Le lavoratrici di cura migranti della Provincia di Massa – Carrara

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Le lavoratrici di cura migranti della Provincia di Massa – Carrara
Provincia di Massa – Carrara
Dec. di Medaglia d’oro al Valor Militare
Università degli Studi di Pisa
Dipartimento di Scienze Sociali
Le lavoratrici di cura
migranti
della Provincia di
Massa – Carrara
Il presente lavoro di ricerca è stato realizzato dal Laboratorio di Ricerca sullo Sviluppo Sociale del Dipartimento
di Scienze Sociali di Pisa nell’ambito delle attività finanziate dall’Amministrazione provinciale di Massa Carrara
(Osservatorio per le Politiche Sociali).
La presente ricerca è stata realizzata in collaborazione con:
Local-Global S.a.s.
Via di Ricorboli, 1
50126-Firenze
Tel.: 055 0113472
Fax: 055 6802511
Staff del progetto:
Supervisione scientifica:
Gabriele Tomei
Coordinamento generale:
Andrea Manuelli
Analisi e redazione del rapporto di ricerca:
Francesco Paletti
Indagine sul campo:
Francesco Paletti e Irene Lencioni
2
Si ringraziano tutti coloro che hanno collaborato alla realizzazione della presente indagine ed in particolare:
-
Le donne straniere che svolgono lavoro di cura. per la disponibilità a regalarci una
parte del loro tempo prezioso;
-
La dott.ssa Irene Lencioni che ha curato la raccolta e sistematizzazione delle
interviste;
-
La dott.ssa Rosanna Vallelonga della Società della Salute della Lunigiana, Rovena
Muča dell’Associazione “Casa Betania” e Abdessamada Elboudlali (Samad)
dell’Associazione “El Kandil” per la preziosa collaborazione.
3
Indice
Introduzione ………………………………………………………….….........................................6
Cap. 1 – Lavoratrici di cura migranti: esistenze al crocevia del cambiamento ……………….8
1.1 – Inquadramento generale del fenomeno ……………………………………………….8
1.2 – Le lavoratrici di cura migranti in Italia ……………………………………………....15
1.3 – Le lavoratrici di cura migranti in Toscana e in Provincia di Massa Carrara………….23
Cap. 2 – Le lavoratrici di cura migranti nella provincia di Massa Carrara. L’indagine sul
campo …………………………………………………………………………………….30
2.1 – Le lavoratrici di cura intervistate: anagrafe del campione ……………………………30
2.2 - I progetti migratori: tra bisogno e pianificazione ……………………………………. 36
2.3 – Il mercato occupazionale: il punto di vista delle lavoratrici di cura ………………….46
2.4 – L’abitazione: tra coresidenza e progetti d’autonomia ………………………………..52
2.5 – Il rapporto con il territorio e la rete dei servizi ……………………………………….55
2.6 – La competenza linguistica …………………………………………………………….61
2.7 – Madri, figlie e mogli “a distanza” …………………………………………………….63
Cap. 3 – Il punto di vista dei “testimoni privilegiati” ……………………………………………71
3.1 – Uno sguardo complementare ………………………………………………………….71
3.2 – L’integrazione sociale delle lavoratrici di cura: nodi critici ………………………….72
4
3.3 – Lavoratrici di cura straniere e sistema di servizi e interventi promossi nel territorio ..74
3.4 – Ricerca di lavoro e qualificazione professionale. Sintesi delle proposte di
miglioramento della rete di servizi e interventi territoriali rivolti
alle lavoratrici di cura straniere ………………………………………………………..75
Note conclusive …………………………………………… ………………………… ………… 79
Riferimenti bibliografici …………………………………………………………… ……………82
Allegati/ Le matrici dell’indagine sul campo ……………………………………………………83
5
PREFAZIONE
Badante Balia. Non è solo il suffisso iniziale che accomuna la parola badante a balia e non solo per
questo facciamo l’analogia tra le due figure associate alle parole, una più moderna l’altra più antica.
Il genere è lo stesso: femminile. Perché di figure femminili si tratta sia nell’uno che nell’altro caso.
Uguale è il tipo di lavoro di cui si occupano, quello relativo alla cura nella sfera privata.
Alle balie veniva richiesto di lasciare il proprio figlio per andare in città, lontano dalla propria casa
ed occuparsi dell’allattamento di un altro bambino.
Tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 fu ampiamente discusso e criticato questo abbandono della
propria prole da parte delle balie; vi fu anche chi riteneva le contadine acquiescenti, innanzi tutto
per far fronte ai bisogni di famiglia, ma anche per un miglioramento della propria condizione
personale.
Esse, infatti, lasciando la campagna non dovevano più sopportare le fatiche dei campi, incontravano
un trattamento di favore, uno stile di vita più comodo, evitavano di subire la sorveglianza del
marito, della suocera, di tutti i componenti della famiglia per vivere in un ambiente migliore, per
apprendere anche aspetti e stili di vita fino ad allora ignorati. Nella dura esistenza di queste povere
donne, il baliatico rappresentava una particolare parentesi, ma a quale prezzo, il distacco dai figli, a
servizio 24 ore su 24.
Le moderne badanti partono dalle stesse condizioni di povertà e migrano per migliorare le loro
condizione ma soprattutto quelle dei figli che lasciano nei paesi d’origine, spesso nella fase più
critica: quella dell’adolescenza.
Diverso è il bisogno che sta alla base dell’offerta. Nel caso delle balie era un lusso delle famiglie
dell’alta società, il bambino era un incomodo rispetto agli impegni sociali di dare e ricevere visite,
frequentare serate e teatri, ecc.
Le badanti del nostro tempo colmano un vuoto del welfare che non si è mai adeguato al mutamento
sociale e lavorativo delle donne che, entrate in maniera massiccia nel mondo del lavoro, a partire
dagli anni ’70, portano ancora su di sé quasi totalmente il peso del lavoro domestico.
L’emancipazione lavorativa delle donne non ha neppure prodotto la redistribuzione del lavoro di
cura tra i sessi.
Tale lavoro è aggravato anche dal progressivo invecchiamento della popolazione e dal
caratterizzarsi della famiglia, sempre di più, come nucleare con la conseguente perdita di tutte quelle
reti e relazioni di supporto delle famiglie allargate.
Che la soluzione per molte famiglie arrivasse dalle badanti, fino a qualche anno fa, non era
immaginabile negli orizzonti di chi prospettava soluzioni che coinvolgessero lo Stato sociale e una
6
visione politica che desse più valore al lavoro e al tempo di cura. Il vuoto in qualche modo è stato
colmato, da una donna, magari con un livello alto di istruzione, trattata spesso alla stregua di una
serva, per alleggerire il peso della “doppia presenza”, di un’altra donna, nella sfera privata.
Tuttavia, non può certo considerarsi risolto il problema. Il lavoro di cura, con il quale le donne
rendono possibile il lavoro in senso economico e la riproduzione fisica della società, deve essere
riconosciuto nella sua utilità economica e dignità sociale.
Il lavoro di cura continua ad essere svolto dalle donne, continua ad essere invisibile. Invisibili sono
le donne migranti che se ne fanno carico nelle nostre famiglie e soprattutto prive di diritti di
cittadinanza.
La caratteristica principale del “Lavoro” è quella di fare acquisire visibilità, identità, professionalità
e diritto di cittadinanza. Nessuna di queste caratteristiche può essere associata al lavoro delle
badanti.
La visibilità, in particolare, viene dal carattere pubblico e riconosciuto del lavoro e dalla sua
separazione con la sfera privata di chi lavora. Nel nostro caso la sfera pubblica e la sfera privata si
sovrappongono a causa della coabitazione, convivenza delle badanti con la persona di cui si
prendono cura. In questo modo la sfera privata non esiste né come tempo né come spazio; infatti la
maggior parte delle intervistate dichiarano di passare il tempo libero rimanendo in casa, nella stanza
a loro assegnata. La scarsa conoscenza della lingua, all’inizio, la mancanza di relazioni, la paura di
non essere accettate impediscono di avere una vita sociale e quindi un’integrazione con la città.
La solitudine affettiva e relazionale delle badanti nel paese ospitante, altro tratto che le accomuna
alle balie di fine ‘800, si somma al dolore e al senso di colpa che sentono per gli affetti che hanno
lasciato nel loro paese, ai bisogni dei loro figli, dei mariti, dei genitori anziani che non possono
soddisfare, se non con le scarse somme e i miseri doni, spesso alimentari, che riescono a mandare.
La loro presenza, la loro identità si connota quindi solo con il termine di “badanti”, con il loro
orario di lavoro che, come loro stesse affermano nelle interviste, va ben oltre il dovuto. Il loro tempo
libero viene vissuto, dal datore di lavoro, come un problema da risolvere per il vuoto che lascia
nell’accudimento del familiare da assistere.
In definitiva la loro condizione raramente corrisponde alla ridefinizione del “progetto di vita” che
avevano immaginato prima di partire.
L’Assessora alle Politiche Sociali
Provincia di Massa - Carrara
dr.ssa Sara Vatteroni
7
INTRODUZIONE
C’è uno spartiacque nella letteratura scientifica relativa alle lavoratrici di cura straniere ed è la
grande regolarizzazione del 2002 collegata alla cosiddetta “Bossi-Fini” (l.189/2002)
che ha
consentito l’emersione dall’irregolarità di oltre 230mila lavoratrici e lavoratori migranti inserite nel
settore domestico. E’ sufficiente anche solo scorrere i riferimenti bibliografici di questo rapporto per
rendersene conto: prima è stato un fenomeno largamente ignorato, “sommerso” anche nelle scienze
sociali eppure già ben presente nel quotidiano delle famiglie italiane; dopo è stato oggetto di una
rincorsa quasi forsennata, allo scopo di recuperare il ritardo accumulato.
Quello della sociologia delle migrazioni è anche il ritardo dei decisori politici, poco capaci
d’interpretare il cambiamento epocale che sta vivendo la società italiana, di cui le lavoratrici di cura
di cura immigrate erano un segno premonitore e sono diventate uno dei sintomi più visibili: la
popolazione invecchia, nuovi modelli familiari si affermano e l’inserimento occupazionale delle
donne non è più solo una questione d’emancipazione femminile ma anche una necessità.
Aumentano le fragilità all’interno delle famiglie e diminuisce la loro capacità di presa in carico. E’
al crocevia di questi cambiamenti che si situano le lavoratrici di cura straniere, protagoniste di un
“welfare informale” nato dal basso e tutto a lato degli interventi istituzionali.
Si tratta di un segmento della popolazione con caratteristiche specifiche proprie, sia quanto a
struttura socio-demografica che in relazione all’intenzionalità dei progetti migratori. Anche in
Toscana, però, non ha ancora compiutamente suscitato l’attenzione del mondo della ricerca: questo
rapporto, commissionato dall’Osservatorio Provinciale per le Politiche Sociali di Massa Carrara al
Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Pisa, infatti, è una delle prime indagini qualitative
tesa a colmare un vuoto di conoscenza abbastanza profondo.
Nel primo capitolo, dopo un inquadramento generale sulle cause strutturali che hanno generato la
rapida crescita di questo segmento di popolazione straniera, se ne tratta le caratteristiche sociodemografiche sia in riferimento al livello nazionale che a quello regionale e provinciale. In esso si
propone anche una stima della presenza reale delle lavoratrici di cura sul territorio toscano.
Il secondo, invece, è interamente dedicato all’indagine qualitativa svolta a partire da un questionario
semi-strutturato somministrato a 22 lavoratrici di cura che vivono nella Provincia di Massa Carrara.
E’ certo la dimensione lavorativa, e per ovvie ragioni, ad occupare una parte significativa
dell’indagine, senza però, crediamo, che sia stata sacrificata quella della relazione con il contesto
d’accoglienza e del rapporto con il Paese d’origine. Da una parte, infatti, vi era l’esigenza di dare in
qualche modo conto del vissuto complessivo delle lavoratrici di cura che abitano questo territorio,
8
evitando accentuazioni eccessivamente funzionali, e mistificanti, come nel caso ci fossimo dedicati
esclusivamente ad esplorare le dinamiche del contesto occupazionale; dall’altra vi era il dovere di
far emergere la dimensione “transnazionale”, particolarmente marcata per questi flussi, in quanto
fortemente condizionante il quotidiano delle lavoratrici: in tal senso quella dei rapporti con i
congiunti rimasti in patria costituisce un’area d’analisi ineludibile.
Infine, nel terzo capitolo, sempre attraverso la somministrazione di un questionario semistrutturato,
si cerca succintamente d’indagare il punto di vista dei c.d. “testimoni privilegiati” -operatori
dell’immigrazione, assistenti sociali e assistenti domiciliari- in relazione alla capacità del sistema
territoriale di offrire risposta ai bisogni e agli interrogativi posti, in primo luogo agli enti locali, dalla
presenza crescente di queste persone. Lo scopo era anche quello di far emergere dalla loro
esperienza alcune ipotesi d’intervento, eventualmente da approfondire in vista di una loro
sperimentazione.
Questo lavoro non ha la pretesa di essere esaustivo, né tanto meno di dire alcuna “parola definitiva”
sull’argomento. Vuole essere, invece, un contributo, certo perfettibile ma crediamo già utile, alla
riflessione.
9
Cap. 1
Lavoratrici di cura migranti: esistenze al crocevia del cambiamento
1. 1 Inquadramento generale del fenomeno
Assistenti domiciliari e collaboratrici familiari, lavoratrici di cura e domestiche, caregiver, colf,
badanti 1 : sono tanti i termini cui si fa ricorso, anche nella letteratura scientifica, per definire
coloro, sempre più spesso migranti, che sono incaricati di accudire i soggetti più deboli
(prevalentemente anziani) delle famiglie. Si tratta di termini che spesso sono utilizzati indifferente
per richiamare uno stesso fenomeno mentre invece si riferiscono ad aspetti che, quanto meno in
linea teorica, andrebbero tenuti distinti benché nella prassi quotidiana siano strettamente collegati:
•
un primo gruppo di termini (assistenti domiciliari, collaboratrici familiari, lavoratrici
domestiche e colf) enfatizza soprattutto le mansioni di tipo prettamente “casalingo”:
cucinare, pulire, riassettare le camere, lavare, stirare e via dicendo;
•
un secondo gruppo (lavoratrici di cura e caregiver) rimanda, invece, soprattutto a compiti
di tipo socio-assistenziale riferiti a persone limitatamente, o completamente, non
autosufficienti arrivando talvolta ad includere anche mansioni di assistenza sanitaria
primaria (ad esempio somministrare farmaci, fare punture o misurare la pressione).
Il fatto che nella prassi, sia comune che scientifica, si faccia ricorso indifferentemente a termini
che in realtà richiamano aspetti qualitativamente diversi è dovuto in parte alla normativa,
segnatamente il Decreto Legislativo del 30 marzo 2001, che sotto la voce “collaboratore
domestico e assimilati” include diverse sottocategorie quali: “balia, bambinaia, collaboratore
familiare, donna di servizio, fantesca, guardarobiere domestico, lavoratrice domestica, maestro di
casa e servitore”; in misura preponderante, però, ciò è dovuto al fatto che spesso la lavoratrice di
cura “svolge allo stesso tempo attività di collaboratrice familiare per cui, pur essendo
razionalmente agevole distinguere tra le due funzioni, in pratica bisogna rendersi conto che la
stessa persona, contemporaneamente o successivamente, è chiamata ad esercitarle entrambe”
(W.Nanni e S.Salvatori, pag. 286 in “Dossier Statistico Immigrazione 2004”, IDOS).
In questa sede, pur senza alcuna pretesa di dirimere la questione terminologica, si utilizzerà il
termine “lavoratrice/lavoratore di cura” 2 ricomprendendo in esso tutte le donne migranti
1
“Il termine “badante” è riduttivo e ingiusto: le donne immigrate (ma talvolta anche gli uomini) sono chiamate ad
assicurare servizi che vanno ben oltre il semplice “badare” agli anziani loro affidati” (M.Ambrosini, pag. 253 in
“Dossier Statistico Immigrazione 2006”, Caritas/Migrantes, IDOS)
2
Secondo la ricerca “Il Welfare fatto in casa” (Iref/Acli, 2007) è donna l’84% degli addetti al lavoro di cura.
10
impiegate presso famiglie italiane nel cui “mansionario” è inserito anche un qualche compito di
cura per quanto esso non sempre possa essere prevalente.
Quello delle lavoratrici di cura straniere non è un fenomeno nuovo per il nostro Paese visto che i
primi flussi risalgono all’inizio degli anni ’70 e riguardano soprattutto “colf” (è la definizione
ricorrente allora) provenienti da Paesi cattolici (Filippine, Perù e America Latina in genere), dal
Corno d’Africa (Somalia, Eritrea ed Etiopia) e da Capoverde. Ma è solo nell’ultimo decennio che
esso assume una rilevanza quantitativa e una visibilità sociale tale da attrarre in misura crescente
l’attenzione dei media, delle scienze sociali e, sia pure con qualche ritardo, anche dei “policy
maker”. Le stime più accurate 3 , e recenti, al riguardo indicano in oltre 600mila le cittadine
immigrate che in Italia sono impegnate nel lavoro di cura, incluse coloro che si trovano in una
posizione d’irregolarità. Quelle regolarmente iscritte all’INPS a fine 2004 erano, invece, oltre
336mila, un valore sensibilmente sottostimato rispetto a quello reale ma, comunque, di cinque
volte superiore a quello del 1995: in dieci anni, infatti, il numero dei migranti iscritti all’INPS nel
settore del lavoro domestico è aumentato di ben il 408,1%.
Una diffusione così ampia del fenomeno si spiega a partire dal consistente incremento del bisogno
di cura delle famiglie italiane, conseguenza dell’invecchiamento della popolazione: l’Italia, infatti,
già oggi è la nazione con il più alto tasso nel mondo di persone con oltre 65 anni di età e la
tendenza è quella di un aumento della longevità se è vero che la speranza di vita continua ad
aumentare 4 non essendo sufficiente a compensarla la lievissima ripresa della natalità 5 .
Conseguentemente si fanno sempre più diffuse le situazioni di persone in condizioni di non
autosufficienza: uno studio del Ministero del Welfare (2006) ha calcolato in circa 2milioni e
800mila gli italiani non autosufficienti. Il problema è particolarmente sentito nelle classi d’età più
avanzate: una qualche forma di disabilità, infatti, colpisce circa un quinto (19,3%) degli
ultrasessantacinquenni e quasi la metà (47,7%) di quelli con più di ottanta anni 6 .
3
Vedi paragrafo seguente.
“La speranza di vita alla nascita è cresciuta in un solo decennio (1993-03) di quasi tre anni per gli uomini e di quasi
due per le donne, portandosi a 77 anni per i primi e ad 82 e mezzo per le seconde (…). Circa due terzi dell’allungamento
della speranza di vita complessiva sono ascrivibili ai miglioramenti intervenuti nelle età più avanzate” (pag. 77,
“Rapporto di monitoraggio delle politiche sociali”, Ministero del Welfare, 2005).
5
Passata da 1,19 figli per donna in età feconda del 1995 (minimo storico per l’Italia) a 1,33 nel 2004.
6
La stessa indagine ha evidenziato come più di un quinto (22,5%) degli ultraottantenni viva in una condizione di
“confinamento individuale” (costrizione a letto, su una sedia a rotelle o in casa) e circa un terzo incontra difficoltà
nell’espletamento delle principali attività di cura della propria persona (vestirsi, lavarsi, mangiare, etc). (pag. 100,
“Rapporto di monitoraggio delle politiche sociali”, Ministero del Welfare, 2005).
4
11
Tabella 1 – La popolazione anziana in Europa: gli 8 Paesi con maggior incidenza di
ultrasessantacinquenni.
EU (25 Paesi)
Italia
Germania
Grecia
Svezia
Bulgaria
Belgio
Spagna
Portogallo
Popolazione residente
455.022.000
57.321.000
82.537.000
11.006.000
8.941.000
7.846.000
10.356.000
41.664.000
10.407.000
% popolazione anziana
16,3
19
17,5
17,5
17,2
17
17
16,9
16,7
Fonte: Ns. elaborazioni IRS su dati Eurostat, 2003
Eccezion fatta per i casi di persone affette da patologie di una certa gravita, in Italia è sempre stata
la famiglia, e soprattutto le donne, a farsi carico dei compiti di cura nei confronti dei membri più
fragili, anziani in particolare. Questo modello di presa in carico ha tenuto almeno fino alla metà
degli anni ’80; da un ventennio a questa parte, invece, ha palesato segnali di crisi sempre più
evidenti. In primo luogo per là già sottolineata crescita della popolazione anziana, ma anche
perché sono in rapida trasformazione i modelli e le istituzioni socio-culturali di riferimento della
società italiana: il riferimento è, innanzitutto, all’emancipazione lavorativa femminile, che nel
nostro Paese non è stata accompagnata da percorsi di redistribuzione fra i sessi dei compiti
familiari di cura di uguale intensità. La conseguenza è stata una traslazione della linea d’impegno
delle donne italiane: da «casalinga-madre-moglie» a «lavoratrice-madre-moglie». “Alcune di esse
arrivano a lavorare anche 70 ore a settimana e questo in un contesto in cui è venuto meno il perno
tradizionale dei familiari e dei parenti stretti e, specialmente nelle aree metropolitane, sussiste la
difficoltà a ritornare a casa in tempi accettabili a causa della distanza del posto di lavoro” 7 (INPSCaritas/Migrantes, dicembre 2004). L’affermarsi di un modello familiare nucleare in luogo della
famiglia «allargata», prevalente fino a qualche decennio fa e in grado assicurare quella trama di
relazioni e rete di supporti ai soggetti più deboli del nucleo, è un altro elemento di trasformazione
della società italiana che concorre ad incrementare il bisogno di cura. Ciò anche alla luce del
7
Questa asimmetria di genere, che interviene nell’organizzazione familiare e nelle soluzioni adottate dai suoi membri,
emerge in modo chiaro da alcuni dati desunti dall’Indagine Multiscopo sulle famiglie dell’Istat (2001-2002): di fatto,
nelle coppie a doppia carriera, il 53,5% delle donne attive (coniugate con figli) dichiarano di essere impegnate per oltre
sessanta ore a settimana (considerando il tempo dedicato alla professione, ai familiari e alla casa), contro il 17% degli
uomini che sostengono il medesimo livello di carico sociale.
12
moltiplicarsi delle forme familiari in conseguenza dell’aumento delle separazioni e dei divorzi che
ha implicato una crescita dei nuclei ricostituiti e di quelli costituiti da una sola persona 8 .
A fronte di cambiamenti di tale portata, che non è esagerato definire epocali quanto meno dal
punto di vista socio-culturale, il sistema di welfare nazionale si è fatto trovare ampiamente
impreparato: il sistema di protezione sociale italiano, infatti, è basato essenzialmente “su
trasferimenti di reddito, soprattutto sotto forma di pensioni, e meno su servizi pubblici alle
persone e alle famiglie, rispetto ai Paesi dell’Europa settentrionale e centrale (..) Ma una simile
architettura del welfare riflette un assetto sociale tradizionale, in cui gli uomini lavorano fuori casa
(…), mentre le donne si occupano dei compiti afferenti alla sfera domestica (…). Questo assetto
scricchiola sempre più da quando anche le donne sposate sono entrate massicciamente nel mercato
del lavoro extradomestico ed è aumentato il numero di anziani da assistere, mentre non ha fatto
grandi progressi la redistribuzione dei compiti all’interno delle famiglie” (Ambrosini, pag.19,
2004). Prova ne è che l’Italia è, fra i Paesi OCSE, quello che dispone del numero più basso di
posti letto in residenze protette per anziani: 20 per ogni mille ultrasessanticinquenni mentre nessun
altro Paese industrializzato scende sotto la media dei sessanta. Non solo, uno studio dell’EACHH
(European Association of Care and Help at Home) ha confrontato i sistemi di assistenza
domiciliare di undici Paesi europei evidenziando come il nostro sistema sanitario nazionale riesca
a raggiungere a domicilio una proporzione inferiore all’ 1% degli anziani con più di 65 anni. “Il
distacco dagli altri Paesi è elevato: la Repubblica Ceca, penultima per consistenza dei servizi
domiciliari, raggiunge comunque il 6 per cento degli ultrasessantacinquenni; la Francia l’8 per
cento, la Germania il 10, la Gran Bretagna e i Paesi Scandinavi il 20” (W.Nanni/S.Salvadori, pag.
291 in “Dossier Statistico Immigrazione 2004”, IDOS).
Un ultimo elemento che evidenzia ulteriormente il bisogno di cura delle famiglie italiane è quello
che Castagnaro (2002) ha definito come “cultura della domiciliarità”. In un contesto di forte
trasformazione, come quello delineato nelle pagine precedenti, sembra restare costante, invece, il
desiderio di dare risposta alle necessità di cura dell’anziano nell’ambito del suo contesto di vita.
“Non è soltanto la carenza di strutture residenziali per gli anziani bisognosi di assistenza, o il loro
costo, infatti, a indurre le famiglie alla soluzione privatistica dell’assunzione (regolare o meno) di
un’aiutante domiciliare. Interviene anche il rifiuto di soluzioni istituzionalizzanti, il desiderio di
mantenere l’anziano nel proprio ambiente di vita, di non sconvolgere i suoi ritmi e le abitudini,
8
Le persone che vivono da sole sono l’11,9% della popolazione adulta: si tratta di un fenomeno che in parte è
addebitabile all’invecchiamento della popolazione (e quindi all’accresciuta possibilità di trovarsi in una situazione di
vedovanza), ma in misura rilevante è anche conseguenza della frantumazione della coppia (nella fascia d’età compresa
fra i 45 e i 64 anni sono divorziati o separati più della metà degli uomini che vivono da soli e circa i due terzi delle
donne) o della scelta di autonomia in assenza di una coppia (circa i tre quarti degli “under 45” che vivono da soli sono
celibi o nubili). (Ministero del Welfare, 2006).
13
poterlo visitare liberamente quando lo richiede o quando c’è un momento libero (M.Ambosini,
19:2004). Lo conferma anche una recentissima indagine del Censis (giugno 2008) secondo cui
solo il 7% degli italiani pensa che in caso d’insorgenza di non autosufficienza in un proprio
genitore bisognerebbe trasferirlo in una struttura residenziale; mentre il 30% ritiene che dovrebbe
esserci un’offerta pubblica e privata di assistenza domiciliare modulata sulle esigenze, il 28% è
convinto che dovrebbe vivere con uno dei figli (se ne ha ovviamente) e il 22% che dovrebbe
rimanere in casa propria salvo beneficiare di viste regolari da parte dei familiari per garantire
l’assistenza necessaria.
Ricapitolando, quindi, i fattori che in Italia hanno favorito il diffondersi del ricorso al lavoro di
cura, elencati di seguito, sono tanto demografici, quanto sociali e culturali:
•
invecchiamento della popolazione e aumento degli anziani non autosufficienti;
•
emancipazione femminile non accompagnata da un altrettanto intensa redistribuzione di
genere dei compiti di cura in ambito familiare;
•
passaggio da un modello di famiglia «allargato» ad uno di tipo nucleare;
•
limitata capacità del welfare nazionale di offrire risposte ai nuovi bisogni ingenerati dai
cambiamenti in atto;
•
permanere di una forte “cultura della domiciliarità”.
E’ al crocevia di queste tensioni, quasi tutte orientate al cambiamento, che si costruisce quel
“welfare nascosto” di cui le lavoratrici di cura straniere costituiscono il pilastro fondamentale. “Si
configura un welfare “leggero”, familiare e informale, povero di professionalità ma percepito e
vissuto come più “amichevole”, deburocratizzato, flessibile e, naturalmente più governabile da
parte degli utilizzatori-datori di lavoro. Le famiglie scambiano di fatto la rinuncia ad avvalersi di
servizi istituzionali (che peraltro non riuscirebbero a rispondere ai loro bisogni) e anche ad
un’assistenza professionalmente qualificata e razionalmente organizzata, con la libertà di gestire le
cure per gli anziani entro lo spazio domestico, intaccando il meno possibile abitudini e ritmi di
vita del congiunto” (M.Ambrosini, 20:2004).
Le lavoratrici di cura immigrate, infatti, garantiscono tutta una serie di “requisiti” che incontrano i
bisogni delle famiglie autoctone. In primo luogo la disponibilità a svolgere un lavoro che gli
italiani non accettano più di fare, a causa certo della bassa retribuzione, ma ancor di più della
pesantezza delle mansioni da svolgere e della bassa considerazione sociale di cui gode questa
professione 9 . Quindi, come accennato, il risultare economicamente molto più convenienti rispetto
9
In una prospettiva di genere “ciò è facilmente spiegabile in un Paese dove ancora il lavoro delle casalinghe italiane non
è riconosciuto come lavoro vero. (…) L’opinione corrente (maschile soprattutto) ancora classifica come naturale attività
femminile riordinare la casa, fare la spesa, cucinare, crescere i bambini e accudire gli anziani”. (A.Santoro, 48, in
“Briciole: nello sguardo dell’altra, raccontarsi il lavoro di cura”, CesvoT, ottobre 2006).
