COPISTA, CORRETTORE E FENOMENOLOGIA DELLA COPIA
Transcript
COPISTA, CORRETTORE E FENOMENOLOGIA DELLA COPIA
COPISTA, CORRETTORE E FENOMENOLOGIA DELLA COPIA 1. COPISTA E CORRETTORE Il copista (detto anche scriba, amanuense o menante) è il responsabile della scrittura di un testo. I sinonimi piú comuni di copiare sono trascrivere ed esemplare. Nella maggior parte dei casi un testo è scritto da un unico copista, ma a volte è frutto della collaborazione di piú scribi; a maggior ragione un codice miscellaneo può essere opera di uno o piú amanuensi. Quando in un ms. si distinguono piú copisti, si dice che ci sono piú mani, le quali di norma s’identificano con lettere dell’alfabeto greco: mano α, β, γ ecc. Come osserva Alberto del Monte (Elementi di ecdotica, Milano, 1975, p. 53) La ripresa della copia, dopo un’interruzione, da parte dello stesso amanuense può dare l’ingannevole impressione di un cambio di mani: infatti può mutare nello stesso copista l’umore, la grafia, la penna. D’altra parte, a volte il copista, se è un calligrafo che può usare piú scritture, imita la scrittura del modello e ciò avviene, principalmente, quando si sostituisce una pagina guasta o perduta di un manoscritto. Altre volte, egli riceve l’ordine di riprodurre pagina per pagina e riga per riga il modello. Se eccede in lunghezza rispetto al formato del suo foglio, vi aggiunge una linea supplementare; se eccede, invece in brevità, scrive una riga della pagina successiva, poi la sbarra e la scrive di nuovo nella pagina seguente. Quando si parla di copisti medievali, occorre essere consapevoli che ci riferiamo a un periodo molto lungo e, per quanto relativamente uniforme (soprattutto nell’Alto Medioevo), certo non privo di evoluzione. Il benedettino che copia nella sua cella spesso agisce in condizioni di lavoro pessime: scrive seduto con il codice sulle ginocchia, talora su una tavoletta che gli serve da scrittoio e solo nel Basso Medioevo usa un leggio o un tavolo. Spesso si lamenta della sofferenza: Scribere qui nescit, nullum putat esse laborem; tres digiti scribunt, totum corpusque laborat. © Alfonso D’Agostino – Novembre 2005 2 Manualetto ecdotico (“Chi non sa scrivere crede che sia un lavoro da nulla; invece tre dita scrivono, mentre tutto il corpo soffre”). Leone da Novara è ancora piú esplicito sui dannosi effetti fisiologici del lavoro prolungato: «dorsum inclinat, costas in ventrem mergit et omne fastidium corporis nutrit» (incurva il dorso, fa rientrare le costole e arreca ogni tipo di molestia). È noto che anche chi, come sto facendo ora, scrive per ore all’ordinatore elettronico, va incontro a conseguenze non piacevoli e dovrebbe adottare misure adatte a limitare i danni (posizione eretta del busto, pause frequenti ecc.).1 Tuttavia il copista che trascrive i testi della letteratura romanza e italiana (quindi in epoca bassomedievale) poteva avvalersi di strumenti e di ambienti piú idonei. Nell’ambito della stampa, compositore e tipografo sono in un certo senso gli eredi dei copisti.2 Quella del copista è una funzione e in certi casi può anche essere un ufficio o una professione. Quando, a tarda età, Boccaccio esemplò il codice Berlin SB: Hamilton 90, trascrivendolo da un ms. non identificato e sicuramente introducendo qualche innovazione, agí da copista di una sua opera. Ma anche chi scrive di getto un testo originale di suo pugno (autografo od olografo) in un certo senso agisce da copista di sé stesso, pur se il suo modello non è un antigrafo già scritto, quanto piuttosto un testo virtuale in fieri. Tuttavia, se commette errori di distrazione, questi non corrispondono alla sua volontà e quindi, dato che non si possono addebitare a una persona diversa, vanno perlomeno ascritti a una funzione diversa esercitata dalla stessa persona. Nella prima redazione di questo manualetto, ma in una forma già da consegnare all’editore, avevo introdotto errori di battitura involontari come Maneghetti invece di Meneghetti (scusami, Marisa!), Hamilton 70 invece di Hamilton 90, assi invece di assai e cosí via. Nel Medioevo i copisti di professione sono rari, a parte (si capisce) i monaci (e, meno frequentemente, anche le monache) che però copiavano i loro codici per guadagnarsi esclusivamente il regno dei cieli, come dimostrano le sottoscrizioni del tipo: «Dentur pro penna scriptori caelica regna».3 Da notare, come si evince da questa citazione, che nel Medioevo il verbo scribere, con i suoi derivati romanzi (scrivere, escrire, escriure, escribir ecc.), significava “trascrivere, copia- 1 E chi scrive sul portatile stando seduto in un treno o in metropolitana o sulla panchina di un giardino rinverdisce la posizione del copista sopra descritta: non per nulla quegli aggeggi si chiamano laptop. 2 Ma si veda infra quanto rilevato da Luciano Canfora sulle differenze fra copista e tipografo. 3 Si veda Scribi e colofoni: le sottoscrizioni di copisti dalle origini all'avvenimento della stampa, a cura di E. Condello e G. De Gregorio, Spoleto, CISAM, 1995. © Alfonso D’Agostino – Novembre 2005 Copista, correttore e fenomenologia della copia 3 re”; quindi «scrivere un libro» era sinonimo di copiarlo,4 mentre per indicare l’attività dell’autore si ricorreva al verbo facere (e derivati romanzi: fare, faire, far, fazer ecc.): «fare un libro» ecc.5 Nei manoscritti di tipo giullaresco il copista chiedeva come ricompensa per la sua fatica non tanto i caelica regna quanto piuttosto qualcosa di piú terreno e a volte di piú carnale: un poculum vini, una bona puella ecc. Spesso queste formule, talora insieme col nome del copista e raramente con la data, erano riportate nel cosiddetto colofone (colophon), che disponeva le righe in una struttura grafica in genere rastremata verso il basso in modo da dare la figura di un trapezio.6 Il colofone si trova anche nelle stampe ed è in voga anche al giorno d’oggi. Ovviamente nell’ambito universitario lavorano anche scribi professionisti, che aumenteranno in epoca successiva. In realtà nel lungo arco del Medioevo i tipi di copista