoltura da parte dei piccoli
proprietari terrieri (soprattutto giovani, convogliati nelle
vicine fabbriche o nelle cave e segherie della zona).
Prima di arrivare a Fumane, in alto, su di una collina, si
nota il piccolo Santuario della Madonna delle Salette;
costruzione religiosa del 1864, eretta per un ex voto dai
Fumanesi. In quegli anni, infatti, i contadini erano disperati per una malattia che aveva colpito in modo terribile
le viti; un frate predicatore raccontò agli abitanti che in
un paese della Francia era apparsa la Madonna e li invitò a dedicarle un piccolo santuario: questo li avrebbe
sicuramente aiutati nel debellare la malattia. Ed, infatti,
così avvenne. Nel paesaggio collinare di Fumane, oltre la
vite domina anche l’olivo (belli i terrazzamenti sostenuti da «marogne» a secco dove vivono associati), spesso
assumendo forme contorte ed incavate per la vecchiaia.
Dalla piazza di Fumane, da cui appare ancora meglio il
Santuario delle Salette immerso nei pini, si prosegue per
Mazzurega e, dopo la località Banchette, ci si fermi per
visitare la bella villa della Torre. Edificata nel XVI secolo
su di un preesistente edificio, la villa è armonicamente
inserita nell’ambiente e nel terreno e si compone del palazzo, del giardino ricco di una serie di bellissime fontane
artisticamente disposte, del brolo e del fondo agrario. La
visita è molto interessante, oltre che per le incomparabili
prospettive create dagli archi e dalle fontane, per i vari
motivi architettonici dei soffitti delle sale, che presentano
12
disegni delle più svariate forme, per i mascheroni che in
alcune sale formano giganteschi camini, e per il tempietto
sanmicheliano. E’ quest’ultimo un piccolo prezioso gioiello cinquecentesco dell’architettura ecclesiastica, con
una caratteristica pianta ottagonale. Nel XVIII secolo,
il tempietto venne purtroppo imbiancato all’esterno ed
all’interno, distruggendo così gli affreschi di Paolo Farinati. Il tempietto presenta un campanile in cotto, a forma
di torre merlata; una delle campane ha incisa la data del
1558.
Allontanandoci da Fumane per la valle del Progno (torrente), dopo aver percorso una stretta strada a tornanti
(in attesa del completamento della nuova carrozzabile),
si giunge a Molina, centro situato a 551 m. Il paese è
rimasto quello di un tempo senza quasi nuove costruzioni, perché protetto da un vincolo urbanistico che, se da
un lato conserva il tipico ambiente, dall’altro ha favorito
lo spopolamento (oggi vi sono circa 150 abitanti, mentre
in passato ve n’erano anche 600). Il nome Molina deriva dalla presenza, in passato, di numerosi mulini azionati
dalle acque di copiose sorgenti; mulini che iniziarono a
funzionare, macinando frumento o granoturco prodotti
in loco ma soprattutto portati dal piano, verso la fine del
XVII secolo, servendo in prevalenza la Val Lagarina, la
Valpantena e la zona di Bussolengo. Successivamente,
sfruttando ogni salto di pendenza del Progno, si arrivò al
funzionamento di ben 23 mulini. Inoltre, sfruttando sempre l’energia prodotta dall’acqua, funzionavano anche un
«maglio» per la lavorazione del ferro (si producevano
grossi chiodi e catenacci lavorati anche artisticamente),
un «torchio» adibito ad oleificio (si otteneva olio per lanterne dalle noci) e cinque o sei «folli» che servivano per
«follare» gli indumenti di lana ed il cosiddetto «medolan»
(speciale tessuto ricavato sul telaio usando lana e canapa).
I tessuti venivano «follati» immergendoli in vasche di rovere dove, in acqua calda, argilla e sapone, un maglio li
batteva per più ore in modo che il tessuto s’indurisse ed
acquistasse resistenza.
Molina, situato sul versante destro dell’alta valle di Fumane, presenta belle costruzioni in pietra locale, disposte organicamente sul terreno, secondo le sue naturali
inclinazioni e pendenze, e distribuite lungo le strade in
modo irregolare, creando un paesaggio urbano simile alla
struttura d’alcune borgate medioevali. Oltre alle antiche
Lessinia
case di pietra, cavata in loco, il paese è interessante per la
frequenza dei cortili chiusi da muri, con stupendi esempi di portoni d’accesso ad arco con coperture in pietra
sostenuta da grandi mensole. I cortili erano tutti chiusi
perché i lupi (Iovi) non assalissero le greggi durante la
notte. Come già accennato, oggi il paese è poco abitato
ed in maggioranza da persone anziane che vivono praticando ancora un po’ d’allevamento bovino e producendo
latte e formaggio (esiste una malga), mentre l’agricoltura,
un tempo fiorente, è stata completamente abbandonata. A
Molina si può visitare il Parco delle Cascate, esteso per
150.000 mq. Seguendo la segnaletica si scende verso il
Progno per circa 400 metri. Il corso d’acqua, adeguandosi
alla natura del terreno, ha prodotto meravigliose cascate
come la cascata Nera (con un pendolo che permette di
arrivare vicinissimi alla cascata) e piccoli verdi laghetti.
Il Parco è tutto un interessante itinerario naturalistico con
sentieri, passerelle ed una scala della vertigine; presenta
ricostruzioni di vita preistorica e campioni di roccia (belle
le gigantesche colonne prismatiche di basalto). Accanto
alla piazza di Molina, vi è un piccolo museo botanico che
permette al visitatore di riconoscere le numerosissime
specie vegetali presenti nel Parco delle Cascate.
Dopo Molina, proseguendo sulla strada per Breonio, si
giunge al caratteristico villaggio di pietra di Gorgusello, chiamato localmente «Garbussel» forse per i numerosi
gorghi formati dalle sorgenti d’acqua, nei pressi del paese. Villaggio formato interamente di case in pietra viva
e ricoperte di lastroni, Gorgusello presenta tutti quegli
elementi architettonici tipici della semplice ma funzionale perizia edile degli antichi abitanti locali: corti, archi
e volti d’ingresso, case-torri e scale esterne, pietre di recinzione e di delimitazione delle proprietà. Diviso in due
centri: Gorgusello di sopra e di sotto, uniti dal fabbricato
della scuola (ora adibito a sala di riunione per gli abitanti,
data l’insufficienza del numero dei bambini), Gorgusello
è un paese spopolato, decimato dall’emigrazione che ha
lasciato completamente abbandonate molte tipiche case
di pietra, che avrebbero urgente bisogno d’interventi di
restauro per ritornare ad essere abitate e per essere anche
in futuro, segno e testimonianza di quella civiltà locale
ricca di valori semplici, ma carichi di profondi significati.
Arrivati a Breonio, s’incontrano dapprima il campanile e
alcuni resti della chiesa di S. Marziale, una delle ben quat-
tro chiese costruite dagli abitanti (San Giovanni in Loffa
nel 1131, San Giovanni e Marziale nel 1493, S. Marziale
nel 1825 e Santa Maria Regina nel 1959), in parte demolita perché resa pericolante dal terreno instabile. Risultando
inutili i tentativi di porvi rimedio, venne allora costruita la
chiesa di Santa Maria Regina.
Chiusa, ma visitabile con la guida del parroco di Breonio,
è la chiesetta quattrocentesca dei Santi Giovanni e Marziale, vero gioiello d’arte, ritenuta l’unico esempio d’arte
gotica di tutta la Valpolicella, con la sua bell’abside e con
gli importantissimi affreschi, datati 1510 e 1513, attribuiti
sicuramente a Francesco Morone; la decorazione, ricca
di figure, di festoni e d’ornati, è attribuita a Domenico
Brusasorzi. Breonio, centro più settentrionale della Valpolicella, è famoso per la scoperta di stazioni preistoriche
nel suo territorio. Il paese presenta un notevole Interesse
anche sotto il profilo architettonico ed ambientale. Breonio possiede poi tre pale e dieci dipinti di cui si discute
ancora la paternità. Perché tanta ricchezza d’arte a Breonio? Si racconta che un prete di Verona città, divenuto
parroco di Breonio, abbia portato con sé queste opere, tolte da una chiesetta soppressa di Verona. Nonostante l’altezza, a Breonio viene coltivato in piccoli appezzamenti
un particolare vitigno: il marzemin. La gran parte della
popolazione, rappresentata da pendolari, va a lavorare nei
cementifici di Fumane od in cave della zona.
Dirigendosi ora verso il Corno d’Aquilio, lasciando sulla
sinistra il Monte Pastello, con le profonde ferite, costituite
dalle cave di marmo e di lastame, si arriva in un ambiente suggestivo qual è quello di Fosse, con le case strette
lungo la strada, immerse nel verde, con i boschi e con i
molti sentieri per escursioni e passeggiate, con i colossi
del Corno d’Aquilio e del Corno Mozzo dì fronte, con
la quiete del paesaggio. Per tutte queste caratteristiche,
Fosse è centro di villeggiatura estiva. Dopo il pranzo, è
consigliabile un’escursione sul Corno d’Aquilio (vicino
alla chiesa vi è una strada asfaltata a sinistra, che s’inerpica sul monte, giungendo in breve quasi alla cima), alla
cui sommità, nel tragitto che porta alla croce, è situata
l’apertura d’accesso della Spluga della Preta: è questa una
delle cavità carsiche più profonde d’Italia, che con una
serie di cunicoli, pozzi e discese verticali, giunge ad una
profondità accertata di 875 metri. Dalla cima del Corno si
osserva un panorama grandioso che va dalla Val d’Adige
13
al M. Baldo, ai Lessini, punteggiati dalle abitazioni e dai
piccoli paesi.
Scesi dal Corno d’Aquilio e presa la strada per Sant’Anna
d’Alfaedo, nei pressi di una base militare si diparte una
strada che porta a San Giovanni in Loffa. Ai lati della stradina vi sono delle cave di pietra, dove si potrà osservare
(soprattutto in una cava a sinistra) il processo d’estrazione (dagli strati di pietra, al taglio ed al deposito in attesa
di essere portati alla pulitura ed alla lavorazione). Dopo
le cave, in una pineta alla sommità del monte si visiti la
chiesa di San Giovanni in Loffa: chiesa parrocchiale più
antica della Lessinia occidentale (e per vari anni l’unica),
con giurisdizione su Breonio, Sant’Anna ed Erbezzo. Posta a 1055 metri s.l.m., la chiesetta sarebbe stata costruita
nel 1131 (secondo la data incisa sulla porta maggiore). La
tradizione vuole che nelle immediate vicinanze ve ne fosse un’altra precedente, risalente all’800 (sono stati trovati
anche alcuni ruderi). Radicalmente restaurata nel 1633, la
chiesetta di San Giovanni presenta all’interno tre magnifici altari di vario marmo, in differenti stili. Sopra la porta
d’entrata, una tela di notevole importanza artistica rappresentante il Battista, titolare della chiesa, S. Marziale,
titolare di Breonio e S. Urbano papa, titolare di Molina.
Bello è il quadrato, tozzo campanile romanico, costruito
in calcare locale e presentante una cella campanaria con
quattro bifore. Sul Monte Loffa sono stati rinvenuti oggetti appartenenti ad un locale villaggio preistorico (ora
nel museo di Sant’Anna).
Da San Giovanni in Loffa l’itinerario ci porta ora a
Sant’Anna d’Alfaedo il cui comune, con oltre 40 cave attive, detiene il primato di produzione della scaglia calcarea (meglio conosciuta come «pietra di Prun»). Sant’Anna e dintorni è la zona della Lessinia occidentale che più
si è rinnovata dal punto di vista architettonico; le nuove
costruzioni conservano però esternamente il tetto in pietra e spesso anche i muri di cinta ed il lastricato attorno.
E’ questo un fatto che dimostra il desiderio di non staccarsi completamente dal passato, e, pur nell’evoluzione
umana, conservare inalterato l’aspetto paesaggistico locale. A Sant’ Anna si visiti il Museo situato nel Municipio. Nel Museo, il reperto certamente più appariscente e
uno squalo fossile lungo quasi 7 metri e risalente a circa
70 milioni d’anni fa; ma forse molto più interessante dal
punto di vista scientifico è una razza, per le placche den-
14
tarie in associazione a vari frammenti d’ossa. Inoltre nel
Museo vi sono manufatti litici, asce di selce rozzamente
lavorate, punte di freccia peduncolate, coltelli acuminati,
raschiatoi, punteruoli, lisciatoi di serpentino, una macina
per granaglie, fibule, punte di freccia e di lancia di ferro
ed in bronzo, vasi di terracotta, cocci di vaso con incisioni
a crudo, monete romane di diverse epoche. Interessanti
sonò due alari di tipo gallico in pietra ed anche una tartaruga fossile. Molti dei reperti paletnologici provengono
dal castelliere di Monte Loffa.
Prendendo ora la strada che porta a Negrar, ci si può fermare a Vaggimal per visitare la «giassàra» edificata in
forma cilindrica per sopportare maggiormente le pressioni del terreno circostante. Costruzione esternamente modesta (sempre in pietra di Prun), la ghiacciaia è internamente enorme per offrire una scarsa esposizione al calore
esterno nel profondo pozzo in cui si accumulava il ghiaccio. Vicino vi è la pozza che d’inverno, gelando, forniva il
ghiaccio. Proseguendo sulla strada, in località Schioppo,
si prenda una stradina che, attraversato il centro di Giare,
porta a visitare il più spettacolare fenomeno naturalistico
veronese: il ponte di Veia. Il sentiero che porta al ponte
parte da uno spiazzo in cui vi sono una trattoria e dei secolari castagni. In vicinanza del ponte vi sono delle piccole grotte, mentre un ruscello passa proprio sotto il ponte
e forma poi una piccola cascata; a sinistra, sotto l’arcata
del ponte, si trova l’ingresso protetto di una grotta dove
sono avvenuti importanti ritrovamenti preistorici. Il ponte di Veia rappresenta l’architrave d’ingresso di un’antica
caverna carsica, sottrattosi al crollo della volta centrale
della caverna. La distanza massima tra le basi dei piloni
è di 52 metri, mentre il punto dell’arcata più elevato dal
suolo raggiunge i 29 metri. L’arcata è costituita da calcari
del rosso ammonitico, mentre le «pile» del ponte sono
costituite da calcari gialli oolitici. Vuole la tradizione che
Dante, nel descrivere le Malebolge dell’Inferno, si sia
ispirato al ponte di Veia, mentre è certo che il Mantegna
lo ha ritratto più volte in alcuni suoi dipinti.
Scendendo ora verso valle, per Fane o per Prun, si arriva a
Negrar dove è indispensabile visitare il Parco Nazionale
di Villa Rizzardi. Disegnato da Luigi Trezza verso la fine
del XVIII secolo, l’eccezionale giardino architettonico
è molto vasto, estendendosi su circa 54.000 metri quadrati, in parte sistemati all’inglese ed in parte all’italiana.
Dall’abitazione padronale si dipartono tre viali paralleli:
il primo, formato da una galleria di carpini, termina in
un chiosco con statue; il secondo, formato da una duplice
fila di pini e di palme, conduce al teatro ed il terzo, formato da carpini, porta nel bosco ed al belvedere. Famoso è il piccolo teatro verde all’aperto, con palcoscenico e
cavea semicircolare ottenuti con siepi di bosso, carpino
e cipresso, nel quale durante la seconda metà dell’800 si
davano spettacoli di recitazione e di musica. Il bosco è
formato da carpini, abeti, gelsi, ginepri, frassini; vi si trovano tempietti, chioschi e varie statue di marmo. Vi sono
poi bellissime siepi, una piscina e meravigliose aiuole. La
villa è stata ricostruita tra il 1868 e il 1870 su progetto
dell’ingegnere-architetto Filippo Messedaglia; il suo stile,
tra il barocco ed il rinascimentale, non è però di grand’attrattiva.
Nella zona di Negrar, grazie alle felici caratteristiche
dell’ambiente, sorsero in varie epoche diverse ville, tra
cui citiamo: Villa Bertoldi all’inizio della salita per Torbe, risalente alla seconda metà del XV secolo, con sette
grandi archi nel portico e con i corrispondenti quattordici
piccoli archi nella loggia del primo piano, con cinque fori
ovali nel granaio e con due torrette, una a destra ed una a
sinistra; Villa Ruffo (del 1510) in località Villa; Villa Gonella e la Sorte a S. Peretto; Villa Tommasi a S. Ciriaco;
Casa Sartori (del 1373); Villa Novare a Novare, in belle
forme classiche con particolari barocchi.
Nella piazza di Negrar si visiti il maestoso campanile,
datato 1101, in stile romanico, oggi monumento nazionale, che reca sul lato volto a sud un’iscrizione del XII
secolo lunga ben 62 righe (una delle più lunghe d’Italia).
La chiesa parrocchiale, pure in stile romanico, venne abbattuta intorno al 1800 e sostituita nel 1807 con l’attuale, costruita su disegno dell’architetto veronese Giuseppe
Piazza. Esteticamente rilevanti sono le quattro colonne
ioniche, con sopra un timpano, in mezzo al quale è scolpito un meraviglioso bassorilievo rappresentante Cristo
fra i dottori. Al centro del parapetto dell’altare maggiore
vi è un bassorilievo rappresentante la cena di Emmaus.
A questo punto, se siete stanchi dell’itinerario, bagnatevi
la gola con un buon bicchiere di «recioto» in un bar nei
pressi della chiesa; bevetelo con calma, guardatelo prima in controluce, annusatelo lentamente, assaporatelo in
bocca qualche secondo, carpendo quei gusti caratteristici:
Foto di Antonio Danieli
Lessinia
15
è eccezionale! Negrar è il principale centro vinicolo della
Valpolicella, con numerose cantine private ed una grossa
cantina sociale.
Scendendo da Negrar verso Verona, si prenda a sinistra
per S. Peretto dove è la chiesa di San Pietro, in stile romanico ma di scarso valore architettonico. All’interno,
oltre a pregevoli decorazioni, possiede un affresco gotico raffigurante San Pietro, ed una pala rappresentante
la Madonna col Bambino che dà la corona a S. Eugenio
e col ritratto del donatore, di pregevole valore artistico.
La chiesa era chiamata di San Pietro in Tomanighe. Tomanighe, termine che ha origine da una lingua più antica
della latina, ha fatto pensare agli abitanti del luogo che la
loro chiesa sia stata parrocchia ancor prima di quella di
Negrar. Il campanile in calcare, somigliante a quello di
Negrar, ha la base quadrata con lato di m. 3,60 ed è alto
26 m. Senza pina, con logge bifore, venne restaurato nel
1950, ed è oggi monumento nazionale.
Lasciato S. Peretto, si ritorni verso Verona e ci si fermi a
S. Vito; qui, posto vicino alla settecentesca trattoria «Villa Renzi», si trova il campanile romanico di S. Vito, privo
della sua chiesa originale. Oggi monumento nazionale, il
grazioso campanile è alto 25 metri, ed è stato ricostruito
con i suoi materiali originari nel 1952 da parte della Soprintendenza ai Monumenti, perché le ingiurie del tempo
l’avevano reso cadente. Possiede due logge bifore e la cuspide conica; l’attuale chiesa, attigua al campanile, è di
recente costruzione. Con S. Vito termina l’itinerario, e,
per Santa Maria di Negrar e Parona si ritorna a Verona.
14. La Lessinia delle grotte e del carsismo
Dalla strada statale per Vicenza, all’altezza di Strà di Caldiero s’imbocca la VaI d’Illasi, percorrendola nella sua
lunghezza fino a Selva di Progno. I fenomeni carsici in
questa valle sono poco numerosi e quelli conosciuti sono
praticabili solo con l’assistenza di speleologi. Ricordiamo
la Grotta Damati situata nei pressi di contrada Damati, in
comune di Tregnago. E’ una cavità che si apre nei calcari
dolomitici del Dogger (2° Giurassico, intorno a 150-160
milioni d’anni fa), in un complesso di cunicoli, camini
e fessure irregolarmente distribuiti, ed ha uno sviluppo
totale di metri 184.
Nell’alta Valle di Tramigna, sempre nel comune di Tregnago, vi è anche il Bus de le Fade, grotta che si apre nei
16
calcari dolomitici rosei, con un andamento discendente,
che si allarga all’interno in una sala circolare presentante
un duomo a volta. Ha uno sviluppo totale di metri 12.
Ad ovest del paese di Selva di Progno, si apre una valle
denominata «Valle del Covolo». Una strada la percorre
fino a Velo Veronese. In questa valle si trovano numerosi fenomeni carsici, quasi totalmente ubicati nella parte
alta e comunemente conosciuti con il nome di «Covoli di
Velo»; in effetti, la profonda incisione valliva ha evidenziato una serie di terreni stratificati che vanno dalle dolomie del Retico ai calcari del Cretaceo inferiore. Le grotte
principali sono i Covoli di Velo, grotte situate nel comune
di Velo Veronese ad una quota di 878 metri s.l.m. Si aprono sul fianco destro della Valle del Covolo, una trentina
di metri sopra un’antica mulattiera, ed hanno uno sviluppo complessivo di 525 metri. E’ un complesso di gallerie
scavate dall’acqua nelle dolomie del Lias superiore (circa
170-180 milioni di anni fa), costituite da ampi vani e da
un discreto numero di cunicoli, collegati da strozzature.
Nel periodo glaciale furono abitate dall’Orso speleo di cui
si sono trovati interessanti resti.
Sempre nel comune di Velo, a quota 925 metri s.l.m., si
trova la Grotta di Monte Gaole, che presenta uno sviluppo totale di 125 metri. Si apre, terrazzata, ai piedi di una
piccola falesia, quasi sull’orlo dell’incisione valliva del
fianco destro della Valle del Covolo; inizia con un’apertura subtriangolare di difficile accesso, da cui si dipartono
tre cunicoli.
Altra grotta che si apre sul fianco sinistro della Valle del
Covolo, ad una quota di 875 metri s.l.m., è la Tana delle
Sponde o Covolo de la Crose, che si trova alcuni metri
sopra la strada asfaltata e si sviluppa per 456 metri. La
grotta inizia con un ampio duomo di crollo comunicante
con l’esterno attraverso due aperture. Dal duomo iniziale
si dipartono alcuni cunicoli sovrapposti che alla fine si
ricongiungono.
Proseguendo fino a Velo Veronese, si prende la strada per
Camposilvano (1176 metri s.l.m.), centro situato in una
pittoresca conca circondata da dolci rilievi coperti da boschi di faggi, in cui è possibile visitare alcuni tra i più
caratteristici fenomeni carsici della provincia di Verona.
Qui si trova il Covolo di Camposilvano, a quota 1204
metri s.l.m., sempre nel comune di Velo Veronese. Il Covolo, profondo 83 metri, è un grandioso pozzo naturale
Lessinia
di crollo dalla forma ellissoidale con contorni molto accidentati, il cui asse maggiore è di circa 80 metri. Il pozzo è
sventrato per breve tratto nella parete sud da una vallecola
che vi s’insinua con forte pendio. Proseguendo nell’entrata, s’incontra un potente conoide detritico che parte dalla
parete sud-ovest e scende ad invadere il pavimento della
cavità ipogea residuale che si apre a nord.