14
all’assistenza privata convenzionata, anche in conseguenza del fatto che molte di queste donne
sono disposte (a volte per mancanza di alternative, altre volte perché vantaggioso rispetto agli
obiettivi del loro progetto migratorio) a monetizzare la rinuncia ad alcuni diritti contrattuali, “per
esempio facendosi pagare un po’ di più il mese di ferie, rinunciando in cambio a goderle”
(A.Rossi/P.Piva, 16:2006). Al riguardo una ricerca di alcuni anni fa (novembre 2001) condotta
dall’Osservatorio Socio-religioso del Triveneto e dalla Delegazione Caritas Nord-Est stimava in
circa 273 milioni di euro il risparmio delle famiglie venete e dell’amministrazione regionale
derivante dalla presenza delle circa 15mila lavoratrici di cura immigrate. A tutto ciò si aggiunge il
vantaggio della coresidenzialità, ossia il fatto che la lavoratrice, frequentemente (soprattutto nel
primo periodo di permanenza in Italia), è disponibile a vivere nell’abitazione della persona
accudita: per le immigrate la convenienza sta nel fatto di risolvere in tempi brevi il problema
abitativo, rendendosi pressoché invisibili nei confronti di eventuali controlli e risparmiando
somme relativamente elevate da rimandare in patria; le famiglie, invece, possono garantire la
permanenza dell’anziano in ambiente domestico grazie all’assistenza continuativa della lavoratrice
di cura che, in tali circostanze in modo particolare, assicura il massimo della flessibilità
disponibile sul mercato del lavoro: “oltre ai normali compiti di cura della casa, che sono di solito
l’oggetto principale del contratto esplicito, vengono qui richieste prestazioni di tipo assistenziale e
para-sanitario, come quelle di lavare, tenere in ordine, mettere a letto e alzare le persone assistite,
tenere sotto controllo il loro stato di salute, a volte medicare, somministrare farmaci, prevenire e
curare le piaghe da decubito. Ma si richiede anche compagnia e sostegno emotivo o, in altri
termini, una disponibilità allargata a sostituire i familiari assenti nel sollevare il morale e far
passare il tempo agli anziani assistiti” (M.Ambrosini, 24-25;2004).
Questo welfare informale e nascosto non assicura solo convenienza reciproca ma produce anche
svantaggi su ambo i lati della relazione. Il carico maggiore è sulle spalle delle donne migranti,
segregate in nicchie occupazionali che godono di scarsa considerazione sociale e, sovente,
impieghi inferiori alle loro competenze e aspettative. Le possibilità di emanciparsi da tale
situazione e di integrarsi nel territorio locale sono limitate a causa dei gravosi orari, dei carichi di
lavoro e soprattutto della coresidenzialità, la quale, frequentemente, finisce col limitare anche i
ricongiungimenti familiari per la mancanza di un alloggio autonomo. Sul versante familiare,
invece, l’inconveniente maggiore è l’assenza di profili professionali non adeguati per un lavoro,
come quello di cura, che domanda non solo disponibilità alla fatica fisica ma anche competenze
relazionali e socio-sanitarie specifiche di cui, spesso, le lavoratrici di cura sono sprovviste.
Finora si è analizzato soprattutto il versante della domanda, ossia le ragioni per cui in Italia vi è
una richiesta così quantitativamente significativa di lavoratrici di cura. Ma qualche parola deve
15
essere spesa anche sul versante dell’offerta, cioè sui motivi per cui esse decidono di lasciare la
propria famiglia e i propri affetti più stretti per trasferirsi in un altro Paese inserendosi in questo
specifico segmento del mercato del lavoro nazionale.
La scelta di queste donne è da ricondursi, prevalentemente, alla categoria delle migrazioni
economiche ed affonda le radici nella situazione di povertà vissuta in patria e nelle opportunità di
relativo benessere che sembra offrire 10 l’emigrazione. Il divario che separa i contesti di partenza
di queste migranti dall’Italia è evidente anche prendendo in considerazione alcuni elementari
indici di sviluppo, come illustra la tabella 2 che mette a confronto aspettativa di vita,
alfabetizzazione, iscrizione scolastica e PIL procapite dell’Italia con gli analoghi indicatori relativi
a quattro dei principali Paesi di provenienza delle lavoratrici di cura straniere.
Tabella 2 – Indicatori di Sviluppo (2005): confronto fra Italia e Paesi di provenienza delle
lavoratrici di cura.
Aspettativ
Tasso alfabetizzazione
Tasso iscrizione
PIL
pro
a di vita 11
(%) 12
scolastica (%) 13
capite 14
Italia
80,3
98,4
90,6
28.529
Romania
71,9
97,3
76,8
9.060
Ucraina
67,7
99,4
86,5
6.848
Filippine
71
92,6
81,1
5.137
Rep.
71,5
87
74,1
8.217
Dominicana
Fonte: Ns. elaborazioni su dati UNDP (2005)
Guardando solo il dato economico, emerge con chiarezza come il PIL pro capite italiano sia
grande tre volte quello romeno e dominicano, più che quattro volte quello ucraino e più che cinque
quello filippino.
Un indicatore un po’più preciso e mirato della situazione personale vissuta è quello relativo al
numero di familiari occupati all’epoca dell’espatrio, preso in considerazione da una ricerca di
IREF/Acli (giugno 2007) basata sulla somministrazione di un questionario standardizzato ad un
campione di 1.003 lavoratrici di cura provenienti da Paesi a forte pressione migratoria: “il dato da
rimarcare è che quasi un collaboratore domestico su quattro è emigrato quando nella propria
famiglia non lavorava nessuno; un altro 45% è partito con un solo occupato in famiglia. Ciò vuol
10
“Non appena le esigenze superano il livello minimo di sussistenza e ci si trova ad affrontare necessità economiche più
strutturate, come le spese di istruzione per i figli, o le spese sanitarie, l’emigrazione diventa per molte donne l’unica via
percorribile per affrontare tali incombenze e garantire un benessere alla propria famiglia” (E.Castagnone/R.Petrillo, pag.
13-14 in “Madri migranti, le migrazioni di cura dalla Romania e dall’Ucraina in Italia”,Cespi, Working Papers 34/2007).
11
In anni.
12
Espresso in percentuale sul totale della popolazione con più di 15 anni.
13
Ponderato fra livello primario (corrispondenti alle scuole elementari e medie italiane), secondario e terziario
(università).
14
Espresso in dollari a parità di potere d’acquisto.
16
dire che la necessità di integrare il proprio reddito familiare è un movente fondamentale in questi
processi migratori” (IREF/Acli, 18:2007).
La povertà relativa dei Paesi d’origine rispetto a quello d’approdo spiega sicuramente la scelta
d’emigrare, ma “dice” poco sul motivo per cui a compiere tale scelta siano soprattutto le donne
della famiglia, fra l’altro frequentemente in età non più giovane. Castagnone e Petrillo (febbraio
2007), autrici di uno studio di caso su un campione di collaboratrici familiari romene (e ucraine),
evidenziano al riguardo “la scarsità di offerta di lavoro (in patria N.d.A) per le donne in età
avanzata con carichi familiari. Molte, che pure in passato lavoravano, raccontano infatti di aver
abbandonato la propria occupazione per diversi anni per prendersi cura dei figli nei primi anni di
vita, e di aver in seguito incontrato notevoli difficoltà a reinserirsi nel mercato del lavoro. Per la
maggior parte di queste donne il prolungato periodo di assenza dal lavoro e l’avanzare dell’età
hanno ridotto sensibilmente la possibilità di trovare impiego in Romania” (pag. 16, ivi).
Inoltre non deve essere sottaciuto il fatto che in molti casi il migrante espatria con la
consapevolezza che nella nazione d’arrivo troverà lavoro in un specifico settore. Le informazioni
sui fabbisogni di manodopera, infatti, sono una delle risorse fondamentali nelle valutazioni che
precedono la migrazione e difficilmente potrebbe essere diversamente se si considera che il
principale canale di primo impiego sono parenti e amici o conoscenti connazionali. Al riguardo
anche la ricerca di IREF/Acli evidenzia come il 40,8% delle donne migranti intervistate è partito
già pensando di trovare un impiego nel lavoro di cura.
1.2 Le lavoratrici di cura migranti in Italia
Quello delle lavoratrici di cura è un flusso tutt’altro che recente nella storia delle migrazioni dirette
verso l’Italia: i primi flussi del dopoguerra, infatti, risalgono agli anni ’60 e riguardano
principalmente le donne capoverdiane che giungono nel nostro Paese grazie alla mediazione dei
Padri Cappuccini. Successivamente è possibile distingure tre diverse fasi:
•
la prima, negli anni ’70, coinvolge prevalentemente lavoratrici di cura provenienti dalle ex
colonie italiane e da Paesi cattolici (Filippine, Perù e, in generale, America Latina). La
mediazione di molte organizzazioni d’ispirazione cattolica consente loro di giungere nel
nostro Paese già con i documenti in regola;
•
è a partire dagli anni ’80 (e ancor di più nel decennio successivo), però, che il fenomeno
acquista una consistenza numerica significativa: in particolare fra il 1995 e il 1996, a seguito
17
della regolarizzazione, si verificò il raddoppio degli addetti stranieri del settore passati, nello
spazio di un anno, da 59mila a quasi 110mila 15 ;
•
La terza fase, quella in cui il fenomeno delle lavoratrici di cura straniere diviene ampiamente
diffuso in tutto il Paese, a partire dal 2000 assume un’evidenza anche nelle fonti ufficiali e
conosce il culmine in occasione della regolarizzazione del 2002 quando furono presentate
ben 348mila domande di emersione così ripartite: 233mila per l’Est Europa, 50mila per
l’America Latina, 32mila per l’Africa e 31mila per l’Asia. E’ nel decennio in corso che si
verifica anche la rivoluzione nella geografia delle provenienze delle lavoratrici di cura
straniere, con le donne originarie dei Paesi dei Balcani e dell’ex Unione Sovietica che
cominciano a sopravanzare, in misura sempre più significativa, le colleghe provenienti dai
tradizionali bacini occupazionali per il lavoro di cura e la collaborazione domestica
(Filippine soprattutto, ma anche i Paesi del subcontinente indiano e quelli del Corno
d’Africa).
Che il fenomeno del lavoro di cura svolto da donne immigrate sia piuttosto diffuso è un dato
esperienziale universalmente riconosciuto; quanto lo sia però è questione piuttosto difficile da
chiarire. Gli unici dati ufficiali al riguardo sono quelli di fonte INPS che, però, scontano un doppio
handicap: sono notoriamente sottostimati rispetto al dato reale a causa dell’ampio ricorso al lavoro
irregolare presente nel settore, ma sovrarappresentano la quota di lavoratici di cura regolarmente
iscritte in quanto incorporano questa categoria all’interno di quella più ampia dei lavoratori
domestici, che includono anche coloro che si occupano esclusivamente della pulizia e della custodia
delle abitazioni.
L’interesse suscitato dall’argomento ha fatto sì che, in anni recenti, molti studiosi ed istituti di
ricerca si siano cimentati in tentativi di stime delle persone realmente impiegate nel lavoro di cura16 .
La maggior parte di tali lavori, però, a causa delle difficoltà , non è stata in grado di estrapolare dalla
stima complessiva la disaggregazione relativa agli occupati di nazionalità italiana ed estera 17 ;
ancora meno quelle in grado d’indicare la ripartizione per sesso dei lavoratori del settore. Fa
eccezione rispetto al quadro sommariamente delineato lo studio dell’IRS del settembre 2006, il
15
“Questo dato è il risultato sia dell’effettiva domanda di nuovo personale, sia dell’utilizzo della collaborazione
domestica come una buona copertura per poter essere regolarizzati, tant’è vero che vennero coinvolti anche uomini
provenienti da alcuni Paesi del continente africano, tradizionalmente poco portati per questo tipo di lavoro e, non a caso,
ottenuto il permesso di soggiorno, si registrò una fuoriuscita dal settore con passaggio ad altre attività” (A.Fucilitti, pag.
290 in “Dossier Statistico Immigrazione 2005”, Caritas/Migrantes, IDOS).
16
Secondo uno studio di Cergas/Bocconi (2005) i lavoratori impiegati nel settore sarebbero fra i 713mila e il milione
134mila unità; una ricerca di IREF/AcliColf (2005) parla di un bacino occupazionale di un milione di persone come “il
minimo immaginato possibile”; un indagine pubblicata da “Il Sole 24” (2006) ha stimato una presenza di lavoratrici
immigrate irregolari che va da un minimo di 250mila ad un massimo di 900mila persone.
17
Le indagini a campione più precise e recenti al riguardo indicano una quota di lavoratori italiani pari al 3-5% del
totale degli occupati nel settore (IRS, settembre 2006; IREF/AcliColf, giugno 2007).
18
quale si cimenta in un tentativo di stima piuttosto articolato partendo dalla base ufficiale dei dati
INPS.
Tabella 3 – Italia: stima delle lavoratrici di cura i (2006)
Stima
L.C.
straniere
regolarizzate
INPS
al
2006 18
248.000
Stima
delle Stima
L.C.
L.C. straniere straniere
operanti nel totale
sommerso 19
Stima
L.C.
italiane
regolarizzate
INPS al 2006
Stima
L.C. Stima totale
italiane
operanti nel
sommerso
372.000
29.000
44.000
620.000
693.000
Fonte: Ns. elaborazioni su stime IRS
Secondo l’IRS le lavoratrici di cura straniere sarebbero 620mila, l’89% del totale delle addette del
settore. In Italia, dunque, ci sarebbero 57 lavoratrici di cura immigrate ogni 1.000
ultrasessanticinquenni 20 residenti. La condizione d’irregolarità riguarderebbe il 60% di esse: il 38%
perché priva di un titolo di soggiorno legale mentre il 22% in quanto, pur legalmente soggiornante,
opera nel lavoro sommerso.
Anche i numeri della Banca Dati INPS, per quanto ampiamente sottostimati rispetto al fenomeno
reale, sono in grado comunque di evidenziare alcune delle tendenze in atto nel nostro Paese.
Fig. 1 – Lavoratori domestici iscritti all’INPS (1995-2004)
400.000
370.502
350.000
336.524
300.000
250.000
200.000
150.000
107.727
100.000
50.000
134.217
119.297
66.236
0
1995
1997
1999
2001
2003
2004
Fonte: Ns. elaborazioni su dati Dossier Statistico Immigrazione 2007.
18
Stima (l’INPS elabora i dati con due anni di ritardo).
Sia irregolarmente soggiornanti, che con permesso di soggiorno ma con posizione lavorativa irregolare.
20
Se, invece, si prende in considerazione il totale (straniere e italiane) l’incidenza sale a 64 lavoratrici di cura ogni 1.000
ultrasessantacinquenni residenti.
19
19
In dieci anni (dal 1995 al 2004) i lavoratori domestici stranieri iscritti all’INPS sono quintuplicati
(+408%). I picchi d’aumento più significativi sono stati realizzati in coincidenza con i
provvedimenti di regolarizzazione: fra il 1995 e il 1997, a cavallo quindi della c.d. “sanatoria Dini”,
le iscrizioni sono cresciute del 62,6%; fra il 2001 e il 2003, in occasione della grande
regolarizzazione collegata alla c.d. “Bossi-Fini” (l.189/2002), si è assistito addirittura ad un aumento
di quasi tre volte (176%). Dati che confermano, anche relativamente a questo settore, le notevoli
difficoltà poste dalla normativa vigente ad accedere ai normali canali d’ingresso per motivo di
lavoro e “l’inadeguatezza delle quote per chiamate nominative, sia dal punto di vista numerico che
dal punto di vista dei requisiti necessari” (W.Nanni/S.Salvatori, pag. 286, in “Dossier Statistico
Immigrazione 2004”, IDOS).
Altre difficoltà sono evidenziate anche dalla diminuzione delle iscrizioni che si è verificata fra il
2003 e il 2004 (-9,2%, pari a circa 34mila unità). Caritas/Migrantes parla al riguardo di “fenomeno
carsico” (M.Nanni, pag. 258, “Dossier Statistico Immigrazione 2007”, IDOS) ed evidenzia come
tale calo “possa essere ricondotto alla precarietà tipica del lavoro di cura e alla scarsa propensione a
formalizzare questo tipo di prestazioni da parte del datore di lavoro”.
Analogo fenomeno è sottolineato anche dal Censis (giugno 2008) secondo cui i regolarizzati per
lavoro domestico con la grande sanatoria del 2002 sono diminuiti di ben il 20,8% nello spazio di tre
anni (dal 2004 al 2007), “a segnare un probabile ritorno al nero e al sommerso” 21 . L’Istituto di
ricerca punto l’indice soprattutto contro “la farraginosità burocratiche delle procedure normative,
chiaramente lontane dalla realtà che i soggetti incontrano (…). La prima esigenza (delle famiglie
N.d.A) impone di circoscrivere la ricerca della badante da mettersi in casa a persone presenti
fisicamente in Italia, da contattare, incontrare, valutare, magari mettendole alla prova per un breve
periodo. Questo richiede il ricorso a canali informali (…), “a lato” delle procedure normative e
regolatorie che prevedono i famosi canali di accesso ufficiali che, rispetto alla concreta realtà
dell’assistenza ai non autosufficienti, sono irrilevanti, fantasiosi, inefficaci” (pag.16-17, “Il sociale
non presidiato”, Censis).
Le informazioni rilevate dalla banca dati INPS, aggiornati al 31.12.2004 22 , consentono anche di
tracciare un sommario profilo socio-demografico e anagrafico delle lavoratrici di cura iscritte. Il
rapporto “Il Welfare fatto in casa” (giugno 2007), un’indagine campionaria a cura dell’IREF offre al
riguardo un quadro maggiormente approfondito cui si farà ricorso in questa sede a complemento dei
dati ufficiali.
21
In realtà, almeno in linea teorica non si può negare la possibilità che, una quota di essi, abbia cambiato lavoro e,
quindi, attualmente risulti iscritto all’INPS in un settore diverso.
22
Abbiamo già spiegato che l’Osservatorio occupazionale INPS elabora i dati con due anni di ritardo.
20
Finora abbiamo declinato il lavoro di cura sempre al femminile, sia per gli obiettivi che si propone
la presente indagine, sia perché si tratta di un bacino occupazionale che, tradizionalmente, vede
impiegate soprattutto donne. Ma non deve essere taciuto il fatto che il lavoro di cura interessa anche
gli immigrati di genere maschile per quanto con un’incidenza minima rispetto al totale: le lavoratrici
domestiche 23 , infatti, sono l’87,5% di tutti gli occupati stranieri nel settore, mentre gli uomini
coprono il restante 12,5%. Tali proporzioni sono confermate anche dall’indagine nazionale IREF: le
donne, infatti, sono l’83,7% del campione selezionato (che include anche lavoratori irregolari).
Figura 2 – La distribuzione di genere delle lavoratrici domestiche per area di provenienza
(31.2.2004)
120,0%
100,0%
5,3%
9,3%
17,7%
32,1%
80,0%
M
60,0%
F
94,7%
40,0%
90,7%
82,3%
67,9%
20,0%
0,0%
Europa Est
Africa
Asia
America centromeridionale
Fonte: Ns. elaborazioni su Dossier Statistico Immigrazione/INPS
La componente femminile è quasi assoluta per quel che riguarda i lavoratori domestici provenienti
dai Paesi dell’Europa Orientale (94,7%) e rimane più elevata della media nazionale anche per quel
che riguarda gli occupati originari dell’America Centro-Meridionale (90,7%); scende, invece, al di
sotto di tale soglia in riferimento alle lavoratrici e ai lavoratori africani (82,3%) e, soprattutto,
asiatici (67,9%) 24 . In questo continente, infatti, vi sono alcuni Paesi di provenienza in cui la
componente maschile di occupati nel settore domestico è particolare alta (Filippine, 23,7%), in
qualche caso, soprattutto nel subcontinente indiano, addirittura superiore a quella femminile (Sri
Lanka 51,3%, India 55,3%, Bangladesh 88,5%). I Paesi della regione balcanica e dell’Europa
Orientale, invece, evidenziano una tendenza opposta: in essi la componente femminile delle
lavoratrici domestiche si colloca, quasi sempre al di sopra del 90%. Prendendo in considerazione
solo le nazioni da cui giungono i flussi più significativi di lavoratrici di cura, è il caso dell’Ucraina
(97,2%) e della Romania (91, 7%), ma anche di Russia (97,6%), Polonia (96,2%), Bielorussia
(96,5%) e Moldavia (95,6%).
23
E’ la dizione di riferimento della Banca Dati INPS.
Nell’analisi non sono stati presi in considerazioni i lavoratori domestici provenienti dall’Europa Occidentale,
dall’America Settentrionale e dall’Oceania perché la loro incidenza percentuale è irrisoria.
24
21
In generale, riguardo alle provenienze (figura 3), oltre la metà delle lavoratrici di cura iscritte
all’INPS arrivano dall’Europa Orientale (58,8%), quasi un quinto (17,7%) dall’America centromeridionale e il 16% dall’Asia.
Fig.3 – Distribuzione % per area di provenienza dei lavoratori domestici (31.12.2004)
% totale
% donne
America centromerid; 17,7
America Latina; 17 Altri; 0,3
Altri; 0,3
Asia; 20,6
Asia; 16
Africa ; 7,6
Europa Est; 54,4
Europa Est; 58,8
Africa ; 7,2
Fonte: Ns. elaborazioni su Caritas/Migrantes e INPS
Nello specifico (tabella 4) oltre un quinto delle lavoratrici domestiche provengono dall’Ucraina
(23,3%). Seguono Romania (15%), Filippine (11,9%), Polonia (7,2%) ed Ecuador (6,8).
Tabella 4 – Lavoratori domestici: i primi dieci gruppi nazionali (31.12.2004)
Paese
Ucraina
Romania
Filippine
Polonia
Ecuador
Perù
Moldavia
Sri Lanka
Albania
Marocco
v.a. totale
70.603
48.132
46.093
22.041
21.765
20.200
18.451
15.691
11.019
7.573
%
21
14,3
13,7
6,6
6,5
6
5,5
4,7
3,2
2,3
Paese
Ucraina
Romania
Filippine
Polonia
Ecuador
Perù
Moldavia
Albania
Sri Lanka
Marocco
Fonte: Ns. elaborazioni su dati Dossier Immigrazione Caritas e INPS
22
v.a. donne
68.646
44.160
35.149
21.212
20.002
17.909
17.647
9.473
7.645
6.229
%
23,3
15
11,9
7,2
6,8
6,1
6
3,2
2,6
2,1
Analoghe tendenze sono evidenziate anche dallo studio dell’IREF il quale sottolinea anche come
l’Italia si caratterizzi per due diversi flussi sia in relazione alle aree di provenienza che al periodo in
della migrazione: a partire dagli anni ’90, infatti, si sono via via intensificati gli ingressi provenienti
dalla regione Balcanica e dai Paesi dell’ex Unione Sovietica, i quali sono andati a sovrapporsi ai
precedenti flussi per lavoro domestico provenienti dall’area mediterranea, dall’America Latina e
dalle Filippine. Secondo uno studio di caso dell’IRS (settembre 2006), dedicato alle lavoratrici di
cura della
Lombardia, i due fattori maggiormente capaci di orientare tali flussi
sono
“il
reclutamento dei lavoratori per conoscenza”25 e “le differenti opportunità di emigrazione legate ai
sistemi di regolazione dei diversi Paesi”: di fatto accade che “una nazionalità fortemente radicata
(come nel caso di quella filippina o srilankese N.d.A) può essere teoricamente in grado di veicolare
molte opportunità senza tuttavia poterle utilizzare nella pratica qualora, ad esempio, l’arrivo di
nuovi migranti dal Paese di provenienza diventi nel corso del tempo più difficile o più costoso; al
contrario insediamenti anche molto limitati possono conoscere uno sviluppo molto veloce, qualora il
sistema dei controlli consenta di fatto l’arrivo di volumi rilevanti di emigranti da quel Paese” (IRS,
19:2006), come nel caso, in particolare, delle ucraine le quali, almeno fino al 2004, potevano entrare
regolarmente in Italia grazie ad un visto turistico rilasciato dall’Ambasciata tedesca 26 , molto più
facilmente reperibile rispetto a quello italiano.
L’IREF dedica al ruolo delle politiche migratorie rispetto all’ingresso in Italia uno specifico
approfondimento da cui emerge, apparentemente, una tendenza abbastanza marcata alla
regolarizzazione: il 54,2% delle lavoratrici di cura immigrate, infatti, ha un regolare permesso di
soggiorno e il 18,2% addirittura la carta di soggiorno 27 ; le lavoratrici di cura irregolari, invece,
sarebbero il 23,9%, poco meno di un quarto del campione. Se, però, si pone la sanatoria del 2002
come spartiacque 28 , allora il quadro muta in modo abbastanza significativo. Il tasso di regolarità
della presenza, infatti, è molto alto fra coloro che hanno iniziato la professione di lavoratrice di cura
prima di quell’anno visto che ben i due terzi di essi hanno un permesso di soggiorno e oltre un
quarto addirittura la carta di soggiorno, mentre coloro che sono ancora in condizione d’irregolarità
sono appena il 5,2%. Viceversa la situazione muta profondamente se si guarda a coloro che si sono
inseriti in questo settore professionale successivamente a quella data: in questo caso, infatti, le
regolari sono il 42,3% contro un tasso d’irregolarità pari al 41,3%. “Gli effetti della nuova
25
Chi è in Italia e già lavora come lavoratrice di cura garantisce sulle qualità della connazionale in arrivo.
Molti immigrati giungono in Italia in cerca di lavoro con un visto turistico di breve durata, che può essere ottenuto
non necessariamente presso l’Ambasciata italiana, ma anche presso quelle degli altri Paesi dell’Unione Europea.
27
Equivale ad un permesso di soggiorno a tempo indeterminato. E’ rilasciata allo straniero titolare di un permesso di
soggiorno che consente un numero indeterminato di rinnovi e soggiornante in Italia da almeno 6 anni, a patto che
dimostri un reddito almeno pari all’importo annuale dell’assegno sociale.
28
Si ricorda che la regolarizzazione del 2002 ha riguardato anche i lavoratori domestici operanti come tali nel territorio
nazionale nei tre mesi antecedenti l’entrata in vigore del provvedimento.
26
23
normativa (la legge Bossi-Fini) sono pertanto ambivalenti: da una parte si è permesso a quote
consistenti d’immigrati già attivi nel mercato di mettersi in regola (…); dall’altra la legge non ha
intaccato minimamente quella sorta di “irregolarità strutturale” che sembra essere il minimo comune
denominatore dell’Italia come Paese d’immigrazione” (IREF, 25:2006).
Per quanto riguarda l’età, contrariamente ad uno stereotipo molto diffuso, non si tratta di donne
giovani: lo studio dell’IREF evidenzia un’età media di 40 anni e una classe d’età prevalente (65%)
compresa tra i 30 e i 50 anni. Con il modificarsi dei flussi, è cambiata anche l’età in cui matura la
scelta d’emigrare: circa un terzo (31,6%) delle lavoratrici di cura provenienti dagli Stati dell’ex
Unione Sovietica, infatti, ha lasciato il proprio Paese quando aveva più di 40 anni; ad emigrare da
giovani, invece, sono soprattutto le asiatiche: il 34,6% di esse, infatti, al momento di emigrare aveva
meno di 25 anni.
Data la classe d’età prevalente, non sorprende che nella maggior parte dei casi si tratti di persone
coniugate (61,5%) e con figli (50,4%). Anche se ciò non implica automaticamente una convivenza
con i propri congiunti: anzi, solo il 38,3% delle lavoratrici di cura vive in Italia con tutti i familiari
più stretti mentre nel 68,3% dei casi si è di fronte a c.d. “famiglie transnazionali”, ossia a nuclei
familiari in cui almeno un componente è rimasto nel Paese d’origine. Nello specifico, il 37,6% delle
lavoratrici di cura vive lontano dal partner e il 57,4% dai figli.
Abbastanza elevato il grado d’istruzione se è vero che circa un quarto delle lavoratrici di cura ha
frequentato l’università -nel 12,6 dei casi 29 laureandosi- e che il 20,4% è diplomata.
L’impegno richiesto alla lavoratrici di cura è, di fatto, a 360 gradi: oltre la metà (51,9%) delle donne
impegnate presso famiglie italiane, infatti, svolge un ampio ventaglio di mansioni che vanno dal
lavoro di cura in senso stretto (in particolare modo nei confronti di anziani non autosufficienti) alla
gestione e alla pulizia della casa. Dal punto di vista della qualità della vita della lavoratrice il
quadro cambia in modo abbastanza significativo se questa riesce a lavorare in “multicommittenza”,
cioè per più di un datore di lavoro, o invece in “monocommittenza”: in quest’ultimo caso, infatti, la
coresidenza con la persona assistita, la quale necessita di un’assistenza continuativa, è quasi una
scelta obbligata (59,1% contro il 20% di coloro che lavorano per più famiglie).