sono varî e non possiamo dimenticare se non altro i copisti per passione, quelli che trascrivevano i testi favoriti per poterne possedere un esemplare personale: il caso piú famoso, studiato in particolare da Vittore Branca, è quello dei mercanti-copisti che amorevolmente trascrissero varie copie del Decameron. È interessante sapere se uno scriba, per mestiere o per diletto, ha copiato diversi mss. giunti fino a noi, perché da questa circostanza si possono ricavare deduzioni anche importanti. Per es. se un copista ha copiato da un lato un codice non datato e dall’altro uno o piú mss. datati, questi ultimi ci possono dare un’indicazione, sia pure generica, sulla data del primo. Scrive recentemente Luciano Canfora:7 A ben vedere, è il copista il vero artefice dei testi che sono riusciti a sopravvivere. Cosí fu, fino al tempo in cui la loro salvezza fu presa in carico dai tipografi. Il copista è colui che materialmente scrive il testo. Le parole che lo compongono prima sono passate 4 Cosí per es. nel Cantar de Mio Cid: «Quien escrivió este libro dél Dios paraíso» (“che Dio conceda il paradiso a chi ha copiato questo libro”); escrivió è passato remoto di escribir. 5 Cosí, per es., all’inizio del Cligès di Chrétien de Troyes: «Cil qui fist d’Erec et d’Enide ...» (“colui che scrisse [il romanzo] d’Erec e d’Enide”); fist è passato remoto di faire. O i varî incipit del primo trovatore provenzale, Guglielmo IX: «Companho, farai un vers [...] covinen», «Farai un vers de dreit nien», «Farai un vers pos mi sonelh». Pertanto è probabile che nel colofon della cosiddetta Razón de amor (poemetto spagnolo della prima metà del sec. XIII): «Qui me scripsit scribat,| semper cum Domino bibat, | Lupus me fecit de Moros», Lupus (o Lope) de Moros sia effettivamente l’autore del componimento. Si noti il gioco di parole: bibat suona come vivat: quindi l’augurio è che il copista viva sempre in grazia di Dio ovvero beva sempre in compagnia del Signore. 6 Ma esistono anche altre figure, per es. quella che imita il Graal (come in una celebre poesia di Dylan Thomas). 7 Luciano Canfora, Il copista come autore, Palermo, Sellerio, 2002, p. 15. © Alfonso D’Agostino – Novembre 2005 4 Manualetto ecdotico attraverso il filtro, e il vaglio, della sua testa, poi sono state messe in salvo grazie alla destrezza della mano nel tener dietro alla dettatura interiore [cf. infra, § 2]. e aggiunge:8 Tendenzialmente il copista non si rassegna a scrivere qualcosa che gli sembra non dare senso, o non dare quello che a lui, trascinato dalla compenetrazione col testo, appare come il senso piú desiderabile in quel punto. Peraltro egli non di rado sa che, prima di lui, altri uomini, fallaci come lui sa di essere […..], hanno scritto, a loro volta, il medesimo testo che lui ora sta riscrivendo. Tanto piú gli sembra ovvio intervenire, in omaggio alla sua idea, che lo insidia e lo sorregge ad ogni passo, in ogni momento di senso «migliore».9 A questo in realtà s’è già accennato nei Prolegomeni (§ 1. Testo e comunicazione) e se ne è parlato nel cap. su Storia e tipologia della tradizione, § 2.1. Tradizione quiescente e tradizione attiva. L’opera concreta del copista travalica spesso il suo ufficio, e allora il copista si può fare filologo (c’è da scommettere con esiti alterni e spesso assai dubbî) o si può fare coautore non richiesto, in ogni caso mettendo nei guai il povero editore moderno, che a volte può scambiare una congettura o una riscrittura di scriba per lezione originale. Si rilegga la vivida descrizione dei copisti dovuta alla penna di uno scrittore del rango di Tom Stoppard, riprodotta nei Prolegomeni, che presenta scribi secondo i casi ubriachi, assonnati, senza scrupoli, oppure svegli e scrupolosi («alcuni ignoranti di latino, altri, ancor peggio, convinti di essere migliori latinisti di Catullo»). Per questo occorre sempre diffidare da quegli atteggiamenti ecdotici che si traducono in una “religione del copista”. Per es. lo scriba del Sidrach ambrosiano (Milano BA: I 68 inf.) sembra assai poco interessato a quel che copia se, dopo aver scritto: «Elo [i.e. Dio] fu senza comenzamento e serà senza fine e la sua possanza si è per tuto et è in ogni parte», lascia frasi del tipo:10 e si è la sua sustanza in zielo ché in ziello sono l’uno è corporalle zoè quello che nui non vedemo là dove li anzolli dimorano lo terzo si è apellado là dove Dio è che vederano li ziusti vixibelmente (c. 9b-c). Meglio certo il luogo corrispondente del Sidrach salentino:11 Ivi, p. 20. «Il tipografo è meno “attivo”, meno intraprendente: soprattutto perché opera all’interno di una articolata e coartante “divisione del lavoro” (nota di Canfora, ivi). 10 Cf. Teresa Bettarello, Il Libro di Sidrach del codice Ambrosiano I 68 inf., tesi di laurea dell’Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2003-2004. 11 Cf. Paola Sgrilli, Il «Libro di Sidrac» salentino, Pisa, 1983. 8 9 © Alfonso D’Agostino – Novembre 2005 Copista, correttore e fenomenologia della copia 5 et si è la sustancia in tre cieli: l’uno si è corporale, zoè quillo chi nuy vedimo; l’autro si è spirituale, zoè quillo chi nuy non vedimo, là dove so’ li angeli; lu terzo si è quillo là dovo è deu, lu quale viderauno li iusti luy là visibilimente. Ma c’è di peggio, come dimostra il caso della versione pisana del Bestiaire d’amour di Richard de Fournival.12 Esempî del genere sono abbastanza numerosi, e ancora di piú lo sono quelli dei copisti-coautori, la cui azione può oscillare da interventi facilmente smascherabili a intrusioni camuffate con grandissima abilità, tanto da far credere a varianti d’autore o a lezioni originali contro varianti inautentiche delle altre testimonianze. In definitiva, l’augurio è sempre di trovarsi ad aver a che fare con un copista fedele, non interventista e magari largo d’informazioni sul suo modo di procedere;13 lo scriba troppo ignorante e quello troppo scaltro rappresentano due rischi diversi e altrettanto gravi. Il correttore è una funzione distinta da quella del copista, anche se può essere disimpegnata dalla stessa persona. Le correzioni immediate, soprattutto quelle che consistono nel cassare, biffare o espungere una lezione e scriverne un’altra immediatamente dopo sono ovviamente da attribuire allo stesso copista, quelle che consistono nell’aggiungere qualcosa negli interlinei o nei margini possono essere anche dovuti ad altro soggetto, circostanza che dovrebbe essere rivelata dal cambio di mano. Il correttore può emendare ex libro, cioè traendo la nuova lezione o dallo stesso antigrafo usato dal copista, o da un altro codice collazionato a proposito ovvero ex ingenio, proponendo cioè una congettura. Su alcune gravi conseguenze dell’intervento del correttore si veda altrove, a proposito della trasmissione anomala e della contaminazione. 