Nella parete nord, lateralmente e ad un livello inferiore al
vertice dell’enorme conoide di frana, si apre una spaziosa
caverna: cavità di relitto di un preesistente salone crollato. Infatti, il Covolo di Camposilvano originariamente era
una grotta dovuta all’erosione dell’acqua sul calcare, la
cui volta sprofondò in parte. Il Covolo ha attirato in ogni
tempo l’uomo per l’imponenza delle sue pareti verticali
e per l’orrida visione della caverna, che, vista dall’alto
della conoide, semibuia com’è, sembra addentrarsi ancor più nelle viscere della terra. Per le sue caratteristiche
morfogenetiche, il Covolo ha destato l’interesse d’insigni
naturalisti (Massalongo, Nicolis e Pasa). La caverna ipogea è una grotta di tipo freddo per l’ingresso in discesa, e
presenta un’eccezionale formazione di ghiaccio (stalagmiti, colate, lastre) in primavera e di nuvole che danno
precipitazioni nevose ed acquee, in estate. In tale stagione, la grotta funziona come un vero e proprio frigorifero
(usato in passato dai montanari, per la conservazione della carne), poiché l’aria fredda che nella stagione invernale
scende in basso si conserva anche con la stagione calda.
Nei pressi del Covolo vi è la Valle delle Buse, meglio
conosciuta come Valle delle Sfingi, caratterizzata dalla
presenza di grandi doline e di monoliti carsici a forma di
fungo, meta di notevole turismo anche scolastico.
Sull’alto bordo occidentale della dolina di crollo del Covolo degli Storti a Camposilvano si trova il Monolito
Carsico a fungo, caratteristico fenomeno d’erosione carsica di superficie. E’ facilmente individuabile perché si
trova sulla destra della strada che conduce alla Conca dei
Parpari, subito dopo l’albergo Camposilvano.
Per concludere la visita a Camposilvano resta da visitare
l’interessante Museo dei Fossili, allestito e diretto da Attilio Benetti vicino al Covolo di Camposilvano. Il Museo
comprende bellissimi esemplari d’ammoniti dalle forme
più diverse.
Da Camposilvano si prende la strada che porta a San
Francesco, pittoresco e ridente paese della Lessinia, e si
arriva a Roverè Mille, dove si apre l’unica grotta turistica della nostra provincia. La Grotta di Monte Capriolo o Grotta Roverè Mille, situata nel comune di Roverè
Veronese a quota 1010 s.l.m., presenta uno sviluppo di
132 metri. Inaugurata nel 1972, è meta continua di turisti
e scolaresche, che con un percorso interno di circa 200
metri, ben attrezzato ed illuminato, possono avere una visione completa dei vari fenomeni che offre il mondo sotterraneo (bellissime stalagmiti, stalattiti e colate di calcite
bianca). La grotta è d’origine carsica, come dimostrano
tipiche concrezioni. E’ formata da due grotte comunicanti: l’accesso è un tipico pozzo di crollo. Conclusa la visita
alla grotta turistica, si prende la strada di ritorno verso la
città, percorrendo la Vai Squaranto. Una strada sinuosa
e stretta segue in tutta la sua lunghezza questa valle, che
resta una delle più belle valli della Lessinia (nonostante
l’inquinamento d’alcune porcilaie).
15. La Lessinia delle tradizioni e del folclore
Provenendo da Verona sulla S.S. 12 per Vicenza, all’altezza di Caldiero si prenda a sinistra, entrando nella Val
d’Illasi, la più importante tra le valli delle Prealpi Venete,
percorsa dall’omonimo «progno». Ampia all’inizio, dopo
Tregnago, la valle si restringe e presenta ripidi fianchi
modellati nel calcare, nel tratto superiore. I primi comuni
che s’incontrano, Illasi e Tregnago, hanno un’economia
prevalentemente agricola, con ampie coltivazioni di cereali e di ciliegi, oltre a vasti vigneti che danno dell’ottimo
vino (famosa è la cantina sociale d’Illasi).
Ad Illasi meritano una visita villa Carlotti, già Pompei,
edificata nel XVII secolo dall’architetto Pellesina ed in
seguito abbellita ed ingrandita da Alberto ed Alessandro
Pompei. La Villa è costituita da un avancorpo centrale,
con pronao e quattro colonne, che presenta un frontone
ornato da belle statue; lateralmente, due porticati la collegano con due piccole torri d’epoca anteriore. All’interno
vi sono varie sale con affreschi del Balestra rappresentanti soggetti mitologici ed alcuni quadri di paesaggi d’Illasi,
dipinti nel settecento dal Porta.
Altra interessante villa d’Illasi è la Sagramoso-Perez,
che si presenta a noi con l’aspetto datole all’inizio del
1700 dall’architetto Pozzo. Molto belle sono la loggia,
le scuderie e la cantina, oltre alle varie stanze affrescate
soprattutto da pittori della scuola del Balestra. Dei primi
17
dell’Ottocento è il vasto parco (30 ettari), che comprende
i ruderi del castello medioevale d’Illasi. Il castello venne
costruito dai Montecchi e passò poi ai Pompei nel 1200;
distrutto e riedificato varie volte, vide molti assedi fino al
1517 quando venne infeudato ai conti Pompei. Una tragica vicenda è legata al castello: nel dicembre del 1592, la
contessa Ginevra Serego degli Alighieri, moglie del conte Girolamo Pompei, improvvisamente presa dal rimorso
per aver tradito il marito con Virginio Orsini, grazie alla
complicità del servitore Gregorio Grifo, confessò l’infedeltà al marito il quale fece subito venire il servitore per
appurare la verità. Il Grifo fu costretto a confessare e venne ucciso a pugnalate: fin sulla strada «si sentì il sassinamento et una voce che disse “o Jesu”... et il Conte lo fece
strapegar nel brolo fuori della corte...». Epilogo della vicenda fu la morte dell’amante Orsini, decapitato per questioni politiche a Roma e la morte della contessa Ginevra,
murata viva in una stanza del castello (il suo scheletro,
carico di catene, venne ritrovato ai primi dell’Ottocento).
A Tregnago sono da visitare i ruderi del castello risalente
al XII sec., con un raro esempio di torre pentagonale, la
chiesetta della Disciplina del sec. XIII che conserva alcuni interessanti affreschi, la villa Ferrari Delle Spade, molto rimaneggiata nel tempo, ma che conserva ancora un bel
loggiato murato ed un secolare parco, e la villa Cavaggioni, già Franchini, che presenta una costruzione a quattro
piani con un ampio poggiolo e con dipinti architettonici
sulla facciata.. Da vedere è anche la caratteristica pianta
monumentale, detta «la roara», posta a sud-est del paese.
Proseguendo nella valle, a Cogollo, frazione di Tregnago,
si trova il fiorente artigianato del ferro battuto.
Si giunge quindi a Badia Calavena, centro prevalentemente agricolo (cereali, foraggi per allevamento, ciliegie,
castagne), situato alla sinistra del progno. La storia di
questo comune affonda le sue radici in epoca preistorica
(si sono rinvenuti, infatti, dei manufatti dell’età del ferro).
Nel secolo XI appartenne ai Vescovi di Verona che vi fecero costruire un castello ed in seguito un monastero, che
ebbe la giurisdizione della zona per alcuni secoli.
In seguito, Badia fu uno dei XIII Comuni del Vicariato della montagna. Da visitare sono i resti del chiostro
dell’Abbazia, risalente al XV sec. e quelli del castello situato sul colle di San Pietro e risalente al 1050. Da Badia
si prenda a destra per Vestenanova, centro situato nella
18
Val d’Alpone, al confine con la provincia di Vicenza. A
Vestenavecchia si visitino i ruderi di una chiesetta duecentesca.
Si prosegua quindi per Bolca e, prima di entrare nell’abitato, è d’obbligo una visita alla «Pesciara», cava in cui
si estraggono i fossili (pesci e piante), che sono divenuti
famosi in tutto il mondo (per primo, nel 1552, salì a Bolca
per studiare i fossili, il botanico A. Mattioli; in seguito
anche Napoleone volle alcuni fossili, mentre Francesco I
d’Asburgo nel 1817 soggiornò per tre giorni nella zona,
per scegliere i pesci fossili). L’area di Bolca viene fatta
risalire all’Eocene inferiore (circa 50 milioni d’anni fa),
quando era costituita da un bacino di mare tropicale, chiuso da un’isola corallina.
Varie sono le ipotesi di formazione dei fossili. Sembra in
ogni modo, giacché tutti i tipi di fossili conservano persino la loro colorazione originaria, che la morte di questi
organismi sia stata molto rapida e sia avvenuta in ambiente tale da non produrre putrefazione. Forse vi fu un eccessivo sviluppo di plancton che rese l’ambiente asfittico.
Sempre nei pressi di Bolca, altre località sono ricche di
fossili, come il Monte Postale e il Monte Purga. Nel centro abitato è di notevole importanza culturale il Museo
dei Fossili, curato da Massimiliano Cerato, che presenta
una serie di pesci fossili ed una storia delle vicende naturali della zona che portarono alla formazione dei fossili.
Riprendendo l’itinerario, si arriva a San Bortolo delle
Montagne, frazione di Selva di Progno e centro agricolo
dell’alta Val d’Illasi, situato nell’altipiano dei Tredici Comuni. E’ l’antico San Bortolomio Tedesco, uno dei XIII
Comuni. In questa località si cerca di mantenere viva una
delle tradizioni più tipiche della Lessinia: «i trombini». Si
tratta di fucili particolarmente elaborati e dal peso notevole (circa 50 Kg.), che derivano dagli archibugi del XVIIXVIII secolo. Armi ad avancarica, presentano una canna
poligonale ad anima liscia, arricchita da decorazioni e da
fregi in ottone ed argento, terminante con la bocca svasata
a campana. Il calcio, in legno spesso di noce, è pure decorato alla base, ed è completato da una maniglia, dal cane
e dal grilletto per l’accensione. L’uso del «trombino» richiede una certa esperienza: si carica versando polvere
nera nella canna e comprimendola con asta e mazza e si
spara accompagnando il forte rinculo con un mezzo giro
del busto per non essere gettati a terra. Lo sparo è molto
Lessinia
fragoroso e fumoso, ed è sinonimo di festa. Bello è anche il cerimoniale che precede lo sparo, con la sfilata dei
«trombini», lo schieramento ed il caricamento. I «trombini» si sparavano e si sparano ancora durante il «Gloria»
del sabato santo e durante le feste locali.
Ritornando nel fondovalle, si giunge a Selva di Progno,
centro agricolo (foraggi, patate), situato a 570 metri s.l.m.
E’ l’antica Brunge cimbrica che conserva nel suo territorio vari esempi d’arte popolare, scultura e pittura. Da
vedere è la chiesetta di San Domenico che possiede un
dipinto del Cavazzola.
Proseguendo lungo il fondovalle si arriva a Giazza, paese
situato alla confluenza delle valli di Revolto e di Fraselle, a 758 m. s.m. L’antica Ljetzan cimbrica, specie negli
ultimi anni, ha assunto una considerevole importanza,
ad opera soprattutto di mons. Giuseppe Cappelletti (qui
nato), come ultima isola linguistica tredicicomunigiana;
anzi vi si parla ancora oggi l’antico dialetto «Taucias gareida». A Giazza vi è un interessantissimo Museo etnografico che raccoglie strumenti usati dagli antichi abitanti
bavaro-tirolesi (cimbri) della zona tredicicomunigiana,
per le loro attività (lavorazione del ferro, delle granaglie,
del latte e del legno), nonché una serie di calchi di sculture popolari ed una ricchissima biblioteca sul folklore e sul
linguaggio cimbrico. Sopra il Museo, il maestro Fabris
tiene un corso di linguaggio cimbrico che è dotato di una
grammatica semplice ed è una parlata più dolce della lingua tedesca. Anche la corale della chiesa ha un repertorio
di canti nell’antica lingua. Oltre Giazza si può arrivare al
rifugio Revolto (1320) tra bei boschi di conifere e da qui
si possono effettuare alcune interessanti escursioni al rifugio Scalorbi (1770), al rifugio Fraccaroli (2237) ed alla
cima del gruppo del Carega (2259), seguendo vari sentieri
segnati.
16. Roverè - Camposilvano
A Roverè è visitabile il sabato e la domenica nei mesi
estivi la «Grotta Mille». (Le comitive possono visitarla
anche in altri giorni e nei mesi invernali rivolgendosi alla
Pro Loco di Roverè). È ricca di concrezioni calcitiche ed
attrezzata per la visita turistica.
A Camposilvano di Velo Veronese meritano di essere visitati la Valle delle Sfingi, formata da suggestivi allineamenti di monoliti carsici, il Covolo degli Storti e del Brut-
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to, con il fungo roccioso, i ripari e le doline di crollo, ed il
Covolo di Camposilvano, costituito da un enorme pozzo
di crollo e da un’ampia cavità ipogea residuale. Presso il
Covolo, e stabilmente aperto al pubblico, sorge il Museo
dei Fossili.
In località Gaspari, tra Camposilvano e i Parpari, c’è un
espressivo paesaggio di monoliti carsici e città di roccia.
Sul Bellocca e in località Campo Rotondo si possono osservare colate laviche basaltiche, il cui colore nero contrasta certamente con il bianco vivo del Cretaceo inferiore. Tra la località Parpari e San Giorgio si rinvengono
numerose piccole e grandi doline.
Tutto il paesaggio dell’alta Lessinia è caratterizzato dalla
diffusa presenza di città di roccia, costituite da solchi diaclasici, modellati nei duri e marmorei calcari del Rosso
ammonitico. Sempre nella zona dei Parpari è possibile visitare la Grotta della Volpe, detta anche Grotta dell’Arena.
Nel Vallone, situato tra il Monte Malera e Castel Gaibana, si apre la grande e profonda Voragine del Vallone, sul
cui fondo si conserva anche d’estate la neve. Il Vallone
termina in alto decapitato sull’Orrido dei Ronchi, da cui
si domina in particolare la Valle omonima, il Gruppo del
Carega, l’alta Vai d’Illasi ed il Passo Pertica.
Una località particolarmente interessante per le , «città
di roccia» è la VaI Marisa, che s’incontra percorrendo la
strada San Giorgio-Boscochiesanuova. Come si è detto,
un aspetto veramente caratteristico in tutta la media ed
alta Lessinia è l’originale architettura delle case, delle
contrade e delle malghe, basata sull’uso delle dure, lastriformi e versatili rocce della pietra di Prun e del Rosso
ammonitico, sia nelle strutture murarie, sia nei tetti.
17. Sengia Sbusa - Colombare - Ponte di Veia
Spluga della Preta - Grotta del Ciabattino
La Sengia Sbusa è situata nell’alto versante occidentale
della Valpolicella. Si può arrivare in automobile nelle sue
immediate vicinanze sia da S. Peretto di Negrar, sia da
Montecchio. È uno dei tanti monoliti carsici presenti nella
zona. Si chiama «sbusa» perché nella sua parte sommitale si apre un piccolo antro. Sul Iato orientale si nota un
enorme solco carsico parietale. Il complesso carsico è abbellito dalla presenza di un altro grande monolito, da vari
ripari sotto roccia e da un arco naturale. Il potente strato
calcareo che ospita tutte queste morfologie è d’età medio-
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eocenica e poggia su una consistente colata lavica basaltica sottomarina, la cui friabilità facilita l’arretramento, per
crollo, della massiccia bancata calcarea sovrastante.
Un analogo complesso calcareo eocenico, ricco di morfologie carsiche, è quello delle Colombare, situato poche
centinaia di metri a nord della Sengia Sbusa. Esso è famoso come stazione preistorica del periodo eneolitico (circa
5.000 anni a.C., all’inizio della civiltà dei metalli).
Il Ponte di Veia si può raggiungere in automobile ed in
pullman attraverso la Valpolicella, seguendo preferibilmente la strada Fane-Schioppo-Giare. Il Ponte di Veia è
un grandissimo ponte naturale, costituito dall’architrave
d’ingresso di un antico cavernone carsico. L’architrave è
rimasto isolato in seguito ai crolli progressivi della volta
centrale della caverna. I piloni del ponte sono costituiti
da calcari mal stratificati, fittamente fessurati e solubili,
che i geologi indicano con il nome di calcari oolitici del
Dogger, mentre il tratto superiore dell’arcata è costituito dai calcari lastriformi del Rosso ammonitico, dotati
di una grande capacità portante. Il Ponte è un fenomeno
carsico ricco di morfologie. Esso e, infatti, accompagnato
da grotte, ripari e cascate, massi di frana, solchi carsici e
da un grande pozzo di crollo. La Grotta A di Veia, che si
apre sul Iato settentrionale del Ponte, sotto la protezione
dell’arcata, è un chiaro esempio di grotta di tipo caldo.
Essa, infatti, ha l’ingresso in basso e si sviluppa in leggera salita. L’aria fredda invernale, essendo più pesante di
quella contenuta nella grotta, non può penetrarvi, mentre
quella calda e più leggera estiva può farlo. La disposizione in salita favorisce l’accumulo del calore geotermico,
proveniente dagli strati calcarei sottostanti.
Il Ponte di Veia ha fornito molti reperti fossili di mammiferi del periodo Quaternario, e testimonianze della presenza dell’uomo fin dai più lontani tempi della preistoria.
La Spluga della Preta si raggiunge in automobile seguendo la strada che parte da Fosse. È uno dei più profondi
abissi carsici del mondo. Si apre in superficie con una dolina ad imbuto larga 18 m e profonda 15. La seguono poi
tre grandi pozzi verticali, profondi rispettivamente 131,
108 e 88 m. A circa 400 m dalla superficie, si incontra
un lungo stretto cunicolo oltre il quale segue una serie di
sale, gallerie e pozzi minori, fino a toccare la profondità
di 876 m. Oggi sappiamo che i primi grandi pozzi della
Spluga della Preta si sono formati alcuni milioni di anni
Lessinia
or sono, quando la situazione topografica della zona era
assai diversa da quella attuale. La dolina ad imbuto che dà
accesso all’abisso si è invece formata recentemente.
A soli 200 m a sud-ovest dell’ingresso della Spluga della Preta si apre la grande Grotta del Ciabattino, che ha
un’origine analoga a quella della Spluga, ma che rispetto ad essa rappresenta uno stadio più avanzato. All’inizio
della primavera presenta nel suo interno, nei punti di stillicidio, numerose formazioni stalagmitiche di ghiaccio e
durante l’estate offre a lungo il fenomeno delle fumate,
dovuto alla condensazione del vapore acqueo contenuto
nell’aria esterna, che a contatto con l’aria fredda interna,
raggiunge il cento per cento di umidità relativa. Le stalagmiti di ghiaccio si formano perché la grotta, avendo l’ingresso in alto, è di tipo freddo. L’aria esterna fredda e pesante penetra d’inverno nel fondo della caverna, formato
da massi di crollo e lo trasforma in un frigorifero naturale.
18. Badia Calavena
I primi dati sicuri risalgono al 1040 (ma sono stati trovati reperti anche risalenti all’età del Ferro); nel secolo XI
fu sotto la giurisdizione dei Vescovi di Verona, e l’allora vescovo germanico Walterio fece costruire un castello
(1037-52) sul colle San Pietro distrutto nei periodi successivi.
Sulle sue rovine fu costruito un Monastero, i cui possedimenti si estesero rapidamente, abitato dai monaci tedeschi
dell’Ordine di San Benedetto. Nel 1185 Papa Lucio III
visitò la costruzione e nell’occasione consacrò la Chiesa.
Il nome di Badia Calavena è forma accorciata dell’espressione badia di Calavena (o badia della Calavena). Con essa
s’indicò la celebre abbazia sul colle di San Pietro; com’è
noto, badia è sinonimo di abbazia. I cimbri chiamano il
paese Kam’Abato, che letteralmente significò “dall’abate”; si tratta di un ibrido cimbro-veronese, composto da
Kame “presso il” e dell’antico venabado pronunciato alla
tedesca. La suddetta abbazia fu detta della “Calavena”
perché fondata nel territorio detto Calavena, ampio tratto
della vallata che andava da Tregnago fino all’attuale Badia ed oltre.
In un atto del 10 gennaio 1333 si cita una lite tra il monastero e gli abitanti di Badia, per questioni di pascoli e
di terreni. Nel 1390 i montanari della zona seppero respingere le truppe di Carraresi. Il paese svolse un ruolo
importante nella storia dei XIII Comuni e nel 1405 passando dalla Signoria di Verona alla Repubblica Veneta,
unendosi agli altri comuni dei monti Lessini, dà vita al
“Vicariato della Montagna dei Tedeschi o del Carbòn”.
Altre liti con il monastero si ebbero nel ‘500, quando gli
abitanti cercarono di sfruttare la decadenza dell’Abbazia.
Nel 1797 sotto il dominio francese, Badia Calavena diventa centro del “Distretto della Montagna”. Tra gli episodi rimasti ne/la tradizione popolare del paese, vanno
ricordati, in particolare, la peste del 1630, il disastroso
terremoto del 1892, che fortunatamente non provocò vittime, e l’inondazione, dovuta allo straripamento del Progno, nel 1882.
L’Abbazia, nome dal quale deriva quello di Badia Calavena, è stata costruita tra il 1424 e il 1435 dall’abate veronese Maffeo Maffei, ricco nobile e giovane (due anni)
abate di belle speranze che, in effetti, lasciò solo dopo
nove anni Badia per la meno solitaria abbazia di San Fermo Minore, a Verona. Il monastero maffeiano, che ingloba anche edifici più antichi e si apre sulla piazza del paese, veniva a sostituire la più antica sede, che già intorno
all’anno Mille sorgeva sulla vetta del Monte San Pietro e
di cui oggi rimangono solo poche tracce. Il complesso fu
poi ceduto alla Congregazione di Santa Giustina di Padova e alla Congregazione Benedettina di San Nazaro di
Verona. L’edificio, a pianta quadrata, sorge intorno ad un
chiostro di cui resta solo il lato meridionale, la facciata
cioè della canonica “tanto ammirata per la su gentilezza
di disegno”. Quanto resta ora del monastero è rovinato
dal tempo, dalle guerre, dai terremoti e dall’incuria; il
lato sud è una casa colonica, quello ovest un’abitazione.
Si deve poi aggiungere la dispersione, anche di recente,
di arredi preziosi e la distruzione di carte del ricchissimo
archivio, sia perché trasferite presso l’Archivio di Stato,
sia perché andate smarrite.La chiesa parrocchiale invece
fu costruita nella prima metà dell’Ottocento, e ospita dipinti dell’Orbetto: una tela con la Vergine tra San Carlo e
Sant’Antonio e del Cavazzola.Sul territorio sono numerose le sculture e le pitture, realizzati grazie alla fede
ed alla pietà religiosa degli antenati, tra cui una colonna raffi-gurante la Vergine con il Bambino a Valcasara di
Sotto, un’edicola murata ai Sàntoli con la raffigurazione
di un Crocefisso tra due Marie.Numerosi affreschi si trovano sull’esterno ed anche all’interno delle abitazioni, in
21
particolar modo a Sant’Andrea.
19. Bosco Chiesanuova
Il Comune di Bosco Chiesanuova ha una superficie di 65
kmq e confina con i Comuni di Roverè, Cerro, Erbezzo e,
a Nord, con la provincia di Trento. E’ suddiviso in altre
quattro frazioni geografiche: Valdiporro, Corbiolo, Arzerè
e Lughezzano, che circondano il Capoluogo. Inoltre, nel
Comune esistono molte contrade, alcune abitate: se ne
contano circa duecentocinquanta. L’importanza di Boscochiesanuova deriva dalla sua posizione strategica rispetto
ad altri territori della Lessinia Centrale, la cui economia,
una volta silvo-pastorale, si è riqualificata in ambito turistico in quest’ultimo periodo. Infatti, il paese si estende su
un altopiano circondato da cime elevate (Corno d’Aquilio, m. 1546; Castelberto, m. 1757; Monte Tomba, m.