Un’ultima considerazione, infine, riguarda le retribuzioni così come risultano da Banca Dati INPS
(dato al 31.12.2004). Il reddito medio annuo di un lavoratore di cura immigrato è di 4.860 euro, un
livello retribuito sostanzialmente in linea (benché leggermente inferiore) a quello di chi percepisce
l’assegno sociale (che, a fine 2004, era di 4.875 euro), soglia minima posta dal legislatore nazionale
per la concessione e il rinnovo del permesso di soggiorno. Per quanto i salari delle lavoratrici di cura
siano fra i più bassi d’Italia, è evidente che tale soglia di reddito è soprattutto la conseguenza di
29
Oltre la metà dei laureati è originaria di un Paese dell’ex Unione Sovietica.
24
quelle “forme di nero parziale” cui molte famiglie ricorrono: dallo studio dell’IRS emerge, in
proposito, come le ore dichiarate sul contratto risultino, in circa i due terzi dei casi, inferiori al
numero di ore effettivamente lavorate e, quasi sempre, pari alle 25 ore settimanali, cioè il monte ore
settimanale minimo per lo scatto di contribuzione meno onerosa per il datore di lavoro. Ciò detto,
non può essere taciuto il fatto che, facendo riferimento esclusivamente alla retribuzioni denunciate
all’INPS, i lavoratori domestici guadagnano, in media, 432 euro al mese in meno rispetto agli altri
lavoratori immigrati.
1.3. Le lavoratrici di cura migranti in Toscana e in Provincia di Massa Carrara
Il fenomeno delle lavoratrici di cura straniere in Toscana, fino ad oggi, è stato ancora poco
esplorato: ad esso ha dedicato un’analisi abbastanza approfondita il CesvoT (ottobre 2006) 30 , ma di
tipo marcatamente qualitativo, quindi per tracciare un quadro socio-demografico delle lavoratrici di
cura straniere presenti sul territorio regionale si deve far riferimento, anche in questo caso, dalla
banca dati INPS.
Tabella 5 – Le lavoratrici domestiche in Toscana: ripartizione provinciale (31.12.2004)
Provincia
Arezzo
Firenze
Grosseto
Livorno
Lucca
Massa Carrara
Pisa
Pistoia
Prato
Siena
Tot. Toscana
Italia
sesso
M
2.114
7.455
1.222
1.825
1.919
778
1.976
1.566
1.062
1.520
21.437
294.488
F
200
1.617
84
151
254
70
302
148
136
158
3.120
42.036
Totale
Inc % F
2.314
91,4%
9.072
82,2%
1.306
93,6%
1.976
92,4%
2.173
88,3%
848
91,7%
2.278
86,7%
1.714
91,4%
1.198
88,6%
1.678
90,6%
24.557
87,3%
336.524
87,5%
Fonte: Dossier Statistico Immigrazione. Elaborazioni su dati INPS
I lavoratori domestici stranieri iscritti all’INPS sono 24.557, il 7,3% del totale nazionale. Le
lavoratrici, invece, sono 21.437, pari all’87,3% di tutti gli impiegati nel settore regolarmente
registrati. Quasi la metà di esse opera nel triangolo Firenze-Prato-Pistoia (47,1%), ma con una netta
prevalenza del capoluogo, principale centro urbano della regione, in cui lavorano più di un terzo
delle addette. Lungo le province della fascia costiera, invece, è impiegato il 36% delle lavoratrici
30
L.Luatti/S.Bracciali/R.Renzetti, “Nello sguardo dell’altra: raccontarsi il lavoro di cura”, CesvoT, ottobre 2006.
25
domestiche, prevalentemente concentrate nella c.d. “area vasta” livornese-pisano-lucchese visto che
vivono in questo triangolo circa i tre quarti delle lavoratrici domestiche della Toscana costiera.
Tabella 6 – Confronto lavoratrici domestiche straniere/regolarmente soggiornanti (31.12.2004)
Provincia
Arezzo
Firenze
Grosseto
Livorno
Lucca
Massa Carrara
Pisa
% lavoratrici domestiche
9,9%
34,8%
5,7%
8,5%
9,0%
3,6%
9,2%
% regolarmente soggiornanti
10,1%
34%
4,5%
5,3%
6,8%
3%
9,1%
Pistoia
7,3%
6,8%
Prato
5,0%
12,7%
Siena
7,1%
7,7%
Fonte: Ns. elaborazioni su dati Dossier Statistico Immigrazione e INPS
La distribuzione territoriale delle lavoratrici di cura riflette sostanzialmente quella degli immigrati
regolarmente soggiornanti con due significative eccezioni che riguardano la provincia di Prato, dove
le prime le lavoratrici di cura hanno un peso percentuale sul totale regionale significativamente
inferiore (-7,7%) rispetto a quello dei regolarmente soggiornanti, e la provincia di Livorno in cui,
invece, la situazione è ribaltata: l’incidenza delle collaboratrici domestiche sul totale regionale,
infatti, supera del 3,2% quella analoga dei stranieri “regolari”.
Tabella 7 – Incidenza lavoratrici domestiche su popolazione ultrasessantacinquenne
(31.12.2004)
Arezzo
Firenze
Grosseto
Livorno
Lucca
Massa Carrara
Pisa
Prato
Pistoia
Siena
Totale
Lavoratrici domestiche anziani > 65
Incidenza*
2.314
74.755
31,0
9.072
223.613
40,6
1.306
53.421
24,4
1.976
77.506
25,5
2.173
85.285
25,5
848
46.371
18,3
2.278
86.140
26,4
1.714
45.113
38,0
1.198
60.946
19,7
1.678
65.121
25,8
24.557
818.271
30,0
*per 1.000 residenti
Fonte: Ns. elaborazioni su dati INPS e ISTAT
26
La tabella 7 mostra l’incidenza (per mille residenti) delle lavoratrici domestiche straniere sulla
popolazione anziana di ciascuna provincia. Si tratta ovviamente di valori ampiamente sottostimati in
quanto i dati relativi alle collaboratrici familiari, di fonte INPS, non danno conto delle addette in
condizione d’irregolarità. Ma sono, comunque, indicativi rispetto alle tendenze dei diversi territori.
In media, in Toscana, vi sono 30 lavoratrici domestiche ogni 1.000 residenti. Le incidenze più
elevate si realizzano nelle province di Firenze (40,6 per mille) e Prato (38), ad evidenziare, in
quest’ultimo caso, come lo scarso peso percentuale delle collaboratrici familiari rispetto al totale
regionale sia da collegare ad un numero di anziani sensibilmente inferiore rispetto a quelle delle
altre province. Al di sopra della media regionale anche Arezzo (31), mentre tutte le altre si
collocano al di sotto di tale soglia.
Per quanto riguarda le retribuzioni regolarmente denunciate, i lavoratori domestici stranieri della
Toscana, in media, hanno un reddito annuale di 5.049 euro, 190 euro in più rispetto al valore medio
nazionale e, soprattutto, 174 in più rispetto a quello che conseguirebbe dalle entrate derivanti da un
assegno sociale (4.875 euro) che, come abbiamo visto, è il livello che uno straniero regolare deve
raggiungere per il rinnovo del permesso di soggiorno.
La province dai lavoratori domestici “più ricchi” sono quella di Siena (5.285 euro) e Firenze (5.205
euro), verosimilmente, corrispondenti a quelle in cui il costo della vita è più elevato. Al di sopra
della soglia dei cinquemila euro anche Lucca (5.085 euro), Livorno (5.071 euro) e Prato (5.036
euro). Quella in cui si guadagna meno, invece, è Massa Carrara (4.753 euro). Anche in questo caso
vale quanto già sottolineato nel paragrafo precedente, ossia che le retribuzioni regolarmente
denunciate all’INPS sono sensibilmente inferiori a quelle realmente percepite a causa del diffuso
ricorso a “forme di nero parziale” da parte dei datori di lavoro. Ma, almeno stando ai dati ufficiali,
anche in Toscana gli addetti stranieri al lavoro di cura sono sensibilmente più poveri rispetto agli
altri lavoratori immigrati visto che mediamente guadagnano il 45,3% in meno corrispondenti a
4.179 euro all’anno. Le province dove questo differenziale è maggiormente pronunciato sono quelle
di Arezzo, Pisa (-51,2% in entrambe) e Pistoia (-50,5%). Invece migliore, ma solo lievemente, la
situazione a Grosseto (-40,4%) e Livorno (-40,7%).
Fig. 4 – Confronto fra i redditi annuali dei lavoratori domestici stranieri e quelli degli altri
lavoratori immigrati (31.12.2004)
27
€ 12.000
€ 9.925
€ 10.000
€ 9.080
€ 8.028
€ 8.546
€ 10.010€ 9.714
€ 9.291 € 9.083
€ 9.935
€ 8.568
€ 10.042
€ 9.228
€ 8.000
€ 6.000
€ 4.000
€ 2.000 € 4.843
€ 4.880
€ 5.036
€ 5.049
€ 4.785
€ 5.085
€
5.071
€
4.753
€ 4.806
€ 5.205
€ 5.258
€ 4.860
lavoratori domestici
Ita
lia
T
os
ca
n
a
S
ie
na
P
ra
to
P
is
to
ia
P
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C
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M
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sa
Li
vo
rn
o
G
ro
ss
et
o
F
ire
n
ze
A
re
zz
o
€ 0
immigrati regolari
Fonte: Ns. elaborazioni su dati Dossier Statistico Immigrazione e INPS
Fin qui l’analisi si è basata sui dati ufficiali di fonte INPS, notoriamente sottostimati in quanto non
includono il sommerso del lavoro di cura. Ma qual è il numero reale delle persone impiegate in
questo settore in Toscana? Il dato, per evidenti ragioni, è impossibile da rilevare e la poca letteratura
dedicata al fenomeno, per quanto è dato sapere, non si è mai cimentata in un tentativo di stima in
riferimento al territorio regionale, anche per le oggettive difficoltà che tale misurazione comporta.
Basandoci sul modello costruito dall’IRS 31 (settembre 2006), si tenta in questa sede una stima delle
persone straniere impiegate nel settore per quanto riguarda la Toscana, consapevoli delle difficoltà e
delle possibilità di errore che essa comporta.
In primo luogo si è realizzata un’attualizzazione al 2007 dei dati relativi ai lavoratori domestici
iscritti all’INPS tenendo conto degli ingressi sul territorio regionale attraverso i decreti flussi 32 .
Quindi, a partire da alcuni recenti ricerche campionarie 33 , abbiamo costruito una “forchetta” con
un’ipotesi massima e una minima. Diversamente dall’IRS, invece, non si è proceduto ad una stima
delle lavoratrici di cura straniere “in senso stretto”, cioè di coloro che sono dedite in modo quasi
esclusivo a mansioni di care, ritenendolo un criterio eccessivamente stringente rispetto alla fluidità
di un fenomeno in cui funzioni strettamente di cura si sovrappongono a compiti di tipo domestico
rimanendo in capo alla stessa persona.
Tabella 8 – Stima lavoratori di cura presenti in Toscana
31
Lo stesso che è stato citato anche per la stima delle lavoratrici di cura realmente impiegate a livello nazionale cui si è
fatto riferimento nel primo paragrafo del presente capitolo.
32
Una più precisa attualizzazione avrebbe dovuto tener conto anche dei lavoratori e delle lavoratrici di cura che, fra il
2004 e il 2007, hanno perso il lavoro o lo hanno cambiato passando ad un altro settore visto che la posizione INPS di
lavoratore domestico è cancellata al verificarsi di una di queste due evenienze.
33
IREF (giugno 2007), IRS (settembre 2006): la prima si basa su interviste a lavoratrici di cura e stima una quota
d’irregolarità del 23% rispetto a quelle “regolari”, la seconda fa riferimento ad interviste a testimoni privilegiati e
ipotizza una quota d’irregolarità intorno al 60 %. Avremmo potuto anche basarci sulle domande d’ingresso per lavoro
domestico presentate, e non accolte, in relazione ai diversi decreti flussi succedutisi dal 2005 ad oggi, ma abbiamo
preferito affidarci alle evidenze emerse dalle ricerche campionarie ritenendolo un criterio potenzialmente più preciso in
quanto il criterio delle domande non accolte avrebbe escluso coloro che sono rimaste/i nel “sommerso” senza inoltrare
alcun modulo di domanda.
28
Lavoratori domestici stranieri iscritti all'INPS al 31.12.2004
24.557
Lavoratori domestici stranieri iscritti all'INPS al 31.12.2007
(attualizzazione)
38.419
Stima lavoratori domestici irregolari (ipotesi minima)
8.836
stima lavoratori domestici irregolari (ipotesi massima)
23.051
stima totale (ipotesi minima)
47.255
stima totale (ipotesi massima)
61.470
Fonte: Ns. elaborazioni a partire da dati INPS
Il totale delle lavoratrici e dei lavoratori di cura impiegati in Toscana (regolari e non) si
collocherebbe entro una forchetta che va dalle 47mila alle 61.500 persone. Se così fosse, quindi, in
Toscana vi sarebbero fra i 53 e i 75 addetti del settore ogni 1.000 residenti ultrasessantacinquenni,
circa il doppio rispetto all’incidenza calcolata a partire dai dati INPS.
Le collaboratrici familiari in provincia di Massa Carrara
Il modello costruito dall’IRS per la stima delle lavoratrici di cura a livello nazionale, e da noi
replicato (con qualche modifica) per la Toscana, non si presta ad un’applicazione in contesti
geograficamente limitati come un singolo territorio provinciale. Quindi per un quadro generale sul
fenomeno relativamente alla provincia di Massa Carrara si dovrà fare affidamento solo sui dati di
fonte ufficiale, ossia quelli della banca dati INPS.
I lavoratori domestici della provincia di Massa Carrara iscritti all’INPS (al 31.12.2004) sono 848. A
livello regionale il territorio si caratterizza per almeno due primati “negativi”: è quello con il minor
numero di iscritti (3,2% del totale regionale) e con il reddito medio annuo denunciato più basso
(4.753 euro), inferiore anche a quello corrispondente all’assegno sociale (4.875 euro), della cui
importanza abbiamo già detto 34 .
Le lavoratrici, invece, sono 778, pari al 91,7% del totale. Si tratta prevalentemente di donne adulte
visto che il 43,2% di esse ha più di quaranta anni e, addirittura, i tre quarti (76,5%) ne ha più di
trenta. L’età è determinata soprattutto dai flussi migratori più recenti, composti prevalentemente da
lavoratrici provenienti dai Paesi dell’Europa Orientale, che pure nella provincia di Massa Carrara
confermano le stesse caratteristiche anagrafiche evidenziate a livello nazionale: le donne impiegate
nel lavoro di cura originarie di quest’area, infatti, sono coprono ben il 60,1% delle addette del
34
anche se lievemente superiore a quello medio nazionale.
29
settore ed hanno un’età più elevata della media se è vero che quasi la metà di esse (47,5%) ha già
compiuto quarant’anni e poco meno dei quattro quinti (78,3%) ha superato la soglia dei trenta. A ciò
si aggiunga che la carta d’identità comincia a far sentire i suoi effetti anche sui flussi più consolidati
nel tempo come quelli provenienti dall’America Centrale (Repubblica Dominicana in particolare):
questo, infatti, è il caso di donne arrivate a Massa Carrara in giovane età ma, tranne poche
eccezioni, presenti sul territorio da circa un decennio. Dal punto di vista anagrafico, quindi, la
conseguenza è analoga: l’80% di esse ha più di quarant’anni.
Fig.5 – Le provenienze delle lavoratrici domestiche della provincia di Massa Carrara
(31.12.2004)
6,3
2,1
3,5 0,5
8,6
11,6
67,4
Est Europa
America centrale
America Merid
Africa centro-merid
Asia Orientale
altro
Africa Nord
Fonte: Ns. elaborazioni su dati INPS
In generale oltre i due terzi delle lavoratrici domestiche straniere regolari provengono da un Paese
dell’Europa Orientale, l’11,6% dall’America Centrale e l’8,6% dall’America Latina. Poco
rappresentato, invece, il continente asiatico causa anche la poco rilevante presenza di filippine e
srilankesi.
La disponibilità dei dati ufficiali complessivi, relativi a ciascuna annualità, per il periodo 2001-2005
consente anche di fare qualche riflessione sulla tendenza nel tempo delle lavoratrici domestiche,
evidenziando gli effetti locali della regolarizzazione del 2002.
Tabella 9 – Incremento delle lavoratrici domestiche in provincia di Massa Carrara (2001-2005)
2001
2002
2003
2004
2005
100
108
89
100
94
Centro-America
30
Europa Est
Totale lavoratrici
100
100
649
308
706
323
661
304
643
295
Fonte: Ns. elaborazioni su dati INPS
Dal 2001 al 2005 le addette del settore iscritte all’INPS sono quasi triplicate. L’incremento è
particolarmente significativo per le lavoratrici provenienti dall’Europa Orientale che, nello spazio di
cinque anni, sono aumentate di ben 6 e mezzo volte mentre, invece, restano sostanzialmente stabili
quelle provenienti dall’America centrale. Evidente l’impatto della regolarizzazione: in due anni, dal
2001 al 2003, il totale delle lavoratrici domestiche straniere aumenta di quattro volte e quello delle
addette dell’Europa dell’Est addirittura di sette. Nell’ultimo biennio preso in considerazione, però,
anche in provincia di Massa Carrara si realizza un calo abbastanza vistoso delle iscrizioni tanto da
poter parlare, anche per questo territorio, di quel “fenomeno carsico” (Caritas/Migrantes, 258:2007)
riconducibile alla tipica precarietà che caratterizza questo settore.
31
Cap. 2
Le lavoratrici di cura migranti nella provincia di Massa Carrara.
L’indagine sul campo
2.1 Le lavoratrici di cura intervistate: anagrafe del campione
Questa indagine si basa su 22 interviste approfondite a lavoratrici di cura straniere della Provincia di
Massa Carrara. Per raccoglierle si è utilizzato un questionario semistrutturato, pensato allo scopo di
ricostruire in modo articolato i percorsi di vita e le carriere professionali di queste migranti,
approfondendo in chiave locale alcuni nodi critici evidenziati in letteratura e lasciando spazio e
tempo alle lavoratrici di cura per esprimere una lettura “autobiografica” della situazione vissuta 35 .
L’indagine, infatti, adopera un approccio longitudinale, teso a penetrare i vissuti e la trama di
relazioni di queste persone, piuttosto che un approccio “fotografico”, diretto a produrre un’analisi
quantitativa del fenomeno sul territorio.
Oltre la metà del campione (13 interviste) è composto da lavoratrici di cura originarie dell’Europa
Orientale, soprattutto della Romania. L’altro gruppo abbastanza omogeneo per provenienza
geografica è quello dell’America Centro-Meridionale cui appartengono sei delle donne intervistate
(3 dominicane, 2 ecuadoriane e 1 colombiana).
Fig. 6 – Aree geografiche di provenienza del campione
Africa; 2
Asia; 1
America centro
meridionale; 6
Europa Orientale;
13
Fonte: Ns. Indagine Diretta
35
E’ questo il senso dell’ampio ricorso alle domande aperte nel questionario.
32
La distribuzione per aree geografiche del campione fa emergere i due principali flussi migratori di
addette del settore di cura che, negli ultimi due decenni, hanno caratterizzato il territorio provinciale
succedendosi nel tempo: diversamente da altre zone d’Italia, infatti, L’alta Toscana non ha mai
attratto flussi consistenti dall’Asia e dall’Africa per quanto anche in questi continenti vi siano state,
e in parte siano tuttora in corso, migrazioni quantitativamente rilevanti di donne poi inseritesi nel
settore della collaborazione familiare. Viceversa, invece, in questa provincia il lavoro di cura e
domestico svolto da immigrate è stato per lungo tempo (anni ’80 e ’90) monopolio quasi esclusivo
delle donne dell’America Centro-Meridionale, soprattutto di dominicane ed ecuadoriane, cui a
partire dal 2000 si sono prima affiancate e poi, almeno in parte sostituite, le migranti provenienti
dall’Europa Orientale e, in modo particolare, dalla Romania.
Tendenze che sono evidenziate anche dalla longevità migratoria delle intervistate: quelle arrivate da
oltreoceano sono presenti a Massa Carrara, mediamente, da 8 anni e 8 mesi mentre le romene da
poco più di 3 anni. Tranne un’eccezione, infatti, le lavoratrici di cura dell’America CentroMeridionale si sono stabilite nel territorio prima del 2001; tutte le romene, invece, sono arrivate
dopo tale data.
Tabella 10 – Periodo d’arrivo in Provincia di Massa Carrara
1990-95 1995-99
Romania
America Centro2
Meridionale
Altre
1
Totale
3
Fonte: Ns. Indagine Diretta
1999-2001
2001-03
2003-05
2
5
2005-07
Media
5 3,1anni
1
6
1 8,8 anni
1 7 anni
7 5,4 anni
3
3
1
3
In oltre due terzi dei casi il percorso migratorio non ha conosciuto tappe intermedie: 15 delle 22
lavoratrici di cura intervistate, infatti, sono partite dal Paese d’origine arrivando direttamente a
Massa Carrara, dove hanno trovato lavoro e si sono stabilite contando su una rete d’appoggio di
parenti e amici connazionali che ha offerto loro supporto nel primo periodo. Questa caratteristica è
particolarmente evidente per le romene (10 su 12 sono partite dalla Romania sapendo già con
precisione dove andare):
Mia sorella lavorava già qua e me l’ha trovato anche a me (il lavoro
N.d.A), così anche lei poteva tornare a casa ogni tre mesi. All’inizio
facevamo con il sistema dei visti per turismo: tre mesi io e tre lei, a
rotazione.
33
Sono arrivata subito qua, a Massa Carrara, perché attraverso alcune
amiche che già vivevano in questa zona, avevo saputo di un sacerdote
che aiutava noi badanti a trovare lavoro 36 .
Ma le c.d. “catene migratorie” sono state fondamentali anche per le altre lavoratrici di cura:
Safia 37 , marocchina, ad esempio, è partita da Agadir con il chiaro intento di raggiungere il cognato,
a Massa Carrara già da qualche anno.
E’ un operaio nel settore del marmo. Ogni volta che tornava, ci parlava
della possibilità di venire qua e del fatto che per una donna sarebbe stato
più facile trovare lavoro. Così, dopo averne discusso con mio marito, ho
deciso di raggiungerlo. I primi tempi ho vissuto con la sua famiglia.
Meno lineare, invece, il percorso migratorio delle lavoratrici di cura dell’America CentroMeridionale che, nella metà, dei casi hanno avuto tappe intermedie prolungate.
A ventidue anni ho lasciato Santo Domingo e sono andata in Spagna. Lì
vivevo e lavoravo insieme a mia sorella. Ma poi un’amica è venuta a
trovarci e ci ha suggerito di venire qua perché c’erano opportunità
migliori. Così abbiamo fatto le valigie e siamo partite. Era il 1992.
E chi, invece ha percorso tutto lo stivale:
La prima città in cui ho abitato è stata Verona, nel 1998. Sono partita
dalla Colombia sapendo che lì mi avrebbe aspettato un lavoro sicuro per
qualche mese almeno. Finito quello ho girato mezzo nord-est: Vicenza,
Pordenone e Udine soprattutto. Poi Napoli ... E ora eccomi qui.
E’ evidente che quando la migrazione è di lungo periodo, come nel caso delle due esperienze
riportate, i percorsi di vita e professionali sono sottoposti ad un numero maggiore di aggiustamenti e
cambiamenti che non nel caso di esperienze migratorie ancora allo stadio iniziale. Questa tendenza
generale, si acuisce particolarmente nel caso di coloro che sono impiegate nel lavoro di cura, una
professione sottoposta ad un elevato turn-over anche dal lato dei datori di lavoro: può sempre
accadere, infatti, che l’anziano accudito passi a miglior vita o che il bambino seguito raggiunga
un’età tale da non aver più bisogno d’assistenza.
Anche in provincia di Massa Carrara, comunque, il lavoro di cura è una professione svolta
principalmente da donne straniere adulte: l’età media delle intervistate, infatti, è di 40 anni e la classe
d’età nettamente prevalente è quella compresa fra i 31 e i 50 anni 38 .
36
Brani tratti dalle interviste a due lavoratrici di cura romene.
Questo, come tutti i gli altri nomi che seguiranno, sono di pura fantasia, allo scopo di tutelare la privacy delle
intervistate.
37
34
Tabella 10 – Ripartizione per classi d’età delle intervistate
America centroEtà
Romania meridionale
Altre
20 - 30
0
0
31 - 40
8
0
41 - 50
3
5
oltre 51
1
1
media
38
47
Fonte: Ns. Indagine Diretta
Totale
1
3
0
0
33
1
11
8
2
40
L’età media molto elevata delle lavoratrici d’oltreoceano è sintomo di un flusso particolarmente
rilevante fino a tutti gli anni ’90 ma che ora pare essersi arrestato, come sembra indicare anche
l’impatto contenuto che la regolarizzazione del 2002 ha avuto sulle collaboratrici domestiche centroamericane (vedi paragrafo 1.3). Diverso, invece, il discorso per le romene: altri studi di caso 39 ,
infatti, hanno evidenziato come per questo gruppo nazionale, ma più in generale per le migranti di
tutti i Paesi dell’Europa Orientale, la scelta dell’emigrazione per inserirsi nel lavoro di cura avvenga
frequentemente in età adulta se non addirittura matura. Ulteriori conferme, in tal senso, giungono se
si guarda all’età al momento dell’emigrazione delle intervistate: più della metà di loro è partita
quando aveva fra i 31 e i 40 anni. L’età media alla partenza delle romene è di 35 anni; addirittura più
elevata quella delle lavoratrici di cura provenienti dall’America Centro-Meridionale (36 anni e
mezzo) ma in quest’ultimo caso il numero d’interviste è troppo limitato per trarne qualunque tipo di
generalizzazione.
Tabella 11 – L’età delle intervistate al momento dell’emigrazione
Età
Romania
> 18
20 - 30
2
31 - 40
8
41 - 50
2
< 51
media
35,3
Fonte: Ns. Indagine Diretta
America CentroMeridionale
1
4
1
36,5
Altre
1
2
1
24
totale
1
5
13
3
0
33,5
La quasi totalità delle intervistate ha figli, ma solo la metà di esse è coniugata, poco più un terzo è
riuscita a ricongiungersi con qualcuno dei propri familiari e meno di un quinto vive in Italia con la
propria famiglia. In generale, comunque, la condizione di “madre a distanza” sembra essere molto
comune anche fra lavoratrici di cura straniere della Provincia di Massa Carrara: la situazione è
38
L’indagine campionaria dell’IRS (settembre 2006) sul lavoro di cura in Lombardia aveva calcolato un’età media di 41
anni. Quaranta, invece, l’età media risultante dall’indagine nazionale dell’IREF (giugno 2007).
39
In particolare Cespi, febbraio 2007.
35
particolarmente pesante per le romene, in maggioranza alle prese con figli in età adolescenziale 40 ,
mentre pare essere più gestibile per le donne originarie dell’America Centro-Meridionale visto che
nella quasi totalità dei casi i figli sono persone ormai adulte con una vita autonoma 41 .
Le celibi sono pochissime mentre, anche nel campione intervistato, è molto alto il numero delle
separate/divorziate, quasi tutte con figli a carico. Capita con una certa frequenza, infatti, che sia
proprio la rottura della relazione matrimoniale, e l’accresciuto carico di responsabilità nei confronti
dei figli, a spingere molte donne ad emigrare.
Ho fatto solo la quinta elementare e, fino a prima che mio marito mi
abbandonasse, avevo sempre fatto la casalinga. Così quando mi sono
ritrovata da sola ho fatto l’unico lavoro che conoscevo, ma in casa di altri.
Prima in Colombia e poi lontano da casa, perché con i soldi che guadagnavo
mantenere tre bambini proprio non era possibile.
Mio marito se n’è andato con un’altra e mi ha lasciata sola con tre figli da
mantenere visto che da un giorno all’altro non si è praticamente più fatto
sentire. Che cosa potevo fare in Romania con il mio stipendio da cinquanta
euro al mese?
Nel caso del nostro campione, invece, sembra valere meno l’assunto secondo cui sarebbe proprio il
protrarsi della migrazione e la distanza dal marito (oppure le difficoltà dovute al fatto che la coppia si
riunisce in un contesto sociale e culturale completamente nuovo) ad incentivare la rottura della
relazione. Quanto meno fra le 22 intervistate non è emerso alcun caso del genere.
40
41
L’età media è di 16 anni e mezzo e la classe d’età prevalente è quella compresa fra gli 11 e i 15 anni.
In questo caso l’età media è di 26 anni e mezzo e la classe d’età prevalente è quella compresa fra i 26 e i 30 anni.
