Κν ψδθν κβγδληβν - Museum Rietberg
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(8) ALIAS 26 MARZO 2016 Cent’anni in compagnia del Cabaret Voltaire e delle sue provocazioni dadaiste. La città di Zurigo dedica all’avanguardia artistica, poetica e teatrale diverse mostre (anche una incentrata sulle protagoniste femminili), più passeggiate a tema per la città guerra, senza per questo cadere nelle facili pieghe del pacifismo utopistico». I rimedi al nonsense bellico degli Stati moderni ma al tempo stesso contro «i modi in cui il grottesco e l’assurdo superavano di gran lunga i valori estetici», compaiono tutti all’interno di teche disposte come totem nel nuovo padiglione del museo zurighese. Su una maglia ortogonale con al centro la «kaaba del Dadaismo» dentro alcuni documenti del Dada parigino - all’irrazionalità distruttrice della guerra i dadaisti rispondono con il «vivere all’unisono con la follia» (Ball). La follia sentita nel sogno e nella sessualità, nella lettura mistica dei vangeli gnostici (Pistis Sophia) e nella storia cosmogonica dell’Uovo cosmico, che prende le forme delle duchampiane «macchine celibi» e dei ready-made (Grand Verre, La Boîte Verte, Fountain) si manifesta nella danza e nei travestimenti (maschere di Janco, costumi degli indiani Hopi di Sophie Taeuber-Arp). «Il dadaista – dirà ancora Ball – ama lo straordinario, di MAURIZIO GIUFRÈ ZURIGO Che Dada non sia stato solo un movimento artistico è il merito più rilevante che si ricava dalle mostre che Zurigo ha allestito per celebrarne il centenario della nascita: al Landesmuseum Dada Universal, al Museum Rietberg Dada Afrika e al Kunsthaus Dadoglobe Reconstructed, in attesa che arrivi a giugno la retrospettiva su Francis Picabia. D’altronde fu lo stesso Hugo Ball, il fondatore, con la sua compagna Emmy Hennings, i suoi amici della prima ora Tristan Zara, Hans Arp, Marcel Janco, Max Oppenheimer - del Voltaire, il cabaret letterario dadaista aperto sulla Spiegelgasse il 5 febbraio, a dichiarare: «il dadaista non crede più alla comprensione delle cose da un unico punto di vista». Esattamente un anno prima, ancora Ball con Richard Huelsenbech, in un manifesto letterario per ricordare i poeti caduti in guerra, scrive: «Noi saremo sempre contro. Noi procediamo slegati contro tutti gli ismi, i partiti e le concezioni». L’anarchia estetica dadaista – anzitutto letteraria e teatrale – precede l’avventura zurighese, sviluppandosi nei circoli antimilitaristi e anarchici di Berlino. È lì che Ball denuncia tutta la sua avversione al «massacro meccanico» della guerra per averla brevemente conosciuta da volontario al fronte e definisce, intorno alle parole d’ordine di libertà, disordine, sfrontatezza e negatività, la concezione di vita dadaista. Tuttavia è a Zurigo che si sperimenta in concreto la possibilità - sulle orme dell’ottimismo di Candide - di allontanare da sé lo spettro della guerra mischiando generi e temi pur di generare quella reazione di protesta per non «patire le dissonanze» del presente. Non c’è migliore dimostrazione di questa presa di coscienza davanti alla follia della guerra che vedere al Landesmuseum la mantella mimetica di un combattente francese vicino a un fucile Lebel fusosi al fronte e accanto leggere la frase di Aragon: «la pace ad ogni costo in tempo di guerra e la guerra a ogni costo in tempo di pace». Perché, come dirà Tzara, «noi eravamo risolutamente contro la l’assurdo. Ogni sorta di maschera gli è perciò benvenuta». Nella sua particolare concezione antidogmatica nei confronti di ogni tendenza del modernismo e, più in generale, della cultura occidentale, vi concorrono il Teatro della Crudeltà di Artaud, espressione della sofferenza dell’esistenza, e la filosofia di Nietzsche perché anche per il filosofo tedesco la «disciplina formativa del dolore ha creato ogni eccellenza umana». Contro un «mondo vacillante» e pieno di contraddizioni, Tzara incita nel Manifesto redatto nel 1918 «ogni uomo a gridare» perché si compia quel «lavoro distruttivo», la tabula rasa che conduca alla «compiutezza dell’individuo». Avverte di preparare «la soppressione del dolore» per sostituire «le lacrime con le sirene allungate da un continente