1767; Monte Carega, m. 2130; Castelgaibana, m. 1805)
che rendono i luoghi adatti. alla villeggiatura, sia estiva
sia invernale.
La Lessinia ha incominciato a popolarsi ancora nel paleolitico, come dimostrano molti reperti ritrovati a Lughezzano, a San Giorgio e in altri luoghi. Nel Medioevo, si
stabilirono qui popolazioni d’origine tirolese, denominate
“cimbre”: ma questo nome non definisce una provenienza geografica, bensì caratterizza la presenza di numerosi
“zimbar”, cioè spaccalegna, che parlavano un antico dialetto tedesco, ancora oggi presente nella cultura popolare
degli abitanti l’area dei “Tredici Comuni”.
Sempre nel Medioevo, la “Frizzolana”, antico nome della
zona su cui si trova l’attuale Boscochiesanuova, (detta anche “Montagna del Carbon” per l’industria che vi si esercitava), era sotto la giurisdizione del Vescovo di Verona e
dei monasteri di Santa Maria in Organo e di San Zeno. Nel
1218, i Canonici dotarono la Frizzolana di uno Statuto. In
seguito passò sotto la dominazione degli Scaligeri, che
favorirono l’immigrazione di gruppi di Bavaro-Tirolesi.
Nel 1326, Cangrande della Scala concesse alcune esenzioni di tributi alla zona Frizzolana in cambio della sorveglianza sui confini tra i centri citati: nel documento compare anche Bosco-Frizzolana, antico nucleo di Bosco. Nel
1375 fu edificata la chiesa di S. Margherita e, nel 1501, la
nuova chiesa in centro al paese, che divenne parrocchiale
e assegnò il nome a Bosco “Chiesanuova”. Il Comune era
amministrato dal Massaro, antico “Sindaco”, e da quattro
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Consiglieri, uno per ciascuna frazione territoriale; esso
includeva anche la parrocchia di Erbezzo, che divenne
Comune a sé solo nel 1621. Fino al 1796 la Frizzolana
fece parte del Vicariato della Montagna Veronese; in seguito, il territorio di Chiesanuova passò sotto il dominio
napoleonico e, dopo il Congresso di Vienna, sotto l’Austria. Nel 1866 il confine a nord di Bosco tornò ad essere
confine di Stato, a seguito dell’annessione del Veneto al
Regno d’Italia con la terza guerra di indipendenza. Esistono ancora i “cippi di confine”, posti sull’area nord e
numerati progressivamente.
Lo sviluppo di Boscochiesanuova è incominciato verso la
fine del 1800: a sancire la vocazione turistica del territorio, è sorta nel 1928 l’Azienda di Soggiorno, oggi Azienda di Promozione Turistica. Durante la seconda guerra
mondiale la popolazione del Comune aumentò in misura notevole, per la presenza di numerosi sfollati, che si
stabilivano nelle zone rurali dove era più facile sfuggire
ai bombardamenti e approvvigionarsi di cibo. Dagli anni
‘50, invece, si assiste ad un graduale spopolamento della
zona, perché l’economia rurale non offriva più lavoro per
tutti; oggi la popolazione si è stabilizzata, dato anche il
nuovo assetto turistico della zona che garantisce un’economia in sviluppo.
La Chiesa di Santa Margherita. E’ situata all’inizio del
paese e risale probabilmente alla fine del XIV secolo;
sembra che in essa possa riconoscersi la “Ecclesia Nova”,
concessa agli abitanti di Vallepurri, attuale Valdiporro, per
consentire il distacco dalla parrocchia di Roverè, posta al
di là del Vajo di Squaranto, che fino al ‘700 vantò il diritto
di venire in processione a Santa Margherita per riscuotere
un tributo. La festa di Santa Margherita si celebra ancora oggi il 20 luglio. La chiesa è di fattura semplice con
soffitto a capriate all’interno e un presbiterio a crociera
sottolineato da nervature in “rosso ammonitico”, pietra
locale. Molto interessante l’altare, formato da un blocco
unico di pietra scolpita in bassorilievo, con una croce con
i bracci che si allargano in un fiore, motivo che si ritroverà per secoli nelle varie croci in pietra e ferro della Lessinia. Dietro l’altare c’è un quadro di Santa Margherita,
Santa particolarmente venerata dai Cimbri. La campana
di bronzo della chiesa è custodita all’interno del Museo
Civico; su di essa c’è un’iscrizione in latino distribuita su
due fasce: “Mentem sanctam spontaneam (obtulit) hono-
rum Deo (dedit) et patriae liberationem (imperavit)” (offrì
mente santa e spontanea, diede onore a Dio e ottenne la
liberazione della patria). Il soggetto è Sant’Agata, martirizzata sotto l’imperatore Decio e diventata poi patrona
dei campanari. Nella fascia inferiore sono presenti la data
MCDXXV (1425) e dei motivi decorativi: i fiori di cardo,
tipici dei lanaioli, l’agnello pasquale e il levriero simbolo di fedeltà. Tali motivi richiamano anche la principale
attività praticata allora nell’alta Lessinia: la pastorizia e
la produzione della lana.La Chiesa di Sant’Antonio Abate. Si trova nella frazione di Valdiporro, il più antico nucleo abitativo del Comune. Nella sacrestia della Chiesa, è
conservata la più antica tavoletta con crocifissione che si
conosca, un tempo ubicata in una cappellina in Contrada
Pezzo. E’ un pregiatissimo pezzo d’arte popolare, risalente al 1513, che rappresenta il Cristo crocifisso appoggiato
direttamente sulla tavoletta stessa, senza la croce; in basso, ai lati, sono presenti le figure di due oranti con le mani
giunte senza la bocca, disegnata solo sul Cristo. E’ probabile che questa crocifissione sia servita da modello per
altre sculture similari, diventate un tema tipico dell’arte
popolare in Lessinia.Il Museo etnografico “La Lessinia:
l’uomo e l’ambiente”, aperto nel 1981.
Foto di Gehadad
Lessinia
20. Cerro Veronese
Il comune di Cerro Veronese si estende su di una superficie di 10,17 kmq ed ha una popolazione di 1979 abitanti
(fine 2000).
Il nome “Cerro” fa riferimento all’omonimo albero, che si
trova nella piazza principale, anche se in realtà la quercia
di Cerro non è propriamente un cerro ma una querciasughera (Quercus crenata). Il nome Cerro si è sostituito
nel. XV sec. al precedente (Alfera), di difficile interpretazione. Le prime testimonianze della presenza umana nel
territorio di Cerro, risalgono al Paleolitico inferiore (oltre
100.000 anni fa) e medio con alcuni ritrovamenti di pietre
e selci lavorate, tra cui un manufatto in selce rinvenuto
nel vajo del Trotto. Del periodo Neolitico ed Eneolitico
(da 4500 a 1800 anni a.C.) restano alcune testimonianze
sul dosso di Caramalda, tra cui alcuni frammenti di vaso,
e nella Grotta del Mondo. Nel dosso della Nasa sono stati
rinvenuti manufatti in selce, attribuibili ad un insediamento di circa 4000 anni fa (cultura campignana) precedente
l’età del bronzo. Non vi sono attualmente testimonianze
23
dell’Età del bronzo e del ferro.
In epoca romana e fino al Mille sembra che la maggior
parte del territorio di Cerro fosse disabitato. Nel X sec. tra
il vajo di Squaranto ed il vajo dell’Anguilla si estendeva
la Frizolana (attestata per la prima volta in un documento
del 921), ricoperta da rigogliosi boschi di roveri e carpini
nella parte meridionale, utilizzati per il taglio del legname
e per la produzione di carbone da legna.
Cerro è citato per la prima volta in un diploma di Ottone
I del 970 come Silva Alferia, bosco da sfruttare da parte
dei coloni di Azzago, dipendenti dal Monastero di Santa
Maria in Organo. Altre attestazioni sono in diplomi di Enrico II del 1014 (Montem qui dicitur Alferia), di Corrado
II del 1027, e di Enrico III del 1047 (Monte qui dicitur
Alferia) nei quali la zona è affidata in gestione e confermata al Monastero di San Zeno. Anche un diploma del
1163, di Federico I, conferma i beni del montem Alferie
all’abate di San Zeno. Nel XII-XIII sec. La parte più meridionale della Frizolana (così era chiamata l’attuale zona
a sud di Bosco Chiesanuova) era dipendente dai canonici
della curia di Verona che la davano in affitto a lavoratori
della Valpantena: si tratta di località poste nel basso vajo
dell’Anguilla (Valbusa, Calavedo, Lughezzano) o nel vajo
della Barbana (Arzerè, Prati, Corbiolo). Infatti, nel 1185 i
confini meridionali toccano la Fontana del Termine, il ceredum (forse un bosco di cerri) ed una croce di Squaranto.
I boschi della zona di Cerro erano sfruttati in questo periodo per ricavare legname e carbone da legna, ma si iniziavano anche a costruire calcare per la produzione di
calce, mentre a partire dal XV sec. inizia la produzione e
commercializzazione del ghiaccio.
È solo agli inizi del XV sec. che popolazioni di origine bavaro-tirolese, insediatesi dapprima nella zona di Roverè,
andarono a colonizzare anche alcune località occidentali
della media Lessinia quali Cerro: inizia così la penetrazione cimbra del territorio di Cerro, con la formazione
di numerose contrade. Il comune di Alferia nasce negli
ultimi decenni del XIV sec. e la sua prima attestazione
è del 1394, in una supplica ai Visconti per l’esonero del
pagamento del dazio sul sale. Nel 1408 il comune acquista una taverna con terreno dalla Repubblica di Venezia,
mentre chiede ripetutamente esenzioni sul dazio del sale
e della lana nella prima metà del Quattrocento.
La prima rappresentazione cartografica del territorio di
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Cerro è nella cosiddetta carta dell’Almagià, attribuita al
1460-65, che rappresenta el cero con una chiesa, alcuni
edifici, una pozza d’acqua ed un albero, nonché la contrada vale fondrina (Foldruna) con due edifici. Proprio intorno alla metà del XV sec. si comincia a parlare di Cero
e non più di Alferia. La prima chiesa, probabilmente una
cappella dipendente dalla pieve di Grezzana nel XIII sec.,
sarà sostituita nel XIV sec. da una cappella intitolata a
San Osvaldo, officiata da sacerdoti di Roverè o di Chiesanuova.
La Cappella del Redentore. A pochi passi dal centro, sul
Monte della Croce, sorge una caratteristica costruzione
ottagonale visibile da buona parte della provincia di Verona che è un po’ il simbolo di Cerro: è la cappella dedicata al Redentore, costruita nel 1900 (e consacrata da
Leone XIII a Cristo Redentore) per volere del parroco e
degli abitanti del luogo, in sostituzione di una croce preesistente. Nell’interno della cappella dietro all’altare (su
cui spicca una tela di buona scuola) è stata ricavata una
scaletta, con la quale è possibile raggiungere la balconata
superiore la cappella stessa. Qui si può apprezzare uno
dei balconi naturali più grandiosi della Lessinia: l’occhio
spazia per 360 gradi fino ad intravedere, nelle giornate
limpide, i grossi centri della pianura, i gruppi montuosi
oltre il Garda e, in particolari condizioni di trasparenza,
la catena dell’Appennino settentrionale.Il cerro. A fianco
della parrocchiale si erge una grande pianta, la secolare
cerro-sughera (Quercus crenata o pseudosuber), che conta
non meno di tre secoli: grande dunque ma anche vetusta,
con la sua circonferenza di ben quattro metri, alta oltre i
19 metri ed una chioma maestosa. Trattasi di una pianta rara, quercia sempreverde forse dovuta ad ibridazione
che fiorisce in aprile-maggio e con ghiande presentanti
una cupola con squame dall’apice ricurvo. Le foglie sono
coriacee, di colore verde scuro nella pagina superiore e
biancastro nella pagina inferiore, leggermente pubescente. La corteccia è rugosa e sugherosa. Questa pianta ha
dato l’attuale nome al Comune.
21. Erbezzo
Antico comune cimbro, Erbezzo è un grazioso centro
climatico della Lessinia, posto a 1118 metri d’altitudine.
Gran parte del suo territorio è inserito nel Parco Naturale
Regionale della Lessinia. Ricco di sterminati e verdi pa-
Lessinia
scoli montani, è un paese ad economia mista, che si regge
su due settori: uno, molto prospero, costituito dall’allevamento del bestiame da latte, ed un altro emergente, il
turistico, che può contare su un ambiente naturale fra i più
belli della Lessinia.
Chiuso ad est e ad ovest dal Vajo dell’Anguilla e dal Vajo
dei Falconi, lascia Verona a sud e confina a nord direttamente con il Trentino con il quale ha in comune molte
bellezze paesaggistiche. Il suo territorio è molto vario e
si sviluppa tra i 700 e i 1765 metri di Castelberto, la sua
punta più alta, una roccia molto caratteristica a picco sulla
VaI d’Adige. Da qui parte un’importante e rinomata pista
per lo sci nordico, la Translessinia, che si estende per 18
km. sino a raggiungere la località di San Giorgio. Erbezzo
è un luogo di soggiorno ideale per gli appassionati della natura, che possono riscoprire il piacere del contatto
diretto con un ambiente incontaminato, dove le stagioni
hanno mantenuto intatti i colori intensi e forti in tutta la
loro prepotente e selvaggia bellezza.
Inoltre questa località consente agli animi più romantici di
andare a spasso nel tempo, facendo rivivere usi, costumi
e tradizioni artigianali antiche: proprio nel periodo estivo
dell’alpeggio, è possibile assaggiare il tipico formaggio
Monte Veronese, il burro e la ricotta, prodotti ancora nelle
malghe, come una volta. Per gli sportivi non mancano i
motivi d’interesse: il nuovo Palasport è pronto ad ospitare gli atleti del Volley, del Basket o anche del Calcetto
a cinque. Per chi, invece, vuole fare sport all’aperto è disponibile un bel campo da tennis. Sono poi da segnalare
i percorsi per escursioni a piedi, a cavallo o in mountainbike; per gli amanti del brivido, invece, c’è la possibilità di praticare il parapendio. Non va dimenticata la tanto
conosciuta ed apprezzata arte culinaria con il piatto tipico
più caratteristico, gli “gnocchi alla malghese”.
22. Roverè Veronese
Roverè è uno dei paesi nei quali s’insediarono alla fine
del XIII secolo i coloni bavaresi, in seguito alla concessione loro fatta dal vescovo di Verona, Bartolomeo della
Scala; è in questi anni che si comincia a trovare Il nome
di Roverè nei documenti, unito a quelli di Chiesanuova
e Cerro, con i quali formava un unico comune. Già da
molto tempo, in questi luoghi era presente l’uomo: notevoli sono, infatti, i resti dì castellierì neolitici ritrovati nel
territorio del comune, oltre ad altri reperti preistorici che
vengono continuamente alla luce sui monti circostanti e
che testimoniano con certezza la presenza dell’uomo in
queste terre qualche migliaio d’anni prima della predetta
concessione.
Roverè fu uno dei primi, se non il primo, insediamento
dei coloni che da qui sì spostarono in tutta la Lessinia,
dando origine ai diversi comuni; fino al 1375 a Roverè
facevano capo anche l’attuale Boscochìesanuova e Cerro.
Una curiosità per finire: questo è, tradizionalmente, il paese d’origine del leggendario Bertoldo, astuto montanaro
sceso a Verona alla corte d’Alboìno reso famoso da un
dialogo cinquecentesco.
Tra gli edifici sacri del territorio dl Roverè va certamente
ricordata la chiesa parrocchiale del paese, dedicata a San
Nicolò, originaria dell’inizio del XIV secolo, ricostruita nel 1496 e rimaneggiata in seguito, con campanile di
Domenico da Lugo, datato 1493.Altra Chiesa d’antiche
origini è quella di San Vitale: la primitiva cappella, consacrata nel 1372, subì nel corso dei secoli notevoli interventi; all’inizio del nostro secolo fu demolita e ricostruita
completamente.Inoltre c’è la Chiesa di San Rocco, eretta
in parrocchia nel 1648 ma di origini certamente più antiche. All’interno conserva una tela secentesca raffigurante
la Madonna con il Bambino attorniata da Vergini e Angeli, opera di Domenico Macaccaro, morto di peste nel
1630.
23. San Giovanni Ilarione
Il nome del paese si riferisce al Battista cui è dedicata la
Chiesa di Castello e ad esso fu aggiunto il nome derivante
da un attributo, forse “aronna”, indicante un toponimo (o
erbe o terre o rocce o altre particolarità del luogo). Solo
nel 1582 compare il termine Hilarione. Risale al 1091
il documento in cui compare il nome Sancto Joanne Ad
Aronna.
Per altri versi, la storia di San Giovanni Ilarione, si confonde con quella della zona circostante – in particolare
con quella di Soave – e non presenta avvenimenti di particolare rilievo: sottoposto agli Scaligeri, poi alla Serenissima, dopo il breve periodo francese, fu sottoposto alla
dominazione austriaca, fino al 1866, quando entrò nel Regno Italico.
Chiesa parrocchiale di San Benedetto, a Cattignano. Di-
25
venuta sede parrocchiale nel giugno 1947, la chiesa fu
eretta nel 1881 ed è dedicata a San Benedetto; accanto
ad essa spicca il possente campanile che domina sul piccolo ma suggestivo centro collinare di Cattignano.Chiesa
parrocchiale di Santa Caterina in Villa. Edificata fra il
1901 e il 1909 su disegno del progettista vicentino Gerardo Marchioro, sorge sul luogo della precedente chiesa
quattrocentesca: la maestosa facciata predomina sull’ampio piazzale, mentre l’interno a tre navate presenta pregevoli affreschi del Pajetto e preziose pale dei secoli XVI
e XVII. Di notevole valore sono anche le raffinate vetrate ed alcuni dipinti del Menato.Chiesa di San Gaetano e Sant’Antonio, in località Boarie. Eretta nel 1715 da
Achille Balzi, la cui tomba si trova all’interno dell’edificio, costituì oratorio pubblico di proprietà della nobile
famiglia Balzi.Chiesa di San Zeno in località Scandolaro.
La chiesetta campestre, in stile romanico, sembra risalire
al sec. XIII; in stato di completo abbandono per decenni, è stata profondamente restaurata nel 1981. AI suo interno, si conserva una statua lapidea di San Zeno, datata
1442.Chiesa parrocchiale di San Giovanni Battista, a
Castello. Costruita fra il 1808 e il 1812 assieme al campanile, con cui forma un unico complesso architettonico, fu
edificata sul sito dell’antico castello medievale, in posizione preminente. Sede dell’antica e unica parrocchia del
territorio comunale, conserva al proprio interno, costituito
da una sola navata a croce greca, una preziosa pala quattrocentesca del Montagna e un ciclo di dipinti raffiguranti
la vita del Battista.Cippo confinario del 1472, conservato
presso il Municipio. Testimone di un’interminabile vertenza fra i comuni di san Giovanni Ilarione e Tregnago,
il cippo fu eretto nel 1472 dal governo veneziano per segnare il confine fra i territori comunali dei due Comuni.
Restaurato negli anni ‘80, è oggi conservato nella sala
civica del Municipio.Villa Balzi-TanaraI Basalti Colonnari, nelle frazioni di Castello e nella contrada Panzarotti,
in località “Monte del Diaolo”.La scogliera corallina del
c.d. “orizzonte”.
24. San Mauro di Saline
Piccola ma deliziosa località della Lessinia veronese, San
Mauro di Saline è sede di un Comune il cui territorio, si
estende nell’alta Val di Mezzane dai 300 ai 1025 metri
d’altitudine, e comprende diverse contrade. Su circa undi-
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ci chilometri quadrati di superficie, abitano oggi cinquecento abitanti, poco più di un terzo di quanti vi si potevano censire alla fine dell’Ottocento.
La zona è abitata sin dalla preistoria, com’è stato attestato
da numerosi ritrovamenti. Sul monte Caro, nel 1915, in
occasione di lavori militari di trinceramento, furono notate sotto la superficie murature a secco, e parecchi anni
dopo, quando qui si promossero nuove campagne di scavo, si poté stabilire che quelle murature appartenevano a
un castelliere fondato nell’età del Bronzo, abitato anche
successivamente.
La popolazione crebbe nel XIII secolo, grazie ai coloni di
lingua tedesca venuti ad insediarsi su terre loro concesse dai proprietari di quei territori, feudatari ecclesiastici
e laici: questi, favorendo la venuta di pastori e boscaioli,
poterono meglio sfruttare le possibilità economiche delle loro proprietà fondiarie. Anche San Mauro di Saline è
dunque uno dei cosiddetti Tredici Comuni della Montagna veronese dove si parlava l’antico dialetto bavarese. Il
territorio di San Mauro di Saline era attraversato, anche
in epoca romana, dalla strada carraia detta Cara: si tratta
di un’importante via di transumanza ovina e caprina più
che bovina, che dalla pianura, nei pressi di Vago di Lavagno, risaliva la dorsale verso i Lessini. Fu percorrendo
questa strada, narra la leggenda, che un vescovo Verona,
san Mauro per l’appunto, nell’anno 615 si sarebbe ritirato
in vita eremitica su queste alture, proprio sul monte che
avrebbe poi preso da lui il nome.
La chiesa di San Leonardo in Castro. Costruita nel 1388
a tre navate e dedicata al culto di San Leonardo, il piccolo edificio, che in facciata ostenta un porticato ligneo,
mostra arcate gotiche a sesto acuto e tre absidi: La chiesa
ostentava, fino a non molti decenni fa, sull’altar maggiore, uno splendido polittico ligneo a più registri e a più
scomparti del secolo XVI, dovuto, con tutta probabilità,
ad artisti della famiglia dei Giolfino o dei Badile. Trafugato da ignoti nel 1967, di esso si sono perse le tracce. La
chiesa ospitava un tempo anche una serie di singolari ex
voto: statuine in ferro che, rinvenute alla fine dell’Ottocento, furono poi custodite dal Museo di Castelvecchio di
Verona che le ha date in temporaneo deposito al Museo
di Boscochiesanuova. Le tipiche figurette in ferro battuto
sono legate al culto del santo, che si diffuse ad opera dei
monaci cistercensi durante il secolo XII.
La parrocchiale. La chiesa è dedicata a San Mauro. Costruita forse su una precedente, essa fu completamente
ricostruita nel sec. XVI in occasione della visita del vescovo Ermolao Barbaro. Fatta poi oggetto di restauri e
migliorie nel 1780, come ricorda una lapide all’esterno
dell’edificio, nel 1835 essa fu di nuovo completamente
demolita e ricostruita nelle forme attuali. All’interno sono
dipinti di Agostino Pegrassi e affreschi ottocenteschi di
Rocco Pittaco. Dalla parrocchiale proviene la bella tela
di Paolo Farinati con le SS. Maddalena e Dorotea che
oggi arricchisce il Museo Canonicale presso il Duomo
di Verona.Lungo la provinciale che porta a Mezzane, è
visibile Villa Giuliari, già Liorsi, poi Erpice, costruita in
più riprese. Di particolare valore artistico è un affresco
con Mercurio in atto di rapire Paride, parte di un fregio
di maggiori dimensioni, opera di Paolo Farinati e dei suoi
figli.