36
Fig. 7 – Ripartizione per stato civile e area di provenienza delle lavoratrici di cura intervistate
14
12
12
10
10
8
6
7
5
5
3
4
3
2
2
2
2
1
1
1
0
Romania
coniugata
America CentroMeridionale
separata/divorziata
altre
separata/divorziata con figli
totale
celibe
Fonte: Ns. Indagine Diretta
Il livello d’istruzione delle intervistate è distribuito in modo abbastanza equo su tutti i diversi gradi
scolastici: circa un terzo è diplomata e altrettante sono quelle che hanno assolto l’obbligo scolastico
nel loro Paese; un quarto, invece, coloro che hanno frequentato cicli biennali di avviamento
professionale, mentre una persona è laureata. Due, infine, i casi in cui l’intervistata ha detto di avere
smesso di andare scuola ancora prima dell’assolvimento del ciclo obbligatorio. A prescindere dal
livello d’istruzione raggiunto, però, non può essere taciuto il fatto che la maggior parte delle
lavoratrici di cura oggetto di questa indagine (oltre i quattro quinti) ha fatto studi che hanno poco a
che fare con la professione attualmente svolta.
Simile riflessione riguarda anche i percorsi professionali sviluppati prima dell’emigrazione: sarta,
operaia, estetista, macellaia, pasticcera, cameriera, commessa, barista e casalinga. Il ventaglio è
ampio, ma solo in meno di un quarto dei casi si riscontrano esperienze pregresse in qualche modo
collegate al lavoro di cura: in particolare tre persone svolgevano la stessa professione anche in patria,
una invece è stata per lungo tempo infermiera nella sala operatoria dell’ospedale e un’altra ha svolto
attività di assistenza in una casa di riposo per anziani.
Infine in ordine alla legalità della presenza anche il nostro piccolo campione sembra mostrare una
marcata tendenza alla regolarizzazione (sono regolarmente soggiornanti 19 delle 22 intervistate); ma
anche in questo caso meglio non trarre affrettate generalizzazioni: il numero d’interviste è limitato e
coloro che vivono in una situazione d’irregolarità tendono a nascondersi finendo con l’essere ancora
più “sommerse” di quanto non lo sia il lavoro di cura in sé. E’ presumibile, quindi, che la quota
d’irregolarmente presenti sia più elevata ma che poche di esse siano finite nel campione proprio per i
timori che queste donne collegano alla visibilità.
37
2.2 I progetti migratori: tra bisogno e pianificazione
Le migrazioni delle lavoratrici di cura possono essere considerate alla stregua di una specificazione
di quelle spinte da motivazioni economiche: quasi sempre, infatti, per queste donne l’emigrazione è
una strategia pianificata in risposta ai bisogni e alla povertà vissute in famiglia. Al riguardo le
ricerche dedicate al fenomeno 42 giungono a conclusioni pressoché unanimi e lo studio qualitativo
che abbiamo condotto sulle lavoratrici di cura straniere della Provincia di Massa Carrara le conferma
in toto: ben 19 delle 22 intervistate, infatti, hanno indicato in una situazione di particolare disagio
socio-economico la molla principale che ha dato origine alla loro personale emigrazione.
Nello specifico si emigra soprattutto per assicurare sostegno economico a sé stesse e alla propria
famiglia, in particolare ai figli: pagamento delle utenze domestiche piuttosto che acquisto di generi
alimentari e vestiti sono le necessità più frequenti cui si riesce a sopperire solo grazie alle flusso di
rimesse garantito dalle lavoratrici di cura impiegate all’estero.
La situazione nel mio Paese non era facile: ero una maestra ma lo stipendio
era una miseria e poi, spesso, lo Stato si dimenticava anche di pagarcelo.
In India vivevo davvero male … Ero arrivata al punto di odiare quel tipo di
vita, quella miseria. Volevo … non lo so … Volevo guadagnare, essere
autonoma, avere la libertà di comprarmi un vestito. Cose così.
C’era bisogno di soldi perché da noi gli stipendi sono davvero bassi e con
quello che ti danno non puoi fare niente. Qua c’era un’amica e io l’ho
raggiunta.
Come mai sono partita? Semplice, sia io che mio marito avevamo bisogno di
un lavoro: per molto tempo abbiamo lavorato nella stessa fabbrica, un
mobilificio. Ma poi ha chiuso e noi per sette anni siamo stati disoccupati.
Mio marito guadagnava pochissimo e io non lavoravo. Non potevamo
continuare in quel modo. Purtroppo non c’era altra soluzione: sono dovuta
partire.
I figli sono il primo pensiero delle lavoratrici di cura straniere intervistate: aiutarli economicamente
nell’imminenza di un evento della vita importante (ad esempio un matrimonio), sostenerli nei loro
percorsi di autonomia lavorativa in patria ma soprattutto consentirgli di proseguire gli studi.
Lavoravo in un albergo ma è fallito e mi sono ritrovata disoccupata. Mio
figlio doveva sposarsi e io non sapevo come aiutarlo. Così ho preso la
decisione di lasciare la mia terra.
42
In particolare quelli promossi dal Cespi nell’ambito del Programma “MigrAction”
38
Ero sola, non avevamo soldi e io volevo ad ogni costo far studiare le mie
bambine. Ho chiesto a mia sorella di aiutarmi a trovare un lavoro e sono
partita.
A casa guadagnavo poco poco: cinque anni fa il mio stipendio era di
cinquanta euro al mese. Sono venuta in Italia soprattutto per i miei figli, per
permettergli di completare gli studi.
A volte non si tratta di necessità vitali, o comunque, d’importanza centrale per la crescita di una
persona; inizialmente si può scegliere la professione di lavoratrice di cura in Italia anche per togliersi
uno “sfizio”. O meglio per toglierlo ai figli che, in ogni caso, restano l’elemento centrale attorno a
cui ruota gran parte della vita e della quotidiana di queste “madri a distanza”.
Ero venuta a trovare mia sorella, che lavorava già in Italia, perché aveva
partorito. Una volta qua ho deciso di lavorare per tre o quattro mesi …
perché volevo comprare un computer a mia figlia.
Altre volte il progetto migratorio è orientato ad un obiettivo specifico: quasi mai, però, si tratta
d’investimenti produttivi. Nessuna delle donne intervistate, ad esempio, ha detto che la scelta
dell’emigrazione è funzionale al reperimento di risorse per la promozione di un’attività economica in
patria. Capita con maggiore frequenza, invece, che l’obiettivo sia la costruzione di una casa.
Sono partita perché voglio guadagnare i soldi che mi servono per finire di
sistemare la casa che ho acquistato in Romania per me e per i miei figli. Ho
dovuto farlo perché la cessione dell’abitazione in cui stavo prima non è
bastata a raggiungere la cifra di cui ho bisogno.
Con i soldi guadagnati facendo questo lavoro mi sono comprata una casa al
mare, a Santo Domingo. Prima di morire voglio godermi un po’ la vita e lo
farò lì.
Alle motivazioni strettamente economiche, qualche volta se ne sovrappongono altre, di natura più
personale. C’è anche chi, probabilmente perché giovane, è partita
soprattutto per migliorare le condizioni economiche della famiglia, ma un
po’ anche per conoscere “nuovi mondi” e culture.
Chi, invece, se ne va, spinta dal bisogno di ottenere una maggiore autonomia, economica e
relazionale, da un marito possessivo e “ingombrante”.
Sono venuta in Italia per colpa di mio marito: avevo bisogno di allontanarmi
un po’ da lui perché era troppo stressante. Me ne sono andata insieme a mia
figlia. L’avevo immaginata come una pausa, inizialmente in realtà volevo
39
tornare con lui, ma stando da sola mi sono resa conto che non era più
possibile.
Comunque, qualunque sia la causa specifica da cui si è originato il progetto migratorio, la scelta delle
donne che partono per dedicarsi al lavoro di cura evidenzia quasi sempre una pianificazione
abbastanza elevata: diversamente dalle migrazioni originate da catastrofi (naturali o prodotte
dall’uomo che siano), infatti, le migrazioni di tipo economico, quale quelle del tipo delle lavoratrici
di cura, non hanno i connotati caratteristici della fuga da situazioni di disastro e oppressione. Si parte
quasi sempre per andare in luogo preciso, dove si hanno già dei contatti, possibilità di prima
accoglienza (magari da un parente o da un’amica) e si conosce anche il tipo di occupazione offerto
dal mercato del lavoro del contesto d’arrivo.
Fig. 8 – Il “contatto” delle intervistate nel luogo d’arrivo
conoscente; 5
fratello; 1
sorella; 8
amica; 6
altro parente; 2
Fonte: Ns. Indagine Diretta
Quasi la metà delle addette al lavoro di cura intervistate è arrivata nella provincia dell’alta Toscana
tramite qualche parente (frequentemente una sorella); la parte restante attraverso la rete delle amiche
e dei/delle conoscenti. Solo in un caso l’immigrata è arrivata senza avere alcun riferimento in loco 43 .
Le migrazioni di questo genere di lavoratrici, dunque, sono la conseguenza di “catene migratorie”
che hanno la peculiarità di essere declinate quasi esclusivamente al femminile. Nei tre quarti dei casi,
infatti, il “facilitatore” della migrazione è una donna anche fra le “nostre” intervistate:
frequentemente una sorella o una cugina, ma anche un’amica o una semplice conoscente. In ogni
caso è questa persona, spesso inserita nello stesso settore occupazionale, che prepara l’arrivo,
43
ma è una situazione “particolare” che nulla ha a che vedere con il lavoro di cura visto che si tratta del rapimento di una
giovane ragazza destinata al “mercato” del sesso.
40
facendosi carico d’individuare una prima, provvisoria, sistemazione abitativa e di trovare un lavoro
alla nuova venuta.
L’impegno di cui essa si fa carico è dipendente dall’intensità del legame: ovviamente sarà maggiore
quando la prima accoglienza è a carico di sorelle o parenti stretti e più leggero nel caso di semplici
conoscenti.
Dovevo ricostruire la casa e mi servivano molti soldi. Mia cognata mia ha
detto che qua c’erano buone opportunità di lavoro. Lei era disponibile ad
aiutarmi … Così, eccomi qui.
Fig.9 – I “contatti” delle intervistate: ripartizione per genere
Uomo; 2
non specificato; 3
Donna; 17
Fonte: Ns. Indagine Diretta
La presenza di robuste “catene migratorie” lascerebbe supporre una conoscenza abbastanza
approfondita, anche prima della partenza, dell’Italia e dello specifico contesto territoriale in cui si
andrà a vivere. In realtà le risposte delle intervistate tracciano al riguardo un quadro con diverse
ambiguità e apparentemente in contraddizione con un’emigrazione che, come abbiamo visto, risulta
fortemente pianificata: infatti circa un terzo di esse sostiene che, quando era in patria, non sapeva
praticamente niente dell’Italia; più o meno altrettante, invece, avevano avuto qualche informazione
soltanto dalla televisione nonostante la presenza in loco di parenti ed amici.
41
Fig.10 –La conoscenza dell’Italia e della Provincia di Massa Carrara prima della partenza
10
10
9
8
8
7
7
6
6
5
5
4
3
Nulla
mediata dalla tv
3
3
2
3
mediata da parenti ed amici
1
1
0
Romania
America CentroMeridionale
totale
Fonte: Ns. Indagine Diretta
In particolare la tv è stata il principale strumento d’informazione sull’Italia delle romene: evidente in
questo caso l’influenza della vicinanza geografica e, in una certa misura, anche culturale fra il Paese
di partenza e quello di arrivo.
La sensazione che emerge dai colloqui con le lavoratrici di cura intervistate, comunque, è di una
conoscenza superficiale, mai veramente approfondita, eccezion fatta, forse, per le opportunità
occupazionali offerte dal contesto d’accoglienza, cosa peraltro assolutamente comprensibile visto
che si tratta del principale movente che le ha spinte all’emigrazione.
Dell’Italia conoscevo un po’ Roma, Venezia … le città più importanti
insomma. Ma solo per averle viste in tv. Di Massa Carrara, invece, non
sapevo praticamente niente: solo che c’era un’amica che lavorava qui. Mi
diceva che si trovava bene e che, volendo, sarei potuta venire anch’io … Che
lavoro ce n’era.
Sapevo davvero poco: solo quello che ci mostrava la tv e poi i racconti di
qualche amica che era venuta qua e diceva di aver fatto fortuna. Sentendo
loro, mi sono convinta e ho deciso di partire anch’io.
Conoscevo l’Italia, e Aulla in particolare, dai racconti di mia cugina, che
lavorava qua. Ma anche lei era arrivata da poco, sicché non è che sapesse
tanto. E poi le non era molto chiara … non si capiva bene insomma, a parte
che si poteva lavorare. E poi conoscevo il Giro d’Italia perché in Spagna ho
lavorato in un negozio di biciclette e gli appassionati di ciclismo ne
parlavano spesso.
42
Un po’ com’erano fatte Roma e le altre grandi città … da quello che ci
mostrava la televisione. Ma sapevo poco. A Carrara ci viveva mia sorella, lei
ogni tanto me ne parlava. Ma parlavamo soprattutto delle possibilità di
lavoro.
L’iniziale superficiale conoscenza sembra condizionare anche l’opinione sul grado di soddisfazione
dell’esperienza migratoria vissuta rispetto alle attese: il giudizio, infatti, ruota prevalentemente
attorno all’esperienza lavorativa e alla sua capacità di dare risposta alle aspettative personali e/o
familiari. Le parole più ricorrenti, ovviamente, sono “guadagno” e “guadagnare”.
Sono contenta dell’Italia … sì. Volevo un lavoro retribuito meglio di quello
che avevo in Ecuador e l’ho trovato. E’ vero, ogni tanto capita di perderlo,
ma si fa anche in fretta a trovarne un nuovo.
Non sono contenta, no. Ero venuta per guadagnare qualche soldo, ma ne ho
guadagnati pochi … L’affitto è alto e le spese sono tante.
Le mie aspettative? Tutte soddisfatte. Sono venuta per lavorare e guadagnare
e qua riesco a risparmiare molto di più di quanto potessi fare in Romania.
Poi vivo a Carrara, una città piccina e tranquilla. Proprio giusta per me.
Quando uno emigra pensa sempre che il Paese dove va sia meglio del suo.
Comunque in Italia non si sta male e si guadagna ancora abbastanza bene,
benchè prima, con la lira, le cose andavano meglio.
Sono il lavoro e la retribuzione, come detto, a catalizzare l’attenzione delle lavoratrici di cura
straniere sia quando il giudizio è positivo che, invece, quando è meno benevolo nei confronti del
nostro Paese e, nello specifico, del territorio di Massa Carrara. Ma le loro riflessioni spaziano anche
su altri aspetti: alcune sono dimensioni centrali nella vita dei migranti tanto quanto l’occupazione,
come ad esempio, la chiusura culturale nei confronti della diversità riscontrata da un’intervistata,
mentre altri sono, invece, aspetti “accessori”, ma che evidentemente hanno attratto la loro attenzione.
Di seguito se ne propone una breve rassegna.
Pensavo che l’Italia fosse più aperta e accogliente. Abbiamo passato
momenti veramente difficili: trovare un lavoro è stata un’impresa e ancor più
difficile è stato mettersi in regola con i documenti. Comunque, da quando la
Romania è entrata nell’Unione Europea, mi sembra che le cose vadano un
po’ meglio.
Sinceramente pensavo che l’Italia fosse peggiore. Soprattutto che gli uomini
fossero peggiori: li immaginavo più duri, “rozzi”. Invece, almeno nei miei
confronti, sono stati tutti molto gentili.
43
Appena arrivata, una signora mi disse che in meno di un anno potevo
guadagnare una cifra sufficiente ad acquistare una casa … Era facile
secondo lei. Poi ho capito … ma nel mio Paese non si vedono così tante
donne sulla strada. Questa cosa qui, dell’Italia, è proprio brutta.
Pensavo che fosse tutto bello, tutto pulito … che le strade fossero tutte
pulite. E invece non è così, ad Aulla proprio no. Negli altri posto non lo so,
perché non sono mai uscita da Aulla.
Mi piace Carrara soprattutto, più di Caltanisetta. Mi avevano detto che
Carrara era vicino alle montagne e Caltanisetta in Sicilia … che è un’isola,
no? Allora sono andata a Caltanisetta perché volevo stare vicino al mare … e
invece sono finita in mezzo ai boschi (ride). Invece a Carrara, dove
dovevano esserci le montagne, ho trovato il mare. Il mare mi piace proprio
tanto, mi rilassa.
Fig.11 – Capacità dell’esperienza migratoria di soddisfare le aspettative delle intervistate
nessuna
aspettativa; 2
Insoddisfatta; 3
Abbastanza
insoddisfatta; 4
Soddisfatta; 6
Abbastanza
soddisfatta; 7
Fonte: Ns. Indagine Diretta
In generale l’esperienza migratoria in Italia e a Massa Carrara, rispetto alle attese, è giudicata
“soddisfacente” e “abbastanza soddisfacente” da oltre la metà delle intervistate; circa un terzo,
invece, coloro che la reputano “insoddisfacente” o “abbastanza insoddisfacente”. Almeno in
riferimento al nostro campione, l’anzianità dell’emigrazione non sembra essere un criterio capace di
spiegare il grado di soddisfazione/insoddisfazione delle intervistate: in via generale, infatti, è
senz’altro vero che la capacità della maggior parte delle esperienze migratorie di rispondere
positivamente alle attese personali e familiari proiettate su di esse aumenta con il trascorrere del
tempo, con lo stabilizzarsi della presenza e l’approfondirsi della conoscenza del territorio e delle sue
risorse. Nel caso delle lavoratrici di cura straniere prese in considerazione dalla presente analisi,
44
però, non è così: i due terzi di coloro che sono arrivate dopo il 2003, infatti, trova almeno
“abbastanza soddisfacente” il proprio percorso migratorio (in rapporto alle aspettative della vigilia),
contro la metà di quelle arrivate prima di tale anno.
Fig. 12 – Grado di soddisfazione dell’esperienza migratoria: confronto fra “vecchie” e “nuove”
lavoratrici di cura (campione delle intervistate)
2003-07
1990-2003
nessuna
aspettativa; 2
Insoddisfatta; 1
Soddisfatta; 3
Insoddisfatta; 2
Abbastanza
insoddisfatta; 3
Abbastanza
insoddisfatta; 1
Soddisfatta; 3
Abbastanza
soddisfatta; 2
Abbastanza
soddisfatta; 5
Fonte: Ns. Indagine Diretta
Un elemento decisivo per comprendere la natura del progetto migratorio è la durata che ad esso viene
attribuita dai protagonisti, a prescindere dalla coincidenza fra previsioni e realtà (che invero capita
ben di rado). In particolare è importante capire se ci si trova di fronte ad un’emigrazione che, quanto
meno nelle intenzioni, ha un carattere permanente o di lungo periodo o se, invece, ne ha uno
transitorio.
Le ricerche e la letteratura in materia (M.Ambrosini, 2004; IREF, 2007) concordano nell’attribuire a
quella della lavoratrici di cura un carattere prevalentemente transitorio, una tendenza che si ritrova
anche nelle intenzioni delle intervistate: la metà di esse, infatti, esprime la volontà di tornare un
giorno nel Paese d’origine. Coerentemente con quanto evidenziato dal Cespi 44 , anche nel nostro
campione sono soprattutto le addette del settore romene ad esprimere in modo più marcato il
desiderio di tornare a vivere nel Paese d’origine, dove spesso hanno i figli e un marito che le attende,
e a pianificare con maggiore accuratezza il ritorno: circa i due terzi di coloro che si sono espresse in
tal senso, infatti, proviene dallo Stato balcanico.
44
“Le donne rumene, in particolare, ambiscono a lavorare in Italia per pochi mesi, un paio d’anni al massimo”
(E.Castagnone/R.Petrillo, 19:2007).
45
Sembrerebbe confermata anche la correlazione evidenziata dall’IREF (18:2007) fra il desiderio di
tornare a vivere nel proprio Paese e il fatto che là sia rimasta una parte importante della propria
famiglia (quando non tutta) se è vero che oltre i quattro quinti delle “favorevoli” al ritorno ha lasciato
in patria i figli o il marito (o entrambi).
Tabella 13 – L’intenzione delle intervistate: ritornare o restare
America Centro
Romania Meridionale
Altro Totale
7
2
2
11
Rientra a casa
5
2
1
8
Resta In Italia
0
2
1
3
Non sa
Fonte: Ns. Indagine Diretta
Una lettura qualitativa più approfondita delle risposte, però, induce ad operare una distinzione: da un
lato vi sono coloro per le quali il ritorno rappresenta un’ipotesi concreta, già abbastanza pianificata;
No, non penso proprio di rimanere in Italia. Sono in attesa dell’affidamento
del figlio che ho avuto qua con un italiano. Appena ce l’ho, ritorno a casa.
Al massimo resto ancora un paio d’anni, per guadagnare qualcos’altro
ancora. Sicuramente non di più.
Ho 52 anni ed ho fatto i miei conti: fino a 60 anni resto in Italia, perché
almeno fino a quell’età voglio lavorare. Poi torno.
Rimarrò altri due o tre anni ancora, il tempo necessario per guadagnare i
soldi che mi servono per finire i lavori alla casa. Poi devo tornare perché il
posto di una mamma è accanto ai suoi figli.
dall’altro, invece, vi sono coloro per i quali il ritorno non va oltre il vago auspicio, rappresentando
più una sorta di cordone ombelicale che non si vuole recidere che non un’ipotesi realistica.
Non so ancora quando, ma sicuramente un giorno tornerò nella mia terra
dominicana … Mi viene la voglia soprattutto ogni volta che sento Bossi
parlare in televisione. E penso anche che quel giorno non è poi tanto
lontano.
Qui ho un lavoro, è vero, ma la vita non è semplice … e soprattutto costa
molto. Penso proprio che un giorno tornerò a casa, ma è ancora troppo
presto per stabilire quando.
Non so quando tornerò nel mio Paese, ma so che ci tornerò un giorno …
Forse quando avrò sessant’anni. (La ragazza ha 22 anni N.d.A)
46
L’altra faccia della medaglia è rappresentata dalla volontà di effettuare il ricongiungimento
familiare: si tratta, infatti di un indicatore significativo della volontà di stabilirsi permanentemente, o
per un lungo periodo, nel Paese c.d. “d’accoglienza”. Tale eventualità, però, sembra interessare solo
la metà del campione 45 : com’è facilmente intuibile nella maggior parte dei casi il ricongiungimento
ha riguardato, o si vorrebbe riguardasse, i figli e il marito, ma anche il desiderio di riunirsi ai
genitori, frequentemente anziani (data l’età media elevata delle lavoratrici di cura straniere) e con
qualche problema di salute, è percepito con una certa insistenza.
Mia mamma ha seri problemi al cuore … E papà è stato operato alla testa:
sono preoccupata perché so che non stanno bene. Mi piacerebbe farli venire
qua per potergli essere vicina ed assisterli.
Vorrei portare qui anche mia mamma … E’ stata operata per un calcolo
renale: fino a poco tempo la curava mia cognata, ma ora lei è andata via …
Chi se ne occupa? Certo, c’è sempre mio fratello , ma non è la stessa cosa
… Capisci ?
Fig. 13 – Con chi ti sei già, o vorresti, fare il ricongiungimento familiare?
7
7
6
6
5
4
3
2
2
1
1
0
marito
figli
genitori
fratelli/sorelle
Fonte: Ns. Indagine Diretta
L’altra metà delle intervistate, invece, non sembra essere eccessivamente attratta dal
ricongiungimento familiare. I motivi di questo scarso appeal vanno ricondotti ancora una volta ai
figli, il principale polo d’interesse e d’attenzione delle intervistate: il fatto è che, come abbiamo
visto, la scelta d’emigrare solitamente matura ad una età significativamente adulta, con i figli ormai
già grandi e inseriti in un contesto di vita, impegni (molti studiano e qualcuno lavora) e legami
45
Dato in linea con i propositi di rientro della maggioranza dell’intervistate.
47
affettivi (spesso sono già sposati e qualche volta hanno anche dei figli) strutturati che, di fatto,
rendono semplicemente non praticabile la scelta di seguire la mamma.
Certo che vorrei farli venire a vivere con me … Gliel’ho proposto tante
volte, ma non vogliono. E li capisco, sono grandi ed hanno la loro vita: uno
sta per sposarsi e l’altro ha il suo lavoro, fa il barrista, e non vuole
assolutamente lasciare la Romania. Devo accettarlo.
Senti, ho tre figli: il più grande è un ufficiale dell’esercito, la ragazza fa
l’università e il più piccolo l’ultimo anno del liceo. Come faccio a dirgli di
lasciare tutto e venire in Italia? Sinceramente anch’io sono più contenta se
riescono a costruirsi una vita loro a casa.
Quando, invece, i figli sono più piccoli il ricongiungimento diviene un’ipotesi praticabile, ma non
sempre dà i risultati attesi.
L’anno scorso abbiamo provato a far venire la bambina piccola. E’ stata qua
tutta l’estate e a settembre si sarebbe dovuta iscrivere a scuola, qui in Italia
voglio dire. Ma lei non ha voluto: chiaramente non parlava bene l’italiano e
gli altri ragazzini del vicinato, inclusi alcuni figli di romeni, la prendevano
continuamente in giro. E’ stata lei a supplicarci di riportarla in Romania, dai
suoi amichetti di sempre. E’ stata una scelta sofferta, ma alla fine penso che
sia stata giusta: penso che l’ambiente di casa farà meglio alla sua crescita.
In questo caso entrano in ballo anche di ordine educativo: alcuni genitori, infatti, considerano
preferibile far crescere i figli nel proprio contesto vita, anche se lontano dal nucleo familiare,
piuttosto che il contrario.
2.3 Il mercato occupazionale: il punto di vista delle lavoratrici di cura
Il primo gradino che anche le lavoratrici di cura straniere devono salire nel loro percorso
d’inserimento nel mercato occupazionale italiano è, inevitabilmente, il contratto di lavoro: si tratta,
infatti, di uno strumento fondamentale per raggiungere un elementare livello di tutele lavorative e
sociali, fondamentale per qualunque progetto migratorio a prescindere dai diversi obiettivi che
ciascuno di essi si propone. Un gradino che, di anno in anno, è divenuto sempre meno inaccessibile
alle lavoratrici di cura straniere anche in un segmento del mercato del lavoro caratterizzato da un
ampio ricorso al “sommerso”. Massa Carrara, in tal senso, sembra allinearsi alla tendenza nazionale:
solo un quinto delle intervistate, infatti, ha una posizione lavorativa completamente irregolare.
Il contratto di lavoro? No, non ce l’ho. Lavoravo per una famiglia pensando
di essere in regola. L’estate scorsa sono andata a casa a visitare i miei
familiari e, quando sono tornata ho scoperto che la signora non aveva pagato
48
i contributi … Così non sono più regolare. Mi hanno fatto la richiesta di
espulsione ma una mia amica mi ha detto di non preoccuparmi, anche se
rimango non mi fanno niente. Così sono rimasta.
Data la limitatezza del campione, in via di principio non si può escludere che la quota di posizioni
lavorative irregolari sia in realtà più elevata di quella dedotta dal campione, ma sia rimasta in larga
misura nascosta anche alla presente indagine in considerazione dei rischi (reali e percepiti) associati
a tale condizione. E’ più probabile, però, che anche la provincia dell’alta Toscana sia caratterizzata
da quelle forme sempre più diffuse di “nero parziale” di cui si è parlato anche nel primo capitolo:
infatti l’orario settimanale medio delle intervistate che hanno un contratto di lavoro è precisamente
di 25 ore settimanali, ossia la soglia minima contributiva più vantaggiosa per il datore di lavoro, ma
anche per la lavoratrice straniera, che talvolta preferisce questo tipo d’inquadramento contrattuale a
patto che sia integrato da un adeguato “fuori busta” a copertura della parte restante dell’orario
lavorativo effettivamente svolto. La “verità” del contratto, però, raramente coincide con la realtà
vissuta dalle lavoratrici:
Il mio contratto è solo per una signora non autosufficiente, però da due anni
devo accudire anche suo suocero, pure lui non autosufficiente. Quindi di
fatto seguo due persone. Per forza lavoro tanto: anche 11 o 12 ore al giorno.
Lavoro per due famiglie diverse: la mattina sto da una e il pomeriggio, verso
le quattro e mezzo, vado dall’altra. Ma ho un solo contratto di lavoro.
Inevitabilmente, quindi, lavoro di più rispetto all’orario previsto. Più o meno
sessanta ore a settimana.
Soltanto una delle intervistate ha detto che, più o meno, l’orario contrattuale corrisponde a quello
effettivamente volto. Tutte le altre “contrattualizzate”, invece, dichiarano di lavorare di più. Per
capire “quanto” di più abbiamo confrontato il monte orario contrattuale con quello effettivamente
svolto negli otto casi in cui è stato possibile quantificarlo.