all’altro». Dada in quell’anno è già un movimento internazionale come sognavano i suoi fondatori. A New York, Picabia, Duchamp e Man Ray si distinguono per i loro «gesti» e scritti. A Berlino, Grosz, Κν ψδθν κβγδληβν χδκ κηµφτφφην John Heartfield, Johannes Baader, Hannah Höch e Raoul Hausmann e a Colonia Max Ernst, scoprono nel fotomontaggio la nuova arma per intervenire nella Großstädt rompendo, come la poesia sonora e visiva, «le barriere dei generi letterari e artistici» (De Micheli). Infine a Parigi, soprattutto con l’arrivo di Tzara nel 1919, le azioni dadaiste si propagheranno attraverso l’impegno critico e letterario di Louis Aragon, André Breton e Paul Eluard. Ora queste e molte altre personalità da Walter Serner a Edgar Varèse, da Kurt Schwitters a Theo van Doesburg, da Christian Schad a Philippe Soupault, compresi gli italiani Julius Evola, Aldo Fiozzi, Gino Cantarelli e Othello Rebecchi, li troviamo nella grande sala al piano terra del Kunsthaus nella mostra Dadaglobe Reconstructed curata dalla storica dell’arte Adrian Sudhalter. L’esposizione consiste nella «ricostruzione» del progetto editoriale Dadaglobe di Tzara e Picabia, purtroppo mai concluso e datato 1920, che si proponeva di dimostrare la diffusione mondiale del movimento. A cinquanta artisti, scrittori e poeti si richiedeva una fotografia e un loro scritto, disegno o collage, che solo dopo anni di paziente ricerca della curatrice, sono stati ricomposti nel catalogo (Scheidegger & Spiess) sulla base di una bozza di impaginato di Tzara. Dadaglobe con le sue duecento opere di piccolo formato su carta tra fotografie, disegni, fotomontaggi e collage, può a buon diritto essere considerata l’opus magnum del Dadaismo e il ritrovamento più importante non solo per la storia delle Avanguardie artistiche ma, più in generale, per la conoscenza della società e della cultura tra le due guerre in Europa. «La storia di Dadaglobe – ha scritto in catalogo Sudhalter - è un LE «LOCATION» TUTTE DADA L’αατεεσ ρυηψψδθ χη δρονρηψηνµη Nel 1916, gli artisti in esilio si ritrovarono nel cuore del Niederdörfli, un quartiere del centro storico zurighese. A pochi metri dall’abitazione di Lenin, nella Spiegelgasse 1, Hugo Ball e la futura moglie Emmy Hennings aprirono il Cabaret Voltaire. L'esordio ufficiale del movimento si fa coincidere con il 5 febbraio 1916, giorno in cui veniva inaugurato il Cabaret Voltaire, fondato dal regista teatrale Hugo Ball. Fino al 18 luglio seguirono poi 165 giorni di festa (ognuno dedicato a uno dei 165 dadaisti). La kermesse dada può contare su molte location. Il Kunsthaus Zurich ospita (visitabile fino al 1 maggio) la mostra «Dadaglobe Reconstructed» con oltre 200 opere e testi spediti a Tristan Tzara nel 1921 da artisti di tutta Europa (progetto che si arenò per mancanza di fondi e per motivi personali). Il Museo nazionale Zurigo, con «Dada Universale» punta (chiude il 28 marzo) sulla portata universale dell’avanguardia, ripresentando alcune sue celebri «icone». Fino all’8 maggio, il Museum Haus Konstruktiv propone «Dada anders» dedicata alle esponenti femminili del movimento: Sophie Taeuber-Arp, Hannah Höch ed Elsa von Freytag-Loringhoven, mentre ha appena aperto i battenti (c’è tempo fino al 17 luglio) al Museo Rietberg un itinerario speciale: «Dada Afrika». Per la prima volta, si affronta una tematica ancora poco approfondita, il confronto dei dadaisti con l'arte e le culture extraeuropee. ALIAS 26 MARZO 2016 A sinistra, i dadaisti del Cabaret Voltaire (fra cui Emmy Hennings, Tristan Tzara, Marcel Janco, Hugo Ball, Sophie Taeuber, Jean Arp); grande, un ritratto di Tristan Tzara dipinto da Robert Delaunay (1923); sotto, pag.8, Francis Picabia, «Tableau rastadada», 1920 mistero storico-artistico di primo ordine. Mentre l’oggetto stesso (il libro non realizzato) scompare, lascia molte tracce nel suo percorso»: quelle abilmente ritrovate nelle collezioni del Kunsthaus zurighese, di Felix Baumann e Hans Bollinger, ma soprattutto del milanese Arturo Schwarz. Rispetto alla precedente mostra Dadaglobe (1994) che sempre il Kunsthaus dedicò a Dada ventidue anni fa e che Arbasino biasimò perché «alla pochezza delle opere ’che si salvano’ si accompagna come