2. FENOMENOLOGIA DELLA COPIA È evidente che quando si copia un testo (che non sia brevissimo come ad esempio «M’illumino d’immenso» di Ungaretti),14 lo si fa per porzioni facilmen12 Cf. Roberto Crespo (ed.), Una versione pisana inedita del «Bestiaire d’amours», Leiden, Universitaire Pers, 1972. 13 Per es. sulla data in cui realizza la copia, se usa varî modelli o uno solo ecc. Purtroppo i copisti non ci danno quasi mai informazioni del genere. 14 O come il seguente racconto, intitolato El dinosaurio, del grande scrittore hondureño-guatemalteco Augusto Monterroso (1921-2003): «Cuando despertó, el dinosaurio todavía estaba allí.» (“Quando si destò, il dinosauro era ancora lí”); in Id., Obras completas (y otros cuentos) (si noti anche il titolo), México, Imprenta Universitaria, 1959. Il racconto passa per essere il piú breve della letteratura universale (9 parole per 57 caratteri, contando il titolo, la virgola e il punto finale), mentre un altro racconto dello stesso autore, Fecundidad, arriva a © Alfonso D’Agostino – Novembre 2005 6 Manualetto ecdotico te memorizzabili, dette perícopi. Lo scriba legge una pericope, la memorizza, la copia e torna al modello per leggere la perícope successiva. La perícope non ha un’ampiezza predeterminata, ma corrisponde a quello che in ogni determinata circostanza il copista sceglie di leggere, ritenendo fattibile trattenerlo a mente (salvo poi, talora, convincersi che era troppo lungo e che quindi è necessario ritornare al testo prima di aver terminato la copia della perícope letta). 2.1. La lettura L’operazione sommariamente descritta nel comma precedente, in apparenza assai semplice, è in realtà estremamente complicata; basti pensare alle varie teorie in materia di “psicologia della lettura” e al fatto che con questa etichetta esistono ormai interi corsi universitarî, dedicati appunto allo studio dei processi bio- e psicologici legati alla lettura. Uno dei punti essenziali è l’esame dei movimenti e della fissazioni oculari durante la lettura e l’analisi del modo in cui il materiale linguistico viene elaborato in quei processi. La materia dunque coinvolge la psicologia del linguaggio, le scienze cognitive e la neuropsicologia.15 In quanto decodificazione della lingua scritta, la lettura, partendo dalla percezione sensoriale del testo, comprende: a) l’intelligenza del testo scritto; b) la traduzione dallo scritto al parlato. In ogni modo la lettura procede con successivi salti dell’occhio e momentanee fissazioni, in modo da non leggere tutte quante le lettere, ma solo (in genere) quelle iniziali e quelle finali della parola, mentre il resto viene come indovinato; questo può dar luogo anche a curiosi fraintendimenti, per cui magari una parola come gestazione, letta nel modo sopra descritto (gest...ione) può diventare gestione. Questa osservazione induce anche a sfatare l’antico detto per cui lectio brevior, potior.16 Se la lettura fosse poi piú rapida (ma non è il caso della fenomenologia della copia medievale) si tende a scorrere soprattutto il centro della pagina indovinando la periferia del campo di scrittura. Il tipo di lettura vagamente descritto in questo comma si suole chiamare “lettura globale”. 2.2. Il meccanismo della copia Adattando uno schema che Alberto del Monte, migliorandolo, derivava da Eugene Vinaver,17 si può proporre la seguente rappresentazione del meccaniben 11 parole per 60 caratteri: «Hoy me siento bien, un Balzac; estoy terminando esta línea.» (“Oggi mi sento bene, un Balzac; sto finendo questo rigo”). Però, avendo tempo, occorrerebbe consultare il libro del Guinnes dei primati, cosa che mi scuso di non aver fatto. 15 Si veda in particolare Robert G. Crowder.- Richard K. Wagner, Psicologia della lettura, Bologna, il Mulino, 1998 e Rossana De Beni, Lerida Cisotto, Barbara Carretti, Psicologia della lettura e della scrittura, Trento, Centro Studi Erickson, 2001. 16 E si veda anche infra, § 2.4. 17 Principles of Textual Emendation, in Studies in French Language and Medieval Literature to © Alfonso D’Agostino – Novembre 2005 Copista, correttore e fenomenologia della copia 7 smo della copia, dove ogni singolo momento, esaminato per cosí dire au ralenti (oggi diremmo alla moviola) dà luogo a un effetto sensoriale che definiamo genericamente immagine. Il copista legge una perícope dell’antigrafo (diciamo la perícope “a” del codice A) e se ne forma quella che possiamo chiamare un’immagine visiva, dove riconosce i segni attraverso un confronto con un “magazzino”18 di immagini visive che è allocato nella sua mente; quindi detta a sé stesso la perícope, in silenzio o molto piú facilmente bisbigliando o comunque facendo vibrare le corde vocali; questa dettatura interiore che si serve dell’azione degli organi fonatori dà luogo a un’immagine auditiva, che lo scriba pure interpreta attraverso il suo magazzino d’immagini auditive. Probabilmente a questo punto, se non prima, il copista associa a questa immagine auditiva un’immagine concettuale, pescando nella sua competenza linguistica (la sua langue); finalmente manda a memoria la perícope “a”, realizzando un’immagine mnemonica. Qui si ha lo spartiacque dell’operazione: ossia fin qui si ha il percorso dalla perícope “a” del modello alla memoria del copista; ora si passa dalla memoria del copista alla scrittura delle perícope “a”. Quindi, una volta memorizzato il testo, lo scriba passa a trascriverlo, dettandolo di nuovo a sé stesso e dando vita a una nuova immagine acustica, fino a quando qualcosa mette in moto la mano (jeu de main) che materialmente scrive la perícope “a” nell’apografo, ossia nel codice B. Finita questa operazione, torna con gli occhi sull’antigrafo cercando di recuperare il testo che segue immediatamente la fine della perícope “a”, per passare a leggere la perícope “b”, che trascriverà con lo stesso iter prima descritto. Professor M.K. Pope, Manchester, 1939. 