Tabella 14 – Confronto fra monte ore contrattuale e monte ore effettivo
Intervistata 1
Intervistata 2
Intervistata 3
Intervistata 4
Intervistata 5
Intervistata 6
Intervistata 7
Intervistata 8
Media
Monte ore
contrattuale
25
20
25
25
25
25
25
25
24,4
Monte ore
effettivo
10
30
77
50
60
50
50
50
47,1
Fonte: Ns. Indagine Diretta
49
Per quanto relativo ad un numero molto limitato di persone, la tabella 14 sembra delineare una
tendenza a forme piuttosto acute di “nero parziale”: le otto lavoratrici di cura, infatti, lavorano il
doppio delle ore effettivamente dichiarate dal contratto. Un fenomeno preoccupante, frequentemente
accettato quasi supinamente dalla lavoratrici stesse, probabilmente perché poco informate in ordine
ai loro diritti in materia di lavoro, in posizione di debolezza rispetto al datore di lavoro e, forse,
qualche volta anche tacitamente d’accordo.
Ho un contratto da venticinque ore alla settimana, ma faccio assistenza
ventiquattro ore su ventiquattro … Lavoro giorno e notte. Ma il contratto è
fatto in quel modo lì per pagare meno tasse.
La retribuzione mensile media dichiarata dal campione è di 788 euro, ma la “forchetta” è molto
ampia: la punta più alta, almeno stando alle dichiarazioni della diretta interessata, è di 1.700 euro; la
più bassa, invece, si ferma a quattrocento. Oltre i tre quarti delle lavoratrici intervistate guadagna
meno di 900 euro al mese e quasi la metà si colloca nella fascia compresa fra i 700 e i 900 euro.
Fig. 14 – Ripartizione del campione per classi di reddito mensile
10
10
9
8
7
6
5
5
4
3
2
3
2
1
1
1
0
>500
501-700
701-900
901-1100 1101-1500
<1500
Fonte: Ns. Indagine Diretta
Nel dettaglio, le romene intervistate guadagnano in media duecento euro in più al mese rispetto alle
colleghe provenienti dall’America Centro-Meridionale, benché quest’ultime lavorino mediamente
undici ore in più alla settimana e nonostante il loro sia il flusso più recente.
L’analisi dei compiti professionali quotidianamente svolti dalle addette del settore rivela in modo
abbastanza chiaro quanto la distinzione fra cura delle persone, collaborazione domestica e gestione
50
della casa
46
, in pratica, riveli una scarsa capacità esplicativa: nell’esperienza quotidiana delle
intervistate, infatti, i diversi ruoli si alternano e si sovrappongono senza soluzione di continuità nello
spazio di una stessa giornata lavorativa pur rimanendo in capo alla stessa persona.
“Guardo” 47 una donna anziana di ottant’anni e poi faccio tutto: pulizie,
lavatrice, giardino … accudisco anche il cane. E poi aiuto la signora nelle
mansioni quotidiane; volendo saprei fare anche le punture …
La signora ha il Parkinson, quindi la devo pulire, l’aiuto a camminare, a
cambiarsi, gli faccio la doccia, cucino e faccio tutti gli altri lavori di casa.
La mattina andavo in camera della signora, l’aiutavo a lavarsi, le facevo
colazione, la massaggiavo, le cambiavo il pannolino, le davo le medicine …
Poi mi spostavo in cucina …
Faccio tutte le cose che fanno le persone che accudiscono gli anziani.
Cucino, lavo, stiro, curo l’orto, faccio punture, cambio il pannolone, a volte
taglio anche i capelli … La fatica è tanta, soprattutto quando devo alzare la
signora dal letto: è pesante e da sola proprio non ce la faccio. Così, per fare
questa cosa, aspetto sempre che arrivi il fisioterapista … Tanto viene tutte le
mattine.
Pulisco casa, faccio da mangiare, cambio l’anziana, la giro nel letto perchè
c’ha le piaghe e da sola non ce la fa, le do le creme … Faccio la badante
insomma (ride).
Assistevo un anziano non autosufficiente: lo lavavo, facevo le pulizie in
casa e lo assistevo in tutto, gli facevo anche le punture … Vedi? Ho la
cervicale, mi è venuta ad alzarlo tutte le mattine, perché era molto pesante
…
Dalle testimonianze delle intervistate emerge come alle lavoratrici di cura straniere siano delegate in
misura crescente anche funzioni di carattere parasanitario o di assistenza sanitaria primaria: sono
loro, infatti, che fanno le punture, somministrano i farmaci e supportano le capacità di
deambulazione di persone affette anche da patologie gravi. Tutte funzioni apprese “sul campo”,
magari guardando o facendosi insegnare da qualche collega più competente, senza però avere una
preparazione professionale adeguata alla gravità delle patologie che affliggono molti degli accuditi.
Ricapitolando, i carichi di lavoro sono intensi e faticosi, sia dal punto di vista fisico che mentale, e
gli orari decisamente lunghi (fra le otto e le dieci ore giornaliere) mentre la retribuzione è modesta:
raramente supera i novecento euro. A ciò si aggiunga che, nella quasi totalità dei casi (19 su 22) si
46
Vedi IREF (27,28:2007)
Anche il lavoro di cura ha un suo gergo professionale: il verbo “guardare”, infatti, nel linguaggio di queste lavoratrici
è strettamente collegato alle funzioni di cura della persona e sta ad indicare i compiti strettamente controllo della
persona accudita.
47
51
tratta di occupazioni in “monocommittenza”, e, come vedremo, in coresidenza: il fatto di lavorare
per un solo datore di lavoro riduce ulteriormente gli spazi d’autonomia, professionale e personale,
della lavoratrice di cura, soprattutto se l’ambito privato si sovrappone a quello professionale come
accade nei casi di convivenza con la persona accudita.
Nonostante tutto, i due terzi delle intervistate vuole crescere professionalmente in questo settore,
magari lavorando a condizioni diverse dalle attuali, piuttosto che spostarsi in un altro: in particolare
il superamento dell’assistenza continuativa c.d. “24 ore su 24” e il passaggio alla multicommittenza
sono fra gli obiettivi professionali più ambiti.
Mi piace questo lavoro e non credo che lo cambierei. Però vorrei
tanto smettere di lavorare “24 ore su 24”, vorrei lavorare a ore e a
turni …
Non voglio cambiare lavoro, ma vorrei che mi facesse meno male:
ho un problema congenito alla schiena e ho rischiato di rimanere
bloccata. E poi lavoro tanto ma non vengo valorizzata, bisognerebbe
cambiare tutto il sistema, valorizzare di più il nostro lavoro!
Di cambiare lavoro non se ne parla. Anzi, in questo periodo sto
anche seguendo un corso OSA 48 per specializzarmi. Certo vorrei un
po’ di autonomia in più e orari non così pesanti. Ma non è necessario
cambiare professione per ottenere queste cose.
Invece per un terzo delle intervistate la professione di lavoratrice di cura in famiglia rappresenta solo
il primo gradino del loro percorso d’inserimento nel territorio dell’alta Toscana. Nel caso loro questo
lavoro sembra rispondere soprattutto a motivazioni contingenti, dettate dalla necessità, mentre le
aspirazioni sono altre.
Se fosse possibile certo che lo cambierei. Se potessi, vorrei tornare a
fare l’insegnante, che è il mio vero mestiere. “Guardare” le persone
anziane da un lato mi piace, ma dall’altro mi fa soffrire: ad esempio
l’anziano che “guardo” stanotte ha avuto un malore e io, ancora
adesso, sto male. Ci soffro.
Vorrei lavorare in una fabbrica, magari di scarpe, o in un ristorante.
Ma per fare quei lavori devo imparare meglio l’italiano. Per adesso
mi accontento di questo.
Da qualche mese non faccio più la badante, sono operatrice in una
casa di riposo. Le cose vanno meglio, era quello che volevo. Il
prossimo passo? Provare a fare l’infermiera. Anche per questo sto
48
Operatore Socio-Assistenziale
52
frequentando un corso per operatori OSA e dopo farò anche quello
per operatori OSS.
Questo lavoro mi serve per vivere. Ma in futuro voglio fare altro …
Mi piacerebbe fare l’estetista ad esempio, però prima devo studiare
per prendere il diploma.
Lo cambierei solo per uno migliore. Ma ti assicuro che non è facile:
le offerte in altri settori per noi immigrate sono pochissime.
Sono soprattutto le donne più giovani quelle più motivate a cambiare settore occupazionale: non a
caso l’età media delle addette del primo gruppo, quelle di coloro che guardano con maggior favore
alla prospettiva di rimanere nell’ambito del lavoro di cura a domicilio, è di quasi 40 anni contro i 33
anni del secondo gruppo.
Lo sguardo delle protagoniste del lavoro di cura sulla loro professione lascia emergere diversi
elementi di criticità:
•
La presenza di forme acute di “nero parziale”;
•
retribuzioni basse;
•
carichi pesanti, faticosi e complessi;
•
Prevalere dei rapporti di lavoro in monocommittenza.
Nonostante ciò, l’apparente paradosso è che soltanto una delle lavoratrici intervistate si è
esplicitamente definita insoddisfatta della sua situazione professionale:
Dico la verità, sono due anni che vivo e lavoro nella casa della persona che
accudisco e ora comincio ad essere davvero stufa. Convivere 24 ore al
giorno con una persona malata che ha cinquanta o sessant’anni più di te è
davvero pesante. Le responsabilità sono troppe.
Il giudizio delle altre, invece, spazia dal “moderatamente” (15) al “molto soddisfatta” (6). La nascita
di legami affettivi con la persona accudita e la sua famiglia, cui probabilmente a ragione una parte
della letteratura attribuisce una caratterizzazione ambiguità in ragione del sovrapporsi della
dimensione privata a quella professionale, è invece connotata positivamente da molte addette del
settore.
L’anziano che “guardo” lo vedo come se fosse mio nonno, come se fra noi
ci fosse un legame di sangue.
Mi piace stare con gli anziani. Con me ridono tanto … e anch’io rido con
loro.
53
No, non credo cambierei lavoro anche se ricevessi una proposta migliore.
Anche perché si costruiscono dei legami affettivi che vanno oltre il rapporto
di lavoro.
Quando “guardo” l’anziano che assisto mi sento come se mi prendessi cura
dei miei genitori.
Ma è presumibile che un’opinione così plebiscitariamente positiva sia influenzata pure dal timore di
esprimersi “pubblicamente” con accenti critici nei confronti del proprio datore di lavoro. Anche nelle
parole di chi ha espresso un giudizio sintetico positivo, infatti, si rintracciano diversi elementi
problematici.
Finora mi sono trovata bene perché ho sempre avuto a che fare con persone
molto gentili, ma per i soldi non sono soddisfatta. Ho fatto anche il corso
OSA per guadagnare di più, ma per il momento non ho trovato un lavoro
meglio.
Voglio fare questo lavoro perché mi piace, ma vorrei fare solo una mansione
non tutte le cose. Fra l’altro fisicamente non sto bene e vorrei che il lavoro
che faccio non mi rovini ancora di più … vorrei che fosse un lavoro più
tranquillo, che non faccia male al fisico.
Quando sono andata via ho pianto … perché con me erano bravi, anche se
non mi parlavano molto e mi pagavano poco.
2.4 L’abitazione: fra coresidenza e progetti d’autonomia
La casa è lo spazio fisico che permette di separare la dimensione lavorativa da quella pubblica, è il
luogo in cui dare spazio agli affetti, il rifugio nei momenti di stanchezza, il requisito necessario per
dare corpo ai propositi di ricongiungimento familiare.
Certo, mi piacerebbe che i figli e mio marito mi raggiungessero, ma poi
dove andremmo ad abitare? Prima devo trovarmi una casa …
Sì, voglio portare qui i miei figli. Sarà la prima cosa che farò appena avremo
una “nostra” casa.
La casa, anche per le lavoratrici di cura di Massa Carrara, è una meta in larga misura ancora da
raggiungere. Lo scenario tratteggiato dai rapporti annuali di “Scenari Immobiliari”49 , che evidenzia
una crescita costante delle compravendite che hanno come acquirente un immigrato (+8,4% nel 2007
e + 12,9% nel 2006), sembra trovare poca o nessuna corrispondenza nell’esperienza delle famiglie
49
L’Osservatorio nazionale che, da tre anni, pubblica il rapporto “Immigrati e casa”
54
straniere che hanno come fonte unica, o prevalente, un reddito proveniente dal settore del lavoro di
cura domiciliare, quanto meno in quelle dell’alta Toscana al centro della presente indagine: nessuna
delle intervistate, infatti, è proprietaria della casa in cui abita e coloro che sono in affitto coprono
appena un terzo del campione; per i restanti due terzi la soluzione è la coresidenza con l’anziano
assistito.
La scelta fra la soluzione in affitto e la coresidenza dipende ovviamente dalle risorse economiche
disponibili, ma soprattutto dalla natura del progetto migratorio: la prima, infatti, è la soluzione più
indicata quando l’emigrazione ha un’intenzionalità di lungo periodo e vi è, quindi, la necessità di
riunire in Italia, nel più breve tempo possibile, il proprio nucleo familiare; la seconda, invece, è
funzionale alle migrazioni di breve periodo, orientate a risparmiare il più possibile per reinvestire in
patria: la coresidenza è molto penalizzante sul piano dell’autonomia e della qualità della vita, ma ha
il “vantaggio” di essere una sistemazione economicamente a costo zero presentandosi come un
sacrificio accettabile alle migranti il cui scopo è guadagnare il più possibile in breve tempo.
In effetti anche nei percorsi delle intervistate sembra esservi una certa correlazione tra soluzione
abitativa in affitto e progetto migratorio di lungo periodo e prevalentemente orientato alla
realizzazione nel Paese d’arrivo, visto che 5 delle 8 persone che vivono in affitto o si sono già
ricongiunte con una parte almeno della loro famiglia o hanno intenzione di farlo nel più breve tempo
possibile, e, sul versante opposto, tra coresidenza e progetto migratorio finalizzato ad investire sui
familiari rimasti in patria, in quanto più della metà di coloro che hanno scelto questa soluzione non
esprimono interesse verso la possibilità di ricomporre il proprio nucleo familiare nel Paese d’arrivo.
Una tendenza alla regolarizzazione, simile a quella registrata per le posizioni di lavorative, si
evidenzia anche per quanto riguarda i contratti di locazione: solo due delle intervistate fra quelle che
vivono in affitto, infatti, sostiene di non averne sottoscritto alcuno.
Pago poco, ma ovviamente tutto al nero. Quanto? Mi hanno detto 150 euro
al mese più le spese domestiche che ancora devono quantificarmi.
Non saprei spiegarti bene perché ha seguito la cosa mio marito .. Comunque
il contratto ce l’abbiamo, solo che non è intestato a noi, ma a nome di
un’altra persona che ce lo subaffitta.
Il canone medio è di 347 euro al mese; quella che spende meno paga 150 euro (ma, come abbiamo
visto, è al “nero”), mentre quello più costoso è di 505 euro. Nella totalità dei casi si tratta di
appartamenti: piccoli (3 vani) ma anche abitazioni di dimensioni medie: 5 o 6 vani talvolta anche
con tanto di terrazza e/o orto e/o giardino.
La scelta prevalente (due terzi dei casi), però, è quella della coresidenza e ciò obbliga ad una
riflessione sui rapporti interpersonali fra lavoratrice di cura e famiglia dell’accudito, data la protratta
55
vicinanza che tale soluzione comporta. Nella maggioranza dei casi le intervistate tracciano al
riguardo un quadro quasi idilliaco: affermazioni come “li considero la mia famiglia” e “la signora è
come se fosse mia sorella” sono piuttosto ricorrenti ed evidenziano, da un lato, una dose di
coinvolgimento personale che va oltre il rapporto professionale; dall’altro, forse, il desiderio di
delineare un quadro della situazione connotato più positivamente di quello che è realmente. Alcuni
di tali tentativi, tra l’altro, assumono sfumature tragicomiche:
Il rapporto con la famiglia era davvero buono: sia l’anziano che i familiari erano
molto gentili nei miei confronti e i bambini particolarmente educati. Peccato
soltanto che non mi hanno pagato i contributi …
La stessa lavoratrice, più avanti, aggiunge:
Abitavo con la famiglia dove lavoravo, dormivo in cantina, era brutto, era
freddo e il tetto era basso.
Al di là dei casi di chiaro e grave sfruttamento, come quello riportato nella testimonianza, si può
certo ipotizzare che nella dinamica del rapporto fra lavoratrice di cura, accudito e famiglia di
quest’ultimo vi siano tensioni e conflitti probabilmente molto più profondi di quanto emerga in
questa sede: verosimilmente l’intervista semistrutturata alla lavoratrice non è lo strumento ottimale
per far emergere tali tensioni.
L’addetta al lavoro di cura straniera, in Italia da sola, che sceglie la via della coresidenza con
l’accudito quale sistemazione abitativa ideale per incrementare la propria capacità di risparmio da un
lato, e la lavoratrice che si attiva fin da subito per la ricomposizione del proprio nucleo familiare
attraverso la ricerca di una casa in affitto dall’altro, costituiscono due profili tipici che di frequente si
ritrovano anche nella vasta letteratura dedicata all’argomento. Ma nel territorio di Massa Carrara
sembra trovare spazio anche un modello relativamente nuovo e non molto diffuso: quello della
famiglia ricongiunta, o in fase di ricongiungimento, che vive in coresidenza.
Vivo insieme alla mia famiglia nella stessa casa della persona che
accudisco: stiamo un po’ stretti perché siamo in tre in una sola stanza. Però,
siamo tutti insieme. Inoltre loro (i datori di lavoro N.d.A) hanno assunto
anche mio marito, gli hanno fatto un piccolo contratto.
Ci hanno dato una camera e anche un piccolo cucinotto. Io e mio marito
viviamo lì. Anche lui lavora per la “signora”: lui fa le cose fuori e quelle più
pesanti. Va a fare la spesa, cura il giardino e anche un pochino l’orto. …
Gli obiettivi del presente lavoro non ci hanno permesso di esplorare approfonditamente il percorso
attraverso cui alcune famiglie sono approdate al “ricongiungimento in coresidenza”: certo è che tale
56
modello implica un ruolo particolarmente attivo anche della famiglia della persona accudita, un
legame fiduciario con la lavoratrice di cura particolarmente forte e possibilità economiche non alla
portata di tutti visto che, in entrambe le testimonianze, il datore di lavoro si fa carico anche di un
ulteriore contratto di lavoro nei confronti del marito.
Vista dal lato della famiglia migrante, invece, si tratta ovviamente di una soluzione che, qualora si
affermi in modo diffuso, potrebbe facilitare l’accesso al ricongiungimento anche alle straniere con
progetti migratori di breve periodo e orientati al rientro nel Paese di provenienza: vitto e alloggio,
infatti, restano in capo al datore di lavoro.
2.5 Il rapporto con il territorio e la rete dei servizi
Che la solitudine sia un’assidua compagna di viaggio di chi lascia il proprio contesto di vita per
cercare fortuna lontano non è certo una novità: “In effetti in tutte le storie di migrazione abbiamo a
che fare con la scelta della separazione rispetto al contesto familiare, affettivo, sociale e culturale
originario; questa scelta provoca una rottura dell’equilibrio presente nella vita della persona che
decide di emigrare. Costituisce un momento contraddittorio di sofferenza e di aspettative.
L’emigrante è di fronte alla sfida di dover ridefinire il proprio progetto di vita, di delinearne le
coordinate nello spazio e il tempo. Deve elaborare il lutto della separazione dal gruppo originario,
dai legami costruiti durante l’infanzia e interiorizzati nella sua costruzione psico-affettiva. La
partenza, le condizioni nelle quali avviene la partenza, i motivi stessi della scelta dell’emigrare sono
importanti perché condizionano tutta la traiettoria del migrante. Traiettoria che non è solo spaziale e
geografica ma anche mentale e emotiva” (Goussot, 1:2004).
Le caratteristiche e le modalità delle migrazioni per lavoro di cura enfatizzano, inevitabilmente, la
sensazione di solitudine: la contraddizione fra la professione di cura svolta e l’impossibilità di curare
adeguatamente le persone più amate e la difficoltà di separare la dimensione lavorativa da quella
privata, accentuata dal frequente ricorso alla coresidenza con l’accudito, infatti, sono aspetti della
vita delle lavoratrici di cura che, inevitabilmente, alimentano il senso di separazione dagli affetti più
cari. Non stupisce, quindi, che coloro che si trovano in questa condizione indichino proprio la
solitudine fra gli elementi maggiormente problematici della loro esperienza migratoria.
57
Fig. 15 – I problemi delle lavoratrici di cura intervistate 50
6
18
6
salute
lavoro
amministrativo-legali
solitudine
9
Fonte: Ns. Indagine Diretta
Non deve destare sorpresa, quindi, il fatto che proprio la solitudine sia risultato il “problema vissuto”
indicato con maggiore frequenza dalle 22 intervistate: il doppio delle volte rispetto alle
problematiche di carattere amministrativo-legale che pure, come è noto, condizionano pesantemente
la vita dei migranti, e addirittura il triplo nei confronti di “lavoro” e “salute”, nonostante la sanità
pubblica, come vedremo, sia i servizi che esse utilizzano maggiormente.
Il tempo libero, per quanto scarso, è il momento in cui tale sensazione si oggettivizza in situazioni e
dati di fatto: oltre la metà delle intervistate, infatti, lo trascorre “da sola” e “in casa”, che come
abbiamo visto, spesso significa in quella della persona accudita.
Il mio lavoro mi lascia anche tempo libero … ma non conosco nessuno. Ho
un’amica sola, che però sta a Forte dei Marmi, troppo lontano per andare a
visitarla. Poi ho paura, non mi piace conoscere … ho paura.
Avevo solo un giorno di riposo (alla settimana N.d.A), ma spesso non
sapevo dove andare e rimanevo lì (nella stanza messa a disposizione dal
datore di lavoro N.d.A) a guardare la tv o ad ascoltare la musica … che mi
piace tanto! Se c’era il mercato, invece, ci andavo.
Mi chiudo in casa, non mi piace uscire, non ho fiducia nelle persone. Forse
ho paura di non essere accettata: alcune persone mi hanno rifiutata per come
ero vestita, ho saputo che mi parlano dietro … Ma io non gli ho fatto nulla
di male. Mi hanno fatta isolare.
50
Le “macro-aree” problematiche sottoposte al giudizio delle intervistate sono state quattro: solitudine, lavoro, area
amministrativo-legale e salute. Ciascuna di esse aveva facoltà di indicarne più di una e anche, eventualmente, di
aggiungere altre categorie (anche se nessuna lo ha fatto).
58
Per ovvie ragioni le più propense ad uscire sono le più giovani e quelle senza famiglia al seguito: è
fra le “under 30”, infatti, che si concentra la quota maggioritaria di coloro che, nel tempo libero,
frequentano luoghi pubblici all’aperto, contesti che, almeno in potenza, facilitano lo scambio e la
relazione.
Vado ad Aulla o a Monti. Là c’ho le amiche. Passiamo tutto il tempo libero
insieme, a ridere e a raccontarci le cose che ci sono capitate durante la
settimana.
Vado al mare e là incontro tanti amici romeni. Cuciniamo e mangiano
insieme. Passiamo la giornata.
Il fatto di essere arrivate nel territorio di Massa Carrara seguendo i percorsi tracciati da precise
“catene migratorie” fa sì che quasi tutte abbiano un congiunto o degli amici nelle vicinanze: spesso
una sorella o un’amica, più raramente un fratello o un congiunto diverso. Quando la lavoratrice di
cura vive da sola, è insieme a loro che trascorre una parte significativa del suo tempo libero, a
prescindere dal fatto che ciò accada al chiuso delle mura domestiche o, invece, in spazi pubblici.
Non ho molte amiche e comunque non mi piace uscire la sera. Preferisco
guardare la tv, soprattutto programmi di cucina che mi servono per il lavoro.
La domenica, che è il mio giorno libero, invece vado a casa di mio fratello e
sto con la sua famiglia.
Il giorno libero è la domenica. Mi alzo verso le quattro del mattino e vado a
correre. Poi faccio ginnastica–ho comprato apposta una macchina per fare
gli esercizi- e le pulizie di casa. A pranzo vado a casa di mia figlia e passo là
tutta la giornata.
Cammino tanto, faccio un giro al mercato. E poi vedo mia sorella e mia
nipote, o mia cognata.
C’è anche chi, deliberatamente, rinuncia a dedicare un briciolo di tempo a sé stessa e al riposo
Non ho tempo libero. Nei giorni in cui, da contratto, non devo “guardare”
l’anziano, vado a fare le pulizie in casa di altre famiglie. Proprio quando
sono stanca stanca vado qualche ora al mare.
E chi deve, invece, decide di spenderlo in iniziative formative, possibilità che, altrimenti, gli è
preclusa a causa della lunghezza degli orari e della pesantezza dei carichi di lavoro.
In questo periodo frequento il corso OSA ad Aulla e faccio il tirocinio in
una struttura per anziani di Lerici. Devo andare nel giorno libero perché non
ho altro tempo. La signora non è autosufficiente e ha bisogno di me.
59
Dal panorama delineato attraverso le testimonianze emerge un quadro che presenta diversi elementi
di criticità: le condizioni di forzata solitudine e isolamento cui le “costringe” la professione svolta, il
poco tempo a disposizione per sé stesse e per il riposo e la propensione a spenderlo al massimo nella
ristretta cerchia dei parenti e degli amici connazionali, infatti, disegnano uno scenario che presenta
pochissime opportunità di relazione paritaria con il contesto d’accoglienza e, per conseguenza, il
rischio di rimanere reclusi in nicchie etniche che potrebbero finire con l’assorbire quasi tutti gli
ambiti di vita della migrante, soprattutto in un momento storico, come quello che stiamo vivendo, in
cui la diffidenza nei confronti dello straniero e del diverso alimenta in misura crescente stereotipi ed
etichettature negative. In proposito, infatti, non si può che guardare con preoccupazione al fatto che
nessuna delle intervistate abbia detto di spendere una parte del proprio tempo libero con amici
italiani.
Considerazioni che sembrano riflettersi anche nei servizi pubblici o di pubblica utilità maggiormente
frequentati dalle lavoratrici di cura, per esigenze di classificazione ripartiti in quattro macrocategorie: sanità, istruzione e formazione, lavoro e immigrazione.
Fig. 16 – I servizi pubblici/di pubblica utilità maggiormente utilizzati dai migranti
Immigrazione; 8
Sanità; 22
Lavoro; 10
Formazione; 20
Fonte: Ns. Indagine Diretta
Alle intervistate è stato chiesto d’indicare a quale delle quattro categorie afferiscono i servizi
maggiormente utilizzati nel corso della loro esperienza migratoria a Massa Carrara, attribuendo il
valore più alto (in una scala da 1 a 4) al “comparto” maggiormente frequentato.
60
La sanità (ospedale, servizi sanitari Asl, medico di famiglia) è il settore che è stato indicato più volte
e la motivazione è abbastanza logica: la necessità di un tempestivo intervento 51 o trattamento
sanitario, infatti, costringe giocoforza ad abbattere diffidenze e paure che, invece, sembrano resistere
quando la situazione non è tale da richiedere un intervento immediato.
A dire il vero quando sto poco bene telefono a mamma e mi faccio spedire i
medicinali di cui ho bisogno dalla Romania.
Segue l’area che abbiamo denominato “formazione”52 ad evidenziare, forse, la positività dello sforzo
congiunto di amministrazioni pubbliche e organizzazioni del terzo settore per la promozione di
opportunità di formazione, linguistica e professionale, rivolte o accessibili a questo particolare
segmento di popolazione straniera: la maggior parte delle intervistate non ha indicato questa
categoria in seguito all’iscrizione dei figli alle scuole del territorio, bensì in conseguenza di una loro
diretta partecipazione a corsi di formazione professionale o di italiano. Al riguardo, però, sarebbe
necessario sottoporre questa indicazione di tendenza a verifiche più approfondite visto che è
verosimile che essa in una qualche misura risenta delle modalità di selezione del campione, avvenuta
inizialmente grazie al tramite delle associazioni e delle istituzioni locali.
Invece il fatto che i servizi dell’area “lavoro” 53 risultino complessivamente poco frequentati dalle
lavoratrici di cura conferma come in questo segmento del mercato occupazionale il reclutamento
avvenga in misura prevalente attraverso il sistema del “passaparola” e delle reti amicali,
prevalentemente con connotazione etnica.
La distanza delle lavoratrici straniere impiegate in questo settore dalle istituzioni e dalle
organizzazioni che operano nel mondo del lavoro non riguarda, però, solo l’intermediazione o,
comunque, l’avvicinamento fra domanda e offerta, ma sembra coinvolgere direttamente anche il
mondo sindacale. In qualche caso non sembra essere neppure chiaro il loro mandato:
Non sono mai andata perché ho sempre trovato lavoro tramite mia sorella e
la cerchia delle nostra amiche.
In generale, però, tale distanza è resa particolarmente evidente dal fatto che, più semplicemente, la
maggior parte (i due terzi) delle intervistate non ha mai messo piede nella sede di un’organizzazione
sindacale.