periferia o cimitero un immenso archivio di provocazioni disinnescate e scadute», la nostra conoscenza del progetto di Tzara è cambiata «fondamentalmente», come sottolinea Cathérine Hug in catalogo. Quelle «carte ingiallite, muffe e forfore, una grafica furbetta ma bambinesca» ci raccontano il desiderio di diffondere al mondo un’avventura estetica unica che nel 1921, come scrisse Roman Jakobson, avviene nell’Europa «trasformata in una molteplicità di punti isolati per i visti, le valute, i cordoni di ogni tipo», nonostante «lo spazio ridotto a passi da gigante per via della radio, del telefono e dell’aereo» e nel quale i libri e le immagini appaiono assediati da ogni genere di fanatismo. Una realtà che ci sembra di riconoscere nel nostro quotidiano ed è, forse, la ragione per la quale Dada incuriosisce e ancora attrae. (9) Qui accanto, pag 9, Hannah Höch «Ohne Titel» (Aus einem ethnographischen Museum), 1930, Museum für Kunst und Gewerbe Hamburg © 2016, Zürich, ProLitteris; Sophie Taeuber-Arp, «Replik eines Katsina-Kostüms», 1925 (?), Aargauer Kunsthaus Aarau; maschera di Marcel Janco. 1919, Musée national d’art moderne, Centre Georges Pompidou, Paris, Geschenk von Marcel Janco 1967 FLÂNEUR Τµ βρβσ χη ηµηψησηυδ Il 2016 celebra il centenario del movimento di Tristan Tzara e si adegua al suo comportamento situazionista, proponendo serie di serate, passeggiate in «forma dada» nella città svizzera che gli ha dato i natali. Se il Cabaret Voltaire è stato il centro propulsore di quella rivoluzione culturale che ha investito tutti i campi della conoscenza, a Zurigo si trovano altri locali che hanno ospitato le serate dadaiste e che vengono ora inseriti in un percorso a tema. Fra questi, c’è l’Odeon. Per oltre un decennio è stato il ritrovo degli intellettuali internazionali. Qui si incontravano scrittori, pittori e musicisti - spesso esuli - anche non legati all’avanguardia dadaista stessa, come Klaus Mann e Stefan Zweig, o James Joyce. Il ciclone dada continuerà il 13 maggio alla stazione centrale di Zurigo con una festa danzante, mentre dal 3 al 26 giugno 2016 si terrà il Festspiele Zürich che affronterà l’anniversario del movimento artistico, così come Manifesta, quest’anno con sede zurighese. Il 3 giugno aprirà poi al Kunsthaus una retrospettiva di Francis Picabia che esplorerà il suo contributo al dadaismo. Al museo di Rietberg, va in scena la relazione giocosa del Dadaismo con le culture extraeuropee, dai «poèmes nègres» a rituali balli in maschera etc. La ricezione si basava su quello che era reperibile all’epoca». Χ≅Χ≅,≅ΕΘΗϑ≅ Ο≅ΘΚ≅ ∆ΡΣΓ∆Θ ΣΗΡ≅ ΕΘ≅ΜΒΗΜΗ Κδ οθνκδ χµψµση> Σθρτχµν φηνη βνµ κ’δµδθφη υησκδ di ARIANNA DI GENOVA Il 14 luglio del 1916 il rumeno Tristan Tzara si presenta al pubblico interpretando due canti «negri», mentre Hugo Ball è alla batteria. Lo spaesamento sistematico viene potenziato dal ritmo di una sintassi libera, non comprensibile, istantanea ed effimera. L’anno dopo, il 14 aprile del ’17, sarà la volta di una festa in occasione dell’inaugurazione di una mostra: musiche e balli (c’è anche la compagna di Tzara, Maya Chrusecz) guidano l’evento e i danzatori indossano le maschere-patchwork realizzate da Janco, ispirate a modelli africani e dell’Oceania. Sono simulacri che servono per risvegliare altri istinti, mondi inconsueti, per sradicare ognuno dalle proprie certezze e allargare i confini geografici. L’estasi e la trance ludica praticata nelle serate dada trova il suo contraltare nell’atteggiamento da erudito di Tzara, che consulta avidamente i migliori africanisti del suo tempo, come il tedesco Frobenius. Più approfondisce quella cultura, più l’idea di un primitivismo pittoresco si allontana e prende forma una nuova concezione dell’occidente: sfibrato dalla guerra e in piena carneficina, viene rigenerato dalle sue fonti che sovvertono l’ordine e le abitudini mentali degli spettatori. La tabula rasa, il grado zero riparte da qui, suoni, grida, rumori, parole che appartengono a una comunità che molti borghesi ritengono «selvaggia», o al più «esotica» e che invece sprigiona forza vitale e spontanea, la stessa che nutre la funzione poetica. Tzara pubblicò anche sulla rivista Dada la «Chanson du