18 La parola magazzino è termine della psicologia della lettura. © Alfonso D’Agostino – Novembre 2005 8 Manualetto ecdotico MODELLO / ANTIGRAFO PERÍCOPE 1 2 3 4 5 6 7 8 9 PERÍCOPE “a” ↓ immagine visiva ↓ [dettatura interiore] ↓ immagine acustica ↓ immagine concettuale ↓ immagine mnemonica ↓ immagine concettuale ↓ [dettatura interiore] ↓ nuova immagine acustica ↓ jeu de main ↓ PERICOPE “a”___ “b” ↓ immagine visiva ↓ [dettatura interiore] ↓ immagine acustica ↓ immagine concettuale ↓ immagine mnemonica ↓ immagine concettuale ↓ [dettatura interiore] ↓ nuova immagine acustica ↓ jeu de main ↓ PERÍCOPE “b” ___ PERÍCOPE “c” ↓ ... ↓ ... ↓ ... ↓ ... ↓ ... ↓ ... ↓ ... ↓ ... ↓ ... ↓ PERÍCOPE “c”_ COPIA/APOGRAFO In questa operazione complessa si annidano varie occasioni d’errore. Il meccanismo è fondamentalmente valido per qualsiasi atto di copia, sia da parte di uno scriba medievale sia per un copista del giorno d’oggi, solo che per la età di mezzo italiana e romanza alcuni aspetti della questione assumono rilevanza speciale, come vedremo fra breve. In ognuno di quei momenti si annida un’occasione d’errore. Nell’immagine visiva, per es., il copista può interpretare male una sequenza di jambages, per cui può leggere m invece di in (sono tre gambette e il segnetto –di norma una specie di accento acuto- che distingueva la i spesso manca): proprio a causa di questo fenomeno la parola colliniare (derivata da CUM + un deverbale del sostantivo LINEA) è stata sconciata in collimare, che però è arrivata ad avere cittadinanza nel vocabolario italiano. © Alfonso D’Agostino – Novembre 2005 Copista, correttore e fenomenologia della copia 9 Analogamente per uno scambio di m con ni, dall’arb. samt derivò lo spagnolo cenit, da cui l’italiano zenit. Il personaggio mitologico di Cadmo divenne nei mss. medievali spagnoli Cadino, parola che rima regolarmente con altre in –ino; per es. nella poesia dall’incipit «El sol clarescía los montes Acayos» del grande poeta quattrocentesco Juan de Mena, Cadino rima con mercurino (neologismo dell’autore, per “mercuriale”) vino e sino.19 Nell’immagine acustica, soprattutto nel momento numero 8, oltre a commettere errori di ricezione difettosa, può (ed è qui che la cosa vale specialmente per la letteratura medievale) “tradurre” le abitudini fonetiche del modello con quelle sue; se quindi l’antigrafo è, ad es., fiorentino, un copista bolognese lo può “bolognesizzare”; è piú o meno quel che avviene nel caso del codice unico che tramanda il Flore de parlare del fiorentino Giovanni da Vignano (sec. XIII): già nella rubrica del ms. (Ve BNM: 6168 = It., VIII.17), l’autore è presentato come «Zoanne fiorentino davignano notaro», palesando una veste linguistica veneto-emiliana che non sostituisce totalmente il fondo toscano.20 Nell’immagine concettuale il copista può adoperare «parole e costruzioni a lui familiari, sostituendo sinonimi, principalmente termini desueti con termini usuali, omettendo particelle che non gli sembrano necessarie e, al contrario, aggiungendo particelle esplicative, commettendo delle inversioni» (del Monte, p. 52). Questi cambiamenti sono involontarî e vanno sommati a quelli volontarî, che tendono a “migliorare” il testo (cf. anche quanto detto nel cap. I, Prolegomeni). Un caso notevole di pervicacia nel sostituire quasi costantemente una forma con un’altra piú familiare anche a costo di guastare la metrica l’offre il ms. M del Savi (testo paremiologico provenzale del sec. XIII): in occitanico antico “senza” si dice ses, oppure senes (come si vede una parola monosillaba o un allotropo bisillabo che, cominciando e finendo per consonante, non consentono sinalefi). Il copista di M usa senes anche a costo di rendere ipermetro il verso (che dev’essere un octosyllabe, quindi con l’ultimo accento sull’ottava sillaba); per es. v. 23: «Nulha res senes leis non ista» (“Nessuna cosa sta/è senza di lei”). Anche nel momento dell’immagine mnemonica il copista può sostituire le lezioni dell’antigrafo con omofoni (questo vale meno per l’italiano che per il francese), sinonimi o altro. Particolarmente delicato è il momento in cui il copista, finita di copiare una perícope, torna con gli occhi sul modello per leggere la perícope successiva. Distinguiamo alcuni casi: 19 Cf. l’ed. seguente: Juan de Mena, Laberinto de Fortuna y otros poemas, ed. Carla De Nigris, Barcelona, Crítica, 1994. 20 Cf. l’ed. di Eleonora Vincenti, compresa in Matteo dei Libri, Arringhe, MilanoNapoli, Ricciardi, 1974, pp. 229-325. © Alfonso D’Agostino – Novembre 2005 10 i) ii) iii) Manualetto ecdotico Omoteleuto. L’omoteleuto è una figura retorica, in base alla quale in un testo, a una distanza che si possa apprezzare, si trovano parole che finiscono nello stesso modo, creando una sorta di effetto di rima. Come molte figure retoriche di ripetizione, l’omoteleuto può essere perfettamente un effetto non voluto, ovvero può trattarsi di una sequenza di morfemi uguali. Per es. Novellino, I: «parlando, onorando e temendo e laudando quel Signore»; ci sono ben tre gerundi della prima classe in – ando. Se il copista, dopo aver scritto una perícope che finisce con la parola «parlando» ritorna con gli occhi sul modello e riprende per errore da «onorando» (che finisce nello stesso modo) o addirittura da «laudando», nel trascrivere la perícope successiva ometterà alcune parole dell’antigrafo e scriverà «parlando e temendo e