51
Una delle intervistate ha partorito e altre cinque si sono sottoposte ad interventi chirurgici nelle strutture sanitarie
della provincia.
52
Scuole dell’infanzia e dell’obbligo per i figli, ma anche corsi di formazione professionale o di lingua per gli adulti e
altre iniziative similari.
53
Centri per l’impiego, patronati, sindacati, associazioni e organizzazioni del terzo settore che hanno promosso servizi
dedicati,etc.
61
Più conosciute e frequentate, invece, le associazioni d’immigrati o che si occupano d’immigrazione
visto che la metà campione ha detto di esservi stata almeno una volta e, in alcuni casi, di andarvi con
una certa assiduità. Chiaramente anche in questo caso, potrebbe trattarsi ancora di una distorsione
dovuta alle modalità di selezione delle intervistate piuttosto che di una tendenza realmente operante
sul territorio. A prescindere da questo, però, ciò che preme evidenziare in questa sede sono le
modalità di fruizione degli spazi associativi.
Sono andata spesso, sia quando ho avuto bisogno di trovare un lavoro che
per avere informazioni sui corsi di formazione professionale. Quando voglio
saper qualcosa vado lì.
Ci vado spesso. Le prime volte andavo per capire che cosa dovevo fare per
mettermi in regola visto che in quel periodo ero clandestina. Una volta
risolto questo problema ho continuato ad andarci per cercare lavoro.
Tramite loro ho fatto le pratiche di ricongiungimento familiare per far venire
mio marito.
Sono andata una volta per cercare un lavoro pomeridiano, visto che mi ero
stancata di lavorare “a 24 ore” … Ma non l’ho trovato.
Sì, all’inizio andavo ad un’associazione di chiesa che dava da mangiare.
Dalle testimonianze emerge un tipo di fruizione marcatamente funzionale: le lavoratrici di cura
frequentano le associazioni quando hanno un problema da risolvere o necessitano di un qualche
servizio. Approcciano l’associazione con modalità da cliente/utente perché, prevalentemente, non
vedono in esse dei luoghi e degli spazi di partecipazione, ma delle agenzie erogatrici di servizi. Al
riguardo, però, anche nella provincia di Massa Carrara sembra che qualcosa stia cambiando
Per un periodo ho fatto volontariato in una casa di riposo. Andavo la
domenica, che era il mio giorno libero. Per me era un modo di passare il
tempo facendo qualcosa di utile. Da quando sono arrivate le mie figlie,
però, non sono più potuta andare.
Sì, frequento la chiesa di Aulla. Ci troviamo due volte la settimana.
Quando mi è possibile vado sempre perché mi fanno sentire
completamente a mio agio, anche se sono l’unica straniera.
Ho frequentato un circolo d’immigrati in passato. Si faceva da mangiare
e ci ritrovavamo tutti insieme. Mi piaceva, almeno fino a che non sono
cominciati a girare dei soldi ed hanno iniziato a prevalere gli interessi di
qualcuno. Allora ho abbandonato, sono uscita. Sono anche iscritta alla
Misericordia, per dare e ricevere aiuto.
62
No, non le ho mai frequentate perché non riesco a trovare il tempo.
Anche se l’idea di dedicarmi al volontariato mi è sempre piaciuta.
Da questo secondo gruppo di testimonianze, invece, sembrano emergere bisogni diversi rispetto ai
precedenti, che richiamano una modalità più partecipativa di fruizione degli spazi associativi, visti
come luoghi in cui esprimere un’identità culturale in una logica non rivendicativa, bensì centrata
sulla pubblica utilità. Il bisogno “di uno spazio dove in totale autonomia (le lavoratrici di cura N.d.A)
possano trattenersi in attività liberamente scelte” (Santoro, 53:2006), oltre a rispondere alle esigenze
di questo modo d’intendere il rapporto con l’associazione, sembra qualificarsi anche come un
antidoto al rischio d’isolamento e di reclusione all’interno delle reti etniche, specie se tali spazi
riusciranno a qualificarsi come luoghi d’incontro e di partecipazione in grado di fare proposte
attraenti non solo nei confronti delle lavoratrici di cura, ma anche verso la generalità dei cittadini.
2.6 La competenza linguistica
Ognuna si è costruita il suo metodo:
Mi è servito soprattutto guardare la tv. Inoltre mia sorella aveva un
dizionario e io ogni tanto lo leggevo. Avevo anche uno squadernino con le
parole italiane che imparavo. E poi quando non capisco sempre chiedo: cosa
vuol dire? Così imparo.
L’ho imparato soprattutto a forza di parlarlo, sul lavoro in particolare. La tv
no, a me non mi ha aiutata … Sì, ascolti, ma non puoi rispondere.
Cercavo le parole sul dizionario, leggevo ogni cosa mi capitasse fra le mani
e poi guardavo molta tv … Dagli anziani, invece, s’imparano tanti errori,
bisogna stare attente: loro parlano bene il dialetto.
All’inizio ho fatto un corso con le cassette. Poi sono andata al comune di
Aulla, dove c’era una signora che faceva un corso gratuito. Anche il
vocabolario è utile. E poi quando non si capisce bisogna sempre domandare.
Il primo tempo mi sono aiutata soprattutto con un libro bilingue, una pagina
in italiano e quell’altra in romeno. Leggevo e prendevo tanti appunti.
Le lavoratrici di cura intervistate l’italiano l’hanno imparato quasi tutte da autodidatte perché per
partecipare ad un corso occorrono soldi e anche tempo, due risorse che non abbandonano fra le
addette del settore. Anche chi lo ha fatto (cinque in tutto), inoltre, sostiene che
Il corso serve per imparare le regole di base, ma la lingua l’ho imparata
soprattutto guardando la tv e parlando
63
La strategie d’apprendimento sono le più svariate: praticamente ognuna se n’è costruita una su
misura, a partire dalle proprie capacità e preferenze. Gli strumenti, invece, sono sempre gli stessi per
tutti e fra questi a prevalere è la televisione 54 : a spingere molte di loro a trascorrere tanto tempo
davanti al tubo catodico facendone il principale strumento d’apprendimento sono anche le
condizioni, professionali e di vita, caratterizzate da una situazione di solitudine e marcato
isolamento.
Anche il luogo di lavoro, la casa della persona accudita, dal punto di vista dell’apprendimento
linguistico si tramuta sovente in una palestra in cui esercitarsi continuamente: se è vero, infatti, che
una lingua la si impara soprattutto praticandola, è inevitabile che proprio i momenti di dialogo con
l’anziano e i suoi parenti possano divenire preziose occasioni per migliorare la competenza
linguistica:
Lo parlavo già in convento, dove l’ho anche un pochino studiato. Ma penso
di averlo imparato abbastanza bene soprattutto con gli anziani: loro, infatti,
spesso sono un po’ sordi e si dimenticano le cose. Così ripetono tante volte
le stesse parole. E piano piano le impari.
Fig. 17 – Gli strumenti per l’apprendimento della lingua italiana
dizionario; 4
quaderno; 3
televisione; 12
leggendo; 4
corso d'italiano; 6
lavoro; 11
Fonte: Ns. Indagine Diretta
Il risultato finale, almeno per quanto riguarda il nostro campione, non è da disprezzare se è vero che,
secondo l’opinione degli intervistatori, il livello raggiunto è al di sopra della sufficienza
(“vocabolario povero ma utilizzo appropriato” è il giudizio che ricorre con più frequenza) in oltre in
54
Nulla di nuovo per un Paese come l’Italia che, almeno imparte, deve la propria omogeneità linguistica proprio ai
programmi televisivi popolari degli anni ’50 e ’60.
64
tre quarti dei casi. Probabilmente l’apprendimento della lingua, almeno fra le lavoratrici di cura della
provincia di Massa Carrara, è facilitato dalla comune radice latina fra l’italiano da una parte e lo
spagnolo e il romeno dall’altra, le due lingue madri maggiormente parlate fra le lavoratrici di cura
straniere di questo territorio. Qualche problema in più, invece, sorge nella capacità di passare da una
competenza linguistica sufficientemente funzionale rispetto a quanto richiesto dalle mansioni di cura
ad una piena proprietà della nuova lingua, un passaggio che anche le intervistate residenti da più
tempo in Italia faticano a fare se è vero che, sempre facendo riferimento alla valutazione degli
intervistatori, in soltanto due casi il giudizio è stato molto positivo (“vocabolario ampio e utilizzo
appropriato”). Probabilmente è proprio in tale fase che si evidenziano i limiti dello “apprendimento
autodidatta” e la necessità di percorsi formativi appropriati per accrescere proprietà di linguaggio e
capacità d’utilizzo della seconda lingua: una competenza linguistica non pienamente adeguata,
infatti, si rivela di frequente un ostacolo all’integrazione sociale e culturale nella nuova realtà, oltre a
limitare le possibilità di ascesa occupazionale visto che parlare bene l’italiano è un requisito
fondamentale per accedere alla maggior parte delle professioni.
2.7 Madri, figlie e mogli “a distanza”
Le migrazioni per lavoro di cura e domestico hanno, da sempre, la peculiarità di essere flussi
prevalentemente costituiti da donne sole, un elemento che li differenzia dalla generalità delle
migrazioni con movente economico le quali, invece, sono caratterizzate da uno spiccato
protagonismo maschile. Si tratta di un elemento di differenziazione dalle importanti ripercussioni sui
contesti di provenienza che ha proposto all’attenzione della sociologia delle migrazioni la questione
del c.d. “care drain”: con insistenza sempre maggiore ci si chiede, cioè, se, e in che misura, i servizi
di cura prestati dalle lavoratrici in Italia e in altri Paesi ricchi 55 sottraggano risorse affettive ed
assistenziali ai figli, ai mariti, ai genitori e, più in generale, alle famiglie rimaste nei Paesi d’origine.
La riflessione, e gli approfondimenti scientifici, nel nostro Paese si sono intensificati soprattutto a
partire dal 2003, successivamente alla grande regolarizzazione collegata alla legge “Bossi-Fini” che,
fra le varie conseguenze, ha avuto anche quella di far crescere la consapevolezza del ruolo che tali
flussi stanno giocando nel sistema di welfare italiano.
La questione si presta ad essere affrontata anche in un’ottica di genere: “gli stili di vita del Primo
mondo sono resi possibili da un trasferimento su scala globale delle funzioni associate al ruolo
tradizionale della moglie –vale a dire cura dei figli, gestione della casa e sessualità di coppia- dai
Paesi poveri a quelli ricchi. In termini generici e forse semplicistici, nella prima fase
55
Non solo occidentali visto che flussi consistenti di lavoratrici di cura sono diretti anche verso i Paesi del MedioOriente.
65
dell’imperialismo i Paesi del nord del mondo hanno attinto alle risorse naturali e ai prodotti agricoli,
per esempio gomma, metalli e zucchero, delle terre che conquistavano e colonizzavano. Oggi, ancora
dipendenti dai Paesi del terzo mondo per la manodopera agricola e industriale, i Paesi ricchi cercano
di attingere anche a qualcosa di più difficile da misurare e quantificare, qualcosa che può sembrare
assai prossimo all’amore”(Erenreich/Hoschild, 10:2004). Detto in altri termini, il paradosso
sottolineato da alcune studiose di estrazione femminista è che per alleggerire il “doppio carico” di
lavoro retribuito e lavoro domestico molte donne occidentali hanno dovuto ricorrere ai servizi di
altre donne, provenienti da Paesi meno ricchi.
E’ evidente che l’approfondimento della questione del “care drain” richiede indagini sia nel Paese
d’arrivo che in quello d’origine, un obiettivo che non è alla portata del presente rapporto. E’, invece,
possibile analizzare in modo abbastanza articolato la relazione che le lavoratrici di cura straniere
della Provincia di Massa Carrara mantengono con i contesti di provenienza, andando alla radice di
quell’acuta sensazione di solitudine che impregna la quotidianità di queste migranti e delle ragioni
della loro scelta di partire.
Il nodo centrale della questione, anche nel caso delle lavoratrici di cura dell’alta Toscana, è la
distanza da i figli rimasti in patria, condizione che accomuna oltre i due terzi delle intervistate.
Fig. 18 – I figli delle lavoratrici di cura rimasti in patria: ripartizione per classi d’età
6
6
10
6
1
4
0-5 anni
6-10 anni
11-15 anni
16-20 anni
21-25 anni
1
26-30 anni
oltre 30 anni
Fonte: Ns. Indagine Diretta
I figli che le addette intervistate hanno lasciato nel Paese d’origine dono 34 e in oltre la metà dei casi
sono adolescenti fra gli 11 e 20 anni (l’età media è 17,9 anni), la “stagione” del passaggio dalla
fanciullezza alla vita adulta. Ad occuparsi di loro sono più i nonni dei mariti, per quanto diverse
66
intervistate abbiano sottolineato un buon livello di partecipazione all’educazione dei figli anche da
parte dei padri rimasti in patria.
La bambina sta col padre e devo dire che sta bene. Anche se io e lui non
stiamo più insieme ti dico che come babbo è davvero bravo. Inoltre è un
ingegnere e ha un discreto stipendio, molto superiore a quello medio.
I figli stanno con mia mamma e mio marito … E’ un uomo un po’ ambizioso
lui, ma ci tiene che la gente lo consideri un bravo papà. Quindi non gli fa
mancare nulla.
Più raro, invece, il coinvolgimento di fratelli e sorelle, mentre capita che sia la sorella maggiore a
prendersi cura del/della minore, specie se fra i due la differenza d’età è abbastanza ampia
La bimba piccola sta con quella grande, che è sposata ed ha già un figlio.
Vivono insieme a casa mia, tanto a me non serve … Io sono qua. La grande fa
un po’ da mamma.
Come detto, però, la figura cui queste madri migranti delegano i carichi di cura ed educativi
maggiori è quella dei nonni (soprattutto materni), chiamati a vivere per la seconda volta la
genitorialità, spesso in età molto avanzata e in condizioni di salute non buona. Il loro è un ruolo
centrale, e ancora poco esplorato, sia nella vita dei figli rimasti in patria che in quella delle madri
espatriate per le quali costituiscono, al contempo, un agente educativo supplente, un legame affettivo
primario e un soggetto anch’esso bisognoso di cura. Le questioni poste dal fenomeno del “care
drain”, infatti, riguardano tanto la cura dei figli quanto quella degli anziani della famiglia, due
compiti tradizionalmente assolti dalle figure femminili del nucleo familiare.
Fig. 19 – La “presa in carico” dei genitori anziani delle lavoratici di cura
nipoti; 3
autosufficienti; 4
cognate; 2
fratelli; 5
sorelle; 3
Fonte: Ns. Indagine Diretta
67
Il ruolo dei fratelli e delle sorelle della lavoratrici di cura rimasti in patria , invece, assume rilevanza
nel caso dei compiti di cura e assistenza nei confronti dei genitori anziani. Con il supporto, però, di
una rete informale, costituita dagli altri congiunti più stretti, inclusi i nipoti adulti (soprattutto nel
caso convivano con i nonni) e le cognate.
Da quando è stata operata ad un rene, mia mamma si è trasferita da mio
figlio. Subito dopo le dimissioni l’ha aiutato anche mia cognata, ma ora è
soprattutto lui che assiste la nonna.
Mia mamma vive da sola, ma a poche centinaia di metri di distanza dai miei
fratelli e dalle mie cognate. In pratica viviamo tutti nello stesso quartiere. In
caso di emergenza, basta una telefonata e in meno di un minuto qualcuno di
loro è lì da lei. Quasi tutti i giorni vanno a visitarla.
Nella trama di relazioni che si ricostruisce attorno ai figli (ma anche ai genitori) successivamente
all’emigrazione, il ruolo materno assume connotazioni diverse ma non scompare: “le madri
emigranti delle famiglie transnazionali, anche a distanza, continuano a prendersi cura dei figli,
sforzandosi di rendersi presenti, di mantenere una comunicazione frequente, di assicurare supporto e
guida emotiva, coinvolgendo le risorse della famiglia allargata (dalle figlie più grandi, alle nonne,
alle zie …) ed eventualmente pagando a loro volta un aiuto domestico 56 ” (M.Ambrosini, 39:2004).
Nel caso delle “mamme a distanza” intervistate, è una presenza che si palesa soprattutto attraverso il
contatto telefonico, ma anche Internet è uno strumento sempre più utilizzato:
Sento tutti diverse volte la settimana. Le figlie le chiamo tutti i giorni, se
necessario anche più volte. Mia mamma, invece, la sento un po’ meno: ma
anche quando non ci sono cose particolari, almeno una volta a settimana
chiamo.
Tutte le sere chiamo. E’ il momento più bello della giornata. Facciamo un
po’ per telefono e un po’ per Internet, così risparmiamo. Ho appena fatto un
abbonamento che si paga poco.
I figli li chiamo anche due o tre volte al giorno. Spendo un sacco di soldi di
telefonate, lo so: a volte anche dieci euro al giorno. Ma almeno una volta la
settimana sento anche mia mamma. Mio papà è morto undici anni fa e lei
vive da sola … E’ vero che i miei fratelli abitano lì vicino, ma mi piace
farmi sentire.
Io chiamo solo una volta la settimana e parlo con tutti. Ma con mio figlio
sono quotidianamente in contatto attraverso internet. E’ comodo perché lui
studia ed è sempre al computer … E poi non si spende quasi niente.
56
Si tratta di una soluzione emersa in diversi casi di studio dedicati all’argomento. Nessuna delle lavoratrici di cura
della Provincia di Massa Carrara intervistate, però, vi ha fatto riferimento.
68
Fig. 20 – Frequenza dei contatti con i figli rimasti a casa
1
4
10
7
quotidiani
bisettimanali
settimanali
quindicinali
Fonte: Ns. Indagine Diretta
Quasi la metà delle intervistate chiama i figli almeno una volta al giorno e un altro terzo si fa
sentire due o tre volte a settimana. Ovviamente la frequenza dei contatti dipende anche dall’età dei
ragazzi: quando i figli hanno più di trenta anni e magari una vita autonoma, infatti, i contatti si
diradano leggermente assumendo una cadenza settimanale.
Più complesso, invece, il rientro a casa: il primo problema è costituito dalla distanza e dal costo,
questione particolarmente assillante nel caso delle lavoratrici di cura originarie dell’America
Centro-Meridionale. Il secondo è quello di trovare tempo: soprattutto per coloro che forniscono
assistenza continuativa ad anziani non autosufficienti, infatti, non è semplice assentarsi per lunghi
periodi. Poi c’è la questione dei documenti, il permesso di soggiorno in particolare: se non si è in
regola, impossibile partire.
Vorrei tanto tornare perché sono cinque anni che non vedo le mie figlie e
non puoi immaginare quanto mi manchino. Purtroppo, però, il mio vecchio
datore di lavoro non ha pagato i contributi e così sono ritornata clandestina.
E ora devo stare qui.
Il risultato è che fra una visita e l’altra passa, mediamente, un anno e mezzo. Ma sono più di un terzo
quelle che hanno incontrato i figli per l’ultima volta più di due anni fa, mentre quelle che possono
ritornare più di una volta l’anno sono meno di un quarto e tutte romene, per ovvie ragioni di
vicinanza geografica. Chiaramente la cadenza delle visite deve essere messa in correlazione non
69
solo con gli ostacoli che le rendono particolarmente difficoltose, ma anche con i ricongiungimenti: è
evidente, infatti, che l’esigenza e il desiderio di frequenti rientri si diluisce man mano che il nucleo
familiare si ricompone nel contesto d’arrivo.
A questo punto è necessario chiedersi se “ne è valsa davvero la pena”, ossia se le fatiche cui si
sottopongono quotidianamente le lavoratrici di cura, le privazioni affettive vissute dai figli e la
generale ristrutturazione di ruoli e compiti all’interno del nucleo familiare transnazionale siano o
meno un sacrificio accettabile alla luce dei benefici che ne conseguono. Poiché un tratto peculiare di
questi flussi è quello di essere prevalentemente orientati al sostegno economico dei congiunti rimasti
in patria, le rimesse inviate periodicamente a casa dalle lavoratrici posso essere un indicatore (per
quanto non eccessivamente raffinato) di successo del progetto migratorio.
Abbiamo, quindi, chiesto a ciascuna intervistata di provare una stima delle rimesse finanziarie che
mensilmente riesce a spedire ai propri congiunti, nella consapevolezza che si tratta di
un’informazione comunque sottostimata visto che non comprende le rimesse che i migranti inviano
sotto forma di beni materiali (vestiti, generi alimentari e via dicendo). Delle 22 lavoratrici di cura
che costituiscono il nostro campione, 16 hanno dichiarato d’inviare rimesse con cadenza abbastanza
regolare, 3 di non aver la necessità di farlo (si tratta di famiglie completamente ricongiunte che
quindi, non conservano particolari legami con il Paese d’origine) e altrettante di non essere in grado
di farlo pur desiderandolo.
Fig. 21 – L’importo delle rimesse delle lavoratrici di cura intervistate
5
5
4
4
3
3
3 3
no figli
figli
totale
2
2
1
6
6
6
1 1
0
meno di € 100
100 - 300
300 - 500
oltre 500
Fonte: Ns. Indagine Diretta
70
L’importo medio delle rimesse inviate mensilmente a casa dalle intervistate è di 293 euro. I due terzi
di loro spedisce una somma compresa fra i 100 e i 500 euro, ma vi è anche chi riesce a far arrivare
circa 800 euro e chi, come detto, per quanto lo voglia, non riesce a mandare neppure un centesimo.
Non posso mandargli niente perché non bastano nemmeno a me. Prima,
quando lavoravo un po’ di più, almeno cento euro al mese li riuscivo a
spedire, ma ora proprio non ce la faccio.
I principali destinatari, ovviamente, sono i figli. Il fatto che vivano ancora in patria o, invece,
abbiano raggiunto la madre a Massa Carrara costituisce, quindi, un fattore determinante della
propensione ad inviare rimesse: infatti la quota media mensile scende a 157 euro per le lavoratrici di
cura con famiglia completamente ricongiunta e sale a 325 57 per quelle con almeno un figlio rimasto
nel Paese d’origine.
Servono per mantenere mio figlio all’università e per comprare le medicine
di mia mamma, che sta poco bene.
Li usano per mangiare, per la scuola, gli mando anche i pacchi con i vestiti.
Invece la mamma ci compra medicine … Lei ha sempre la pressione alta.
Mi servono per costruire una casa: ho venduto quella che avevo prima e con
i soldi ho comprato il terreno. Adesso sto acquistando il materiale per la
costruzione. Ci vogliono tanti soldi. Per fortuna non devo spendere troppo
per la scuola dei bimbi: sono divorziata con figli a carico, quindi lo Stato mi
fa degli aiuti.
Fig. 22 – La destinazione delle rimesse inviate dalle lavoratrici intervistate 58
altro; 2
casa; 3
cure mediche; 6
sostegno alla
famiglia; 10
studi dei figli; 7
Fonte: Ns. Indagine Diretta
57
Nella media sono conteggiate anche le tre intervistate che non riescono ad inviare rimesse.
Chiaramente le rimesse inviate da ciascuna intervistata quasi mai hanno un’unica destinazione; più spesso, invece,
esse sono spese per una pluralità di scopi.
58
71
Come emerge anche dalle testimonianze, spesso le rimesse non sono vincolate ad una destinazione
precisa ma sono usate per “il sostegno della famiglia”, ossia per l’acquisto di generi alimentari e
vestiti, piuttosto che per il pagamento delle utenze di luce, gas e degli altri servizi di pubblica utilità.
Quando, invece, una destinazione precisa ce l’hanno, sono ancora i figli fungere da catalizzatori:
oltre un quarto delle volte, infatti, le mamme inviano i soldi per pagar loro gli studi, prevalentemente
universitari. La destinazione “cure mediche”, invece, riguarda i genitori anziani. In alcuni casi
limitati, poi, le rimesse servono per la casa, a volte da costruire, altre semplicemente da finire di
pagare. Mai, invece, l’investimento è a sostegno di attività produttive. Anche le lavoratrici di cura
straniere di Massa Carrara, quindi, sembrano allinearsi alla tendenza nazionale e internazionale: è
raro, infatti, che le rimesse vadano a finanziare l’apertura di piccole imprese o di qualunque altro
genere di attività economiche.
Complessivamente oltre i tre quarti delle intervistate sostiene che il benessere familiare è “almeno
leggermente” migliorato grazie alla loro emigrazione, mentre circa un terzo sono quelle che hanno
visto “sostanziali miglioramenti” nella qualità delle vita della propria famiglia.
Sono partito per aiutare mio figlio a sposarsi e perché volevo ristrutturare la
casa in cui vive mia mamma … Per il figlio è andato tutto bene visto che ora
vive con la sua famiglia ed è autonomo. Ma la mamma sta ancora in una
casa tutta rotta … per ripararla serve davvero una somma grossa … Loro
pensano che con i miei soldi si possa fare tante cose … ma purtroppo non è
così.
A dire la verità, purtroppo no. Da noi c’è il dollaro e la vita è molto cara.
Per alcune cose di più che in Italia.
Sì, perché i bimbi quando vedono una cosa che gli piace ora possiamo
comprargliela. Noi viviamo per loro.
Ma il prezzo pagato per far crescere, spesso di poco, il tenore di vita familiare è piuttosto alto e
riguarda soprattutto la dimensione affettiva e relazionale
Dal punto di vista materiale sicuramente non possono lamentarsi di niente …
Però stanno crescendo senza papà e mamma.
Una famiglia quando si divide non sta mai bene. Ma se parli dell’aspetto
economico allora sì, qua in Italia si guadagna molto di più che in Romania.
72
Cap. 3
Il punto di vista dei “testimoni privilegiati”
3.1 Uno sguardo complementare
I “testimoni privilegiati” sono quelle figure che, per la loro specifica collocazione, sono in grado di
offrire uno sguardo terzo, ma competente, sul tema oggetto d’indagine. Per quanto in via di principio
non debbano essere necessariamente professionisti del settore, nel caso presente si è fatto riferimento
esclusivamente a questa categoria di soggetti poiché in quest’ultimo capitolo ci si è proposti, da un
lato, di arricchire ulteriormente il quadro conoscitivo rispetto alle condizioni occupazionali e alla
situazione socio-culturale della lavoratrici di cura della Provincia di Massa Carrara, dall’altro
soprattutto di evidenziare criticità e punti di forza del sistema dei servizi e degli interventi
territoriali 59 e di abbozzare alcune possibili indicazioni operative per favorire l’integrazione di
questo specifico segmento di popolazione straniera.
Per questo, quindi, si è ritenuto d’individuare “testimoni privilegiati” che, a prescindere dalla
professionalità specifica, si collocano “dentro” tale sistema: nella fattispecie mediatrici interculturali,
operatori di sportelli per stranieri, assistenti sociali e assistenti domiciliari.
Prevalentemente si tratta di cittadini italiani ma non mancano gli stranieri, soprattutto nel settore
della mediazione interculturale, a conferma del fatto che per molti immigrati questo piccolo
segmento del mercato del lavoro è uno dei pochi che consente loro possibilità di ascesa professionale
e di uscita da situazioni di “segregazione occupazionale” e di costrizione in professioni scarsamente
qualificate e remunerate.
Lavorano nei servizi socio-sanitari pubblici e, in misura minore, in organizzazioni del terzo settore e
del volontariato che operano in regime di convenzione con gli stessi servizi pubblici. Nessuno,
invece, in strutture e/o progetti esclusivamente dedicate al lavoro di cura perché sembra non ne
esistano sul territorio 60 : la maggior parte è impiegato in strutture e servizi che si occupano in senso
generale d’immigrazione e al cui interno sono stati attivati servizi specificamente rivolti a questo
segmento di popolazione straniera. Qualcuno, infine, lavora nei servizi e interventi per la terza età ed
è a partire da questa prospettiva professionale che incontra e si confronta con la presenza di
lavoratrici di cura straniere.
59
Da intendersi in un’accezione ampia, includente non solo i servizi del pubblico, ma anche quelli del terzo settore e del
volontariato
60
Anzi, più di uno degli intervistati ne ha sollecitato la costituzione.
73
3.2 L’integrazione sociale delle lavoratrici di cura: nodi critici.
Il primo elemento di riflessione è che la lettura delle criticità in materia d’integrazione sociale fatta
dai testimoni privilegiati riproduce in modo abbastanza fedele quella dei lavoratori di cura: come
evidenzia la figura 23, infatti anche per loro è la solitudine il problema più acuto con cui si
confrontano le donne straniere impiegate in questo segmento del mercato del lavoro.
La convergenza fra i due punti di vista, quello delle protagoniste e quello dei testimoni privilegiati, è
un elemento di sistema, per nulla scontato 61 , da salutare positivamente perchè la percezione
condivisa delle criticità relative ad un problema sociale è sempre condizione necessaria, anche se
non sufficiente, per attivare i percorsi tesi alla sua soluzione.
