Estratto - Morgan Miller Edizioni

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Estratto - Morgan Miller Edizioni
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Note dell’Editore
Questo libro è opera del frutto della fantasia dell’Autore.
Nomi, persone, società, organizzazioni, luoghi fatti e
avvenimenti citati sono invenzioni dell’Autore, usati in
maniera fittizia per incitare la narrazione.
Qualsiasi analogia con eventi, luoghi e persone realmente
esistiti o esistenti, è da considerarsi puramente casuale.
Tutti i diritti riservati.
Copyright @ 2012 – Morgan Miller Edizioni
è un marchio di proprietà di CDB s.r.l.
Via Roma, 32 – 71036 Lucera (FG)
P.IVA 03642490712 – iscr. Rea 262208
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ISBN 978-88-97659-53-2
È vietata ogni riproduzione, anche parziale. Le richieste per
l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un
contesto che non sia la lettura privata devono essere
autorizzate per iscritto dall’Editore.
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PASQUALE LICURSI
Altrove
Romanzo
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Il guaio del nostro tempo
è che il futuro non è più quello di una volta.
Paul Valery
“Qui lo capisci che sei privilegiato. E’ privilegio vivere da noi”
(Oltre il confine - Pietro Marotta - medico di frontiera)
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A Cristina
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UNO
Lui, il genio, non sa che prima di nascere è stato
scelto per soffrire. Ma la sua sofferenza moltiplica
felicità altrui e lui è nato per quello. Gli altri fanno
cose normali. Lui di normale ha solo la superficie, gli
occhi, le gambe, i capelli. Il resto è letteratura, vera
letteratura. Vissuta in una solitudine strana ma
bellissima. Dagli occhi così celesti che sembrano cielo
e nuvole bianche. Capelli spettinati e mani dolci, pulite
e leggere. Gioia di casa. Ma non sua.
Il pallone resta fermo nella piazza e bambini
sporchi di vita rincorrono sogni violenti. Il genio è
fermo come se aspettasse qualcosa o qualcuno, ma
aspetta solo e sempre se stesso. Il genio fa paura. Non
a se stesso ma agli altri. Fa paura come potrebbe far
paura la notte se non la conosci.
La notte
Perché il genio esiste e si offre proprio nelle
cose che non sai. Il genio, quello vero, non sa di vivere
un miracolo, perché di miracolo si tratta. Miracolo. E
non esce la domenica per l’aperitivo a mezzogiorno.
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Un bambino poi che ha dentro il fuoco
dell’estasi si sente come un ubriaco nella sera. In quelle
sere piene di stelle e calme, fresche e pulite e senza
vento. Così si sente il genio e vede passare le giornate
nella consapevolezza che non sarà mai vita vera la sua
ma quella degli altri. Che strana l’esistenza del genio.
Come se fosse chiamato a dare, sempre e comunque.
Anziché avere. Perché un genio dovrebbe avere e
invece non è così. Un genio vive sopra ogni cosa e si
distrugge l’anima per tutto quello che agli altri appare
insignificante, senza senso e senza motivo. Ed è stato
scelto. Il genio piange per occhi di madre sola o per
una musica che ascolta e per un film che guarda.
Questo è il genio
E non c’è un senso. Un genio vive per la
passione di farlo e non ha motivo di esistere solo per
pagare le bollette della luce. Un genio vola e tu non
puoi dirgli di scendere. Non ti sente. Non gli arriva la
tua voce stupida e umana. Non capisce. Il vento ferma
prima le parole e le rimanda ad altri. Questa è la verità.
Un genio dorme e quando dorme è bellissimo, come
se non dovesse svegliarsi mai. Un genio non riposa
mai, non si spreca. Un genio dorme tra l’erba alta di
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un’estate che non esiste ora e non esisterà mai. Questo
è il genio vero.
E lui non lo saprà mai
Si alza presto la mattina il bambino genio. È
come se una voce lontana ma vicina lo chiama e gli
dice di affacciarsi dal balcone dietro per vedere la
campagna. E nei suoi occhi il mare verde e gli alberi
lontani. E così si ferma e sente quell’odore che in
pochi sentono. Mentre la madre in cucina prepara il
latte caldo e i biscotti dolci. Lui sente una musica. Gli
attraversa la vita, la piccola vita e vede la primavera. Le
rondini anche, ma proprio vede tutto l’insieme. E non
sa spiegarsi bene. Insieme alla primavera e tutto il
resto vede fogli a quadretti e si vede anche scrivere
formule strane, come se le inventasse in quel preciso
istante, momento.