Foto di Ugo Franchini
Lessinia
25. Sant’Anna d’Alfaedo
Il territorio di Sant’Anna d’Alfaedo sovrasta le tre vallate
maggiori della Valpolicella, ossia quelle di Negrar, Marano e Fumane. Ad economia un tempo quasi esclusivamente boschiva, prativa e seminativa, il paese gode oggi
di una certa prosperità economica, per merito delle numerose cave della pietra caratteristica della zona: la cosiddetta pietra di Prun. Con questa pietra sono state costruite
tutte le caratteristiche abitazioni della zona (dalle mura
perimetrali al tetto), e sono stati pavimentati, ad esempio, anche tutti i marciapiedi della città di Verona. Oltre
al Capoluogo, fanno parte del Comune le frazioni Cerna,
Fosse, Giare, Ronconi, Corrubio, Ceredo e Vaggimal.
La zona di Sant’Anna d’Alfaedo era già abitata fin dalle
età preistoriche: vari rinvenimenti testimoniano la presenza di numerosi castellieri e restituito un’infinità di reperti.
La preistoria della zona di Sant’Anna d’Alfaedo può descrivere il tipo di vita condotto sia dagli uomini del Paleolitico (dal 350.000 fino al 10.000 a.C.) sia dai nostri
antenati dei periodi successivi (Neolitico, Eneolitico), con
particolare riferimento alle testimonianze relative ai culti
funebri ed in particolar modo alle tombe a cista, all’industria campignana, ai caratteristici strumenti in selce a
lavorazione bifacciale, diffusi dal Neolitico a tutta l’età
del Bronzo.
Dall’età del Bronzo a tutto il periodo dell’occupazione ro-
27
mana, la presenza dell’uomo è continua, così come si può
presumere per tutto l’Alto Medioevo, se è longobarda,
come tutto invita a credere, l’ascia dal taglio prolungato
verso il basso proveniente da qui e assai simile a quelle
venute alla luce sia a settentrione sia a meridione delle
Alpi in tombe risalenti all’età delle trasmigrazioni dei popoli che devono essere datate al VII secolo.
Sul Monte Loffa, la chiesa di San Giovanni Battista è
monumento insigne. Una lapide collocata all’interno indica che la chiesa - ricostruita o costruita per la prima
volta - fu consacrata con l’altare maggiore il 27 luglio
1524 dal vescovo Bartolomeo Averoldo, in onore di San
Giovanni Battista. L’iscrizione continua ricordando come
nel 1633 la chiesa, di giurisdizione di San Marziale di
Breonio, fosse restaurata con le elemosine dei fedeli. Purtroppo non è datata la rozza iscrizione sopra la porta laterale della chiesa, che cita come promotore di una qualche
opera un certo Cristoforo. Sembra, in ogni caso, verosimile che San Giovanni in Loffa risalga al XIII secolo.Il
Museo Paleontologico e Preistorico. Vi sono raccolti,
tra l’altro, straordinari pezzi paleontologici (provenienti
dagli scavi nelle cave di pietra del Monte Loffa).Il Corno
d’Aquilio, dalla cui cima si può godere un incantevole
panorama della sottostante Valdadige.Il Ponte di Veia.La
Spluga della Preta.
26. Selva di Progno (e Giazza)
La storia della zona è antica, ma diventa singolare con
l’insediamento dei Cimbri, nel XII secolo. L’origine dei
Cimbri è ancora avvolta nel mistero. E’ documentato che
nel 1187, nuclei di coloni bavaresi, che avevano già occupato stabilmente le parti alte del vicentino, ottennero
dai Signori e dai Vescovi di Verona - Bartolomeo e Piero
della Scala - concessioni di terreni da dissodare e privilegi
amministrativi ed ecclesiastici sull’altipiano dei Lessini;
il nucleo di questa colonia si stabilì a Roverè di Velo, che
restò centro d’attrazione di successive immigrazioni. Gli
stanziamenti tedeschi avvennero gradualmente, estendendosi sull’altipiano e nelle valli dei Lessini. La parlata
cimbra, simile al tedesco antico, sopravvive ancora oggi
nei paesi di Giazza nei Tredici Comuni, a Roana nei Sette
Comuni e a Luserna nel Trentino.
Da un documento del 1387, appare che Selva era in unione amministrativa con la località Frizzolana (Boscochie-
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sanuova). Più tardi, Selva divenne comune autonomo,
comprendendo le frazioni di San Bartolomeo (o Bortolo)
delle Montagne, Campofontana e Giazza. In epoca viscontea, Selva di Progno è ricordato come VI comune del
«Vicariato delle Montagne». Pochissime sono le notizie
storiche degne di nota nel periodo dell’occupazione veneziana, napoleonica e austriaca, salvo una sosta dell’imperatore Massimiliano d’Austria sull’angusta piazza del
paese, e il passaggio verso Revolto di Vittorio Emanuele
III. Selva di Progno ha un nome significativo: il paese
è posto in una rigogliosa valle attraversata da un modesto torrente, verso il quale confluiscono numerosi piccoli
ruscelli chiamati, nel dialetto veronese “vaj”. Selva è un
centro turistico-artigianale, adagiato ai piedi delle montagne che lo circondano.San Bartolomeo delle Montagne, detto anche «Al Tedesco», è nominato in una carta
del 1408 e poi come comune teutonico del 1616. Il paese
è situato in ottima posizione su un cocuzzolo a cavaliere tra la convalle di Tanara (Sant’Andrea) e l’alta valle
dell’Alpone.Campofontana, il più alto paese della provincia (m. 1225), è situato a nord-est di Selva, presso la
vetta dello «Spitz». È ricordato da documenti solo alla
fine del sec. XIV; la grande antichità attribuitagli è una
favola. Magnifica la posizione sull’altipiano ondulato,
che presenta uno splendido panorama.Giazza (la cimbra
Ljetzan, 758 m.) si trova poco a nord di Selva, sul declivio meridionale del Campostrin, alla confluenza delle due
valli di Revolto e Fraselle. Il paesello rappresenta l’estremo punto al quale si spinsero i valligiani, ed è formato da
un pugno di casette, molte delle quali presentano tipici affreschi, com’è tradizione in tutta la Lessinia. Le abitazioni sono disposte in semicerchio attorno alla piccola pliatz,
che a sua volta è vicina al torrente d’Illasi. Il paesino,
aggrappato alla roccia, è un suggestivo dedalo di strette
viuzze; le sue case più vecchie in località Loban sono del
sec. XVII. Giazza ebbe una certa importanza solo verso il
1798, quando fu eretta in parrocchia. La circondano montagne e fitti boschi, i quali, secondo le leggende, prima del
Concilio di Trento erano abitati da fade, folletti, anguane, orchi e Sealagan Laute, Beate Genti, creature vestite
di corteccia d’abete che rischiaravano il loro cammino
con un braccio umano infuocato.DA VEDEREA Selva
di Progno, la chiesa parrocchiale di San Domenico, di
stile neoclassico. Di recente costruzione e annoverata tra
Lessinia
gli edifici monumentali della provincia, la chiesa possiede una tavola mal ritoccata con un Sant’Andrea del Cavazzola; un altare ligneo del seicento ha sul tabernacolo
un quadretto con L’ultima Cena, attribuito alla scuola del
Veronese.A San Bartolomeo delle Montagne, il Museo
dei Trombini.A Giazza, il Museo dei Cimbri.A nord di
Giazza, la Foresta Demaniale Regionale, ricca di vegetazione e di fauna. In questo bellissimo ambiente naturale,
sono inseriti accoglienti rifugi.
27. Velo Veronese
Il comune di Velo Veronese, uno degli originari insediamenti dei coloni bavaresi ai quali nel 1287 il vescovo Bartolomeo della Scala concesse i territori della Lessinia, si
trova adagiato su una sella tra il Monte Purga e il Monte
Stozè, tra le valli di Squaranto e d’Illasi, in un ambiente
naturale tanto bello quanto interessante dal punto di vista
geologico.
Le origini dell’insediamento sono molto più antiche rispetto alla concessione di Bartolomeo della Scala: nel
territorio di Velo, infatti, precisamente sul Monte Purga,
esistono tracce della presenza dell’uomo preistorico; l’insediamento del Purga risale all’età del Ferro e rientra nel
complesso sistema dei castellieri, villaggi fortificati uniti
tra loro da sentieri, che caratterizzava le montagne veronesi in quei tempi remoti e dei quali numerosi esempi esistevano ed esistono ancora in tutta la Lessinia.
Sul castelliere di Velo in epoca romana fu poi eretto un
fortilizio, dove oggi si trova un’ottocentesca cappella. In
quest’epoca si può ipotizzare la nascita del nucleo abitativo che darà origine al paese di Velo Veronese.
Il ruolo di Velo nei Tredici Comuni Veronesi (e nelle successive unità territoriali che ricalcarono l’originaria struttura come il Vicariato della Montagna, creato all’inizio
del XV secolo da Caterina Visconti), fu subito di primaria
importanza e per molto tempo, tra i secoli XVII e XVIII,
Velo fu sede del Distretto della Montagna. La storia del
paese s’identifica completamente con la storia della comunità bavarese che senza particolari avvenimenti seguì
le sorti dell’intero territorio veronese.
Tra i motivi d’interesse storico e artistico nel comune di
Velo, oltre ai numerosi esempi d’antiche caratteristiche
architetture montane, troviamo la chiesa parrocchiale dedicata a San Giovanni Battista, opera di Donato di Lugo;
all’interno è conservato un battistero ottagonale in marmo rosso datato 1533 e all’esterno, murati nelle pareti,
si trovano alcune iscrizioni quattro e cinquecentesche ed
esempi altrettanto antichi e belli della scultura popolare
dei Lessini;la chiesetta dedicata a San Carlo Borromeo
a Camposilvano, che ricorda la sosta che il Santo fece
nella frazione durante il suo viaggio verso il Concilio di
Trento. Secondo la tradizione, la chiesetta fu eretta in ringraziamento per l’intervento del santo, che cacciò definitivamente nelle viscere della terra gli oscuri esseri che
allora popolavano i monti veronesi e che oggi sopravvivono nelle affascinanti leggende e favole della Lessinia,
tramandateci oralmente attraverso la tradizione del fìlò;il
Museo dei Fossili della Lessinia a Camposilvano;il Covolo di Camposilvano;la cosiddetta “Valle delle Sfingi”,
presso Camposilvano.
28. Vestenanova
Il comune di Vestenanova comprende le località di Castelvero, Vestenavecchia, Vestenanova e Bolca, che in
antico erano autonome. Poco si sa dei tempi preistorici e
romani: la storia della zona inizia dopo il 1000. Nel 1145
il toponimo “Castrum Vetus” appare nei documenti della vertenza legale che contrapponeva il monastero di San
Mauro di Saline al canonicato di Badia Calavena. Il toponimo sembra indicare che in quel luogo sorgeva un antico fortilizio (castrum). In periodo scaligero, il feudo era
dominato dai Mezzagonnella, che costruirono un castello
nelle vicinanze del monte Castellano: in epoca veneziana,
la “villa” passò sotto la giurisdizione della famiglia veronese dei Da Campo.
Anche Vestenavecchia, sicuramente esistente nel 1145,
divenne feudo dei Mezzagonnella in età scaligera. Nel
1414, Vestenavecchia e Vestenanova – che facevano parte
del Vicariato della Montagna – passarono sotto la giurisdizione della famiglia veneziana degli Emo. Sulla strada
fra Vestenanova e Bolca, gli Emo edificarono la “Corte”
che – abitata dal castaldo e dal massaro, era visitata di
tanto in tanto dai signori. Per posizione e funzione, la
“Corte” favorì lo sviluppo di Vestenanova e la sua progressiva autonomia dall’originario nucleo di Vestenavecchia. Vestenanova si ingrandì e divenne capoluogo di un
comune circondato da molte piccole frazioni montane. La
popolazione abitava in case modestissime, con il tetto di
29
paglia, e viveva in condizioni misere: uniche fonti di sussistenza erano l’agricoltura, la pastorizia, e qualche attività artigianale, come la fabbricazione della carbonella e la
lavorazione del legno.
Bolca era una “villa” apparteneva già dal X secolo al convento di Badia Calavena. Nel 1410, essa passò sotto il
dominio della Serenissima, e fu compresa nel Vicariato
di Tregnago. Intorno al 1555, si diffuse la prima notizia
sui famosi fossili: col crescere dell’interesse scientifico,
ebbero inizio gli scavi e le ricerche che durano tutt’ora.
Nel 1785 Bolca divenne vicariato autonomo.
A Vestenanova, Villa Emo, costruita nei primi decenni
del 1400. Questa villa, più che per le caratteristiche edilizie, andate in buona parte perdute, è importante come
esempio di tipologia d’insediamento in zona alto collinare. La corte chiusa, con un solo accesso, la casa padronale disposta a Sud e la balconata verso valle, gli annessi
a formare due ali che chiudono la corte, è molto simile
nell’impostazione alla villa Balzi-Tanara di San Giovanni
Ilarione. La parte architettonica più notevole è nel sottile
corpo su cui si apre il volto d’ingresso alla corte, che si
prolunga verso Sud con forme quasi di fortilizio. La villa
e’ in cattivo stato di conservazione.A Bolca, il Museo dei
Fossili.
29. Alpicoltura
L’alpeggio, esercitato nei secoli sull’altopiano lessinico,
rappresenta uno spaccato della cultura montanara; ogni
estate, come in un rituale; il “caricatore d’alpe” conduce
la mandria ai pascoli in quota ricchi d’erba fresca e d’essenze. Pascolando in libertà il bestiame si rigenera, stimola le funzioni vitali e potenzia il sistema immunitario.
La malga, pertanto, è una vera e propria azienda agricola
in quota, la cui particolare fisionomia, unita all’esperienza e all’operosità del malghesl, permette l’ottenimento
di un prodotto unico, particolare che ci rimanda a tempi
passati: il latte. Ma il latte d’alpeggio del Parco non è un
latte qualsiasi; i malghesl se da un lato hanno rinunciato
ai volumi di produzione che possono vantare le aziende
di pianura, dall’altro non hanno rinunciato al profumo, al
sapore e al colore di queste piccole produzioni, preziosi
giacimenti, frutto dell’esperienza e della passione delle
genti di montagna.
L’ALPEGGIO
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L’area del Parco, che si estende per una superficie di
poco superiore ai 10.000 ettari, è una delle poche realtà
del nostro Paese, particolarmente vocate all’allevamento del bestiame da latte. Ogni anno all’inizio di giugno,
infatti, gli allevatori della Lessinia, “caricano” le malghe
del Parco con il loro bestiame, consapevoli degli effetti
benefici dell’alpeggio per le bovine e per la qualità del
latte. I pascoli ricchi d’erba fresca e d’essenze sono una
preziosa fonte alimentare, sufficiente per tutto il periodo
estivo. Le rigide temperature invernali non permettono la
permanenza del bestiame, che a fine settembre è ricondotto nelle stalle più a valle.
Con il pascolo, gli animali, oltre che soddisfare le proprie
esigenze trofiche, mantengono puliti da spini e rovi i prati,
i pendii, le aree adiacenti i boschi di conifere conferendo
all’ambiente un aspetto ordinato nel rispetto dei delicati
equilibri tra fauna e flora. L’alpeggio è una pratica che
affonda le sue radici nei tempi più lontani; le prime tracce della presenza dell’uomo sull’altopiano della Lessinia,
infatti, risalgono al Paleolitico inferiore. Disciplinata da
antiche norme, la monticazione si svolge ogni estate, secondo tempi e modi dettati dalla tradizione.
LA MALGA
Protagonista assoluta del Parco è la malga che rappresenta
l’unità produttiva tipica. La malga è caratterizzata da un
ambito territoriale definito, ed è dotata di costruzioni in
pietra calcarea tipica del territorio, il “baito” e la “casera”,
destinate nel passato alla lavorazione e alla trasformazione del latte. Le caratteristiche strutturali di questi ricoveri, infatti, testimoniano l’antica tecnica di produzione del
formaggio; la caldaia per scaldare il latte, il locale per la
salatura e per la stagionatura del formaggio.
Le malghe del Parco sono 84, concentrate maggiormente
nel territorio di Boscochiesanuova. Si raggiungono percorrendo stradine di pietra bianca diversamente sfaldata;
l’area di pascolo di ciascuna malga è delimitata da caratteristiche recinzioni di lastre di pietra che servivano a
delimitare i confini e a impedire di confondere il bestiame
con quello delle malghe adiacenti.
Per definire l’area di pascolo della malga è ancora in uso
un’antica e tipica unità di misura: la “paga”. Con questo termine s’intende la superficie di pascolo necessaria a
soddisfare le esigenze alimentari di una bovina per tutto il
tempo dell’alpeggio, quindi ad una paga corrisponde una
Lessinia
bovina adulta.
Dall’alto delle creste è possibile apprezzare tutta una serie di numerose pozze d’alpeggio, distribuite in ciascuna malga in funzione dell’ampiezza della stessa e quindi
del numero di paghe. Si tratta di piccole raccolte d’acqua
piovana che il malghese utilizza da sempre per l’abbeveraggio del bestiame nel periodo dell’alpeggio. Un tempo
l’acqua delle pozze, in inverno, era raccolta per la preparazione del ghiaccio conservato fino in estate nelle “giassàre”.
La giornata del malghese inizia di primo mattino. Infatti, bisogna raggiungere la malga per la prima mungitura
(poche sono le malghe nelle quali ci si ferma anche la
notte). Per ogni mungitura in genere ci vogliono due ore,
ma questo dipende dal numero di capi. Terminata questa
importante e delicata operazione, si aspetta il casaro che
ritira il latte fresco per portarlo nel caseificio; qui il latte è
destinato al processo di trasformazione che lo porterà a diventare formaggio. Durante la giornata il malghese provvede alla cura degli animali, quindi alla pulizia della stalla
dove avviene la mungitura e dei contenitori del latte, alla
manutenzione dell’area intorno alla malga dai rovi e dalle erbacce, alla manutenzione della stessa malga. L’estate
è anche il periodo propizio per lo sfalcio dei prati il cui
fieno sarà destinato, durante l’inverno, alla nutrizione del
bestiame; nelle ore più calde della giornata, pertanto, ci
si reca più a valle, nei prati non destinati all’alpeggio, per
svolgere questo lavoro che consente all’allevatore di mantenere costante la dieta alimentare dei suoi bovini anche
durante il periodo Invernale. Quando è sera il malghese
si reca nuovamente alla malga per la seconda mungitura.
IL LATTE
E’ facile quindi immaginare che il prodotto sovrano del
territorio del Parco è il latte destinato alla produzione di
formaggio “Monte Veronese” e non solo; Grana Padano,
burro, ricotta, mozzarelle e caciotte, infatti, sono prodotti
non meno importanti che completano la gamma delle produzioni tipiche del Parco Naturale Regionale della Lessinia.
Il latte prodotto in malga e destinato alla caseificazione
deve possedere ben determinate caratteristiche chimiche, fisiche e microbiologiche. Anche lo stato sanitario
del bestiame, l’alimentazione dello stesso e la tecnica di
mungitura e di conservazione del latte sono fattori deter-
minanti per l’ottenimento del latte destinato ad una così
tipica produzione.
Per quel che riguarda l’alimentazione del bestiame, l’animale provvede da sé brucando le essenze che spontaneamente crescono nel pascoli. Se il latte è il sovrano indiscusso del territorio, altrettanto si può dire delle lattifere.
Si tratta di bovine di razza frisona il cui mantello si presenta a macchie bianche e nere. E’ la razza più diffusa in
Veneto e il suo latte gode del primato dal punto di vista
quanti-qualitativo, in termini di materia utile (grasso e
proteine).
30. Alto Vajo dell’Anguilla - Foresta dei Folignani
Transitando attraverso le contrade “cimbre” di Boscochiesanuova, ci si immergerà nella foresta dei Folignani
(riserva naturale del Parco della Lessinia) per far ritorno a Boscochiesanuova lungo il “gran canyon” del Vajo
dell’Anguilla, antica valle originata dallo scorrimento
delle acque.
La stupenda foresta dei Folignani si trova in prossimità
delle piste sciistiche e fornisce un panorama mozzafiato
durante la pratica degli sport invernali; sfolgorante nei colori autunnali, emergente come un miraggio da un mare
tempestoso di nebbie; adatta a gite indimenticabili d’estate; freschi venti e l’esplosione di fiori e verde indimenticabile in primavera. L’Alto Vajo dell’Anguilla, un mosaico ambientale, dove le tracce geologiche si sommano a
quelle glaciali, tra i siti in quota più rari nelle Alpi.
31. Architettura in Lessinia
L’architettura cosiddetta spontanea della Lessinia ha da
tempo richiamato l’attenzione di numerosi studiosi che si
sono resi conto di come questi “villaggi di pietra”, sviluppatisi da singole corti in più urbanisticamente complesse
contrade, siano fenomeno assai caratteristico della montagna veronese, degno, oltre che di studio, anche di conservazione e magari d’opportuna valorizzazione.
Di tali paesaggi di pietra la zona che va dalla Valdadige alla Valdalpone è notoriamente costellata, ma una loro
maggior caratterizzazione si ha soprattutto nella zona
centro settentrionale di questa vasta area, dove la Valpolicella trascolora definitivamente in Lessinia, vale a dire
nei Comuni d’Erbezzo e di Sant’Anna d’Alfaedo e nelle
parti alte dei Comuni di Grezzana, di Negrar, di Marano,
31
di Fumane e di Sant’Ambrogio, perché qui, oltre ad essere fatti di lastame cosiddetto di Prun i muri delle abitazioni, sono interamente ricoperti di tale materiale anche
i tetti ed i cortili, e l’uso del lastame lo s’incontra anche
lungo i cigli delle strade per delimitare le proprietà, nelle
piazze e nelle fontane, e persino nei campi a far da palo di
sostegno alle viti (quando qui esistevano ancora).
E non poteva essere altrimenti, perché il materiale edilizio di cui si sta discorrendo è sempre stato l’unico ad
essere a portata di mano di quelle popolazioni: dai tempi
dei castellieri preistorici o protostorici fino ad una sessantina d’anni fa, quando era ancora impensabile di andarsi a
provvedere altrove d’altri materiali, come potrebbe essere, tra gli altri, il cotto.
Persino il legno qui si è sempre usato poco, essendo la
Lessinia tanto abbondante di pietra quanto scarsa di quel
legname che tanto abbondava evidentemente nelle pur vicinissime regioni trentine, dove le contrade e i villaggi
assumono allora caratteristiche del tutto diverse da quelle
lessiniche.
Spuntano, le contrade della Lessinia centro-occidentale, a
macchia d’olio nel verde di pascoli e di boschi, al di sopra
dei cinquecento metri d’altitudine, mancando in genere se si prescinde da quelli di più recente sviluppo - i grossi
centri. Come osserva Eugenio Turri: «l’elemento umano
fondamentale del paesaggio lessinico, centro focale della
sua organizzazione e delle sue unità elementari, dal quale poi dipendono tutti gli altri elementi particolari, è la
contrada (contrà) gruppo isolato di case per molti aspetti
simile al Weiler germanico, più raramente corrispondente ad una sola casa singola, che sorge in preferenza sulle
ampie dorsali tra vajo e vajo, nelle piccole conche riparate, nelle vallecole laterali a morfologia carsica, sui pendii
meno erti, e, in casi assai rari, sui versanti dei vaj».