Fig. 23 – Gli ostacoli all’integrazione sociale secondo il punto di vista dei testimoni privilegiati
9
9
8
7
5
6
4
5
3
4
3
2
1
0
convivenza con
accudito
Lavoro
Alloggio
Solitudine
Fonte: Ns. Indagine Diretta
Questo positivo elemento di sistema, però, non deve oscurare la pesantezza di una sensazione di
solitudine da cui si riesce ad allontanarsi solo temporaneamente e soltanto attraverso il ricorso alle
reti etniche: anche i testimoni privilegiati intervistati, infatti, sottolineano come il tempo libero,
quando non è trascorso al chiuso delle mura domestiche, è speso sempre in compagnia di parenti o
amici connazionali:
61
Soprattutto la letteratura in materia di sociologia dello sviluppo ha evidenziato, invece, una distanza frequente fra i
due punti di vista che, spesso, si riverbera con effetti distorsivi sugli interventi messi in atto (vedi Chambers, in
particolare “Whose Reality Counts?”, 1997, ITDG)
74
D’estate vanno al mare; d’inverno, invece, stanno sul lungomare di Marina
di Carrara. In entrambi i casi, comunque, frequentano soprattutto
connazionali, anche se chi è a Massa Carrara da molti anni ha anche amici
italiani.
Prevalentemente si ritrovano fra di loro, fra connazionali voglio dire: i
domenicani soprattutto a Marina di Carrara; i romeni, invece, qui a Carrara,
in Piazza D’Armi.
Qualche datore di lavoro si arrabbia perché trascorrono molto tempo al
telefono. Il fatto è che per loro il telefonino è una delle poche vie di fuga
disponibili. Un’altra è, appunto, la compagnia delle connazionali: in questa
professione, infatti, capita con una certa frequenza di perdere il lavoro.
Quando accade molte si sentono cadere il mondo addosso perché non
perdono solo il lavoro ma spesso anche la casa, visto che la maggior parte
vive con la persona accudita. Quasi tutte hanno qualche amica ed è naturale
che, in tali circostanze, si rivolgano a loro.
Non si tratta, ovviamente, di una problematica specifica della Provincia di Massa Carrara, bensì di
un problema connesso alle condizioni di vita di questo gruppo di migranti, evidenziatosi anche in
altri contesti, sia italiani che esteri. Ciononostante si deve sottolineare con preoccupazione come il
ricorso alla compagnia dei connazionali quale occasione pressoché unica di svago rispetto ad
un’estesa condizione di solitudine, fenomeno particolarmente acuto soprattutto nel caso delle donne
che arrivano in età matura 62 , possa finire con l’incentivare percorsi di chiusura comunitaria che,
certo, non sono il viatico migliore per un’equilibrata integrazione nel territorio.
Il secondo elemento di criticità, per numero di citazioni, segnalato dai testimoni privilegiati è la
convivenza con l’accudito.
Può esserci qualche problema soprattutto se c’è un’altra donna in casa
perché questa, a volte, si sente un po’ “usurpata” del ruolo di “regina” dello
spazio domestico.
A volte non è tanto la relazione in sé ad essere problematica, quanto le condizioni e il contesto entro
cui si sviluppa: il bisogno di lavoro di cura, infatti, è molto sentito non solo nei centri urbani ma
anche nei piccoli paesi delle aree montane, come quelli delle Apuane e dell’entroterra dell’alta
Toscana, dove la popolazione anziana raggiunge incidenze particolarmente elevate. Contesti
“poveri” di occasioni di svago per chi non è autoctono e poco servite dalla rete dei servizi di
trasporto pubblico
62
Per le quali, quindi, la condizione di lavoratrice di cura non è la prima tappa di un percorso di ascesa sociale, ma la
situazione professionale e umana entro cui si sviluppa la loro emigrazione.
75
Anche le distanze sono un problema: in Lunigiana vi sono molti paesini in
cui il servizio pubblico non arriva, così nelle ore libere del pomeriggio le
badanti non possono muoversi e sono costrette a rimanere in casa. Questa
vicinanza forzata fra accudito e assistente si riverbera inevitabilmente anche
sulla loro relazione che, in altre condizioni, probabilmente non avrebbe
risentito di alcun problema.
Altre volte, infine, è il “non detto” nella relazione fra anziano accudito e conginti a condizionare il
rapporto con la lavoratrice di cura:
Tante volte, anche fra noi colleghe, emerge la questione del razzismo degli
anziani. E’ vero a volte dicono parole brutte, pesanti. Ma l’origine di tutto
spesso è nel rapporto con i figli: da un lato vorrebbero che gli fossero più
vicini, dall’altro comprendono che non possono chiedere di più. E la badante
finisce spesso con il fungere da capro espiatorio: è quella che tiene lontani i
figli perché, se non ci fosse stata, anche loro, pur con fatica, sarebbero stati
maggiormente presenti. Comunque, anche se la causa non è il razzismo, per
queste donne, in certe occasioni, la situazione non è facile.
3.3 Lavoratrici di cura straniere e sistema dei servizi e degli interventi promossi nel territorio
Con “sistema dei servizi e degli interventi promossi nel territorio” si fa riferimento a tutti gli
interventi promossi in una determinata area, a qualunque titolo e da qualsiasi soggetto, ma in grado
di venire incontro ai bisogni delle lavoratrici di cura e non solo a quelli pubblici, o a “regia”
pubblica 63 , per quanto quest’ultimi costituiscano ovviamente la parte più significativa.
La valutazione generale dei testimoni privilegiati sull’adeguatezza o meno di tale sistema in ordine
alla capacità di dare risposta alle questioni poste dalla presenza delle lavoratrici di cura straniere
oscilla fra “l’abbastanza” e il “poco adeguato”, con una prevalenza del primo giudizio. Solo una
persona, invece, lo considera “inadeguato” e nessuna “molto adeguato”.
La moderazione delle opinioni espresse, a prescindere dalla declinazione positiva o negativa, si
spiega probabilmente, in primo luogo, con il fatto che i soggetti intervistati, proprio per la loro
qualità di “testimoni privilegiati”, non sono terzi rispetto a tale sistema, ma vi agiscono dal di dentro;
in altri termini ne sono attori, sia pure a diversi livelli di protagonismo.
Guardandosi indietro, al cammino fatto negli ultimi cinque anni, quasi tutti percepiscono segnali di
crescita nella capacità del territorio di dare risposta ai bisogni evidenziati anche da questa indagine 64 .
63
Ad esempio, quelli delle organizzazioni del terzo settore e dell’associazionismo che gestiscono servizi in convenzione
con enti pubblici.
64
Fa eccezione una sola testimonianza: “a me sembra che queste donne siano mandate allo sbaraglio, lasciate a sé
stesse insomma”.
76
Il giudizio, invece, diverge sull’intensità di tale crescita: per qualcuno “è stata evidente”, oppure
“abbastanza rapida”; qualche altro parla di “sistema molto migliorato”. Per altri, invece
L’attenzione alla situazione di queste lavoratrici è senz’altro cresciuta: il
Centro per l’Impiego di Aulla, ad esempio, ha attivato un servizio specifico
che sarebbe anche utilissimo se, però, le badanti lo frequentassero. Ma è
ancora poco rispetto alle necessità.
Non posso dire che le cose non siano migliorate: ad esempio, è cresciuta la
capacità dei diversi soggetti di “fare rete” e di lavorare in modo integrato.
Ma si va avanti ad un passo troppo lento.
Nello specifico i miglioramenti più significativi, secondo i testimoni privilegiati, hanno riguardato il
sostegno all’apprendimento della lingua italiana (indicata 8 volte) 65 attraverso l’accresciuta offerta di
corsi per adulti e le azioni di orientamento di tipo amministrativo e legale (6 indicazioni). Solo una
persona, invece, ha menzionato il “sostegno nella ricerca della casa” e nessuno l’area “lavoro”.
Il parere unanime, comunque, è che nell’immediato futuro dovrà essere profuso un impegno ancora
più intenso perché il bisogno di cura continuerà ad aumentare e, con esso, s’intensificheranno
ulteriormente i flussi delle lavoratrici.
Nello specifico lo sforzo di fantasia e d’innovazione cui sarà chiamato tutto il sistema, secondo i
testimoni privilegiati, dovrà concentrarsi soprattutto sulla promozione di modalità meno “informali”
d’incontro fra domanda e offerta di lavoro e sull’attivazione di percorsi di qualificazione
professionale di questo segmento di manodopera, straniera e non. L’ultimo paragrafo di questo
capitolo fa sintesi proprio delle indicazioni e soprattutto di alcune proposte operative emerse nel
corso delle interviste con i testimoni privilegiati.
3.4 Ricerca di lavoro e qualificazione professionale. Sintesi delle proposte di miglioramento
della rete dei servizi e degli interventi territoriali rivolti alle lavoratrici di cura straniere.
Anche per i testimoni privilegiati intervistati è quasi esclusivamente attraverso il passaparola
all’interno delle reti etniche o di colleghe che le lavoratrici di cura cercano, e trovano, lavoro.
Abbiamo chiesto, infatti, a ciascuno di classificare i canali66 attraverso cui avviene l’incontro fra
domanda e offerta di lavoro di cura straniero usando una scala di valore da 1 a 4 in base alla
frequenza di utilizzo. La figura 23 ne sintetizza i risultati.
65
Anche se, come evidenziato nel capitolo precedente, “l’apprendimento autodidatta” rimane quello prevalente almeno
fra le lavoratrici di cura intervistate.
66
Passaparola, associazioni d’immigrati, associazioni che lavorano con gli immigrati, Centri per l’Impiego.
77
Fig. 25 – I canali di ricerca di lavoro delle lavoratrici di cura secondo i testimoni privilegiati
40
35
30
25
20
15
10
5
0
passaparola
associazioni
d'immigrati
associazioni
che lavorano
con gli immigrati
Centri per
l'impiego
Ns. Indagine Diretta
Eppure sul territorio provinciale ci sono sportelli che svolgono anche questo tipo di servizio: se ne
occupa l’associazionismo, autonomamente o in convenzione con i servizi pubblici, e poi i centri per
l’impiego.
Ci sono gli sportelli promossi dalle associazioni e i centri per l’impiego.
Inoltre qualche immigrata si rivolge anche alle agenzie interinali, anche se
non tantissime perché la maggior parte di esse chiede il certificato d’idoneità
alloggiativa. Accade da quando, con le modifiche introdotte dalla “BossiFini”, è il datore di lavoro che deve garantire l’idoneità della casa della
lavoratrice di cura.
Per quanto riguarda i Centri per l’impiego, invece, la maggiore difficoltà è
di tipo linguistico: molte donne non riescono a leggere, e comprendere, il
significato degli annunci e a compilare il modulo per le autocandidature.
Tant’è che molte ritirano il modulo e vanno alle associazioni a farselo
compilare.
La situazione è percepita in modo leggermente diversa in Lunigiana, dove proprio il Centro per
l’Impiego, ha attivato recentemente un sportello specificamente rivolto al lavoro di cura:
E’ un servizio molto utile perché facilità l’emersione dal lavoro nero. Inoltre
gli operatori sono molto preparati professionalmente.
La fuoriuscita dall’informalità dell’incontro fra domanda e offerta di lavoro va di pari passo con la
necessità di una maggiore attenzione alla qualificazione professionale della lavoratrici di cura. Per la
maggior parte dei testimoni privilegiati, infatti, è su questi due aspetti che, nel breve-medio periodo,
dovrebbero concentrarsi con maggiore impegno le istituzioni locali e i soggetti del terzo settore e
78
dell’associazionismo in un sforzo di creatività diretto anche ad individuare risposte innovative a un
bisogno crescente. Alcune proposte, sia pure in forma abbozzata, sono emerse anche durante le
interviste
In primo luogo sarebbe necessario una sorta di “censimento”: conoscere quante
sono e dove. In modo da poterle mettere in rete. Mi rendo conto che è difficile
perché tante sono irregolari. Ma uno sforzo in questa direzione deve essere
fatto, altrimenti continueremo a lavorare con quelle poche che possono
muoversi alla “luce del sole” senza alcun problema.
Sarebbe opportuno che le lavoratrici di cura promuovessero un soggetto, non
saprei se un’agenzia o una cooperativa, esclusivamente dedicato al lavoro di
cura a cui le famiglie possono rivolgersi direttamente quando hanno bisogno
d’assistenza. Un soggetto, ovviamente, in cui sono impiegate lavoratrici
immigrate, anche se è importante che abbia il supporto dell’associazionismo e
dei sindacati.
Serve anche più formazione mirata. Penso all’assistenza sanitaria di base
perché, anche se può sembrare strano, fare delle medicazioni ha anche delle
implicazioni culturali. Lo stesso concetto d’igiene, ad esempio, non è uguale in
tutte le culture. E poi delle agenzie che erogano servizi di cura domiciliare,
composte sia da lavoratrici straniere che italiane.
Al riguardo in molti hanno sottolineato l’importanza di aver incentivato la partecipazione delle
lavoratrici di cura stranieri ai corsi per Operatori Socio-Assistenziali organizzati dalle Aziende
Sanitarie:
E’ importante che le immigrate li frequentino e imparino qualche nozione di
assistenza sanitaria di base, soprattutto per i datori di lavoro che, in questo
modo, si sentono più tutelati. E quindi tranquilli.
Li fanno, ma dovrebbero farne più spesso. Ne servirebbe almeno uno l’anno.
Corsi sicuramente più frequenti quindi, ma anche organizzati diversamente
Sono a pagamento e molte non possono permetterseli. Inoltre richiedono molto
tempo a disposizione e, quindi, non sempre sono accessibili a persone che
hanno carichi di lavoro molto pesanti. Invece dovremmo agevolare di più la
partecipazione delle badanti straniere: ad esempio diluendo i corsi in un arco di
tempo più lungo in modo da accorciare la durata delle singole lezioni.
Il passaggio successivo, poi, dovrebbe essere il riconoscimento della professionalità acquisita, a
garanzia tanto della lavoratrice, quanto della persona accudita
79
Servirebbe una sorta di albo provinciale, in cui possono iscriversi le badanti che
hanno seguito corsi di formazione mirati: ne guadagnerebbe tutto il sistema.
Non manca, infine, chi sostiene anche il bisogno di una maggiore diffusione sul territorio di sportelli
e iniziative d’informazione e orientamento rivolte alle lavoratrici di cura:
Bisognerebbe potenziare anche i servizi di consulenza legale e amministrativa.
Quelli che ci sono lavorano bene, ma sono pochi. Perché, ad esempio, non
pensare ad un intervento di questo tipo nella piazza sul lungomare di Marina di
Carrara e negli altri luoghi di ritrovo delle lavoratrici di cura?
80
NOTE CONCLUSIVE
La crescente migrazione di donne che lasciano Paesi poveri per inserirsi in una nicchia del mercato
occupazionale, quella appunto del lavoro di cura, di Paesi ricchi e caratterizzati da un’alta incidenza
di popolazione anziana, è senza alcun dubbio una migrazione di tipo economico: la partenza, infatti,
è una conseguenza della situazione di povertà o di bisogno vissuta in patria, seguita da una
valutazione, solitamente familiare, in ordine al componente che deve emigrare e al luogo in cui
andare. Come evidenzia anche il presente rapporto di ricerca, infatti, le c.d. “reti etniche
transnazionali” si dimostrano straordinariamente capaci sia di selezionare le informazioni utili che di
farle circolare fra i parenti e gli amici nei contesti di provenienza, sulla base delle quali, poi, questi
pianificheranno la migrazione: si spiega così, infatti, l’apparente contraddizione tra la diffusa
ignoranza delle lavoratrici di cura intervistate sulle caratteristiche generali del territorio in cui si
accingevano ad emigrare (molte non sapevano neppure dove fosse prima di emigrare) e il fatto che
tutte sapessero con precisione il lavoro che le avrebbe attese al loro arrivo.
Una domanda destinata a crescere. L’IRS ne ha stimate 620 mila in tutta Italia, noi fra le 47 e le
61mila in Toscana. Secondo l’INPS, la fonte ufficiale più qualificata in materia, in dieci anni (19952004) le lavoratrici domestiche regolarmente iscritte sono più che quintuplicate. La tendenza è quella
ad una crescita sempre più veloce per una miscela di motivazioni non difficile da comprendere: la
popolazione continua ad invecchiare (l’Italia è il Paese più anziano d’Europa), la “famiglia allargata”
è quasi scomparsa, le donne, un tempo loro malgrado depositarie di tutti i compiti di cura
nell’ambito del nucleo familiare, non sono più in grado di assolverli a causa dei crescenti carichi di
lavoro extradomestici mentre ancora stenta a diffondersi una diffusa cultura delle “pari
responsabilità” in famiglia. Il sistema sociale e culturale che per lungo tempo aveva consentito di
mantenere in ambito familiare la presa in carico dei componenti più fragili si sta rapidamente
sgretolando e i “policy maker” se ne sono resi conto con colpevole ritardo se è vero che il sistema
sanitario nazionale riesce a raggiungere a domicilio appena l’1% degli ultrasessantacinquenni contro
il 20% dei Paesi scandinavi, il 10% della Germania, e il 6% della Repubblica Ceca. Inevitabile, in
una situazione del genere, che la domanda di cura cresca, anche perché dall’altro lato, l’offerta è
ampia e a prezzo contenuto.
Segregazione occupazionale. Oltre i tre quarti delle intervistate, infatti, guadagnano meno di 900
euro al mese. Anche a Massa Carrara l’inquadramento contrattuale più diffuso sono le 25 ore
settimanali anche se poi, mediamente, ciascuna lavoratrice lavora circa il doppio (47 ore per la
precisione) perché la maggior parte di esse fa assistenza continuativa e abita in situazione di
“coresidenza”, ossia sotto lo stesso tetto dell’anziano accudito. Ce n’è già abbastanza per spiegare il
81
motivo per cui quella del lavoro di cura, soprattutto se “a 24 ore”, è divenuta una nicchia del mercato
del lavoro occupata quasi esclusivamente da lavoratrici straniere.
Una migrazione economica “peculiare”. Per una parte di esse, le più giovani, questa professione
rappresenta il primo gradino di un percorso di realizzazione professionale e sociale: di solito con un
livello d’istruzione medio-alto, appena possono cercano un’occupazione più gratificante, meglio
retribuita e che gode di maggiore considerazione sociale. Ma l’età media del campione delle
intervistate è di 40 anni e la classe più numerosa è quella che va dai 31 a 50 anni: in linea con quanto
evidenziato da altre indagini, insomma, i flussi per lavoro di cura, anche nella provincia di Massa
Carrara, sono costituiti prevalentemente da donne adulte, quando non mature, e con progetti
migratori, almeno nelle intenzioni, transitori e orientati prevalentemente all’investimento nel Paese
d’origine. Divise fra il luogo in cui vivono e quello in cui hanno lasciato i propri affetti,
diversamente dalle colleghe giovani non hanno una motivazione altrettanto forte ad affermarsi in
Italia e finiscono, quindi, con l’alimentare quella situazione di segregazione occupazionale,
evidenziata poco sopra, e quel sentimento di solitudine ampiamente descritto anche nelle
testimonianze riportate in questo rapporto .
L’età è solo una delle caratteristiche che rende questo genere di flussi peculiari nell’ambito delle
migrazioni economiche. Un’altra è quella di essere costituita da c.d. “pioniere”, ossia di essere
avviate da donne sole, contrariamente al marcato protagonismo maschile che caratterizza,
solitamente, i flussi migratori con movente economico. Il ricongiungimento familiare è solo una
possibilità, certo non remota, ma neppure una certezza, soprattutto nel caso di quelle più mature (e
magari con figli in età adolescenziale) provenienti dall’Europa Orientale.
I progetti migratori delle lavoratrici di cura. In ordine all’intenzionalità del progetto migratorio
dichiarato dalle intervistate, quindi, le migrazioni delle lavoratrici di cura, con qualche forzatura,
possono essere ricondotte a due profili prevalenti:
•
giovani donne, desiderose di realizzarsi professionalmente e socialmente in Italia, per le
quali il ricongiungimento familiare rappresenta un obiettivo quasi irrinunciabile, pena il
fallimento del progetto stesso, e il lavoro di cura solo un fase transitoria, legata alle esigenza
di mantenersi nel primo periodo dell’esperienza migratoria.
•
donne mature e “madri e mogli transnazionali”, il cui movente principale è quello di
guadagnare il più possibile per le esigenze dei congiunti rimasti in patria: cercano di
riempire la distanza che li separa da loro con il telefono, i pacchi regalo, i rientri purtroppo
non troppo frequenti e soprattutto le rimesse.
Il bisogno di “policy”
innovative. Si tratta quindi di flussi diversi, benché concomitanti,
accomunati dal fatto di collocarsi, almeno per un certo periodo, nella stessa nicchia occupazionale.
82
Che, quindi, domanderebbero interventi differenziati: soprattutto per il secondo profilo, infatti, il
problema non è solo legato alla mancanza di risorse per le politiche d’integrazione. Si tratta, invece,
di migrazioni con caratteristiche peculiari che chiedono ai decisori politici di confrontarsi con la
difficile sfida dell’innovazione: se è vero, infatti, che le lavoratrici di cura straniere hanno assunto un
ruolo centrale nel nostro sistema di welfare, è un’ovvia conseguenza la necessità di governare tali
flussi cercando un equilibrio fra il bisogno di cura delle famiglie italiane e quello di tutela delle
lavoratrici straniere. La riflessione al riguardo è appena agli inizi e, come capita di frequente, vede
coinvolti soprattutto gli enti locali, in quanto istituzioni quotidianamente a diretto contatto con i
cittadini e, quindi, meglio capaci d’intercettare bisogni e fenomeni emergenti.
Ma alcuni dei suggerimenti abbozzati dai “testimoni privilegiati”, se approfonditi e sperimentati,
potrebbero rivelarsi piste operative innovative in grado di venire incontro alle esigenze poste da una
presenza sempre più marcata anche nella Provincia di Massa Carrara. In particolare:
•
la promozione di percorsi di formazione professionale, riconosciuti e quindi spendibili sul
mercato del lavoro, quale strumento diretto a colmare le lacune e ad arricchire il bagaglio di
competenze delle lavoratrici di cura;
•
l’istituzione di una sorta di “albo delle lavoratrici di cura” o, comunque, di un sistema di
accreditamento della professionalità acquisita, pubblico e accessibile alle famiglie, a garanzia
sia della persona accudita che dell’operatrice;
•
la costituzione di agenzie di servizi dedicate al lavoro di cura, in cui sono impiegate
operatrici italiane e straniere, in modo da potenziare il potere contrattuale sul versante
dell’offerta;
•
la creazione di sportelli informativi decentrati nei luoghi pubblici d’incontro delle lavoratrici
di cura;
•
infine il potenziamento delle iniziative e dei contesti d’aggregazione per il loro tempo libero.
Analogo sforzo d’innovazione, ovviamente, sarebbe necessario anche sul lato della domanda di cura,
anch’essa sempre più fragile man mano che i bisogni d’assistenza per la popolazione anziana si
diffondono nella società italiana coinvolgendo anche i ceti sociali meno abbienti. In questa sede non
se ne parla semplicemente perché altro è il focus della presente indagine.
83
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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Tomei G., Rapporto Sociale Provincia di Massa Carrara, Massa Carrara, 2005.
84
Allegati
85
Il progetto migratorio
La scelta
Il contatto
Conoscenza
dell'Italia
Intervista 1 Motivazione
economica (casa)
Intervista 2 Motivazione
economica (sostegno
al figlio prossimo al
matrimonio).
Intervista 3 Problemi di salute.
cognata
Nulla.
Amica
Mediata dalla tv
Sorella
Nulla.
Intervista 4 Motivazione
economica.
Amiche
Mediata dalla tv e
dalle amiche.
Intervista 5 Motivazione
economica (far
studiare i figli).
Intervista 6
Motivazione
economica (costruirsi
una casa).
Intervista 7
Motivazione
economica (sostegno
ai figli).
Intervista 8 Motivazione di genere
(allontanarsi dal
marito)
Sorella
Nulla.
Amiche e
cugina
Conoscente
Soddisfazione
La prospettiva del
delle
progetto migratorio
aspettative
Nessuna
Rientro indeterminato.
aspettativa.
Abbastanza
Probabile trasferimento
soddisfatta
in Italia per tutta la vita.
Abbastanza
soddisfatta
Insoddisfatta.
Abbastanza
insoddisfatta..
Mediata dai
racconti di mia
cugina
Niente..
Il ricongiungimento
Già effettuato.
No, I familiari si oppongono.
In Italia tutta la vita..
Già effettuato (con le figlie).
Indecisa.
Già effettuato
Rientro indeterminato.
Interessata.
Abbastanza
soddisfatta.
Rientro
Già fatto
Abbastanza
soddisfatta.
Resto in Italia.
Interessata..
Amica
Niente
Abbastanza
insoddisfatta.
Resto in Italia.
Interessata.
Niente..
Abbastanza
insoddisfatta..
Rientro indeterminato.
No.
Mediata dai
racconti dei
conoscenti.
Abbastanza
soddisfatta.
Resto in Italia.
Interessata.
Intervista 9
Motivazione
economica (sostegno
ai figli).
Sorella
Intervista
10
Motivazione
economica (sostegno
alla famiglia).
Conoscenti
Intervista
11
Motivazione
Congregazione
economica.(migliorare religiosa
la propria situazione)
Intervista
12
Motivazione
economica (sostegno
alla figlia)
Induzione con la
violenza (tratta per
sfruttamento della
prostituzione).
Intervista
13
Intervista
14
Intervista
15
Intervista
16
Sorella
nessuno
Motivazione
Amica
economica (sostegno
alla famiglia).
Motivazione
Conoscenti
economica. (sostegno
alla famiglia, scuola
per i figli),
Motivazione
economica (sostegno
alla famiglia)
Conoscenti
Niente..
Soddisfatta.
Resto in Italia..
No,
Mediata dai
racconti di mia
sorella.
Niente.
Insoddisfatta.
No,
No,
Nessuna
aspettativa.
Rientro indeterminato.
Sì.
Mediata dalla tv.
Abbastanza
soddisfatta.
Rientro
Interessata..
Mediata dai
racconti di amici e
conoscenti. .
Abbastanza
insoddisfatta..
Rientro..
No.
Mediata dalla tv,
Abbastanza
soddisfatta.
Rientro,
No,
Intervista
17
Motivazione
Sorella
economica. (sostenere
i figli negli studi).
Mediata dai
racconti della
sorella,
Soddisfatta.
Resto in Italia
No
Intervista
18
Motivazione
Sorella
economica e culturale.
Mediata dai
racconti della tv e
della sorella.
Insoddisfatta.
Resto..
Noui
Mediata dalla tv e
dai racconti di mio
fratello..
Mediata dai
racconti della
sorella.
Soddisfatta.
Rientro,
No.
Soddisfatta.
Non sa.
No.
Intervista
19
Motivazione
economica (la casa).
Fratello
Intervista
20
Motivazione
relazionale (stare
vicino alla sorella).
Sorella
87
Intervista
21
Motivazione
economica (sostegno
alla famiglia e agli
studi della figlia)..
amiche
Mediata dalla tv..
Soddisfatta..
Rientro..
No.
Intervista
22
Motivazione
economica (sostegno
alla famiglia).
cognato
Mediata dai
racconti del
cognato.
Soddisfatta.
entrambi uno
stipendio.
Non sa..
Interessata
88
Il lavoro
Intervista 1
mono/pluricommittenza Contratto:sì/no Orario
Orario effettivo Stipendio
contrattuale
(settimanale)
Monocommittenza
sì
25 ore
10 ore
400 euro
Altri lavori in
Italia
Soddisfazione disponibilità al
cambiamento
Nessun altro
Moderata.
No,
Moderata.
No,.
Intervista 2
Monocommittenza
sì
20 ore
30 ore
600 euro
lavapiatti
Intervista 3
Monocommittenza
sì
25 ore
77 ore
500 euro
Nessun altro
Alta.
No,
Intervista 4
Monocommittenza
sì
25 ore
50
850 euro
Nessun altro
Moderata.
No,
Intervista 5
Monocommittenza
no
Senza
contratto
63/70 ore
725 euro
Nessun altro.
Alta.
No
Intervista 6
Monocommittenza
no
Senza
contratto
50 ore
700 euro
Nessun altro
Moderata.
No,
Intervista 7
Pluricommittenza..
si
25 ore
60 ore
900 euro.
Operaia
Moderata.
Sì.
Intervista 8
Pluricommittenza.
sì
25 ore
Non quantifica
1.700
euro
Cameriera
Moderata.
Sì.
Intervista 9
Monocommittenza.
sì
25 ore
Non quantifica
800 euro
Nessun altro
Moderata.
No,.
Intervista 10
Monocommittenza
sì
25ore
Non quantifica
600 euro
Cameriere
Insoddisfatta..
Si.
Intervista 11
Monocommittenza
sì
25 ore
Non quantifica
800 euro
Nessun altro
Alta..