laudando quel Signore» (saltando «onorando») o addirittura «parlando quel Signore» (omettendo quello che sta fra «parlando» escluso e «laudando» compreso). In verità il caso vuole che nessuno dei codici del Novellino presenti qui alcuna omissione. Questo errore si chiama lacuna per omoteleuto (in lat. omissio ex homoteleuto):21 si tratta di un errore evidentemente non significativo, perché è facile che due copisti lo commettano indipendentemente; anzi l’omoteleuto è definito pure una trappola per copisti (in francese piège à copiste). Omoarcto. Se l’omoteleuto è costituito dall’uguaglianza della parte finale di due parole, l’omoarcto è dato dall’uguaglianza della parte iniziale (ovvero dall’uguaglianza tanto della parte iniziale come di quella finale). Non si tratta di una figura molto usata, però si possono fare esempî inventati a tavolino: «presunte preferenze», «congiunti contenti» e cosí via. Un caso particolare è offerto dal poliptoto, altra figura retorica che consiste nel presentare la stessa parola in forme diverse (un verbo in tempi o persone diverse, un nome al singolare e al plurale ecc.): uno dei poliptoti piú celebri è quello di Dante: «cred’io ch’ei credette ch’io credesse» (If XIII 25). Al poliptoto s’accompagna l’omoarcto, visto che il lessema è lo stesso. La lacuna per omoarcto è comunque molto piú rara e si avrebbe se per es. un ms. della Commedia scrivesse quel verso come «credette ch’io credesse». È piú rara perché il meccanismo non è paragonabile a quello della lacuna per omoteleuto; cioè l’errore difficilmente sarà dovuto al fatto che il copista termina la sua perícope sulle lettere cred- di «cred’io», e poi torna con lo sguardo sulle lettere cred- di «credette». Tuttavia la lettura “globale” sopra descritta provoca anche questi incidenti. Salto da uguale a uguale (in francese saut du même au même). Si ha quando il testo presenta la stessa parola a una distanza ragionevole, per Attenzione. Spesso ho udito i miei studenti dire che l’omoteleuto è un errore; in realtà, come detto sopra, l’omoteleuto è una figura retorica, quello che è un errore è la lacuna causata dall’omoteleuto. 21 © Alfonso D’Agostino – Novembre 2005 Copista, correttore e fenomenologia della copia 11 cui il copista, tornando sul modello, riparte dalla seconda ricorrenza di quella parola e omette quanto si trova tra la prima e la seconda ricorrenza. Il caso somiglia moltissimo alla lacuna per omoteleuto. Ecco un esempio tratto dai Fiori di filosafi, IX, 12: «Diogene fue di troppo grande virtude e di grande contenenza». I codici gemelli Lc Ra omettono le parole in corsivo; scrivono una perícope sino al primo «grande», poi tornano con gli occhi al secondo «grande» e continuano scrivendo «contenenza»: «Diogene fue di troppo grande contenenza». Ovviamente bisogna tener presente che i mss. medievali non fanno uso di accenti, cosí, nell’esempio seguente la parola rimaritò in realtà è scritta rimarito: sono sempre i Fiori di filosafi, XVIII, 1-5: «Marzia fue figliuola di questo Cato ed era richissima e rimase vedova e non si rimaritò. E chi la domandava perché non prendea marito, dichea che non avea ancora trovato marito che volesse anzi lei che l’aver suo». La parola marito (anche nella composizione rimarito) compare per ben tre volte: il codice E salta le parole in corsivo, che vanno da rimaritò escluso a marito compreso.22 Nessun codice salta invece da rimarito o dal secondo marito al terzo marito. Fra gli errori dovuti a un erroneo posizionamento dello sguardo al ritorno sul modello c’è anche l’indebita anticipazione di quanto verrà dopo. Spesso il copista se ne accorge ed espunge questi doppioni. Per es. Astromagia, IV, 1, 6: il testo corretto è: «E otrossí mostraremos qué figuras an estas planetas, ellas en sí e qué figuras an con otras fuera de sí; e qué pro e qué daño viene d’estas figuras».23 Il copista in realtà scrive «E otrossí mostraremos qué figuras an otras figuras fuera dessi estas planetas, ellas en sí e qué figuras an con otras fuera de sí; e qué pro e qué daño viene d’estas figuras», cioè: dopo aver scritto «mostraremos qué figuras an» torna sull’antigrafo e si colloca con la vista dopo il secondo «qué figuras an» e quindi scrive «otras figuras fuera dessi», poi si accorge dell’errore e provvede ad espungere le parole a torto anticipate. Sempre fra gli errori dovuti a un erroneo posizionamento dello sguardo al ritorno sul modello è da segnalare l’indebita ripetizione di quanto già scritto; tuttavia questo caso, a differenza degli altri, non è determinato dalla natura del modello, ma solo da un errore del copista. Si veda un altro es. tratto sempre dall’Astromagia, III, 3, 26: «Tú, Necor, dame gloria, que me teman los omnes e que me aya miedo todo omne que me viere: e ablandece los coraçones de los reyes e de los señores e de los omnes apoderados, que me quieran bien e que me reciban bien».24 Il copista in realtà scrive: «Tú, Necor, dame gloria, que me È vero che rimarito non è lo stesso che marito, ma in questo caso è meglio parlare di salto da uguale a uguale piuttosto che di lacuna per omoteleuto. 23 “Ancora, mostreremo quali figure hanno questi pianeti in sé e quali in unione con altri pianeti, e che vantaggio o che danno viene da queste figure”. 24 “Tu, Necor [nome di un demone] dammi fama d’essere temuto e fa’ che abbia paura di me chiunque mi veda; e placa i cuori dei re, dei signori e dei potenti, perché mi 22 © Alfonso D’Agostino – Novembre 2005 12 Manualetto ecdotico teman los omnes e que me aya miedo todo omne que me viere: e ablandece los coraçones de los reyes e de los señores e de los omnes apoderados, que me quieran bien et que me viere: e ablandece los coraçones de los reyes e de los señores e de los omnes apoderados, que me quieran bien e que me reciban bien». In questo caso il copista copia fino a «me quieran bien», poi riscrive alcune parole già scritte, ma senza essere tornato a un punto precedente del modello che finisse con le stesse parole; quindi si accorge dell’errore e biffa le parole indebitamente trascritte. Nella copia sotto dettatura, ovviamente, le cose si svolgono in modo un po’ diverso. Un errore di scambio fra una “ſ” (esse alta) e una “f” denunzia che lo scriba ha copiato da un altro manoscritto, perché difficilmente un dettatore confonderebbe i due suoni, dicendo per es. «la notte ch’i *paffai in tanta pièta» (If I 21) per «la notte ch’i passai [paſſai] in tanta pièta» a meno di particolari difetti fisici negli organi fonatori, che però dovrebbero evidenziarsi anche altrove. Un errore di scambio di un solo tratto distintivo, per es. fra una sorda e una sonora, mettiamo fra una c e una g palatale ([tč] e [dğ]), come in «mancia» per «mangia», può essere attribuito piú facilmente a una cattiva dettatura o a un cattivo ascolto. 