E vede il suo funerale, un po’ bianco e un po’
celeste. Sembra maglia argentina che si muove con
leggerezza. Vede il suo funerale e il corteo seguirlo. È
bellissimo. E ride, come se qualcuno raccontasse
barzellette. Poi vede un cane bere alla fontana. Un
cane. Nero. E capisce di non essere normale come gli
invisibili sanno essere. Normale come può esserlo una
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domenica o un giorno di festa popolare. Lui è così. Si
appoggia al ferro e poi ride. Un genio che ride. Un
piccolo genio che ride. Ma una ridere pieno, quello che
si fa con gli occhi. Ride con gli occhi. Solo a pochi riesce
davvero.
Ridere con gli occhi
Eppure ci deve essere da qualche parte del
mondo una giustizia che non sia divina ma umana.
Una giustizia che ripaga le sofferenze che ognuno
sente quotidianamente e che ripete nei suoi gesti puliti
e veloci. Gli occhi del genio hanno un colore
profondo e mentre guarda arriva la musica. Da
lontano. Arriva come quando arriva l’estate. Di colpo.
E la sua pelle odora di borotalco candido. Ti
passa accanto e quell’odore ti sfiora come a dirti a
voce alta che solo un borotalco neutro può farti
ricordare di essere bambino, come sarai per sempre.
Oppure l’ombra che nasconde e rinfresca.
L’ombra naturale degli alberi nel parco abbandonata.
Erba alta e odore di vento. Se ne resta lì per tutto il
tempo, come se volesse cercare di capire la voce che
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arriva dalle sagome lontane di colline solitarie. E
invece nulla.
Il nulla
Riposa sull’erba mentre calcinacci grigi si
staccano da case abbandonate e sole. Ma proprio lì
vive la poesia della vita. Un pomeriggio in televisione
guardava Tonino Guerra e lo sentiva raccontare la vita.
E il poeta parlava di ruderi di campagna, di alberi
stanchi, di volti di vecchi uomini bruciati. Gli occhi di
Ungaretti.
Gli occhi di Ungaretti
Di capelli bianchi e cani ciechi. Sentiva fascino
bello, incantamento, purezza altissima. E pensò che
mai le cose pulite avrebbero interessato il suo
percorso, ma lo sporco del tempo, il suo sfinirsi e il
suo andare. Un uomo vecchio è enciclopedia. I giovani
non hanno passato e gli interessava poco o niente quel
loro apparire di plastica, quella loro stupidaggine
contemporanea. Quel loro mostrarsi senza identità.
Aveva undici anni. Undici. Ma gli undici anni di un
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genio hanno spessore e sapore. Niente a che vedere
con gli anni che passano così.
Niente
È come pensare a Leonardo da Vinci bambino.
Non puoi. Non ti riesce di vederlo tra giocattoli e
marmellata. Pensi che prima o poi esplode tutta quella
passione che Dio gli ha iniettato nel sangue già prima
di esistere. Ma la madre non sa e gli lava le mani prima
di mangiare. Mentre mangia già pensa ai colori, al volo
degli uccelli, alla poesia della vita, alla luna. Alla
matematica. Cose che un bambino non dovrebbe
pensare. Pensa alle colline, alla dolcezza di un
temporale, alle nuvole grandi che attraversano il cielo.
Pensa … come solo un genio può pensare. E
lascia la cena per scrivere con la finestra chiusa. Il
padre già dorme.
Il padre di Leonardo
Va incontro al suo destino, come se lui ci andasse
davvero. Ma è il destino che va incontro al genio, mai il
contrario.
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La madre? Cosa fa la madre di un genio? Gli
lava i capelli con acqua calda di camino e gli prepara il
brodo caldo nelle giornate fredde di dicembre. E lui
dice che non ha fame, deve andare a seguire il volo
degli uccelli dietro casa, per studiare. E lei non capisce
semplicemente perché vorrebbe un bambino normale,
come tutti. Non le riesce di vedere il genio in quelle
mani da poeta. Lunghe e bianche. Non le riesce di
capire che lei, la madre, ha iniettato sangue nel sangue
di chi vede quello che altri non vedono. E lo vede
triste accanto alla finestra. E pensa. Ma lui, il genio,
non è triste, ma è come se lo fosse. La regola vuole
che meno vivi e più sei leggero, felice appunto. Ma un
genio non se la sceglie la vita, non potrebbe. È un
piccolo Dio scaraventato in un presente che non vede.
Lui la sente la vita, ma come solo lui può sentirla. E
non si può spiegare. E prima di uscire gli pettina i
capelli. Lunghi e morbidi, come solo i capelli di un
genio possono essere. Lunghi e morbidi.
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