Le architetture rurali della montagna veronese sono dunque in genere raggruppate a corte, in un’organizzazione
dello spazio assolutamente spontanea, priva cioè di una
qualsiasi pianificazione: casa dietro casa, queste strutture
si sono venute componendo, l’una accanto all’altra, attorno a spazi che sono stati così via via “conclusi”. Alla
corte, nella quale abitavano più famiglie e che in origine
è assolutamente promiscua, si accedeva da un portale che
dava sulla strada e che poteva essere, la sera, chiuso da un
portone in legno, custodendo in tal modo gli abitanti e le
32
cose da incursioni di malintenzionati, fossero essi persone
o animali.
Nelle corti delle zone montane - assai piccole in verità accanto agli edifici riservati ad abitazione vera e propria,
c’erano stallette, fienili, portici per il ricovero d’attrezzi
ecc. E a mano a mano che la corte si organizzava, meglio
si qualificavano anche le singole “funzioni”: dall’abitativa a quelle di supporto. Queste ultime, una volta riempiti
i “vacui” attorno al perimetro della corte, erano poi costrette a trasferirsi fuori di esse, possibilmente nelle immediate adiacenze.
Nella Lessinia le corti non sono sempre isolate, ma spesso
si sviluppano ad alveare o lungo la direttrice di una strada, formando appunto la cosiddetta contrada. Nell’ambito
delle singole corti i diversi edifici sorgono spesso - anche
se di proprietari diversi - uno accanto all’altro, per un processo d’accrescimento di quello che era il nucleo originario di una famiglia o di un clan di famiglie. Anche tra le
contrade e le aree coltivate dai singoli piccoli agricoltori
s’incontrano fienili o meglio “tezze” dove si tengono stagionalmente animali e dove si ricovera il fieno. Un’organizzazione insomma dell’abitare che è possibile soltanto
ove regni la piccola proprietà contadina.
Vincenzo Pavan può così sottolineare che, sempre in
queste zone montane, «lo schema “a corte” rappresenta,
nello svolgimento storico dell’architettura, una soluzione
spaziale completamente bloccata in senso funzionale ed
anche in senso formale. L’analisi di tali complessi, quasi
sempre dominati da una torretta, denuncia chiaramente il
loro aspetto difensivo verso l’esterno e perlomeno accentua l’importanza dello spazio racchiuso tra le costruzioni».
Anche qui, in questi paesaggi della Lessinia, vale così
un discorso che si potrebbe fare relativamente a tutto il
mondo rurale, dove l’edilizia non è solo costituita di case
d’abitazione ma anche di barchesse, di portici, di fienili,
di ricoveri per attrezzi, di stalle, di porcili, di legnaie, di
granai, d’aie, di pollai, di forni, di colombare, di malghe,
di molini, di capanni, di tezze, ed altro, e dove l’abitazione occupa spesso una parte non preponderante. Isolati o
disposti a schiera, riuniti spesso attorno ad una o più corti,
questi elementi dell’architettura rurale variano di dimensione, costituendo nel loro insieme microcosmi o macrocosmi, secondo regole che possono essere ritenute valide
Lessinia
soltanto di luogo in luogo, di tempo in tempo.
E anche in questi casi va ribadito, a scanso d’equivoci,
che la pretesa di stabilire valide tipologie edilizie rurali,
e cioè di schematizzare e quindi semplificare il problema,
sarebbe atteggiamento non del tutto corretto, tali e tante
essendo le variabili che di volta in volta, d’occasione in
occasione, di terra in terra, di secolo in secolo, di coltura
in coltura, s’incontrano, da scoraggiare qualsiasi tentativo
di rigida classificazione della materia.
Si tenga anche conto che nel fatto edilizio propriamente rurale si verifica quasi sempre attorno ad una struttura fissa, un ruotare, a seconda delle esigenze, di casotti
e tettoie, d’impianti mobili o semimobili, che nascono e
muoiono, oppure che cambiano via via funzione fino a
diventare essi stessi, da elemento succedaneo, elemento
perno e cioè abitazione vera e propria di nuove famiglie
contadine generate da uno stesso ceppo, oppure chiamate
sul fondo in aggiunta a quelle che già v’insistevano.
Certamente la non precarietà dell’architettura lessinica ha
qui reso queste variabili più consistenti che non altrove:
e i villaggi di pietra della zona sono lì a sfidare i secoli,
meglio che non altri della collina o della pianura (dove le
case erano spesso di fango e coperte d paglia). E’ per questo motivo che non è raro incontrare anche poverissime
abitazioni montanare che possono vantare secoli di vita, e
che ci denunciano una tradizione costruttiva eguale salvo
poche modifiche, di secolo in secolo, almeno dal basso
medioevo fino ai nostri giorni, frutto di una sapiente arte
costruttiva tramandatasi di generazione in generazione.
Del resto, fino a non molto tempo fa, - fino a che il “sistema” non entrò in crisi - si poteva star pur certi che, tanto
da parte dei proprietari di case o terreni, come da parte
delle maestranze, nel costruire e nel restaurare, ci si sarebbe, anche qui come altrove, comportati in un solo modo:
non si sarebbe dato luogo a sorprese. I gusti dei committenti e le tecniche dei muratori - entrambe necessariamente legate all’uso dei materiali disponibili - non potevano
che essere quelli del posto e quelli soltanto: altri non se ne
conoscevano. Se si erano sempre messe pietre a copertura
dell’edificio, non c’era ragione di fare diversamente; se
si era impiegato tale materiale anche per altri usi, non si
vedeva perché si sarebbe dovuto adoperare qualche altro
materiale, che tra l’altro non era nemmeno recuperabile
in loco.
Osservazioni sul clima - sempre piuttosto fresco quando
non addirittura freddo - avevano ad esempio insegnato
che la casa doveva essere ben orientata, in modo da godere il massimo dell’insolazione: le facciate sono quindi in
genere a sud. Soltanto quando la corte o la contrada aveva
occupato con abitazioni i lati che guardavano a meridione
- riservando altri lati per edifici atti ad accogliere fienili
o ricoveri d’attrezzi - soltanto allora alle case più antiche
vennero fronteggiandosi case più recenti, spesso ottenute
dalla trasformazione di vecchi edifici in precedenza destinati ad altri usi.
E’ per lo stesso motivo che, a mano a mano che ci si sposta in località dove l’inverno si fa più lungo e più rigido,
le aperture per dare aria e luce ai locali si fanno sempre
più piccole: le difficoltà di chiudere porte e finestre con
serramenti e vetri, che dessero serie garanzie d’isolamento termico, certamente esistevano allora più che oggi, in
tempi tra l’altro nei quali si badava anche ad essere più
parsimoniosi in fatto di consumi di combustibile e quindi
di produzione di calore.
Ed è sempre per lo stesso motivo che la casa è qui raramente doppia. Più spesso essa è ad una sola schiera di
locali, tutti con finestre rivolte a sud. L’impossibilità di
scaldare con il calore solare i locali sul retro della casa
- e l’insolazione invernale è sulla collina e la montagna
veronese abbastanza efficace - rendeva sconveniente, salvo casi d’assoluta necessità, costruire sul retro, come sul
retro non venivano mai aperte finestre che avrebbero portato in casa i gelidi venti che soffiano dal nord.
In relazione con il vario uso dei materiali sono anche qui
dunque alcune tecniche costruttive: diversi problemi presentava ad esempio il costruire altrove con ciottoli e laterizi (e in questo caso non sono rare le murature verticali
cosiddette a sacco con grande uso di malte e conglomerati
leganti) e il costruire con pietra di Prun o con la scaglia da
rosso ammonitico (e in questo caso le mura verticali sono
ottenute sovrapponendo i conci assai regolari di tale pietra con un procedimento quasi a secco, impastando un po’
di terra con un po’ di calcina, ottenendo cioè un legante
assai debole).
Qui, dove si costruiva con questi tipi di pietra, gli intonaci
esterni erano un tempo per lo più sconosciuti: i muri della
casa si presentavano a faccia a vista: soltanto di recente come hanno osservato architetti e studiosi del paesaggio
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- si è creduto opportuno “smaltarli”, togliendo a molte
contrade e case montane una loro peculiare caratteristica. Così come il paesaggio della montagna è cambiato da
quando, anziché intonacare le case con sabbia di roccia,
di colore dorato, mista a calce, si è trovato più comodo
ricorrere alla sabbia di fiume, di color plumbeo, mista a
cemento, di colore ancor più tetro. Sicché ai gialli naturali
del paesaggio umano della zona montana si sono andati progressivamente sostituendo i tetri grigi degli attuali
paramenti, quando essi non siano stati più volgarmente
ricoperti con tinte di resina sintetica, magari trattate “buccia d’arancio”.
Si osserverà infine che sempre qui dove si costruiva con
lastame di pietra di Prun, le coperture ad arco sono rare
e subentra invece l’uso frequente d’architravi in pietra,
sormontati dal triangolo di scarico, mentre là dove era più
comodo costruire in tufo o in cotto, cioè in alcune zone
pedemontane e di pianura, l’arco fa spessissimo bella mostra di sé in porte e finestre, nonché in portici anche monumentali.
32. Basalti Colonnari e orizzonte
Sul versante sinistro della Valle d’Alpone, a San Giovanni Ilarione, una parete rocciosa appare come un enorme
alveare. È Invece l’imponente struttura dei basalti colonnari, formatasi nel vulcanisimo oligocenlco. II raffreddamento e la contrazione delle colate laviche, intorno e dentro i crateri, diedero origine alle forme prismatiche con
base esagonale, le nere lucenti colonne strette una all’altra: una straordinaria scenografia della natura. Nell’Eocene medio, 45 milioni d’anni fa, si formava la scogliera
corallina dell’ “orizzonte di San Giovanni Ilarione”. La
sua malacofauna comprende decine di nuove specie di
molluschi, nella cui classificazione ricorre il termine “hilarionis”, adottato dai paleontologi di tutto il mondo.
33. Camposilvano - Covolo e valle delle Sfingi
A circa 100 m. dal Museo si apre la grandiosa cavità carsica denominata il Covolo di Camposilvano. Esso rappresenta un suggestivo esempio di carsismo, fenomeno
che interessa gran parte della Lessinia e si presenta come
una voragine di forma ellissoidale profondo oltre 70 metri. L’accesso al Covolo è reso agevole da un sentiero facilmente percorribile che arriva all’interno della grotta,
34
mentre la zona circostante questo “monumento naturale”
è attrezzata ad accogliere visitatori per una piacevole sosta in un ambiente suggestivo ed incontaminato.
In origine il Covolo era un grande stanzone ipogeo che
oltrepassava i 250.000 mc di volume e che si era formato,
in seguito all’azione carsica, nei Calcari Grigi del Giurassico inferiore o Lias. Poche migliaia d’anni fa si verificò
il crollo di parte della volta di questa cavità che raggiunse
la superficie epigea formando un grande pozzo di crollo; la parte rimasta stabile dello stanzone forma la cavità
residuale che apre la sua grande imboccatura a circa una
quarantina di metri al di sotto dalla superficie epigea. La
grotta è anche interessante per i fenomeni meteorologici
d’inversione termica che si verificano. Durante l’estate,
sotto la volta della caverna residuale si forma una nube
che dà luogo a precipitazioni acquee e talvolta nevose.
Verso la fine dell’inverno sul pavimento si forma del
ghiaccio che dura per tutto il periodo estivo. Pertanto, dai
tempi preistorici fino ad un secolo fa, gli abitanti dei dintorni si sono serviti di questo frigorifero naturale per la
conservazione degli alimenti.
Tradizione vuole che Dante si sia ispirato al Covolo per
creare la morfologia del suo inferno. In passato il Covolo
era ritenuto dimora di “fade” e “orchi”, esseri creati dalla
fantasia popolare.
Immediatamente a nord del Covolo di Camposilvano, si
apre una valletta che con direzione est-ovest termina presso l’abitato. Sul fondo valle si ergono più o meno distanziati fra loro alcuni monoliti dalla forma di un fungo che
rammentano le sfingi egizie. La loro morfologia si deve
alla presenza di due formazioni di calcare: il Rosso Ammonitico che forma il cappello e l’oolite di San Vigilio
che forma il gambo. Per capire la morfologia di questi
monoliti si deve tener presente che il cappello che forma
il fungo è formato da un pacco di lastre suborizzontali di
spessore decimetrico, che hanno una superficie di alcuni
mq e quindi resistono più a lungo all’azione meteorica dei
sottostanti calcari oolitici che formano il gambo.
34. Capitelli
Tra i morbidi dossi e i verdi pascoli della Lessinia, tra
una contrada e l’altra, tra una fuga di secolari faggi e il
lastame del Rosso Ammonitico, sull’altopiano veronese
si ergono quasi “sentinelle” del passato, di “momenti di
Lessinia
vita”, i capitelli.
Abitualmente l’etimo popolare identifica in tali piccole
architetture, qualsiasi immagine sacra che sporga da un
muro, qualsiasi “segno” di fede che il “credo” abbia posto
in qualche luogo. Il capitello architettonico così inteso,
quando composto di uno zoccolo su cui sia inciso uno
spazio epigrafico, una piccola nicchia ospitante l’immagine sacra e un timpano che sovrasti l’insieme, nasce certamente da motivazioni diverse, personali o comunitarie, e
la sua funzione sarà sempre quella legata alla protezione,
“scudo” quindi contro i pericoli naturali e soprannaturali,
evidenziando sempre perciò la sua funzione apotropaica
e rassicuratrice.
Il capitello che in funzione di “ex voto” è testimone di
una pietà individuale, diviene testimone di pietà collettiva
quando ad erigerlo sia uno stesso gruppo sociale, e diviene anche testimone di “storia” quando la sua erezione, la
sua presenza, documenti eventi particolari, carestie, guerre, malattie.
I capitelli dell’area lessinica, pur esprimendo innanzi tutto una genuina religiosità popolare, sono rappresentativi
spesso anche di un certo gusto estetico, legato al momento storico, alle condizioni socio-economiche dei committenti e logicamente alla maestria dei lapicidi, dei madonnari che operavano spesso con i soli mezzi “spontanei”
reperiti in loco.
Nel processo di cristianizzazione il capitello ha probabilmente sostituito il significato dell’albero sacro in cui il
paganesimo vedeva le forze rigeneratrici della natura; non
a caso, infatti, spesso dove sorge il capitello c’è l’albero,
del quale le stesse “colonnette” della Lessinia Orientale
potrebbero essere l’evoluzione.
Ecco introdursi allora, quella certa “magicità”, intrinseca
nel capitello, spesso eretto (come le Croci) nei crocicchi,
sui dossi, abituali itinerari delle “strie”, delle “fade” intese quali forze malefiche, entità avverse. La finalità apotropaica del capitello, eretto davanti alle contrade, è evidente; si spiegano così anche i diversi simboli scolpiti spesso
sulle chiavi di volta, sul timpano o sulle spallette del monumento, che diventano “magiche grafie” del bene e della
fecondità. Si materializza qui il bisogno di protezione che
solo il soprannaturale e lo straordinario potranno garantire, il Sigillo di Salomone ad esempio o la ruota solare.
La tradizione vede la nascita dei capitelli nei lumicini che
fin dal XII secolo erano posti negli angoli bui delle contrade e delle strade, oltre che per illuminare, anche per
proteggere e rassicurare i viandanti contro eventuali agguati. Affinché la luce non splendesse a vuoto, dietro il
lumicino si pensò di porre un’immagine sacra che nello stesso tempo avrebbe intimorito anche i malvagi. Nel
corso dei secoli, la semplice immagine illuminata si trasformò in edicola e tempietto, così come oggi si presenta
all’occhio del magari frettoloso, passante.
Attraverso questi piccoli monumenti alla fede, il credente
entrava in sintonia col sacro ed un invisibile filo univa
divino e “profano” in una “magica” continuità d’intenti.
Forse il tempo delle “rogazioni” è lontano e irripetibile,
forse nessun Rosario si sgrana più ai piedi del capitello,
ma non per questo la realtà del loro “credo” è scaduta,
anzi forse è solo assopita e il bisogno di “ritorno alle origini” che si sta respirando ultimamente, ne potrebbe esser
la riprova.
Nel ventaglio lessinico, centinaia sono gli esempi più o
meno rappresentativi del tema in parola. Intorno ai “capitei” spirano spesso fantasiose leggende che supportate dal
racconto populistico, sempre ingigantiscono la “storia”.
Tra queste, significativa ci sembra la “storia” che aleggia
attorno al capitello di contrada Casoni, parrocchiale di
Sprea, splendido angolo “cimbro” della Lessinia Orientale. Il bel capitello, a struttura architettonica con zoccolo
e edicola, datato 1849, “protegge” una delle più antiche
tavolette votive a quattro figure nella tipica iconografia
che vede la Beata Vergine con Bambino e ai lati San Rocco e San Sebastiano. La “storia” racconta che molti secoli
fa la “madoneta” era inserita in una “colonnetta”; l’allora
proprietario, dovendo trasferirsi, decideva di portare con
sé, tra le sue povere cose, anche la “madoneta”, forse la
sola ricchezza che possedeva. Dopo averla perciò tolta
dalla sede abituale ed essersela caricata sulle spalle, s’incamminò verso valle. Si accorse però con stupore che il
peso della tavoletta, man mano che scendeva, aumentava sino ad impedirgli di proseguire; per questo si fermò
esclamando: «Munifica, come te pesi!» e posò il pesante
fardello, che decise comunque di riportare indietro, non
potendo certo proseguire con quel carico, ma tanto meno
abbandonarlo. Con stupore si accorse però che lungo la
salita, sulla strada del ritorno, il peso della tavoletta diminuiva man mano che si avvicinava al luogo da dove
35
era partito. L’immagine tornava così come evidentemente
era sua volontà, al luogo d’origine, dove qualche secolo
dopo fu eretto il capitello, ancora testimone della “storia”
raccontata.
Sul tetto della provincia, lungo la vecchia carrareccia
Campofontana-Pagani, vediamo un capitello che per la
sua struttura oseremmo dire esser il più bello di tutta la
Lessinia. Il significativo monumento sorge solitario sul
pascolo rendendolo quasi “sacro”. La struttura si compone di due insiemi, uno in muratura, l’altro in pietra; all’interno, nell’absidiola, si vedrà l’immagine a tutto tondo,
policroma, della Beata Vergine con in mano il libro di preghiere. Una croce in ferro battuto sormonta il tetto in lastra che a sua volta protegge un pronao barocco composto
di tre archi e quattro colonnine, probabilmente quest’ultime recuperate in altra sede. La composizione armonica,
libera da schemi, sembra quasi amalgamare la forma tra i
dossi e le rocce del paesaggio sul quale incide. Sfortunatamente, nessuno spazio epigrafico qualifica la struttura,
probabilmente databile verso la seconda metà dell’800.
A Velo Veronese, lungo il vecchio sentiero che conduce
in contrada Valle, troviamo uno slanciato e classico capitello in pietra dedicato alla B.V. dei Sette Dolori, espressa
nella magnifica scultura in pietra bianca, a tutto tondo,
opera di Benigno Peterlini, uno tra i più famosi ed attivi
lapicidi della Lessinia, che nell’800 tante opere lasciava a
sua testimonianza. Nel fregio “Pentirsi o Dannarsi”, sulla
cornice dell’archivolto leggiamo invece “Indulgenza di
40 giorni a chi recita Ave Maria concessa l’anno 1862”;
sullo zoccolo un cartiglio recita “Angela Baltieri e Bortolo Fontana per sua Divozione 1860”. La preziosa immagine scolpisce sulla base “O.P.N.V.D/V.D.E.P.C.” probabili
iniziali di altri committenti. L’icona si caratterizza anche
per un grosso cuore di latta trafitto da sette spade (tre a
destra e quattro a sinistra del petto della Vergine) simboli
dei “Dolori”. L’immagine diviene anche esempio di unione di due iconografie, la Pietà e l’Addolorata.
In quel di Roverè Veronese vediamo un pregevole capitello in contrada Grobbe. Interamente in pietra lavorata,
il piccolo monumento che data 1883, ospita una preziosa
immagine della Madonna della Corona, definita in un tutto tondo in pietra bianca che evidenzia nel sapiente tratto
plastico il racconto. Nell’edicola, due cherubini sostengono, sopra la Vergine, il simbolo regale; il cartiglio ci
36
suggerisce “Gesù Maria vi amo salvate Anime. Ind. 300
giorni”.
A ridosso degli alti pascoli, contrada Zamberlini è protetta da un pregevole capitello del 1842, come incide la data
sotto la testina dell’Arcangelo San Michele che funge da
chiave di volta. La piccola abside, interamente affrescata
mostra, ora ormai diafane, le figure di quattro santi, probabilmente Sant’Antonio, San Luigi, Sant’Andrea e San
Michele. Lo spazio epigrafico su cui incide un Ostensorio,
così recita “Opera di Simon Zocca lì tre marzo MDCCCXLlI per sua divozione li consorti Tinazzi Michel’Angilo e Andrea e Amadio e Giuseppe e Baldassar e Marco e
Luigi e Nicola Brutti a regalato il P.”. Dietro l’immagine
della Vergine e del Bambino, in atto di porgere il Rosario, si noteranno alcuni simboli dei “Dolori”. Un arco in
pietra bugnata, interrotto da due pulvini che trasformano
così le lesene in colonnine, delimita l’ingresso al quale si
accede da tre gradini perimetrati da un cancelletto. Il tetto
in lastra e una guglia sormontata da una croce in ferro
completano il sacello.
Restando ancora per un momento nel territorio di Bosco
Chiesanuova, possiamo vedere in contrada Savert uno tra
i più significativi esempi del tema che ci interessa. Il bel
monumento, nella tipica architettura in lastra, ospita nel
catino absidiale l’immagine di Maria Regina che a mezzo
busto tiene sul braccio sinistro il Bambino; una robusta
corona la sovrasta, mentre la scena è osservata da Dio
Padre che benedice dalla lunetta. Sulle spallette laterali si
vedono le icone di quattro santi. San Vitale, San Rocco,
Sant’Antonio e San Giovanni. Le figure protagoniste sono
ancora ben conservate, ma così non si può dire delle figure di contorno, ormai cadenti e parzialmente “offese” da
qualche stupido graffito del “buon ricordo”; sul timpano
leggiamo: “Questo capitello dedicato ad Antonio Scandola e Figlio per sua devozione 1865”, il monogramma di
Cristo completa l’epigrafe. Il significativo “segno” della
fede è posto, come vuole la tradizione, all’incrocio di due
sentieri e conferma così tutta la “magicità” della pietra.
Del 1837 è il capitello di contrada Aio, uno dei più significativi del tema proposto. Il prospetto interamente in
pietra, si caratterizza per le quattro lesene che sostengono
il frontone ad arco su cui incidono due tralci di palma;
sulla soglia lo spazio epigrafico suggerisce: “Opera del
taiapietre Simone Corbellari da Campofontana per colera
Lessinia
del 1836”. L’abside interamente affrescata, evidenzia una
Pietà circondata da cherubini che sorreggono simboli religiosi; sulle spallette laterali vediamo le figure dei santi:
Rocco, Pietro, Antonio e Vitale; il carattere popolare delle
figure si arricchisce nel colore corposo, ma nello stesso
tempo trasparente, delle icone.
Tra i più rappresentativi capitelli della Lessinia Occidentale emerge senza dubbio quello di contrada Manarini nel
comune di Erbezzo. L’armonico insieme si caratterizza
per l’architettura a pianta ottagonale della struttura. Sul
fronte si apre una porta ad arco chiusa da un cancelletto; lo spazio epigrafico sul fregio, “incide” la “storia” del
capitello suggerendoci la motivazione di tale presenza.