Cacadou» della tribù Aranda e riadattò per i lettori francesi una raccolta di «Poèmes nègres». Li considerava un’incursione dentro «la struttura primitiva della vita affettiva». La mostra Dada Afrika. Dialogue avec l’autre che si è appena aperta al museo Rietberg di Zurigo, in collaborazione con la Berlinische Galerie di Berlino (visitabile fino al 17 luglio, a cura di Michaela Oberhofer e Esther Tisa Francini per la Svizzera, Ralf Burmeister per la sede tedesca, inaugurazione il 5 agosto) rende omaggio con settanta opere alla magia di quegli incontri d’inizio secolo, quando nel Cabaret Voltaire si poteva vedere Emmy Hennings scatenarsi in un ballo apache o Sophie Taeuber Arp danzare sulle parole del poema di Ball Poissons volants et hippocampes. «I dadaisti, in particolare modo Tristan Tzara - spiega la curatrice Esther Tisa Francini -, si interessavano ai linguaggi del Pacifico e ai canti africani. Tzara li andava a studiare nella biblioteca di Zurigo, consultando gli scritti degli etnologi. Prendeva i testi e li cambiava di poco. Poi li recitava nelle «soirées nègres»: nasceva così una forma specifica della poesia sonora. Soltanto decenni più tardi si è scoperto che non erano tutte sue invenzioni, ma che aveva ripreso davvero alcuni testi dei maori, L’interesse vivace per le culture non occidentali ha segnato le rivoluzioni linguistiche delle avanguardie. Esiste una differenza sostanziale nell’approccio cubista alle forme dell’«altrove» rispetto a quello dei dadaisti? Si può affermare che i cubisti partivano da un interesse formal-estetico e individuavano nell’arte africana una fonte d’ispirazione. Con un atteggiamento eurocentrista favorivano un’appropriazione dei loro linguaggi. Se alcuni tratti venivano considerati autentici, i cubisti li trasformavano in elementi della loro arte. Si avvicinavano all’espressione artistica copiando alcuni segni stilistici della scultura africana. I dadaisti sono stati anche dei collezionisti compulsivi di opere africane, come gli espressionisti tedeschi, i «fauves» francesi, Picasso? Il più grande collezionista è stato Han Coray, ma non era un dadaista. Era invece il gallerista dei Dada. Il museo Rietberg oggi può contare su duecentocinquanta opere che provengono dalla sua raccolta, in cui figuravano circa tremila oggetti africani. Ma fra gli artisti, il più assiduo collezionista è stato senz’altro Tristan Tzara. Fu proprio attraverso la sua mediazione che, nella prima esposizione dei dadaisti a Zurigo, nella galleria di Han Coray, venne presentata anche l’arte africana. Abbiamo rintracciato la figura maschile «baule», portata a Zurigo dal dealer Paul Guillaume di Parigi (oggi è in una collezione privata francese), e la presentiamo nella nostra esposizione, allestita fra i lavori dei dadaisti (la scultura si vede anche in alcuni ritratti di Guillaume campeggiare sopra un mobile della sua stanza, ndr). Tzara era solito comprare soprattutto a Parigi, dove esisteva un mercato importante di manufatti e arte africana. Quale era il senso che i componenti del movimento Dada davano alle culture «altre»? I dadaisti, essendo un gruppo transnazionale e coltivando un interesse sincero per le culture non-europee, desideravano superare le frontiere e il colonialismo. Integrando les «soirées nègres» nel loro movimento, recitando i «poèmes nègres» rompevano con l’arte tradizionale e cercavano un nuovo linguaggio e un’estetica originale. L’azione performativa, gli esperimenti con materiali ephémère, la poesia sonora erano espedienti tesi a creare una sorta di «Gesamtkunstwerk» che segnava una rivoluzione nell’arte. La mostra è riconducibile a un tema centrale? La rassegna Dada e Afrika mette in luce la rivitalizzazione dell’arte attraverso i dadaisti, la ricerca di un inedito linguaggio artistico legata a un confronto con le espressioni non-europee. Presentiamo opere di Marcel Janco, di Sophie Taeuber-Arp, di Hannah Höch - ma anche di Man Ray, Hans Arp e altri - insieme a quelle africane, oceaniche, asiatiche. Sono tutte poste sullo stesso livello. Il dialogo fra le produzioni dadaiste e i manufatti extra europei, scaturito da profonde ricerche storiche, ha rivelato un nuovo aspetto della loro poetica.