2.3. Cause e occasioni d’innovazione e d’errore Distinguiamo, anche se non sempre in modo cristallino, fra cause e occasioni d’innovazione e d’errore. Possiamo dire che le vere e proprie cause sono le seguenti: a) opacità del modello; b) conflitto di enciclopedie; c) interferenza del discorso endofasico; d) presupposizioni ed entropia. a. Opacità del modello (o dell’antigrafo). Si ha quando l’antigrafo presenta delle condizioni materiali che inducono all’innovazione, per es. quando ha subito dei deterioramenti (fori, rifilature sovrabbondanti che eliminano parte di testo, gore d’umidità, scrittura dileguata, macchie d’inchiostro, cancellature parzialmente erronee ecc.) che offuscano la lettura genuina del ms. In presenza di queste difficoltà il copista può reagire in vario modo. Può lasciare uno spazio bianco piú o meno corrispondente alla grandezza della lezione “opaca”; tale spazio bianco si chiama finestra e si suole dire: finestra di 2, 3 ... n righe, oppure finestra di circa 3, 4, 5 ... n lettere. Oppure preferisce tentar di interpretare quella lezione e, nella stragrande maggioranza dei casi, introdurrà un’innovazione inautentica.25 Se il modello è di tipo orale, cioè se la copia avviene sotto dettatura, l’opacità dell’antigrafo può attribuirsi a momentanei turamino e mi accolgano bene». 25 In teoria può anche congetturare felicemente la lezione illeggibile: è chiaro che in questo raro caso il testo dell’apografo non permette di sospettare quel che è successo; si veda anche infra, alla fine del punto a. © Alfonso D’Agostino – Novembre 2005 Copista, correttore e fenomenologia della copia 13 bamenti dell’emissione della voce (raucedine di chi detta, rumori ambientali sovrapposti etc.). 26 Ovviamente quando si dice “finestra di circa n lettere”, per es. “di circa 6 lettere”, si fa riferimento al fatto che alcune lettere sono piú smilze (per es. la i) e altre piú larghe (per es. la m). Ma bisogna anche tener presente che, a causa delle abbreviazioni, le lettere in realtà potrebbero essere molte di piú. In un testo latino la parola animaduersorum (14 lettere) può essere scritta con varie abbreviazioni: un titulus per la n e uno per la prima m, una sorta di virgola sopra la u per abbreviare le lettere er, un segno speciale al posto delle lettere finali rum; quindi di fatto le lettere sono solo 8: a, i, a, d, u, s, o e il segno abbreviativo speciale. In definitiva, in questo caso una “finestra di circa 8-10 lettere” può nascondere una parola di ben 14 lettere. In italiano e nelle altre lingue romanze le abbreviazioni sono molto meno fitte e invadenti, ma consentono sempre qualche escursione: per es. in italiano il futuro converserò (10 lettere) può essere scritto con solo quattro segni, oltre le abbreviazioni: 1) un segno particolare per con (somigliante a un 9 o meglio al segno della chiave di basso); 2) la u col segnetto soprascritto che indica ver; 3) la s tagliata che indica ser; 4) la o. L’opacità di un antigrafo che sia copiato da piú apografi può produrre varie reazioni da parte dei copisti: davanti a una lezione illeggibile la fantasia si può sbizzarrire. Quando alcuni mss. presentano testi molto diversi ci si potrebbe chiedere se non derivano da un comune antigrafo con lezione opaca. Un caso concettualmente particolare, ma in realtà della piú grande diffusione, si verifica quando l’opacità del modello è costituita da un’innovazione erronea (una corruttela). In questo caso il responsabile dell’apografo può comportarsi in una delle maniere seguenti: 1. copiare l’errore come se nulla fosse; 2. innovare a sua volta, ossia scrivere una lezione diversa. Il primo caso, volontario o involontario che sia, non pone problemi: la copia mantiene la lezione inautentica del modello, che sia formalmente corretta o scorretta. Nel secondo caso distinguiamo varie situazioni, a seconda che la lezione dell’apografo: i. ii. iii. sia corretta o scorretta; sia scritta volontariamente o involontariamente; sia quella autentica o sia una lezione inautentica. Se la lezione è scorretta, è molto probabile che si tratti di fatto involontario ed è praticamente sicuro che sia inautentica; chiamiamo questa lezione errore a cascata. 26 Qui in verità siamo al confine fra causa e occasione d’errore. © Alfonso D’Agostino – Novembre 2005 14 Manualetto ecdotico Se invece la lezione è corretta, allora c’è una serie di possibilità, che elenco in ordine di probabilità: • • • • lezione involontaria e inautentica: è una innovazione a cascata; lezione volontaria e inautentica: è il cosiddetto errore critico; lezione volontaria e autentica: è la felice congettura di un copista particolarmente abile; lezione involontaria e autentica: è fenomeno rarissimo, che chiamiamo trivializzazione emendatrice: in pratica il copista innova rispetto al suo modello e tuttavia fortunosamente ripristina la lezione dell’originale. È chiaro che, ex post, cioè se guardiamo solamente una copia senza avere il suo modello, sarà difficile capire se si è verificata una delle situazioni sopra descritte. Comunque, per approfondimenti soprattutto sulla trivializzazione emendatrice si rimanda al cap. Il «metodo degli errori», § 6.2 («Come si riconosce un descriptus?»). b. Conflitto di enciclopedie. L’enciclopedia (nel senso che