Eretto in onore della Vergine di Caravaggio, la chiesolina così si identifica: “Questa lapide di memoria onoraria
dirà ai presenti e ai posteri che Celeste Morandini padre
di Germano che perdette d’anni 23 consolò il suo spirito
erigendo questa cappella alla Beata Vergine di Caravaggio desiderio ultimo del suo moriente figliolo. O voi che
passate e leggete pregate ogni bene e al figlio e al padre
an. 1857”. All’interno del tempietto si vede l’altorilievo
policromo raffigurante l’iconografia che titola l’opera,
nonché varie pitture di carattere simbolico tra cui si evidenziano i “Sette Dolori” e l’ideogramma della Vergine.
Sul fronte dell’altare, si legge anche: “Maria O piena di
grazia mira pietosa a chi passando ti saluta e invoca”. Sulle lastre dell’ottagono, si evidenzia un Ostensorio da cui
spuntano dei germogli come valore di rigenerazione.
In Lessinia Occidentale, dobbiamo interrompere, ma solo
sulla carta, il nostro viaggio tra questi piccoli monumenti
del “credo”, modelli rappresentativi e pochi esempi tra i
tanti di un patrimonio unico ed irripetibile dal quale potremo attingere a piene mani per una sempre più esaustiva
conoscenza della nostra storia.
In questi “altari all’aperto” si evidenzia ad esempio come
sia un santo più di un altro ad esser “assunto” a protettore;
si noterà anche come la Vergine sia sempre protagonista,
quasi assoluta, nelle varie iconografie; Madre di Dio e
quindi Madre del popolo ed in quanto tale sempre vicina
ai bisogni del momento, come qualsiasi altra “mamma”
che tra queste contrade avrà dovuto soffrire per “spartire”
il poco pane quotidiano. Non ultimi, si evidenzieranno
sempre gli spazi epigrafici, “inviti”, “formule magiche”,
“sostegni” spesso nel faticoso e difficile “momento”.
Attraverso questi segni della sacralità, si predisponeva
soprattutto l’animo a ricercare l’incontro col divino, in
tempi ed in luoghi dove certamente ben più difficile era
l’incontro con l’umano. Una veloce giaculatoria, un segno di croce, un’Ave Maria recitata con voce sommessa,
ed ecco subito “garantita” la giornata anche nel rispetto
del vecchio adagio: “Preti, dotòri e capitèi, cavève el capèl e rispetèi”.
35. Carbone
La Lessinia ammantata soprattutto di boschi cedui di castagni e di faggi, non poteva mancare di dar vita ad un
mestiere dipendente da questo suo patrimonio, il mestiere
del carbonaio, che fu uno dei fondamenti della sua - riconosciamolo - magra economia, perché il “carbone dolce”
prodotto sull’Altopiano soddisfaceva ai bisogni di tutto il
territorio veronese. Nei pressi, di Giazza - uno dei Tredici
Comuni del Vicariato della Montagna e del Carbone - c’è
una località denominata Val Griobe; nel dialetto d’origine
tedesca, vivo un tempo, «grobe» indicava la radura dove i
carbonai innalzavano la carbonaia, quindi dovremmo interpretare il nome: Valle della Radura. Di queste radure in
mezzo ai boschi della Lessinia se ne trovano parecchie,
anche se il “carbone dolce” non si produce più, sostituito
un po’ alla volta dal carbone fossile, dal gas proveniente
dalla distillazione del carbone coke, dai sottoprodotti del
petrolio, dal gas metano ecc.
Ai tempi in cui i carbonai ci rifornivano di carbone, nelle
cucine dei palazzi come in quelle delle più modeste abitazioni - accanto al focolare dove, soprattutto d’inverno,
si accendeva il gran fuoco per preparare la polenta e nelle
famiglie benestanti anche per le belle schidionate (polenta e osèi) - c’era il fornello costruito in mattoni, l’antenato
della cucina economica, scomparsa da poco anch’essa.
Sul fornello che aveva tre o quattro buche e su qualche
fornello supplementare, in ferro o in terracotta, non più
grandi di una comune pentola e con i manici per essere
trasportati da un angolo all’altro del focolare, si cuoceva
ogni pasto della famiglia.
Possiamo immaginare quanto carbone e carbonela si dovevano acquistare. Vediamo pertanto come questi prodotti venivano ricavati e venduti. In primavera i carbonari
diradavano il proprio bosco, ossia abbattevano le piante
più vecchie e sfoltivano i rami di altre, quindi portavano
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ad asciugare sulle radure i pezzi raccolti; alla fine di maggio o all’inizio di giugno preparavano le cataste, generalmente a forma emisferica, [sopra una buca poco profonda, lasciando nel mezzo uno stretto canale di sfogo detto
camino, per i prodotti gassosi. Coprivano ben bene le cataste con foglie secche e zolle di terra - i còdeghi -, quindi
davano loro fuoco da alcune aperture praticate nella parte
inferiore, alimentandolo giorno e notte con pezzi sottili di
legno, fino a quando, divenuti chiari i fumi uscenti dal camino, si aveva la certezza che la combustione della legna
era bene avviata. A questo punto, ed erano passati per lo
meno quattro giorni, i carbonari chiudevano le aperture.
Per non abbandonare la calcàra - così chiamavano la carbonaia -, i carbonari si costruivano accanto una capanna
dove si preparavano i pasti e, dandosi il turno, dormivano.
L’importanza di questo mestiere si può desumere da pochi dati reperiti: nel 1842 nella sola Valle d’Illasi, funzionarono ben sessanta calcàre ciascuna dal diametro di sei
passi e tre piedi. Il lavoro di controllo e di sorveglianza
durava fino a tutto agosto, fino a quando la legna con lenta combustione eliminava l’ossigeno e si trasformava in
carbone. Il buon prodotto si distingueva per il colore nero,
la resistenza e per la piccola fiamma che nel bruciare produceva; se ne distinguevano due tipi: quello in “cannelli”,
usato come abbiamo riferito sopra nell’economia domestica, e quello in “ramagli”, quello fornito dai rami più
piccoli e che nel Veneto era chiamato carbonela, utile per
avviare il fuoco nei fornelli di cucina.
A carbone funzionava anche il ferro da stiro: teniamo a
mente che fino alla comparsa di quello elettrico, tutte le
stiratrici e le donne di casa hanno stirato colletti inamidati,
sottogonne, camicie da giorno e da notte tutte pieghettate
e ogni altro indumento con ferri a carbone, oggi ricercati
nei “mercati delle pulci”, dove per lo più si trovano falsi...
Anche i ragazzi usavano il carbone, sottraendolo dalla
cassa dove la mamma lo teneva, per segnare sul marciapiede il gioco del campanon, per sfogare sui muri delle
case le loro fantasie artistiche.
I carbonari facevano il viaggio dalla montagna alla pianura con i loro carretti dalle grandi ruote, stretti e lunghi
- adatti alle anguste carreggiate di montagna - carichi di
sacchi di carbone, fino a quando la stagione autunnale lo
consentiva, quindi riprendevano il traffico in primavera.
Generalmente trovavano in città un logo, cioè un magaz-
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zino-deposito, e lo affidavano in gestione ad una persona di famiglia o di loro fiducia, che rifornivano anche
di legna e di ghiaccio: dall’intraprendenza dei carbonari
nacque un altro mestiere, quello del masarol - così era
chiamato il rivenditore di carbone, ghiaccio e legna - che
la generazione degli anziani deve ricordare ancora perché presente - e quanto apprezzato! - anche nei duri anni
dell’ultima guerra.
36. Colonnette
Se dal fondovalle ci portiamo ora verso l’alta Lessinia, vedremo che il modo di esprimersi cambia rispetto all’ambiente ed ai materiali con i quali e sui quali era possibile
operare. Lasciando i centri abitati e spostandoci lungo
le dorsali, potremo vedere su qualche dosso e crocevia,
soprattutto nella Lessinia Orientale, tutta quella serie di
pietre lavorate - le colonnette - tipica espressione di una
fede tutta legata sia a fatti contingenti sia ad un paesaggio
essenzialmente lessinico. Le più antiche testimonianze
di quest’arte “cimbra” si trovano, restando dentro l’area
tredici-comunigiana, nella zona di San Mauro di Saline,
dove durante un restauro del campanile della chiesa di S.
Moro, sono state rinvenute una quindicina di statuine in
ferro battuto raffiguranti degli oranti.
Per trovare però delle testimonianze legate alla tipica
espressione locale dovranno passare circa altri tre secoli,
per arrivare così alla prima metà del ‘500 quando per un
fatto ben preciso, la pestilenza che in quei tempi mieteva
numerose vittime anche nelle valli, i montanari pensarono bene di propiziarsi la Beata Vergine, il S. Bambino
ed alcuni Santi. Nella pietra lavorata perciò, per circa un
secolo, vedremo protagonisti quattro figure: la Beata Vergine, il S. Bambino, San Rocco e San Sebastiano assunti
a protettori dal flagello.
Le tavolette di pietra tenera erano inserite in colonnette e il tutto divenne così tipica espressione del periodo.
Cessato il pericolo della peste, rimase la tradizione e i
montanari per questo o quel fatto. per e questo o quel bisogno, sempre rivolsero la loro attenzione alle due figure
principali, ora però accompagnate da qualche altro santo
o da sole.
Verso la fine del ‘600 nasceranno le “colonnette del madonaro”, colonnine di pietra rossa terminanti a nicchia,
dove veniva direttamente scolpita sempre a mezzo busto,
Lessinia
la Beata Vergine con al suo fianco, in piedi, il Bambino.
La tecnica usata è quella detta “a stampo”; non troviamo
infatti alcuna sfumatura ed il tutto è ricavato abbassando
di poco il piano della superficie scolpita.
La fioritura di questa particolare arte plastica è legata
soprattutto al territorio compreso tra Durlo (alta Val del
Chiampo) e a Campofontana (alta Vai d’Alpone). Una
tecnica molto semplice permette con poche linee essenziali di arrivare alla descrizione della figura, migliaia di
volte ripetuta in altre opere “dotte” da scultori che in secoli di storia si sono avvicendati in opere stupende.
Nelle o nostre colonnette l’immagine voluta è risolta in
pochi tratti che fanno intravedere nella loro semplicità descrittiva ciò che autore e committente avevano in animo.
L’ingigantimento della figura principale rispetto all’insieme, che molte volte si nota su queste immagini scolpite,
non è altro che un modo per rendere importante la figura scelta che sarà quella volutamente esasperata. Molte
leggende sono nate intorno a queste opere, che divennero
così anche simbolo di questo o di quel fatto, di questa o di
quella “storia”.
Ne citeremo, ad esempio, una raccolta nella zona di Bolca
in contrada Casoni, contrada che si raggiunge percorrendo la strada che da Bolca porta a Sprea, antica frazione
di Badia Calavena, e seguendo una stradina laterale alla
nostra sinistra, poco prima della frazione.
Prima di entrare nella contrada Casoni noteremo verso
valle un bel capitello datato 1849. Esso è caratterizzato
all’esterno da un bel cancelletto in ferro battuto che evidenzia una delle più ricche ed antiche attività della vallata
sottostante. Aprendo questo, potremo notare all’interno
una bella tavoletta in tufo raffigurante le quattro tipiche figure dell’arte sulla Lessinia: la Beata Vergine e il Bambino con a lato San Rocco e San Sebastiano. La tavoletta del
XVI sec. è perfettamente conservata, se escludiamo una
certa “levigatura” dovuta al tempo. La “storia” racconta
come molti secoli fa tale “madoneta” fosse inserita in un
capitello molto più stretto (sicuramente una colonnetta);
il proprietario di questa, volendo cambiar casa, decise di
portare con sé tra le sue poche cose, anche la “madoneta”;
se la caricò così sulle spalle togliendola dall’abituale sede
e si incamminò verso valle (verso Badia); si accorse però
con stupore che man mano che scendeva il peso portato
aumentava sempre di più fino ad impedirgli quasi il cam-
mino; ad un certo punto, non sopportando più il peso, egli
esclamò: “Munifica, come te pesi!” (Munifica dal latino
“munificus” è aggettivo spesso usato nei riguardi della B.
V. in sinonimo di “generosa”) e scaricato il pesante fardello per riposarsi un po’, decise di riportarlo indietro,
non potendo certamente abbandonarlo. Con meraviglia, si
accorse così che durante la strada del ritorno, il peso diminuiva sempre più, diventando normale e quasi nullo nelle
vicinanze del luogo da dove era partito. La “madoneta”
tornava così com’evidentemente voleva, al suo luogo
d’origine, dove alcuni anni dopo venne eretto il capitello
ancor oggi esistente, testimone della storia raccontata.
Se ci spostiamo ora verso la Lessinia Centrale, notiamo
che viene a cessare il tema sin qui visto e la figurazione
viene sostituita da “stele” (pilastrini di pietra) e da Crocifissioni. Quest’ultimo tema, verso la fine del ‘700, verrà a sua volta molto sintetizzato e solo la grande Croce
sormontante un basamento verrà assunta a protezione dei
luoghi. In genere tutte queste ultime opere portano se non
il nome dell’artista, almeno le iniziali del committente e
le semplici lettere: F(ece) F(are) P(er) S(ua) D(ivozione).
Difficile arrivare, come per la pittura, agli autori e pochi
sono i nomi conosciuti: un certo Andrea Tinelli da Caprino, autore delle grandi Croci (un esempio lo possiamo vedere davanti alla Parrocchiale di Colognola ai Colli); un
certo Benigno Peterlini da Glacia (Giazza) e per ultimo
Giorgio Signore, famoso lapicida di Campofontana, che
ha operato in zona fino alla prima metà del ‘900.
Oltre al tempo, anche altri motivi meno contingenti hanno contribuito al deterioramento o alla sparizione delle
opere sin qui viste, soprattutto delle colonnette; alcune di
queste pietre lavorate infatti facilmente asportabili, dato il
loro isolamento, sono finite molto lontano dal loro luogo
d’origine, dove avevano senso di essere.
Infinite ricerche e proposte possono scaturire dalla conoscenza di questo “piccolo grande patrimonio d’arte” che
in Lessinia ha avuto i natali ed un fiorente sviluppo evidenziando anche come in un ambiente montanaro, legato
a rudi schemi di vita, non mancasse la poesia.
Si è visto come i mezzi espressivi cambino in rapporto
all’ambiente in cui si opera; l’uso della pietra infatti sarà
sempre trovato in ambienti prettamente “alpini”, dove il
materiale era più vicino agli operatori; in contrapposizione, vedremo che l’uso del colore e di conseguenza di tutta
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quella serie di pitture di fondovalle, trovano terreno fertile in zone più collinari perché sia per il reperimento dei
materiali, ma soprattutto per una maggior vicinanza alla
città, veniva ad essere molto più probabile quel contatto
con altre culture indispensabile ad una maggior espressione. Piccoli tesori sono dunque sparsi lungo il territorio
lessinico, tesori che attendono d’essere maggiormente conosciuti, conservati e valorizzati.
37. Confini e Valli
Situata per la maggior parte nella provincia di Verona e,
parzialmente in quella di Vicenza, chiusa a Nord dalla profonda e selvaggia Valle dei Ronchi e dal maestoso gruppo del Carega, delimitata ad Est dalla Valle del Leogra,
a Sud dal corso dell’Adige e dall’alta pianura veronese e
ad Ovest dalla Val Lagarina, la Lessinia è quasi un’unità
a sé stante nell’ambito delle Prealpi Venete. La solcano
numerose valli che dagli alti pascoli scendono e si spiegano a ventaglio verso Verona e la pianura. Procedendo da
Ovest verso Est, troviamo le valli di Fumane, di Marano e
di Negrar (che insieme costituiscono un’unità che ha più
carattere storico che geografico: la Valpolicella) e poi le
valli Pantena, di Squaranto, di Mezzane, d’Illasi, le valli Tramigna, d’Alpone, di Chiampo e dell’Agno. Le sue
alture ad Ovest rientrano nelle Prealpi Venete, con cime
tra i 1500 e i 1800 m., e il gruppo del Carega a Nord-Est
(che supera i 2200 m.). La fascia centrale si attesta invece
tra i 1000 e i 1300 metri. Il territorio rientra soprattutto
nei confini della provincia di Verona e in parte minore in
quelli delle province di Vicenza e di Trento.
Dal punto di vista geologico, il territorio si caratterizza
per la presenza di rocce sedimentarie e rocce vulcaniche.
Acqua, ghiaccio e vento hanno nel tempo dato origine ad
una consistente erosione, che si manifesta anche in svariati fenomeni carsici (con doline, grotte, voragini) e varia modellazione delle rocce. Il clima è mite e temperato,
perché la zona è riparata dai venti del Nord grazie alle
cime settentrionali. Le zone inferiori godono poi di un
clima relativamente asciutto. La dolcezza del clima ha
consentito la coltivazione d’alberi da frutta, e vegetazione
spontanea di lecci, frassini, roverella ecc. Tra i 500 e i 900
m. compaiono castagneti e querceti, mentre più in alto c’è
la faggeta, accompagnata da abete rosso, larice, betulla.
Dai 1600 m. iniziano i pascoli.
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L’intenso utilizzo da parte dell’uomo e la caccia hanno
ridotto di molto la consistenza del patrimonio animale.
La zona (abitata fin dal Paleolitico) infatti, è stata oggetto
di un consistente sfruttamento, inizialmente di tipo unicamente forestale (per il legname e il carbone) e poi anche
per ricavare pietra da costruzione. Tale fenomeno, storicamente, si è connesso all’insediamento di una colonia
bavaro-tirolese, iniziato nel XIII secolo. Il fenomeno s’intensificò nel 1700, per opera di mercanti veronesi. L’insediamento di queste popolazioni d’origine germanica interessò in particolare le zone più alte dell’altopiano (i c.d.
Tredici Comuni), non abitate dalla popolazione autoctona, che si concentrava nelle parti basse, dove era arrivata
la colonizzazione romana. Questi Comuni detti Cimbri
godettero per secoli di una certa autonomia, concessa in
ragione della povertà delle popolazioni e del servizio militare di controllo dei passi che questi svolgevano. Della cultura, della lingua e delle tradizioni di quei popoli
germaniche restano oggi ancora alcune tracce e qualche
elemento di vitalità.
La natura e la cultura delle popolazioni insediate in questo
territorio, il modo di vivere e di lavorare hanno plasmato
col trascorrere dei secoli un paesaggio molto particolare,
che oggi si tenta di preservare e valorizzare grazie all’istituzione del parco regionale dei Monti Lessini.
38. Fauna e Habitat
Per la varietà ambientale ed ecologica dell’area, la fauna
dei Monti Lessini si presenta ricca e diversificata. Dallo
studio faunistico elaborato per la redazione del Piano Ambientale del Parco, risultano presenti 181 specie di fauna
vertebrata, esclusi i pesci, ed un numero elevatissimo di
specie invertebrate.
Gli Uccelli sono il gruppo più ricco, con 113 specie osservate nel corso dell’anno. Vi sono alcune specie tipicamente alpine e legate agli ambienti rupestri o forestali,
come il Fagiano di monte, il Gallo cedrone, il Francolino
di monte, l’Aquila reale, il Picchio nero. Altre specie di
estremo interesse sono il Gufo reale, un rapace notturno
in forte contrazione in gran parte d’Italia, la Civetta nana
e la Civetta capogrosso, due specie presenti in Italia solo
sull’arco alpino. Altri uccelli tipici delle alte quote sono
il Gracchio alpino, il Sordone, il Fringuello alpino ed il
Picchio muraiolo. Nel settore vicentino del Parco è anche
Lessinia
presente, come nidificante, il Falco pecchiaiolo.
Tra i grandi mammiferi è presente nell’ambiente forestale
il Capriolo, mentre il Camoscio, più raro, domina le praterie d’altitudine, i ghiaioni e le pareti rocciose al confine
con la provincia di Trento. Lo Scoiattolo ed il Ghiro sono
piuttosto frequenti nelle aree forestali.
I prati, i pascoli ed i margini di bosco ospitano popolamenti di micromammiferi. Le specie più frequenti sono il
Toporagno comune, il Crocidura ventrebianco, l’Arvicola
sotterranea e l’Arvicola di Savi, che costituiscono le prede preferenziali di molti rapaci diurni e notturni e di mammiferi carnivori come là Volpe. Numerose, infine, sono le
specie appartenenti alla “fauna vertebrata minore”, ossia
Rettili, Anfibi e Pesci, così come a quella invertebrata,
con numerose specie legate agli ambienti cavernicoli.
39. Ghiaccio
Tra i “gioielli” di architettura spontanea della Lessinia, un
posto di rilievo va dato alle “giassàre”, quelle rotonde costruzioni che un tempo non molto lontano, punteggiavano
i morbidi dossi ed i verdi pascoli della nostra montagna.
Il commercio e la produzione del ghiaccio tra questi verdi
silenzi risalgono al XVI sec., ma saranno il ‘700 e l’800
a dare il maggior sviluppo a quest’attività, motivo di sostentamento, ma spesso anche d’incontro tra due mondi,
che continuerà fino al primo dopoguerra, momento in cui,
a causa dell’industrializzazione del settore, le “giassàre”
vedranno sciogliere il loro carico.
L’impianto di produzione consisteva essenzialmente in
due componenti: la pozza, dove si produceva il ghiaccio,
e la “giassàra” vera e propria, dove esso si conservava.
Importante era anche l’ubicazione, sempre in luoghi scarsamente soleggiati, in versanti a tramontana, ombreggiati
da alberi, ad altitudine variante dai 700 ai 1000 metri.
Il maggior centro di produzione era certamente in Lessinia Centrale, nella dorsale Cerro-Boscochiesanuova e
nel territorio di Sant’Anna, dove ancora oggi è possibile
vedere alcuni interessanti esempi di queste costruzioni.
La pozza che raccoglieva l’acqua piovana era sempre di
forma circolare, con una profondità di circa un metro e
con una superficie variante intorno ai 200 metri, col fondo
reso impermeabile dall’argilla che veniva spesso “battuta” dagli zoccoli delle vacche.
La vicina costruzione, la ghiacciaia, era costituita da un
pozzo profondo mediamente 15 metri, di cui due sopra
terra; il diametro variava intorno ai 10 metri. Costruito
esclusivamente in pietra, in sasso, il pozzo era coperto o
col “canel”, la canna palustre, che formava la caratteristica copertura a cono, o da un tetto in “lastra” spiovente da
un lato, sostenuto da grosse travi di legno.
Nella parte a vista, la rotondità del pozzo era interrotta
da due finestre, una verso la pozza per il caricamento del
ghiaccio ed una verso strada per il recupero del prodotto. Durante il periodo estivo si provvedeva alla pulizia
del complesso in preparazione alla futura attività. Tra dicembre e febbraio iniziava la formazione del ghiaccio in
pozza e quindi il lavoro per i “giassaròi”. A San Zeno di
Montagna sul Monte Baldo, dove è ancora visibile una
“giassàre” in località La Quercia, il taglio iniziava per
l’uso il 9 dicembre, giorno di San Siro.