No
89
intervista 12
Monocommittenza
no
non ho
contratto
lavoro 42 ore
560 euro
Nessun altro
Moderata
Si,
Intervista 13
Monocommittenza
si
25 ore
Non quantifica
700 euro
Pulizie nelle
famiglie
Alta
Sì,
Intervista 14
Monocommittenza
si
25 ore
50 ore
800 euro
Nessun altro
Moderata
No
Intervista 15
Monocommittenza
no.
20 ore
30 ore
600 euro
Nessun altro
Moderata
Si,
Intervista 16
Monocommittenza
no
non sa
50 ore
800 euro
nessun altro
Moderata.
No,
Intervista 17
Pluricommittenza.
sì
25 ore
Non quantifica
1.200
euro
nessun altro
Alta..
No
Intervista 18
Monocommittenza
si
40 ore
Non quantifica
1.000
euro
Nessun altro
Moderata.
No
Intervista 19
Monocomittenza
sì
25 ore
25 ore.
600 euro
Nessun altro
Moderata.
Sì.
Intervista 20
Monocommittenza
no
55/66 ore
850 euro
al mese
Nessun altro
Moderata.
No
Intervista 21
Monocommittenza.
si
Nessun
orario
concordato.
25 ore
50 ore
850 euro
Nessun altro
Moderata.
No
Intervista 22
Monocommittenza.
sì
40 ore
40 ore
80euro
Nessun altro
Alta
No,
90
Il rapporto con il Paese d'origine
Familiari a
casa
Intervista 9 fratelli
1
Intervista 2 figli, di cui
2
uno già
sposato e
uno di 27
anni che
vive con la
nonna
cura dei figli età dei
genitori
****
deceduti
la nonna
materna
83 anni
mamma
papà
deceduto
Intervista i genitori
3
****
Mamma 83
Papa 79
Intervista 1 figlio
4
mamma
fratelli
nonna
mamma 69
Intervista 3 figlie
5
mamma
fratelli e
sorelle
sorella
mamma 83
cura dei
genitori
frequenza
telefonate
condizioni della
famiglia dopo
l'emigrazione
****
non quantifica
ogni 2/3 anni
100 euro al
sostegno
sostanzialmente
(ogni tanto)
mese
familiare
uguali
mio figlio minore 2 volte a
quando si può non una
Per aiutare Mio figlio ha potuto
(si aiutano
settimana
(non
cadenza e una
mio figlio a farsi una famiglia,
reciprocamente)
quantifica)
somma fissa … sposarsi;
per lui la situazione
quando servono Per
è migliorata; mia
e si può
ristrutturare mamma, invece,
la vecchia
vive con pochi soldi
casa di mia di pensione ed ha
mamma
un sacco di spese.
Loro pensano che
con i miei soldi si
possano fare un
sacco di cose, ma
non è così
I miei fratelli (13) Tutti i giorni (ho ogni 2 anni
70 euro
Per
Beh sì. Almeno
abitano tutti
fatto anche un
(sto là 10
comprare le possono curarsi
nelle vicinanze
contratto omnitel giorni)
medicine
ad hoc per
(mamma
spendere meno
con
pressione
alta, papà
diabetico)
cognata
una volta la
ogni 3 anni più 400 euro
studi
No perché da noi
figlio
settimana con
o meno
universitari c'è il dollaro e la
(reciprocamente) mio figlio contatti
figlio
vita è cara.
quasi quotidiani
medicinali
via Internet
mamma
sorella
ogni sabato (…
ogni 5 anni
sì, quando
scuola per
Prima sì, erano
se ho i soldi per
lavoro sì … sia
figlie;
migliorate. Ma ora
la scheda
alle figlie che a
medicinali
sono nuovamente
telefonica)
mamma. Ma non mamma;
disoccupata …
sempre lavoro
sostegno
purtroppo
familiare
91
frequenza
visite
rimesse
finalità
rimesse
Intervista mamma
6
***
mamma 60
è autonoma. Se
ha bisogno
chiama mia
sorella o mia
nipote
2/3 volte a
settimana
ogni 6/8 mesi
Intervista figli 2
7
marito,
nonna
materna
mamma 60
fratello
almeno una volta una volta
la settimana
l'anno
Intervista figlia
8
mamma
fratello
padre (anche mamma 64
se sono
(ha un
separati).
tumore)
Come padre
è bravo, è un
ingegnere ed
un buon
stipendio
sorella
Intervista figlie (2)
9
mamma
babbo
nonni paterni mamma 65
babbo 58
sono
autosufficienti.
Intervista figlio
10
marito
fratelli
marito,
deceduti
***
Intervista Fratelli
11
***
****
***
100 euro al
mese
medicine
medicine
per la
mamma (ha
la pressione
alta);
scuola e
sostegno ai
figli
figlia tutti i giorni ogni 3 anni più 200 euro al
Non so.
mamma una
o meno
mese. Più
Non credo
volta a settimana
qualche soldo in che i soldi le
più una tantum. servano a
E diversi pacchi. molto, il
babbo già
guadagna
molto.
Comunque
è lui che
decide
le figlie quasi
1 volta l'anno
500/600 euro
scuola.
tutti i giorni
alle figlie. Inoltre Sostegno
mamma, una
mando pacchi
familiare
volta a settimana
con vestiti
ai miei genitori
spedisco i
detersivi
tutti i giorni
una volta ogni 400 euro
sostegno
6 mesi
familiare
spesso … una
volta la
settimana
92
due anni
200 euro al
mese ai figli.
Ogni tanto
qualcosa anche
alla mamma e
pacchi vestiario
ai figli
no
****
sì, lei non potrebbe
comprarsi le
medicine perché ha
perso il lavoro
l'anno scorso.
certo, adesso
posono permettersi
qualche agio in più.
Qua 100 euro
durano un attimo,là
tantissimo
Grazie al padre mia
figlia stava già
bene. Certo, ora sta
un po' meglio.
si stanno meglio.
Ora si possono
cambiare i mobili di
casa.
sì, perché i bimbi
quando vedono una
cosa che gli piace
ora possiamo
comprargliela. Noi
viviamo per loro.
****
intervista figlia
12
genitori
nonna
nonni
materni (il
padre è
morto)
***
mamma 55 sorella
papà 60 (ha
avuto un
infarto)
mamma 60 non so … è
tanto che non la
sento, non so
come sta
ogni 2/3 giorni
(grazie ad
un'offerta
vodafone)
fratello ogni 2/3
settimane
Intervista figli (3)
14
marito
marito
(…)
****
Intervista figli (2)
15
genitori
nonni
materni
mamma 63
papà 58
sono
autosufficienti.
tutte le sere (per
telefono e
internet). Ho
fatto un
abbonamento
che si paga poco
tutti i giorni per
ogni 6 mesi
telefono
Intervista figlio
16
marito
è autonomo
(ha 27 anni)
deceduti
****
2 o 3 volte la
settimana
Intervista figli (3)
17
genitori
due sono
autonomi. I
nonni si
prendono
cura del
piccolo
****
papà 72
mamma 70
Nipoti grandi
(hanno 27 e 24
anni)
figli tutti i giorni
una volta
genitori una volta l'anno
la settimana
600 euro.
Studi
universitari
figlia
sostegno
familiare
mamma 50
anni (papà
deceduto)
fratelli
mamma tutti i
giorni
due volte
l'anno
200 euro
sostegno
familiare
un po' forse sì.
Hanno qualche
soldo in più
stanno migliorando
… con la casa
saranno molto
migliorate
Forse un po' sì.
Hanno più soldi per
comprare da
mangiare.
Intervista mamma
13
fratelli
Intervista mamma
18
fratelli
suoceri
1 volta l'anno
no, purtroppo
non posso
****
****
mai tornata a
trovarli
(arrivata
definitivamente
nel 2005)
Ogni 3 mesi
ultimamente sì,
a mio fratello
perché ha
qualche
problema
si, quasi tutto ciò
che guadagno.
Circs 800 euro
al mese
studi di mio
fratello
spero, ma non so
sostegno
familiare
si, stanno meglio
500 euro
sostegno
familiare
(mutuo)
studi dei figli
sostegno
familiare
finanziariamente sì,
affettivamente … gli
mancano i genitori
1 volta l'anno
200 euro al
mese
Intervista figlie (4)
19
mamma
mamma
fratelli
mamma 58
papà 59
solo autonomi
2/3 volte la
settimana
1 volta l'anno
500 euro
costruire la
casa
Intervista figli (3)
20
sono
autonomi
deceduti
***
2/3 volte la
settimana
ogni 4 anni
50/70 euro ai
figli.
100
euro al mese a
mio fratello
piccolo
sostegno
familiare
93
si stanno meglio.
Ma vogliono
sempre di più, da
noi costa tutto di più
Molto migliorate. I
figli non avrebbero
mai potuto studiare
senza i miei soldi.
Intervista figlie (2)
21
mamma
la figlia
grande si
prende cura
di quella
piccola
mamma 59
anni
Intervista figli (3)
22
mamma
nonni paterni mamma 60
anni
Fratelli
cognate
i figli anche 2 o 3 1 volta l'anno
volte al giorno.
Mamma una
volta la
settimana
425 euro
studi
universitari
alla figlia
sostegno
familiare
fratello
tutti i giorni sia
figli che mamma
300 ai figli
125 a mamma
scuola per i
figli;
sostegno
familiare
94
1 volta l'anno
Economicamente
sì: guadagniamo
molto di più. Ma
una famiglia,
quando si divide,
non sta mai bene.
Molto. Adesso le
spese quotidiane
non sono più un
problema
L'integrazione sociale/1
Il rapporto con la famiglia
dell'accudito
Intervista Bello, andiamo molto
1
d'accordo. Altrimenti l'avrei
lasciata
Intervista Mi trovo bene … Ma se torna
2
la ragazza che sto
sostituendo, dovrò
andarmene
coresidenza o casa
autonoma
Autonoma
Coresidenza
Abiti da
sola?
Numero vani
sistemazione
abitativa
con la mia
famiglia
5
********
1
Intervista Me lo faccio andar bene. Il
3
signore è sempre nervoso,
ma io sopporto e non me la
prendo con nessuno.
Autonoma
Sola sì. Mi
riposo,
voglio la mia
libertà, non
voglio
nessuno.
6
Intervista Buon rapporto, c'è dialogo.
4
Mi trovo bene
Coresidenza (nei giorni di
lavoro) casa autonoma i
festivi
Quando non
lavoro abito
con la mia
famiglia;
altrimenti
dall'anziano
6 + orto/giardino
95
Affitto? (canone e
contratto)
Conoscenza
Modalità di
della lingua
apprendimento
(secondo
l'intervistatore)
contratto regolare. Vocabolario
Soprattutto guardando la
505 euro al mese povero ma utilizzo tv. Inoltre mia sorella
appropriato
aveva un dizionario e io
ogni tanto lo leggevo.
Avevo anche un
squadernino con le
parole italiane che avevo
imparato. E poi quando
non capisco chiedo:
"Cosa vuol dire?". Così
imparo.
****
Vocabolario
L'ho imparato soprattutto
povero ma utilizzo parlandolo, sul lavoro e
appropriato
con la gente. La tv mi
aiuta poco … perché
non posso rispondere
contratto regolare. Vocabolario
L'ho imparato ascoltando
220 euro al mese povero ma utilizzo e parlando, soprattutto al
appropriato
lavoro. La tv non mi ha
aiutato perché non la
guardo: la sera non ce la
faccio, sono troppo
stanca e mi addormento.
contratto regolare Vocabolario
Cercavo le parole sul
470 euro al mese povero ma utilizzo dizionario, leggevo ogni
appropriato
cosa e guardavo molto
la tv … Dagli anziani non
s'impara molto: loro
parlano il dialetto.
Intervista Il rapporto era molto buono,
5
con me erano gentili e anche
i bambini educati … peccato
che non mi hanno pagato i
contributi e ora sono
clandestina
Coresidenza (dormivo in ***
cantina, era brutto, era
freddo e il tetto era basso)
1
***
Vocabolario
Guardando la tv e se
povero ma utilizzo non capivo domandavo
appropriato
cosa voleva dire una
parola, non ho mai
frequentato corsi per
stranieri
Intervista La signora ha problemi di
6
deficienza mentale … Il
rapporto è quello che può
essere. Con i figli e le mogli
parlo soprattutto di cose di
lavoro, ma mi sento
rispettata. Se io non parlo,
lei (la figlia) non parla.
Intervista
Ho un bellissimo rapporto
7
con loro … Una volta
volevano persino portarmi in
vacanza con loro, a Roma.
Poi non sono andata perché
dovevo rimanere qui con
un'amica.
Autonoma
marito
6 + piccolo
Contratto regolare Vocabolario
giardino (abbiamo
300 euro
povero ma utilizzo
fatto dei lavori di
appropriato
ristrutturazione a
nostre spese,
anche se siamo in
affitto)
Autonoma
sola
4 + cantina
Contratto regolare Vocabolario
Parlando con le persone,
250 euro
povero ma utilizzo guardando la tv. E poi
appropriato
leggo molte riviste.
Intervista Ho un rapporto molto bello,
8
è come se fosse mia sorella:
parliamo di tutto e mi sento a
casa mia.
Autonoma
sola
6 + ampia
terrazza
Contratto regolare Vocabolario
400 euro
ampio e utilizzo
appropriato
96
Da sola, sono andata
a scuola d’italiano, ho
preso la patente,
leggevo il dizionario e
quello che non capivo
chiedevo
Ho cercato di
imparare da sola, poi ho
conosciuto persone che
mi hanno aiutata, come il
parroco di Aulla che mi
ha portata da una
maestra per imparare
l’italiano. Ho letto molto,
tutti libri di chiesa che mi
dava il signore dove
lavoravo la prima volta.
La tv poco, non ho
tempo
Intervista L'anziano e i nipoti sono in
9
gamba. Il figlio invece non si
vede più: credo abbiano
litigato
Coresidenza
****
1
***
Intervista Molto bene, è una famiglia
10
per bene.
Coresidenza
***
1
***
Intervista Ho un bel rapporto
11
soprattutto con la cugina
della signora. In generale,
comunque, mi trovo bene:
non mi trattano come una di
colore.
Coresidenza
intervista Un bel rapporto. Ancora
12
adesso, pur non lavorando
più con loro, continuo a
frequentarli
autonoma
Intervista Bene, c'è un bel dialogo
13
coresidenza
***
con mio
figlio
1
3 + giardino con
orto
***
1
97
***
Vocabolario
Scrivevo e traducevo
povero ma utilizzo le parole rumene in
appropriato
italiano, guardavo la tv,
chiedevo cosa significa
se non capivo una
parola e piano piano un
po’ ho imparato
Vocabolario
L’ho imparato subito
povero ma utilizzo perché all’inizio ho
appropriato
lavorato con un anziano
religioso e leggevo libri
di chiesa e in due
settimane ho imparato
subito
Vocabolario
Lo parlavo in
povero ma utilizzo convento, l’ho studiato e
appropriato
praticato con gli anziani,
loro ripetono tanto e mi
ha aiutato a imparare
non ho contratto, Vocabolario
pago 150 euro più povero ma utilizzo
le spese
appropriato
domestiche che
ancora non mi
hanno quantificato
***
All'inizio ho fatto un
corso con le cassette.
Poi sono andata al
comune di Aulla dove
c'era una signora che
faceva un corso gratuito.
Anche il vocabolario è
utile. E poi, quando non
si capisce, bisogna
sempre domandare.
Vocabolario
Soprattutto guardando la
povero ma utilizzo tv e parlando.
appropriato
Intervista Bene. Parliamo abbastanza.
14
Per loro non conta il fatto
che io sia romena
Intervista Buono. Mi trattano bene
15
coresidenza
autonoma
***
1
***
Vocabolario
Inizialmente leggendo un
povero ma utilizzo libro bilingue (in romeno
appropriato
e in italiano) e
prendendo appunti. Poi
anche guardando la tv.
marito
3
hanno fatto un
contratto a nome
di un altro uomo,
non di mio marito
(subaffitto)
Vocabolario
Con il vocabolario, ma
povero ma utilizzo anche guardando la tv e
appropriato
soprattutto parlando
***
1
***
Vocabolario
Lavorando e guardando
povero ma utilizzo la tv
appropriato
Intervista Erano bravi, anche se mi
16
pagavano poco e con me
non parlavano molto.
Quando sono andata via ho
pianto.
Intervista Benissimo. Li considero la
17
mia famiglia
coresidenza
Intervista Un buon rapporto. Mi
18
lasciano tempo da dedicare
alla mia famiglia
coresidenza (insieme al
marito e al figlio)
***
1
***
Vocabolario
ampio ma utilizzo
non appropriato
Intervista E' ottimo, sia con l'anziana
19
che "guardo" che con la sua
famiglia. Sono molto gentili.
Comunque in Italia non ho
mai avuto esperienze
negative
Intervista Era ottimo. Mi trattavano tutti
20
con rispetto e affetto: sia
l'anziano che i suoi familiari.
coresidenza
***
1
***
Vocabolario
povero e utilizzo
non appropriato
coresidenza
***
1
***
Vocabolario
povero e utilizzo
non appropriato
Autonoma
sorella
4 vani
98
contratto regolare Vocabolario
500 euro al mese ampio e utilizzo
appropriato
soprattutto guardando la
tv
Appena arrivata qua ho
fatto un corso d'italiano.
Ma la lingua l'ho
imparata soprattutto
guardando la tv e
lavorando
Un po' guardando la tv,
ma soprattutto
esercitandomi al lavoro
… parlando insomma.
Ascoltando mia sorella
… e soprattutto sua
figlia. E' bravissima in
italiano.
Intervista Che dire? Entrambe le
21
persone che assisto non
possono parlare per
problemi di salute. Ho un
ottimo rapporto con i loro
familiari.
Intervista Mi trovo bene. Sono gentili e
22
pagano con puntualità.
Coresidenza (nei giorni di
lavoro) casa autonoma
(nei festivi)
marito
(quando non
lavoro)
4
Coresidenza
marito (nella
stessa casa
dell'accudito)
1
99
contratto regolare Vocabolario
325 euro
ampio ma utilizzo
non appropriato
***
Piano, piano. Ho
imparato molto sul
lavoro, grazie alle
correzioni degli assistiti e
dei loro familiari. E poi
guardando la tv. La
prima volta che sono
venuta in Italia avevo
anche un dizionario. Ma
l’ho lasciato a casa, non
mi serve più. Anche il
romeno è una lingua
latina, per noi non è
difficilissimo imparare la
vostra lingua.
Vocabolario
Ho fatto un corso
povero ma utilizzo d'italiano, appena
non appropriato
arrivata. Per acquisire le
basi.Col tempo,
parlando, sono
migliorata molto.
L’integrazione sociale/2
Rapporto con i servizi del territorio
frequentazione associazioni
Intervista 1
Sanità 1(vado all'ospedale quando mi
sento male); Formazione 0; Lavoro 0
Immigrazione 0
No, so dov'è il sindacato. Ma Il poco che ho lo spendo a
non m'interessa
casa mia, in famiglia. C'è
frequentarlo.
sempre qualcosa da fare.
Intervista 2
Sanità1; Immigrazione 1; Lavoro 0;
Formazione 0.
Casa Betania. Sono andata una
volta per cercare lavoro ma non
ho avuto fortuna: ne cercavo uno
ad ore perché mi sono stancata
di lavorare "24 ore". Ma non l'ho
trovato
Casa Betania. Per cercare
lavoro.
No.
Sto da sola, soprattutto a
casa. Avrei tempo libero, ma
ho solo un'amica che, però,
vive a Forte dei Marmi ed è
troppo lontano per andarla a
trovare. Poi ho paura. Non mi
piace conoscere gente, troppa
paura.
Intervista 3
Sanità 4 (mi hanno operata all'ospedale
e da allora all'Asl sono di casa, ci vado
tutti i giorni); Formazione 3 (Ho fatto un
corso OSA e le mie figlie frequentano la
scuola); Lavoro 1 (sono stata al centro
per l'impiego, mi sono fatta aiutare nella
compilazione dei moduli per il rinnovo
del permesso di soggiorno);
Immigrazione 1 (ricerca lavoro per mia
figlia)
Sanità 3 (sono stata all'ospedale e l'asl
dal dentista e dal cardiologo);
Formazione 3 (ho fatto corso OSA,
corso d'italiano e i figli vanno a scuola)
Lavoro 2 (sono stata al centro per
l'impiego, ma non mi hanno trovato
lavoro, e al sindacato); Immigrazione 1
(sono stata ad un agenzia -??- che mi
ha trovato lavoro)
Ho fatto volontariato in una casa
di riposo per anziani, la
domenica. Lo facevo per
passare il tempo la domenica.
Da quando sono arrivate le mie
figlie non lo faccio più
Sì, per farmi aiutare nella
compilazione dei moduli per
il rinnovo del soggiorno di
mia figlia.
Il giorno libero è la domenica.
Mi alzo alle 4 e vado a correre.
Poi faccio ginnastica (ho una
macchina per fare gli esercizi).
Dopo faccio le pulizie. Poi
vado da mia figlia: mangio lì e
passo lì tutta la giornata.
No
Sono stata una volta per una
consulenza riguardo ha mio
marito: ha lavorato tutta
l'estate e non è stato
pagato: ancora non ha
risolto e non ha avuto i soldi.
Il datore di lavoro non si
trova più, ha rubato tutto!
Sabato e domenica sono i
giorni liberi, sistemo la casa,
faccio da mangiare per la
settimana, vado da mia
sorella, sto con i miei figli, non
si può andare in giro perché
servono i soldi!
Intervista 4
100
frequentazione sindacati
Il tempo libero
Intervista 5
Sanità 0, Formazione 0, Lavoro 0 (sono No
stata una, ma a Vicenza, non qui),
Immigrazione 0
No
Intervista 6
Sanità 4 (sono stata operata);
Formazione 3(corso OSA e diploma di
livello europeo per operatrice sociosanitaria); Lavoro 1 (colloqui di
orientamento al lavoro); Immigrazione 0
Intervista 7
Formazione 2 (ho fatto un corso per
No, non so dove abbiano la
cameriera e poi la scuola guida); Lavoro sede. Non vado molto in giro,
1 (sono stata all'ufficio di collocamento); sono un po' chiusa.
Immigrazione 0 (non so dove sono le
associazioni); Sanità 0.
No.
Esco con alcune amiche e
faccio i lavori domestici a casa
mia … Ma il tempo libero non
è molto, solo due giorni al
mese.
Intervista 8
Sanità 2 (sono stata operata al seno
all'ospedale di Carrara); Lavoro 1 (sono
stata al sindacato a chiedere alcune
informazioni); Formazione 0 (sto
cercando un corso d'italiano, mi serve
l'attestato per l'equipollenza della mia
laurea)
Sì, frequento la chiesa della
comunità di Aulla, ci troviamo
due volte alla settimana. Quando
posso ci vado: mi trovo bene,
anche se sono l'unica straniera
Sì, per una situazione che
riguardava un'amica: aveva
un contratto di lavoro di 3
mesi ma il datore non voleva
pagarla. Poi l'ha fatto.
Intervista 9
Sanità 0, Formazione 0, Lavoro 0
Immigrazione 0
No, non mi serviva
No
Mi chiudo in casa, non mi
piace uscire, non ho fiducia
nelle persone. Forse ho paura
di non essere accettata:
alcune persone mi hanno
rifiutata per come ero vestita,
ho saputo che mi parlano
dietro … Ma io non gli ho fatto
nulla di male. Mi hanno fatto
isolare.
Vado da mia sorella e in giro
per i negozi. Ma soprattutto
sto a casa.
No preferisco fare da sola, ho No
frequentato un circolo che si
chiama “circolo latino” si faceva
da mangiare, ci ritrovavamo; mi
piaceva fino a che non hanno
cominciato a girare i soldi ed era
solo un approccio d’interesse
così ho abbandonato, ci sono
uscita. Sono anche iscritta alla
misericordia per dare e ricevere
aiuto
101
1. Avevo solo un giorno di
riposo, alle volte non sapevo
dove andare e rimanevo li a
guardare la tv o ad ascoltare
musica (mi piace tanto!), se
c’era il mercato andavo li
Soprattutto mi riposo, perché
sono molto stanca. Al
massimo vado a trovare mia
sorella e faccio un po' di giri
per i negozi.
Intervista 10
Sanità 3 (sono stata operata di ernia del No
disco); Formazione 3 (corso OSA e
patente); Lavoro 1 (sono stata al
sindacato per avere la liquidazione);
Immigrazione 0.
Sì, per avere la liquidazione
di un precedente lavoro.
Intervista 11
Formazione 2 (corso Osa e poi faccio il No, mi piacerebbe fare
tirocinio in una struttura di Lerici); Lavoro volontariato ma non ho mai
0; Immigrazione 0; Sanità 0.
avuto tempo
Sì, sono stata per il rinnovo Nel tempo libero … faccio il
del permesso di soggiorno e corso OSA
per fare la carta di soggiorno
intervista 12
Sanità 3 (ho partorito qui e il bimbo ha
fatto tutte le vaccinazioni all'Asl);
formazione 3 (corso OSA, corso
d'italiano e iscrizione scolastica del figlio
che comincia a settembre); Lavoro 0;
Immigrazione 0.
Sanità 1 (mi sono fatta visitare
all'ospedale un volta); formazione 0,
lavoro 0, immigrazione 0
no
no
Prima stavo alla "Papa Giovanni" no
di don Bensi … ma perché
avevo avuto dei problemi, mi
minacciavano
vado ad Aulla o a Monti, là
c'ho le amiche, passiamo il
tempo insieme,
chiacchieriamo del nostro
lavoro
Intervista 14
Sanità 0, Formazione 0, Lavoro 0,
Immigrazione 0
no
no
Intervista 15
sanità 0; formazione 0; lavoro 0;
immigrazione 0.
no
no
Cammino tanto, vado un po' al
mercato. E poi mi vedo con
mia sorella, mia nipote e mia
cugina.
Sto con mio marito. Andiamo
spesso al mare.
Intervista 16
sanità 0; formazione 0; lavoro 0;
immigrazione 0.
sì, andavo da un'associazione di no
chiesa che dava da mangiare
Vado al mare e là incontro
tanti amici romeni. Cuciniamo
e stiamo insieme.
Intervista 17
sanità1; Immigrazione 0; Lavoro 0;
Formazione 0.
No
Ho 3 ore libere ogni
pomeriggio più il lunedì.
Sistemo casa mia … Non esco
molto, non ho molti amici. Fra
loro, però, c'è anche qualche
italiano
Intervista 13
No. E' mia sorella che mi ha
trovato lavoro
102
Nel tempo libero … lavoro.
Faccio le pulizie in altre case.
Raramente vado al mare.
Lavori domestici a casa mia, in
questo periodo sto anche
scrivendo la tesi per il corso. E
poi passeggiate nel parco col
bimbo.
Intervista 18
Immigrazione 3; sanità 1; lavoro 1;
formazione 1
Intervista 19
sanità 0 (a dire il vero quando mi sento
male, mi faccio mandare le medicine
dalla Romania); formazione 0; lavoro 0;
immigrazione 0.
Intervista 20
sanità 1 (nella normalità); lavoro 2 (sono
andato tante volte ai centri per l'impiego
e ai sindacati … non ho mai trovato
lavoro tramite loro); immigrazione 2
(sempre a Casa Betania); formazione 0
sanità 1 (nella normalità); lavoro 0
(sempre trovato tramite amiche);
immigrazione 0; formazione 0.
Sono andata spesso a Casa
Betania. Prima per mettermi in
regola con il permesso di
soggiorno, poi per cercare
lavoro.
no
Formazione 2 (corso d'italiano); sanità 1
(nella norma); lavoro 0; immigrazione 2
(mi sono fatta seguire da
un'associazione per le pratiche di
ricongiungimento con mio marito)
sì, a El Kandil, che gestisce
l'Ufficio Immigrati del Comune di
Carrara. Per le pratiche di
ricongiungimento con mio
marito.
Intervista 21
Intervista 22
Sì, a El Kandil. Sono andata sia
per cercare lavoro che per avere
informazioni sui corsi di
formazione. Ogni volta che ho
bisogno di un'informazione vado
lì.
Casa Betania, ma una sola volta.
Per vedere se riuscivo a trovare
un lavoro pomeridiano.
103
alla UIL. Per capire meglio il Sto soprattutto con la mia
contratto di lavoro che stavo famiglia.
per firmare.
No
Sì, ma non mi ricordo a
quale.
Non ho amiche, la sera non
esco. Sto soprattutto in casa e
guardo la tv, in particolare
programmi di cucina: mi
servono per il lavoro. Il giorno
libero è la domenica e vado da
mio fratello.
Vado da mia sorella e sto con
la sua famiglia
no
Ho qualche ora libera al
pomeriggio, ma resto in casa
perché sono stanca. Se
proprio voglio rilassarmi faccio
una passeggiata, ma
raramente. I giorni liberi,
invece, li passo in famiglia,
assieme a mio marito.
no. Mio cognato ha seguito
le pratiche per l'assunzione.
Tempo libero ne ho, ma non
esco molto. Sto a casa, a
parlare con la signora oppure
con mio marito.