a questa parola dà la semiotica) è la somma di tutte le conoscenze dell’umanità in un dato momento; ogni essere umano partecipa di questa enciclopedia in una misura piú o meno grande (enciclopedia individuale). Non è detto che l’autore sia per forza piú colto del copista, che possegga un’enciclopedia individuale piú vasta, anche se l’esperienza insegna che nella stragrande parte dei casi il copista medievale è effettivamente piú ignorante dell’autore, a meno che ci troviamo di fronte a mss. esemplati da personaggi come Petrarca, Boccaccio o dagli umanisti in genere. Quel che conta, comunque, è che si tratta sempre di enciclopedie diverse, che vengono a confliggere nell’atto della copia. La normale superiorità dell’autore fa sí che spesso la lezione di un apografo contenga delle banalizzazioni o trivializzazioni, ossia delle lezioni piú semplici o sguaiate. Se l’autore parla di Senocrate, si può star certi che in molti casi un copista lo sconcerà in Socrate: per un uomo del Medioevo il primo è un po’ come Carneade per don Abbondio, mentre il secondo è famosissimo e si raccontano al suo riguardo una serie di aneddoti perlopiú apocrifi. Se si parla di Cilicia, è molto probabile che diventi Cicilia (ossia Sicilia). Nei Fiori di filosafi (XII, 4-5) succede che Eudemo di Rodi diventi facilmente Menedemois o Monedemois o Menodamois o Menodomois o Miledais di Todi (il toponimo nei mss. La Nf Rd), dato che la città umbra era piú facilmente nell’orizzonte culturale dei copisti di quanto non fosse l’isola greca, malgrado la sua grande importanza nel periodo in cui i mss. furono esemplati (La: sec. XIV in., Nf: sec. sec. XIV2, Rd: sec. XIII ex.). Altri esempi di conflitto di enciclopedie saranno esaminati nel capitolo sulla selectio, a proposito della cosiddetta lectio difficilior. c. Interferenza del discorso endofasico. Il discorso endofasico è quello che ci frulla per la testa, anche quando siamo intenti a un lavoro tedioso come © Alfonso D’Agostino – Novembre 2005 Copista, correttore e fenomenologia della copia 15 copiare qualcosa. Il flusso dei nostri pensieri interferisce con quello che stiamo leggendo e può modificare porzioni (in genere piccole) di testo. Alla categorie degli errori indotti dal discorso endofasico rientrano anche due casi speciali: - l’intrusione di enantiosemantici o contrarî: se il modello dice amo, il copista scriverà amo, ma se in quel momento è esulcerato per qualche ragione e ce l’ha a morte con qualcuno potrà scrivere perfettamente odio. l’aumento di una unità o dell’ultima cifra nei numerali, soprattutto quando sono in cifre romane e il copista procede a contare, scrivendo per es. xiii invece di xii, oppure ccc invece di cc. Quest’ultimo caso ha una perfetta illustrazione in uno dei racconti del Novellino (il XXV), in cui il tesoriere, invece di scrivere CC, scrive CCC per un “trascorso di penna”, come dice l’autore (in realtà per le ragioni che abbiamo detto): «Saladino fu soldano, nobilissimo signore, prode e largo. Un giorno donava a uno dugento marchi, che li avea presentato uno paniere di rose di verno a una stufa [= un cesto di rose di serra, tenute al caldo durante l’inverno]. E ’l tesoriere suo dinanzi da lui li scrivea ad uscita: scorseli la penna, e scrisse .CCC. Disse il Saladino: -Che fai?- Disse il tesoriere: -Messere, errava-; e volle dannare [= cassare] il sopra piú. Allora il Saladino parlò: Non dannare; scrivi .CCCC. Per mala ventura se [= Guai se] una tua penna sarà piú larga di me». Il caso dei contrarî in verità è curioso; credo di non aver dubbî su quale sia la mia destra e quale la mia sinistra, però non è infrequente che se qualcuno mi dice «alla tua destra» io guardi alla mia sinistra e viceversa; e ho scoperto che la stessa cosa succede a molti. Analogamente una volta mi è capitato di scrivere «prefisso» invece di «suffisso» (o al contrario, non rammento) e in questo stesso capitolo avevo inizialmente scritto «vocale» invece del corretto «consonante». Spesso il discorso endofasico è sollecitato da suggestioni presenti nello stesso testo da copiare, come dimostra un esempio divertente, segnalato da Jacques Froger e ripreso da Alberto del Monte: «Alcuni anni fa, in una rivista cattolica francese un teologo pubblicò un articolo su La notion de tolérance. Il tipografo stampò a caratteri cubitali il testo: La maison de tolérance. Ora egli non poteva in nessun modo confondere noti-on con mais-on: in realtà aveva letto La ...on de tolérance e, dato che pensava a puttane, queste lettere furono suggestione per il suo disgraziato errore» (p. 56). Due esempi di probabile discorso endofasico sono quelli tratti dal testo spagnolo dell’Astromagia e commentati nel cap. Storia e tipologia della tradizione, § 2.2 (l’anello di Mercurio e l’uomo che piange i genitori). d. Entropia e presupposizioni. È una questione affine in parte al discorso endofasico e in parte al conflitto di enciclopedie, ma non coincide con essi. Nel momento di accingersi a copiare un antigrafo, l’entropia è massima, so- © Alfonso D’Agostino – Novembre 2005 16 Manualetto ecdotico prattutto per lo scriba che non abbia personalmente scelto il testo da esemplare, ma obbedisca a un ordine, un invito o una commessa. Al piú lo scriba sa, grosso modo, di che tipo di testo si tratta: un canzoniere, una raccolta di novelle, un romanzo, un trattato didattico ecc. A mano a mano che lo copia, l’entropia diminuisce e lo scriba si trova davanti a frasi che: - da un lato fanno rientrare il testo in un contesto letterario piú o meno noto al menante, magari per aver letto o copiato altri testi simili; dall’altro a poco a poco fanno sorgere nella sua mente l’idea di una logica del discorso (narrativo, lirico, didattico ecc.) che non è detto sia identica a quella del modello. Pertanto, nell’atto di scrivere fa capolino una serie di presupposizioni che possono destare il ricordo di quanto è noto, o l’attesa di quanto paia logico trovare nel testo, che possono far deviare dalla lezione dell’antigrafo, orientando l’apografo in modo piú o meno coerente. Il carattere ripetitivo di molta produzione medievale limita ovviamente, ma non elimina l’importanza di questa considerazione. Fra le occasioni d’errore possiamo inserire quelle descritte da del Monte e riferite in particolare al monaco scriba di cui s’è già detto nel § 1: «Altre occasioni di errori sono la negligenza, la fame che a volte tormenta il copista, la fretta, la noia, la sonnolenza, proprie di questa fatica ingrata e solitaria, mentre al di là della cella il mondo vive» (pp. 54-5). Comunque tutto ciò che non rientra nelle cause d’errore può essere considerato “occasione d’errore”. 