Con cadenza settimanale si procedeva al taglio e al recupero del prodotto; con delle affilate accette, le “segure”, e
con l’aiuto di un asse a misura della lastra di ghiaccio voluta, si procedeva partendo dai bordi della pozza al taglio
delle prime lastre che generalmente erano di misura variante intorno al metro di lunghezza per 0,70/ 0,80 di larghezza, con uno spessore di 10 centimetri circa. Il gruppo
di lavoro era formato da una decina d’uomini, ciascuno
con un compito ben preciso. Due sulla “barca”, la parte
di ghiaccio che galleggiava al centro della pozza, che si
occupavano della rigatura e del taglio, gli altri fuori della
pozza per il recupero tramite ganci delle lastre estratte e
per il calo in “giassàra”, con l’aiuto d’argani, del prodotto. Nel pozzo, le lastre così raccolte erano depositate in
gruppi di due/tre andando a formare il “solaro” che doveva presentare verso l’alto sempre la parte ruvida e non
la parte che era stata a contatto diretto con l’acqua della
pozza, questo perché la parte troppo liscia non avrebbe
logicamente permesso a chi stava in “giassàra” per il recupero, di stare in piedi. Tra un “solaro” e l’altro, e sul
fondo, affinché gli strati non facessero tra loro presa, si
metteva uno strato di paglia e foglie; gli spazi vuoti erano
riempiti con neve e ghiaccio tritato.
Alla fine dell’inverno, le due finestre della “giassàra” oramai piena, si pensi a circa 400 mc di prodotto, venivano
chiuse con paglia e fascine o da una porta di legno, che si
apriva nei primi giorni della stagione calda, quando iniziava l’estrazione del prodotto dalla “banca del ghiaccio”.
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Con l’aiuto del “fusel” (argano), si facevano salire le lastre, che un “giasaròl” legava da dentro il pozzo, direttamente alla finestra verso strada da dove venivano caricate
“a cortei” (di costa) sulle “carète”; su questi originali carri
molto lunghi e stretti, rivestiti di lamiera, a sera inoltrata affinché la temperatura fosse più fresca e ci fosse così
minor perdita di prodotto, i nostri “giasaròi” iniziavano
i Toro notturni viaggi verso le “basse” per offrire il loro
prodotto agli abituali clienti: “i siori”, i macellai, i gelatai,
ma spesso anche alberghi e ospedali. Un simpatico proverbio, legato al chilometrico rigagnolo che “segnava” il
loro passaggio, affermava che “i giasaròi i trasformava
l’acqua in vin”, questo per sottolineare che parte del loro
guadagno veniva spesso “trasformato” nelle osterie della
città, a quel tempo forse modesta ed unica variante alla
loro dura e “fredda” attività.
Per vendere il ghiaccio, occorreva una speciale licenza rilasciata dal Comune; per questo motivo sulla sponda della carretta era d’obbligo mettere un cartello: “vendita di
ghiaccio naturale per uso domestico”. Il viaggio dal luogo
di produzione era spesso difficoltoso; il sonno e le strade
erano i naturali elementi che accompagnavano “el giassaròl” durante il suo lungo tragitto. Nella discesa il conducente lasciava spesso allo stesso cavallo l’onere della
guida, non dimenticando mai però, soprattutto nei tratti in
curva, di azionare “la macanica”, il freno a mano, affinché
la “velocità” non causasse sbandamenti o incidenti.
Considerando che mediamente da ogni “taglio” era possibile raccogliere circa 300 q.li di prodotto, si può dedurre come quest’attività fosse un buon sostentamento alla
magra economia familiare di allora. L’arrivo in città dei
“giassaròi” era spesso accompagnato dalla “maràja” dei
ragazzini in festa per questa “novità”; piccole figure per i
quadri di Dall’Oca e soggetti per il Barbarani, frammenti
di ghiaccio “rubati” alla svelta, “marene” fresche, sprazzi
di vita popolare, incontro “de pitochi “. Momenti di vita
montanara, momenti irrecuperabili.
40. I Cimbri
E’ tramontata l’ipotesi degli eruditi rinascimentali, secondo cui le popolazioni dei XIII Comuni Veronesi e dei VII
Comuni Vicentini derivano dai Cimbri, sconfitti da Mario
sull’Adige. E’ invece documentato che verso la fine del
sec. XIII alcune schiere tedesche, venendo dal Vicenti-
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no, ricevettero dal Vescovo di Verona – Bartolomeo della
Scala (1287) – in regolare investitura una grande e ben
determinata estensione nella zona di Roverè di Velo.
Alcuni anni dopo, i tedeschi compaiono ad Est nella Valle
del Progno (d’Illasi), e nel 1333 parecchi di loro vengono ad una convenzione con l’Abate del Monastero di San
Pietro di Calavena. A poco a poco, essi si spingono a nord
verso Sant’Andrea, forse l’estremo punto cui giungeva
la popolazione italiana in questa valle, giacché, più oltre,
non c’erano che selve; poi avanzano verso sud, facendo
proprio il luogo detto Saline, e si distendono qua e là ad
est verso Sprea e Scandolara. Da Ovest avviene pure l’immigrazione verso località limitrofe.
Verso Nord da Sant’Andrea (Progno) entrano nella selva, formando il nucleo detto perciò Selva di Progno, e
successivamente di San Bartolomeo Tedesco, ed infine di
Campofontana (1223 m.) e di Giazza (758 m.) sul declivio meridionale del Campostrin, ultimo punto al quale gli
abitanti della vallata osarono internarsi nella gola della
montagna, occupando così tutta la zona a nord di Verona
che va sotto il nome dei XIII Comuni Veronesi, sui monti
Lessini.
Il loro numero non si mantenne sempre costante. Il numero XIII corrisponde ai Comuni che nell’ultimo periodo
della dominazione veneziana costituirono il «Vicariato
della Montagna», detta «del carbone». L’istituzione del
Vicariato è antica, ma dapprima esso non era composto
che di un numero minore di Comunità. L’appellativo
XIII Comuni appare per la prima volta in una statistica
del 1616. Essi sono: Velo, Roverè, Valdiporro, Azzarino,
Camposilvano, Selva di Progno (con Giazza e Campofontana), S. Bortolo delle Montagne, Badia Calavena, Saline,
Chiesanuova, Tavernole, Erbezzo, Cerro o Alferia. Giazza fu sempre unita a Selva di Progno, anche dal punto
di vista ecclesiastico; assunse qualche importanza solo
quando fu eretta in Parrocchia (1798). La tradizione addita quale chiesa più vecchia del villaggio una cappellina a
nord della parrocchia attuale. Nel 1797 cessò il Vicariato
della Montagna, e fu costituito il Distretto della Montagna, che comprendeva lo stesso territorio: capoluogo fu
Badia Calavena. Sotto la dominazione austriaca Badia
Calavena restò centro di un Distretto che corrisponde solo
in piccola parte all’antico Vicariato; di esso più tardi diventò capo Tregnago, come fu con il Governo italiano ed
Lessinia
è tuttora.
L’esame del dialetto, attentamente eseguito dallo Schmeller e dal Bergann, provò che il linguaggio dei cosi detti
Cimbri è un dialetto tedesco, com’è quello delle popolazioni dei VII Comuni. Anticamente tale idioma era parlato in tutto il territorio dei VII e XIII Comuni, da cui se ne
deduce la comune origine, e così continuò per alcuni secoli. Gradatamente però il bisogno di commerciare spinse
tanto le une che le altre ad aver bisogno di comunicare con
le genti vicine e così, per necessità, si dovette adottare anche la lingua italiana Quest’ultima finì per imporsi, specie
nelle zone esterne, tanto che verso il 1700 si parlava tedesco soltanto a Giazza, Selva di Progno, Campofontana e
nelle contrade superiori di S. Bortolo; altrove era parlato
solo dai vecchi. Oggi la lingua d’origine si parla soltanto a
Giazza, e purtroppo anche qui sta scomparendo, con danno dell’etnografia e del folclore, destando giusti allarmi.
41. I Covoli di Velo
Scendendo lungo la valle che porta a Selva di Progno,
gli appassionati di speleologia possono visitare i Covoli di Velo. Questi si aprono sul fianco destro della valle
del Covolo, una trentina di metri al di sopra di un’antica
mulattiera, ed hanno uno sviluppo complessivo di 545 m.
Essi formano un complesso di gallerie scavate dall’acqua
nelle dolomie del Lias superiore (circa 170-180 milioni di
anni fa), costituite da ampi vani e da un discreto numero
di cunicoli collegati da strozzature. Nel periodo glaciale,
furono abitate dall’Orso speleo di cui sono stati trovati interessanti resti. Le due gallerie principali sono dette grotta
superiore e grotta inferiore. Entrambe sono celebri nella
letteratura paleontologica, per i depositi quaternari inglobanti una grande quantità di resti dell’Orso delle Caverne
(Ursus spelaeus). Sono pure presenti in minor misura: il
Leone delle Caverne, la Iena, l’Alce, il Cervo ed altri animali vissuti in quel periodo.
Recentemente, a cura della Comunità Montana della Lessinia, è stato realizzato un percorso didattico, per valorizzare la zona e dare accesso ai turisti che visitano la montagna lessinea.
42. I Forti
Con Il passaggio del Veneto all’Italia (1866), il confine
con l’Austria venne a trovarsi sulla linea dell’attuale de-
marcazione tra il Veneto e il Trentino Alto Adige, o meglio ancora tra la provincia di Trento quella di Verona.
La città scaligera, quindi, era praticamente sulla linea di
confine, considerando che la Lessinia degrada dolcemente verso la città e che alcuni punti dell’altopiano erano territorio austriaco (vedi Sega di Ala, Monte Corno, Malga
Foppiano e il terreno attorno a Castelberto). L’attenzione
dei militari doveva per forza cadere sull’altopiano stesso
impostando fortificazioni in modo tale che penetrazioni
dalla valle dell’Adige, dalla Val dei Ronchi verso passo
Pertica e dal declivio della Lessinia fossero impossibili.
Nonostante il trattato della Triplice Alleanza, era ancora viva la diffidenza verso l’Austria vista sempre come
“l’antico nemico” dal quale premunirsi con trattati, ma
anche con fortificazioni. Vero è che fin prima della guerra
1914/18 la Germania premeva sull’Austria per una parziale cessione del Trentino ponendosi come garante per
strappare all’Italia una neutralità di comodo, ma è altrettanto vero, con senno di poi, che l’Austria preparava
un’invasione in grande stile del nostro Paese. La diffidenza era padrona delle parti e inevitabilmente si progettarono e realizzarono strutture permanenti di difesa, che talvolta s’inserirono in armoniosa simbiosi con il paesaggio,
tal altra deturparono le sommità dei monti (strutture in
pietra di rosso ammonitico, cui hanno fatto seguito pesanti opere in calcestruzzo).
Inizialmente, dopo l’annessione del Veneto al Regno d’Italia, l’amministrazione militare ristrutturò le fortificazioni
austriache preesistenti nella zona strategica all’imbocco
della Val d’Adige -sbarramento Rivoli (Forte Monte già
Forte Mollinary - Forte Ceraino già Forte Hlawaty - Forte
Rivoli già Forte Wohlgemut e Forte Chiusa). Questi interventi riguardarono aperture di nuove cannoniere in casamatta nel settore Nord, con conseguente chiusura parziale
di quelle rivolte a Sud e ad Est, in relazione ai differenti
“potenziali” nemici, con relativa diversa ripartizione interna. Di fatto, le bocche da fuoco ebbero una rotazione
sul proprio asse di 180 gradi Sud-Nord. Successivamente,
a partire dal 1880, mentre gli ingegneri austriaci completavano la costruzione del campo trincerato di Trento e dei
forti siti sugli altopiani di Lavarone e Asiago, in contrapposizione l’Italia cominciò una serie di nuove opere costituenti il sistema difensivo chiamato “linea delle Alpi”,
che si sarebbe esteso lungo tutto l’arco alpino.
43
Lo scacchiere del M. Baldo e della Lessinia costituiva
l’estremità ad Est, si proseguiva quindi verso Arsiero,
Asiago, Primolano, il Cadore e la Carnia per terminare
a Ovest, con quella serie di opere fortificate poste a Nord
della laguna di Venezia. Dal forte di Amalfi, il principale di questo settore, dopo la rotta di Caporetto, partirono
quelle cannonate che, abbattendo il ponte di San Donà
di Piave, arrestarono l’avanzata Austro-Ungarica. Nella
zona presa in esame, in relazione alle tipologie costruttive
ispirate a principi tecnico-militari, possiamo distinguere
due periodi: il primo che dal 1880 arriva a fine secolo ed
il secondo dal 1905 al 1913 (vigilia della prima guerra
mondiale).
Fortificazioni del primo periodo
Nel primo periodo (forte poligonale) le opere fortificate
ebbero come sovrintendente il Rocchi, capo della scuola
italiana, ed erano caratterizzate da sistemi costruttivi e da
materiali (pietra, laterizio e masse coprenti terrose) che
non si discostavano da quelli di metà ‘800. I manufatti di
questo tipo erano considerati “a prova di bomba”, erano
cioè coperture o strutture atte a proteggere con efficacia i
locali dagli effetti delle esplosioni dei proiettili. All’epoca
era sufficiente la volta in laterizio, uno strato bituminoso impermeabile con relativi canali e gocciolatoi e una
massa in terra di circa due metri per soddisfare questa caratteristica. In particolare per quanto riguarda l’insieme,
escludendo localizzazioni particolari, la forma tipica era
quella del poligono a cinque lati con caponiere sugli spigoli del fronte principale e caponiera-rivellino, che ha sostituito il massiccio tamburo sul fronte di gola. Il ridotto,
caratteristica presenza nelle fortificazioni austriache della piazzaforte di Verona, si è trasformato in caserma atta
alla difesa e posta al centro del complesso. Gli ambienti
all’interno, in particolare quelli destinati all’armamento
e ai depositi materiali esplodenti, continuarono ad avere
caratteristiche volte a botte in laterizio. Questo materiale,
oltre ad essere usato per le strutture interne, è utilizzato
anche all’esterno, nel rivestimento delle cornici delle feritoie e di altre aperture a contrasto con la pietra, come si
nota nei forti di San Marco e San Briccio.
Le varie sfumature della pietra, dal rosso ammonitico
al bianco, in conci regolari, è l’altro materiale tipico di
queste fabbriche; utilizzato principalmente nelle opere di
44
sostegno e nei rivestimenti all’esterno. In questo periodo
l’ingegnere militare, per l’ultima volta, sentì la necessità
di tenere ancora buon conto dell’aspetto estetico, curando
molto forme ed uso dei materiali, soprattutto nei paramani, nelle cornici e negli altri particolari estetici, anteponendo spesso l’aspetto architettonico a quello meramente
funzionale e utilitaristico. Di questo periodo sono i seguenti forti: Forte Masua (Fumane), anno di costruzione
1880/85, posto a ridosso della Val d’Adige in un ampio
pianoro che ha permesso una struttura a tipica pianta
poligonale. Questo forte, data la sua posizione strategica, nel secondo periodo è stato modificato nel fronte di
gola, con la costruzione di un corpo principale angolato
in calcestruzzo con osservatorio e sei pozzi che, all’inizio
della Grande Guerra, erano dotati di cannoni da 149 A.
Altri quattro cannoni da 87 B costituivano l’armamento
sussidiario. Più a Nord una batteria omonima Masua di
Molane che, in postazione in caverna, schierava sei obici
da 120 e 4 cannoni da 87.San Briccio (Lavagno), anno di
costruzione 1883, ubicato sull’omonimo colle. Dopo lo
spianamento e lo scavo della cima si è iniziata la costruzione della struttura che appare quindi defilata rispetto al
terreno circostante. Le batterie erano poste in barbetta e
l’armamento principale era rivolto a Nord e a Est (Illasi, Val di Mezzane e strada proveniente da Vicenza). La
guarnigione prevista in tempo di guerra era di 290 uomini comprendente sia gli artiglieri sia i fucilieri. Questi
ultimi, per la difesa ravvicinata, erano concentrati nelle
due caponiere sugli spigoli e nel fronte di gola. All’inizio
della Grande Guerra il suo armamento comprendeva otto
cannoni da 149 G, 4 obici da 149, quattro mortai da 149
e 4 cannoni da 87. Anche per questo forte era posizionata
una batteria di supporto, posta a Sud-Est, a Monticelli,
che interdiva con tiri di fiancheggiamento la strada postale e la ferrovia per Vicenza. Otto cannoni da 120 G
costituivano il suo armamento.
Fortificazioni del secondo periodo
Nel secondo periodo (forte corazzato) la chimica degli
esplosivi (polvere alla balistite) e il miglioramento dei
pezzi di artiglieria, dei materiali, dei sistemi di puntamento e di tiro hanno portato a un consistente aumento delle
gittate e del potere esplodente delle granate. Di conseguenza, le strutture di difesa hanno dovuto adeguarsi ad un
Lessinia
differente sistema di costruzione dei forti. Il calcestruzzo,
il cemento armato e le blindature di acciaio hanno sostituito le masse coprenti in terra e le volte a botte in laterizio,
mentre nei paramani si è utilizzata ancora la pietra, ma
posta in opera con minore ricerca stilistica. La posizione
delle bocche da fuoco passano dalle batterie in barbetta o
in casamatta, con modesti angoli di tiro, alle torri blindate con rotazione elettrica a 360 gradi, che configurano i
forti come “corazzate terrestri”. Di questo periodo sono i
forti: Monte Tesoro (Sant’Anna d’Alfaedo), costruito nel
1905 sulla sommità del monte omonimo a quota 917, dominante la media Lessinia. Nel 1915 era dotato dello stesso armamento del Forte Masua con l’aggiunta di quattro
mortai da 149 G.Santa Viola (Grezzana), anno di costruzione 1904/13, posto a quota 830 tra la Valpantena e la
Val Squaranto. Il fronte di gola rivolto ad Ovest, presenta
una caratteristica tenaglia pronunciata avente lo scopo di
migliorare la difesa ravvicinata. Di minori dimensioni rispetto ai precedenti, era dotato di quattro pezzi che, nel
1915, erano armati con quattro cannoni da 149 A, mentre
altri quattro pezzi da 87 B erano disposti alle estremità
del complesso.A queste opere si deve aggiungere anche
il forte Castelletto, posto sull’altro crinale più ad Est del
S. Viola sulla valle di Mezzane. Poiché le due strutture
erano molto vicine, nel 1915 il forte Castelletto non aveva armamento di sorta mentre, in sua vece, quattro obici
da 120 costituivano il potenziale offensivo della batteria
Monte Griggi posta a Sud-Est (quota 603). Nessuno di
questi forti si è trovato sul fronte di combattimento nel
primo conflitto mondiale, per cui non è possibile dare un
giudizio sulla loro validità, sia per quanto riguarda l’offesa, sia per quanto attiene alla difesa.
43. Il Corno d’Aquilio - la Spluga della Preta
Il Corno d’Aquilio e il Corno Mozzo sono situati nella
parte più occidentale dell’altopiano lessinico e si elevano
rispettivamente alle quote di 1546 e 1534 m. sul livello del mare. Entrambi i rilievi sono caratterizzati, verso
occidente e meridione da ripide scarpate localmente strapiombanti, mentre sul versante settentrionale ed orientale
si trova un paesaggio subpianeggiante e dolcemente ondulato. Il Corno d’Aquilio e il Corno Mozzo sono separati
dalla profonda incisione del Vajo della Liana. La testata
del Vajo della Liana (località Pealda Bassa) è caratterizza-
ta dalla presenza di numerosi punti assorbenti attraverso
i quali l’acqua si infiltra nel sottosuolo L’area è una delle
zone degli Alti Lessini più interessanti e note da un punto
di vista carsico. Nella zona del Corno d’Aquilio sono presenti molte forme carsiche superficiali e sono note numerose cavità carsiche a prevalente sviluppo verticale.
La cavità più importante è, certamente, la Spluga della
Preta, così chiamata da sempre. La Preta è la montagna
tutta verde di pascoli e costellata di malghe, che congiunge il Corno Mozzo al Corno d’Aquilio. Spluga par che
voglia dire, nel linguaggio dei mandriani, buca. E la Spluga de la Preta è la voragine paurosa che s’inabissa per
centinaia di metri nelle viscere del monte.
Come scrive il Corrà, “la Spluga de la Preta si apre a quota 1475 sul livello del mare negli alti Lessini occidentali
ed è uno degli abissi carsici più profondi del mondo. Con
i suoi 887 metri raggiunti dalle ultime esplorazioni è precisamente il sesto, e il secondo d’Italia dopo i 920 metri
dell’Abisso Michele Gortani che si apre nel Friuli. Si tratta di una tipica dolina a piatto che al centro si modifica in
dolina a imbuto. La dolina piatta ha un diametro massimo
di 18 metri e la parte centrale, modificata a imbuto, si restringe progressivamente fino ai tre metri per quattro alla
profondità di 15 metri. Come in altri fenomeni carsici,
anche qui ci troviamo di fronte ai soliti strati che offrono minore o maggiore resistenza all’azione erosiva delle
acque, ma l’andamento dell’erosione si è più sviluppato
in verticale anziché in orizzontale. Gli strati erosi inoltre
sono cinque: il Biancone superficiale della dolina, il Rosso ammonitico, l’Oolite di San Vigilio, i calcari grigi del
Lias e le primitive Dolomie del Trias che formano la base
su cui posa l’intero altopiano dei Lessini”.
A circa 200 metri a sud-ovest della Spluga de la Preta si
apre la Grotta del Ciabattino che si può visitare, come il
Covolo di Camposilvano, senza particolari precauzioni,
mentre la Spluga de la Preta è pericolosissima e affrontabile soltanto da spedizioni di rocciatori altamente specializzati e attrezzati.
44. Il Ponte di Veja
Merita senz’altro una visita questa interessantissima località, perché il Ponte di Veia, oltre ad essere un eccezionale
monumento naturalistico, è anche una fondamentale area
archeologica, che ha permesso il ritrovamento di diversi
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reperti. Sicuramente il più rappresentativo fra tutti i fenomeni geologici della Lessinia, il Ponte di Veia è stato visitato, nel corso della storia, anche da personaggi illustri:
Dante Alighieri probabilmente vedeva davanti a sé il Ponte di Veia, quando, nella Divina Commedia, scrisse delle
malebolge infernali, mentre Andrea Mantegna ne richiama certamente l’immagine in un affresco del XV secolo.
Spiegare a parole la maestosità di una simile architettura naturale non é impresa facile. Quello che il visitatore
vede, una volta giunto sul posto, è un massiccio ponte
di roccia ad un’arcata, dello spessore di circa 9 metri e
della lunghezza di 50, sotto il quale scorre un ruscello. La
visita lo condurrà dapprima sopra di esso, per poi accompagnarlo, seguendo un sentiero, nella zona sottostante,
dove potrà godere di una visione completa, ammirando il
contrasto cromatico del rosso ammonito dell’arcata, con
il grigio del calcare oolitico degli strati inferiori.
Il Ponte di Veia è l’architrave d’ingresso di un’immensa
grotta carsica, sopravvissuto al crollo progressivo della
volta centrale: i numerosi massi ammucchiati nella zona
sottostante il ponte, documentano questi avvenimenti,
probabilmente verificatisi in tempi recenti. Sono scampate al crollo anche alcune grotte calcaree minori, alcune identificate con nomi curiosi come grotta dell’Orso e
grotta dell’Acqua, altre contraddistinte semplicemente
con una lettera alfabetica. Numerosi itinerari escursionistici attraversano il territorio circostante il Ponte, permettendo agli appassionati di trekklng di osservarne anche
l’ambiente naturale.
45. La Comunità Montana
La Comunità Montana della Lessinia è il soggetto chiamato a gestire il Parco. Anche se Parco e Comunità Montana sono due realtà strettamente legate, è comunque necessario ribadire che si tratta di due istituzioni giuridiche
distinte, la cui estensione territoriale solo in parte si sovrappone. Nella provincia di Verona il parco ricopre una
superficie di 371,89 kmq e tralasciando l’area che ricopre
il comune di Roncà (che non appartiene alla Comunità
Montana), esso rappresenta il 62% circa del territorio della Comunità Montana.
All’interno del Parco, si concentra il 74% circa del totale
dei posti letto disponibili nelle strutture ricettive dell’intera Comunità.
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46. La Foresta di Giazza
Ufficialmente la Foresta Demaniale di Giazza nasce il 10
Agosto 1911, ma la sua costituzione risale alla fine del
1800, in adempimento alle leggi per la salvaguardia e
la valorizzazione forestale dei terreni di montagna. Attualmente il bosco è il risultato di un grande intervento
di rimboschimento e della sistemazione idrogeologica
dell’alta valle d’Illasi iniziata dal Comitato Forestale di
Verona agli inizi del 1900 e proseguito fino ad oggi. La
degradazione e l’impoverimento del suolo erano dovuti
all’eccessivo sfruttamento.
Si è reso necessario imbrigliare le acque perché la particolare geomorfologia del territorio è caratterizzata da
ripidi pendii costituiti da materiale alterato dall’erosione
e detriti. Inoltre nel terreno calcareo e dolomitico l’acqua si infiltra facilmente nel sottosuolo facilitando la
formazione di frane e repentini apporti di grandi quantità d’acqua sul fondo delle valli di Revolto e di Fraselle,
ingrossando pericolosamente il torrente Progno d’Illasi.
La foresta di Giazza è situata nella fascia nord-orientale
del Parco Regionale e prende il nome dall’agglomerato
abitato più vicino, il paese di Giazza. Questo paese, noto
per essere l’ultima isola linguistica tauc’ dei 13 Comuni
Veronesi Cimbri dei Lessini, si trova ai piedi della giogaia
formata dal monte Terrazzo che divide le valli di Revolto
e di Fraselle le quali proprio a Giazza si uniscono dando
luogo alla Val d’Illasi. La Foresta occupa un territorio di
1904 ettari suddivisi sulle province di Verona, Vicenza e
Trento, coinvolgendo il territorio dei comuni di Selva di
Progno, Ala e Crespadoro; è delimitato a nord dal Gruppo
del Carega, ad ovest dai pascoli dell’Alta Lessinia, e ad
est dalla Catena delle Tre Croci.
47. La Lessinia e la pietra
La Lessinia offre una lettura sempre diversa e mai monotona, dei suoi vari aspetti. Percorrendola, analizzandola
nel cercare di conoscere la sua storia, le motivazioni dei
suoi aspetti, si scopre sempre qualcosa di nuovo.
Arte e Cultura; com’espressione artistica più evidente,
legata alla cultura religiosa, abbiamo le steli di pietra con
figure sacre a bassorilievo, composizioni dl una semplicità e di un’intensità elevatissime.
Erano sparse in tutta l’Alta Lessinia, molte sono scomparse, altre sono state raccolte nel musei, altre ancora sono
Lessinia
visibili nella stessa collocazione originaria, In un ambiente naturale che costituisce la migliore cornice e il miglIor
completamento. Oltre alle steli sacre, sono da ricordare le
numerose case affrescate, anche in questo caso, con soggetti sacri. Sono da ricordare anche le meridiane.
Ma l’arte e la cultura non si fermano a queste che sono
le manifestazioni più emblematiche. La Lessinia accoglie
un’architettura civile come le malghe e gli edifici delle
contrade che manifestano una capacità costruttiva elevata, da parte degli antichi abitanti.
AccoglIe anche ricordi della guerra 1915/1918, anche se
mai combattuta In Lessinia. Una serie di forti che vanno
dalla Val d’Adlge alla Valle d’Illasl. Accoglie tracce dl
trincee, posti di vedetta In galleria, piazzole per cannoni,
edifici un tempo destinati ad ospedali da campo. Le strade, la maggior parte delle quali è stata costruIta dal Genio
Militare dopo l’annessione del Veneto all’Italia, si individuano facilmente: sono quelle delimitate da paracarri di
pietra e delle quali possiamo ancora oggi ammirare i muri
di sostegno sempre in pietra costruiti con una precisione
ed un’accuratezza mirabile.
48. la Pesciara di Bolca
La “Pesciara” è una cava in galleria, situata nei pressi
del comune, da cui si estraggono gli strati rocciosi che
contengono i fossili. Il giacimento viene fatto risalire al
periodo fra Eocene inferiore ed Eocene medio, in seguito allo studio dei nannofossili calcarei rinvenuti: esso è
costituito da una serie di strati calcarei dello spessore di
circa 19 metri e di limitata estensione (poche centinaia
di metri quadrati). I fossili, rappresentati principalmente da pesci e piante, si rinvengono all’Interno di cinque
livelli sovrapposti, costituiti da calcari a grana finissima,
fittamente stratificati, intercalati a strati calcarei detritici
entro cui si trovano unicamente resti di invertebrati (gusci
di lamellibranchi e gasteropodi). L’alternarsi di calcari a
grana finissima con calcari detritici grossolani testimonia
un alternarsi ciclico di diverse situazioni ambientali.
In condizioni caratterizzate da acque calme simili a quelle interne di una barriera corallina o di un golfo molto
riparato, si depositarono i sedimenti a granulometria fine
che racchiudono abbondanti resti di pesci e piante, mentre una situazione caratterizzata da intenso moto ondoso
è evidenziata dalla presenza di detriti grossolani, del dia-
metro anche di parecchi decimetri, frammisti a gusci di
molluschi.
Lo studio delle associazioni faunistiche e flogistiche,
parallelamente a quello sedimentologico, ha permesso
di ricostruire l’ambiente di 48 milioni di anni fa. I pesci
di Bolca, pur appartenendo a specie marine attualmente
scomparse e rappresentati sia da pesci con scheletro cartilagineo (elasmobranchi) come gli squali, sia da pesci con
scheletro ossificato (teleostei) come l’orata, presentano
molte affinità con forme tutt’oggi viventi nei mari caldi
dell’Oceano Indo-Paciflco e dell’Atlantico. Inoltre, sono
state rinvenute forme, anche rare, affini a specie viventi
nei mari temperati.
49. La Pietra di Prun - Il Monte Loffa
Nei pressi di Sant’Anna d’Alfaedo, e più precisamente in
località Vezzarde e Monte Loffa, si aprono numerose cave
di pietra. All’interno di queste vengono estratti dei calcari marnosi rosso-biancastri noti come “Pietra di Prun” o
“Iastame”. Si tratta di un pacco di strati separati da sottili
livelli d’argilla che ne facilitano il distacco, appartenenti
alla formazione della scaglia rossa, Il cui spessore totale è
di circa 7-8 m. I cavatori hanno dato a questo complesso
di calcari talora nodulari un nome specifico in base alle
caratteristiche tecniche, alla pigmentazione (Biancòn, Lastra grigia, Loa rossa), all’uso prevalente (Seciàr, Seciaròn), alla loro posizione (Meseta de banco, Pelosa de fondo, Corso ultimo) ed in base alla facilità nell’estrazione
(Zentil). All’interno degli strati calcarei della Scaglia rossa sono frequenti i fossili, tra cui ammoniti e ricci di mare
oltre naturalmente a pesci, tartarughe e rettili marini. La
deposizione degli strati rocciosi del lastame avvenne in
ambiente marino in un tempo compreso tra circa 90 ed
80 milioni d’anni fa. La Pietra di Prun è utilizzata a Verona per lastricare marciapiedi e per rivestimenti esterni,
mentre in Lessinia viene usata nell’edilizia tradizionale
ed inoltre per delimitare il confine di prati, orti ecc.
Il Monte Loffa è, nel suo complesso, uno dei punti di riferimento più significativi per la zona di Sant’Anna d’Alfaedo, sia per la continuità della presenza dell’uomo, dal
Paleolitico all’età del Ferro, sia per la ricchezza dei ritrovamenti. Sul Monte Loffa, oltre a materiali preistorici
sono state rinvenute tombe a cista ed abitati dell’età del
Ferro.
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50. Le Attività
La Lessinia, come la maggior parte delle aree prealpine, è
una terra di antica colonizzazione ed è stata plasmata nel
corso dei secoli dall’uomo con le attività agricole e silvopastorali. Le aree a più bassa quota sono state trasformate
in vigneti, famosi per la produzione di ottimi vini come,
per esempio, il Valpolicella, in campi a seminativo ed in
prati da sfalcio. Le aree culminali dell’altopiano, invece,
sono state destinate all’allevamento bovino e, in minor
misura, ovino. A tale scopo la Faggeta originaria è stata tagliata e sostituita con pascoli e praterie seminaturali
dove si trovano malghe, casere, baite e stalle nelle quali
d’estate vivono e lavorano i pastori. Esse sono il segno più
evidente del lungo e difficile lavoro della gente di montagna, che è riuscita a creare e a mantenere un suggestivo ambiente semi-naturale, ricco di elementi culturali. In
questa sezione sono descritte le attività tipiche delle genti
della Lessinia: l’alpicoltura, la produzione del ghiaccio
e la produzione del carbone. Mentre la prima è tuttora
fiorente ed importante, le ultime due sono praticamente
scomparse da oltre mezzo secolo, perché “superate” dalla
tecnologia e dalle fonti energetiche alternative.
51. le Contrade
Molti ricercatori hanno tentato di dare la spiegazione più
verosimile al termine “contrada”, tenendo presente, soprattutto qui da noi, la struttura di quella lessinica. Ma
l’interpretazione più convincente di tutte sembrerebbe
essere quella dl nucleo dì due o più abitazioni civili con
annessi edifici rurali aventi in comune una strada (forse
dal latino popolare cum strata, strada lastricata, strada
battuta).
A parte l’etimologia, la contrada “tipo” in Lessinia, a nostro giudizio, non c’è e non c’è mai stata, per una serie di
motivi dipendenti dalla conformazione del terreno, dalla
migliore o più consona collocazione dei fabbricati al riparo dai venti o ad una loro più idonea esposizione al sole,
dalla prossimità di qualche vena d’acqua, dalla garanzia
che Il sottosuolo su cui poggiavano le fondamenta era la
più confacente, dalla facoltà di poter costruire sul proprio terreno senza dover spendere soldi per acquistarlo
e dall’eventualità di potervi aggiungere altre costruzioni
accanto, risparmiando così materiali e tempo, dalla maggiore comodità di raccogliere il fieno nei fienili e da varie
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altre circostanze, non ultime quelle della vicinanza ad un
qualsiasi tracciato di strada preesistente e dall’appagamento anche delle proprie ambizioni.
Se si esamina da vicino, una ad una, per far un esempio, le
contrade della Lessinia occidentale (Sant’Anna d’Alfaedo-Fosse-Ronconi e dintorni, per esempio) si potrà verificare anzitutto che nessuna di esse ha una sua particolarità
d’impianto che sì possa prendere a modello per le altre. Ci
si accorgerà anche che sia la struttura edilizia, sia l’assetto
planimetrico, sia i materiali usati, sia le linee architettoniche, sono molto diversi da quelli della Lessinia centrale
(Boscochiesanuova, Velo Veronese, San Mauro di Saline)
e soprattutto, da quelli della Lessinia orientale (alta Val
d’Illasi e alta Val d’Alpone).
Consideriamo per un momento le contrade di Vaona,
Fosse, Breonio, Ronconi, Zivelongo, Cona, Vaggimal,
Spiazzo, Gorgusello (che è una delle vecchie contrade tra
le più caratteristiche della Lessinia per le sue costruzioni interamente in lastame di Prun); esse pur essendo in
un’area lessinica tutta particolare, pure non si identificano
alle altre se non per i materiali da costruzione e per qualche altro particolare architettonico. Osserviamo adesso le
contrade Tinazzo, Zamberlìni, Beccherll, Brutti, Covile,
Falz, Bortolettì, Cuniche, Croce, Campe, Stander, Valle
di Velo ecc, in Lessinia centrale, che sono ubicate attorno
ad Erbezzo, Boscochiesanuova, Roverè Veronese e Velo
Veronese; non ve n’è una che abbia il medesimo impianto
planimetrico.
Se passiamo infine alla Lessinia orientale, tra la Valle
del Progno-IlIasi e la Valle del Chiampo, le contrade assumono una loro differente fisionomia e dimostrano che
l’uomo ha adattato i suoi indirizzi costruttivi, ma anche i
suoi interessi, al luogo (al posto) In particolar modo, senza badare a schemi precostituiti.
In quella plaga della Lessinia possiamo indicare contrade
come Pagani, Grisi, Pelosi, Furlanl, Campilgeri, Gugorl,
Fiori, Gaiga, Ambrosl, Venchl, Martelletti, Valcasara,
Valtanara ecc.; un discorso a parte meriterebbe la zona di
Giazza e relativa valle, in cui le forti pendenze del terreno
e l’esiguità deglI spazi costruttivi hanno consiglIato la polarizzazione degli edifici, a stretto contatto l’uno dell’altro, Ognuna delle predette contrade insiste su un suolo
specifico che tiene conto di tutti quelli elementi - o di una
gran parte di essi - di cui si e’ fatto cenno dianzi: sole,
Lessinia
acqua, aria, sottosuolo, facilità di svegramento, reperibilità di materiali edilizi e d’impalcature adatte a costruire,
facilità di transito, resa dei terreni.
A questo punto sarebbe necessario un minimo di confronto sui materiali costruttivi, ma il discorso si farebbe lungo;
diremo solo che in Lessinia Occidentale il materiale più
usato è il “Iastame” di Prun e dintorni; in Lessinia centrale sono ricorrenti ancora, ma in misura più ridotta (perché
il lastame della Lessinia centrale è molto più grosso come
spessore, quindi molto più pesante), i tetti sono in pietra
di Prun, ma le murature sono fatte preferibilmente in rosso ammonitico; in quella orientale, infine, i tetti sono di
cotto e i muri in scaglia bianca (il cosiddetto scojo), per
arrivare ai muri misti con pietra vulcanica in Vai d’Alpone. In tale zona esistono coperti con lastame di pietra solo
le gronde e la cosiddetta “penè” (i muri laterali).
In quasi tutto il territorio, - quello d’origine cimbra in particolar modo - per costruire i montanari preferirono contare
anche su un principio basilare: quello del mutuo sostegno,
della solidarietà, della reciprocità d’interessi. Il capofamiglia costruisce la casa e la stalla al figlio che si sposa o ad
un parente prossimo, accostate alla propria casa, schierate a fianco, dove una costruzione sostiene l’altra, con i
muri piuttosto grossi, per cui il calore d’inverno e il fresco
d’estate si conservano più a lungo. Così nascono i nuclei
abitati (contrade) che in questi ultimi anni si è cercato di
imitare con le cosiddette “case a schiera”.
Generalmente, nelle contrade della Lessinia, le case e gli
altri edifici rurali sono allineati su una o due o più linee
del terreno, secondo lo spazio disponibile e la pendenza
dello stesso, ed esposti al sole. Sono, invece, distribuiti
attorno ad un’area centrale, una specie di “corte” (come
contrada Zivelongo), attorno cioè ad uno spazio comune,
con la fontana al centro o una pozza d’acqua o un pozzo,
sempre comunque con la facciata rivolta verso il sole.
Quasi sempre nei più vecchi agglomerati, ogni casa aveva un suo pezzo d’orto accanto, davanti o dietro, (come
si vede ancora in contrada Spedo), lo spazio comune era
pavimentato da lastame (esempio vivo Cona), i tetti poco
inclinati nelle abitazioni civili, fortemente pendenti in
quelli rurali (che taluni “studiosi”, per modo di dire, si
sono ostinati a definire impropriamente “gotici”, mentre
di gotico non hanno neppure l’idea).
E generalmente ogni contrada ha preso la sua denomina-
zione dalla prima persona che vi ha fabbricato la casa e la
stalla; oppure, nel caso contrario, la contrada ha finito per
dare il cognome a chi è andato ad abitarla.
52. Meridiane
D’uso più pratico, ma non per questo meno interessanti, sono invece le meridiane, che nella panoramica che ci
interessa ricoprono un ruolo piuttosto importante. Queste opere, molto spesso semplificate al massimo, sono
sempre però eseguite con uno squisito gusto artistico e
la superficie dipinta è sempre equilibrata rispetto all’uso
dell’opera stessa. Nella nostra Lessinia, questi “orologi”
erano spesso contornati da arabeschi e variopinte cornici
più o meno lavorate e arricchite molte volte da cartigli
enuncianti “motti” e “consigli “ ad intento religioso o relativi al tempo o al modo di comportarsi.
Su di una meridiana del 1881 in contrada Covolo di Velo,
possiamo leggere: “Chissà se il sol benigno nel suo ritorno segnerà di tua vita un nuovo giorno”; in contrada
Trettene di Badia Calavena tra due belle pitture murali, un
S. Bovo Cavaliere ed un Sant’Antonio “dal porcheto” si
intravede una meridiana con la scritta: “Tutte le ore son di
Dio, vivi giusto sobrio e pio” (l’opera è del 1893).
Verso la testata della VaI d’Illasi, in quel di Selva di Progno, all’inizio del capoluogo, vedremo a sinistra, sulla
facciata dell’antica canonica, una meridiana piuttosto
sbiadita; sopra e sotto, osservando bene, potremo notare
ciò che resta di due “motti”. Grazie alla memoria di Arcangelo Corbellari, da sempre vissuto all’ombra di questi,
così possiamo ancora interpretare: sopra “In breve a Dio
ragion render dovrai di tutte l’ore che perdute avrai”; sotto “II tempo fugge e non s’arresta un’ora e tu scherzi e
ridi e pecchi ancora”. II tutto è datata 1839.
Le espressioni trovate ed evidenziate sopra o sotto queste
opere, da sole sono lo specchio di una religiosità quotidianamente vissuta, fatta di piccoli momenti; “suggerimenti”
dati, così sintetici e nello stesso tempo così pieni di “promesse”, erano di monito ad un modo di essere vissuto in
funzione di una meta certa, molto più temuta ed attesa di
quanto lo possano far temere o attendere i nostri moderni
orologi al quarzo che certo non lasciano spazio a cartigli.
Le parole contenute in pochi centimetri quadrati venivano
ad essere perciò parole del Vangelo; nelle pagine di questo leggiamo infatti: Vegliate perché non conoscete né il
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tempo né il luogo né l’ora...
Sul punto dove convergono le linee orarie, al nord, troviamo sempre il simbolo del tempo: un gallo in atto di dar la
sveglia o più raramente una piccola chiesa ad immagine
della parrocchiale.
Molti di questi “orologi” sono oramai completamente
scomparsi o sbiaditi e resta evidente solo l’ombra dello
gnomone proiettata su di una superficie grigia, un tempo
sicuramente “preziosa”.
53. Pitture Murali
Percorrendo le valli della Lessinia, soprattutto orientale,
non si potrà fare a meno di notare la presenza di tutta
quella colorata schiera di “madone e santi” che, dai muri
intonacati a calce di qualche vecchia abitazione, da sempre danno a questi luoghi quel tono di colore che egregiamente si amalgama al verde ed all’ocra dei “progni”.
Secoli di storia sono legati all’espressione artistica in Lessinia, espressione di una fede materializzatasi nelle pietre lavorate (colonnette) e nelle pitture murali, entrambe
sintesi perfetta di quel credo quotidianamente vissuto dai
valligiani.
PITTURE MURALI
La “Madonna con S. Bambino”, “I Sette Dolori” e più raramente “La Crocifissione” erano i temi preferiti da quegli artisti, di cui raramente conosciamo il nome, che con
una scarna tavolozza, limitata ai colori base: rosso, terra,
nero, verde e turchino, ricavati spesso da ossidi dei vicini monti, riuscivano a trarre meravigliose sfumature che
ancor oggi esaltano le opere stesse. I soggetti sono dipinti
con forme ed espressioni talvolta estremamente diverse
pur restando nella medesima zona d’operazione; troveremo Madonne dal volto dolcissimo, contrapposte ad altre
dal viso rude e scavato, tipico di qualche “cimbra” locale.
Molte di queste opere, a causa di una tecnica non perfetta
o quasi assente dell’affresco, ma soprattutto per “la cura
del tempo e l’incuria dell’uomo”, sono ormai irrimediabilmente perse e niente e nessuno potrà ridar loro quella
carica mistica per la quale sono nate.
La nascita ed il proliferare di questa tipica espressione,
principalmente in Val d’Illasi, sono legate sicuramente
alla presenza e al peregrinare tra queste valli, dei monaci
Benedettini che, per la loro predicazione, si avvalevano
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anche di queste immagini, molte volte trasformate in veri
altari. La Vergine quindi assunta ad indiscussa protettrice
dei luoghi e i Santi dal canto loro, trasformati in modelli
da imitare, vennero ad essere durante questi secoli protagonisti indiscussi della quotidianità.
54. Vegetazione e Flora
La vegetazione è condizionata dalle caratteristiche climatiche, dalla natura del substrato e dalla morfologia. I Lessini, infatti, sono caratterizzati da pendii con esposizione
varia e da cime tondeggianti che digradano lentamente
creando spesso ampi altopiani; i fianchi delle valli, invece, si presentano ripidi e scoscesi. Si possono riconoscere tre fasce di vegetazione: la vegetazione dell’orizzonte
submontano, la vegetazione dell’orizzonte montano inferiore e la vegetazione dell’orizzonte montano superiore.
VEGETAZIONE DELL’ORIZZONTE SUBMONTANO
Questa fascia è in gran parte occupata da coltivazioni
agrarie, tra cui è predominante la vite, ma sono presenti
anche l’olivo e il ciliegio. La vegetazione naturale è relegata sui versanti acclivi dei “vaj” ed è costituita da boschi
cedui a prevalenza di Roverella, di Orniello e di Carpino
nero. Nelle valli più fresche e sui versanti ombrosi è diffuso il Castagno d’impianto antropico, oltre al Tiglio e
all’Olmo montano. I cespugli tipici del sotto bosco sono
il Biancospino, la Sanguinella, il Corniolo, il Ciavardello
ed il Nocciolo.
VEGETAZIONE DELL’ORIZZONTE MONTANO INFERIORE
Occupa quasi la metà di tutta l’area dei Lessini ed è caratterizzata da pascoli e prati da sfalcio alberati con Faggio e
Noce. Il paesaggio, ricco di malghe e bestiame al pascolo,
è il più rappresentativo della zona.
Anche in questo caso, con il disboscamento e l’espansione
del pascolo, la vegetazione naturale arborea è stata confinata in zone poco adatte per la pastorizia, come i pendii
più scoscesi e gli affioramenti rocciosi. I boschi cedui o a
fustaia sono dominati dal Faggio, cui si associano in maniera sporadica l’Acero montano, l’Abete bianco, l’Abete rosso e, più raramente, il Larice. Lo strato arbustivo
comprende il Maggiociondolo alpino e l’Ontano bianco.
Lo strato erbaceo è ricco di alcune specie tipiche come
l’Acetosella, la Lattuga montana e la Dafne.
Lessinia
VEGETAZIONE DELL’ORIZZONTE MONTANO SUPERIORE
Si presenta di limitata estensione con sporadici consorzi
di Larice e Abete rosso; più estesi sono gli arbusteti a Pino
mugo e Ginepro, associati al Rododendro ed al Mirtillo
nero. Nell’area protetta sono comprese tre grandi aree di
bosco: la foresta dl Giazza, la foresta dei Folignani e i
boschi del Corno d’Aquilio.
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