2.4. Tipologia dell’errore Distinguiamo fra errore di copista ed errore di correttore. Gli errori di quest’ultimo sono tutti praticamente di tipo critico (cf. supra, 2.3.a). Per classificare quelli di copista possiamo seguire le categorie classiche dell’adiectio, inmutatio, detractio e trasnmutatio, già invocate nel cap. Storia e tipologia della tradizione (§ 3, «Varianti d’autore e redazioni plurime»); quindi gli errori si possono distinguere in: a. aggiunte (addizioni): dalle piú semplici dittografie o diplografie, ovvero ripetizioni involontarie di sillabe o di parole (per es. filolosofia per filosofia, librobro per libro), all’incorporazione di glosse scritte in margine (spesso introdotte da id est, scilicet) alle vere e proprie interpolazioni, che sono spesso l’anticamera del rifacimento.27 Si leggano le seguenti parole istruttive di Alberto del Monte (p. 57): Cf. A. D’Agostino, Traduzione e rifacimento nelle letterature romanze medievali, in Testo medievale e traduzione, a cura di Maria Grazia Cammarota e Maria Vittoria Molinari, Bergamo, Edizioni Sestante – Bergamo University Press, 2001, pp. 151-172. 27 © Alfonso D’Agostino – Novembre 2005 Copista, correttore e fenomenologia della copia 17 Le interpolazioni sono molto comuni in opere scolastiche, grammaticali, scientifiche, insomma prive di valore letterario; ma anche nelle opere letterarie è estremamente delicato sceverare un testo interpolato da un testo lacunoso. Particolarmente spinosa è la ricostruzione di quei testi pervenuti in alcuni manoscritti che appaiono interpolati e in altri che, quindi si presentano come lacunosi, perché, una volta individuata un’interpolazione, s’assume una posizione di diffidenza, espungendo (atètesi) tutte le parti che sembrano superflue, laddove anche in un originale molte parti possono apparire tali. b) sottrazione (lacuna): dalle piú semplici aplografie (filogia per filologia) alle lacune piú estese descritte supra al sottoparagrafo § 2.2 (omoteleuto, omoarcto, salto da uguale a uguale). c) trasposizione di lettere, di parole, di righe o di versi. Un esempio di tra28 sposizione di versi nel Cantar de Mio Cid: ai vv. 109-118: Martín Antolínez sta cercando di convincere i due mercanti Raquel e Vidas peché concedano un prestito al Cid, perché il Campeador non può portare con sé i due cassoni pieni d’oro: 109 110 111 112 113 114 115 116 117 118 El Campeador por las parias fue entrado, grandes averes priso e mucho sobejanos; retovo d’ellos quanto que fue algo, por én vino a aquesto por que fue acusado. Tiene dos arcas leñas de oro esmerado, ya lo vedes, que el rey le ha ayrado, dexado ha heredades e casas e palaçios; aquéllas non las puede levar, si non, serié ventado; el Campeador dexarlas ha en vuestra mano, e prestalde de aver lo que sea guisado. Gli unici editori che hanno avuto dubbî sull’ordine dei versi sono Jean Hoseph Damas Hinard e Volter Edvard Lidforss, che collocano il v. 113 dopo il 115. Ramón Menéndez Pidal lascia il v. 113 al suo posto, perché “completa il senso del v. 111”. Portando alle estreme conseguenze la corretta opinione di Menéndez Pidal, credo che sarebbe meglio cambiare l’ordine dei vv. 111-114 nel modo seguente (aggiustando anche la punteggiatura): 111 113 112 retovo d’ellos quanto que fue algo: tiene dos arcas leñas de oro esmerado. Por én vino a aquesto por que fue acusado; Cf. A. D’Agostino, Modestas experiencias de un antologista de los primeros siglos, in L’acqua era d’oro sotto i ponti. Studi di Iberistica che gli Amici offrono a Manuel Simões, per le cure di Giuseppe Bellini e Donatella Ferro, Roma, Bulzoni, 2001, pp. 91-101. 28 © Alfonso D’Agostino – Novembre 2005 18 Manualetto ecdotico 114 ya lo vedes, que el rey le ha ayrado [...]29 d) cambiamento di lezione, dovuto spesso al contesto: per es. gli errori di perseveranza (l’amanuense riscrive una lezione già scritta, per forza d’inerzia al posto della lezione corretta) o di anticipazione della dizione interiore (il copista anticipa una lezione che sta piú in là nella pericope); o a ragioni paleografiche: mancanza di divisione delle parole, somiglianza di lettere, abbreviazioni sciolte erroneamente, confusioni in genere. Infine bisogna tenere presenti gli errori costanti in tutti i copisti (omissione di parole brevi, omissione di titulus, frequente dimenticanza del verbo essere nelle varie lingue, della negazione ecc. - «tutto ciò concorre ad abbreviare il testo, sicché è falso l’antiquato pregiudizio per cui lectio brevior, potior»)30 e quelli proprî e costanti di un copista determinato, che il filologo impara a riconoscere familiarizzandosi con la copia. Ecco la versione in endecasillabi sciolti dei vv. 109-118 (tenendo conto della correzione), estratta dalla versione integrale cui sto attendendo : «Il Campeador, andato per riscuotere | i tributi dei mori, entrò in possesso | di parecchie e magnifiche ricchezze | e si tenne una parte che da sola | è un vero patrimonio: ha due cassoni | pieni d’oro finissimo, ed è questa | la ragione per cui venne accusato. | Sapete che nell’ira regia è incorso: | ha dovuto lasciare le sue terre, | le case ed i palazzi, ma i cassoni | non li può portar via, perché sarebbe | facilmente scoperto. Il Campeador | vuole lasciarli nelle vostre mani | in cambio d’una giusta quantità | di denaro [...]». 30 Del Monte, p. 158. E si veda anche supra, § 2.4. 29 © Alfonso D’Agostino – Novembre 2005