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SENTENZE IN SANITÀ – CORTE D’APPELLO DI ROMA
CORTE D’APPELLO di Roma – Sezione I - Sentenza del 23 febbraio 2009
RISARCIMENTO AL MEDICO DIFFAMATO A MEZZO STAMPA
In linea generale, per escludere la sussistenza del reato di diffamazione a mezzo stampa e, quindi, l'antigiuridicità del fatto devono sussistere: l'interesse al racconto; la correttezza formale e sostanziale dell'esposizione dei fatti, in cui propriamente si sostanzia la c.d. continenza, nel senso che l'informazione di
stampa non deve trasmodare in "argomenta ad hominem" né assumere contenuto lesivo dell'immagine e
del decoro; la corrispondenza tra la narrazione ed i fatti realmente accaduti, nel senso che deve essere
assicurata l'oggettiva verità dei racconto che tollera soltanto inesattezze considerate irrilevanti se riferite
a particolari di scarso rilievo e privi di valore informativo.
Nella vicenda specifica, relativa ad un articolo giornalistico che vedeva interessato un medico INPS, veniva riconosciuto, in favore di quest’ultimo, il risarcimento del danno patito per violazione dell’obbligo
di continenza.
Osservava la Corte d’Appello, tra gli altri aspetti, che, nel caso, non poteva affermarsi la sussistenza di
una esposizione dei fatti contenuta negli spazi strettamente necessari né che la critica giornalistica fosse
stata espressa con correttezza formale.
omissis
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 28/12/1999 Pi.Ta., medico alle dipendenze dell'I.N.P.S. in servizio presso la sede di Civitavecchia e responsabile del servizio invalidità, conveniva in giudizio
il quotidiano Il. e la giornalista Ba.Bo. per sentirli condannare, tra loro in solido, al risarcimento
dei danni, quantificati nella misura di Lire 100.000.000 per la diffamazione patita a seguito di
un articolo della giornalista indicata. Precisava l'attore che sul numero del 22/10/1996 de Il. era
stato pubblicato un articolo a firma Ba.Bo. dal titolo "X. " con sovratitolo "X. " e sottotitolo "X.
". Evidenziava l'attore che l'articolo riguardava i fatti contenuti nella denuncia presentata da un
pensionato I.N.P.S. a suo carico, ma che il procedimento penale a cui era stato sottoposto, a seguito della denuncia, si era concluso con un'assoluzione dinanzi al Tribunale di Civitavecchia in
data 27/04/1998. Peraltro, affermava ancora il Ta., in grave disagio per il clima di sospetto che
si era creato intorno a lui si era dimesso dal lavoro il 13/01/1997, così perdendo la possibilità di
conseguire la qualifica di primario medico - legale che avrebbe raggiunto rimanendo in servizio
per altri due anni.
Si costituiva la convenuta Ba.Bo. contestando il contenuto diffamatorio dell'articolo e comunque opponendo il legittimo esercizio del diritto di cronaca.
Il giudizio veniva riunito a quello promosso dal Ta. avverso la società editrice de Il., Co., la
quale, costituitasi, aveva eccepito il difetto di legittimazione passiva essendo divenuta editrice
della testata giornalistica dal 29/05/2001.
La causa, istruita documentalmente, veniva definita con sentenza n. 30577/2003 pubblicata il
26/09/2003.
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CORTE D’APPELLO DI ROMA - SENTENZA DEL 23 FEBBRAIO 2009
Il giudice rilevava preliminarmente che la nullità della citazione nei confronti del quotidiano
"Il." in persona del direttore responsabile, soggetto giuridico inesistente, era stata superata dalla
successiva citazione della società Co. Evidenziava peraltro che la domanda nei confronti di
quest'ultima doveva essere rigettata per difetto di legittimazione passiva in quanto la società risultava editrice del quotidiano Il. solo da epoca successiva ai fatti di causa. Nel merito rilevava
che l'articolo traeva origine dalla denuncia presentata da un pensionato nei confronti del Ta. in
merito a una richiesta di denaro che il medico, quale incaricato della valutazione medico - legale
degli stati di invalidità e inabilità, avrebbe avanzato al pensionato per formulare un parere negativo alla proposizione dell'appello avverso la sentenza pretorile che aveva riconosciuto al pensionato lo stato di inabilità. Esaminando quindi il contenuto dell'articolo che aveva riportato la
notizia, affermava che lo scritto rispettava solo in parte i principi dettati in materia di legittimo
esercizio del diritto di cronaca e di critica. In particolare, se pure la giornalista si era attenuta,
quale fonte di cronaca, alla denuncia presentata in sede penale dal pensionato nei confronti del
medico riportando i fatti lì esposti, "la forma dell'esposizione dei fatti stessi e - soprattutto - del
commento personale e fortemente critico della cronista aveva travalicato" i principi di "correttezza e continenza". Ciò in particolare, nell'utilizzazione, di una forma affermativa non ipotetica
nel riferire i fatti (nonostante che non vi fosse stata ancora la verifica dell'autorità giudiziaria),
nel non riferire alcuna notizia sulla versione dell'incolpato, nel trascendere in commenti personali, quale quello che non era ancora stato emesso un provvedimento disciplinare nei confronti
del medico e nel richiamo generalizzato "al rovescio della medaglia dello scandalo dei falsi invalidi" e, ancora, nell'affermata "speranza" di vedere "punito il responsabile dell'estorsione". Il
giudice, concludendo nel senso che, nel caso di specie, l'esercizio del diritto di cronaca e di critica travalicava "senza giustificazione il confine della libera manifestazione del pensiero", diventando "illecito e fonte di responsabilità dell'ingiusto danno provocato", condannava la convenuta al risarcimento del danno morale quantificato nella misura di Euro 25.000,00, tenuto
conto "dell'attività professionale del soggetto danneggiato, della qualità e diffusione della testata, della destinazione limitata della cronaca regionale, dell'assenza di una richiesta di rettifica
immediata ad opera del danneggiato e della pubblicazione tempestiva della conclusione positiva, per l'attore, del procedimento penale". Non riteneva invece provato il danno patrimoniale
addotto dal Ta., non essendo emerso che la scelta del medico di dimettersi fosse riconducibile
all'articolo censurato e non piuttosto allo stesso procedimento penale.
Le spese seguivano il criterio della soccombenza.
Avverso la sentenza, non notificata, proponeva appello Ba.Bo. con atto notificato l'01/10/2004,
chiedendo la riforma della sentenza di primo grado con il rigetto della domanda di risarcimento
danni di Pi.Ta. Si costituiva in giudizio quest'ultimo chiedendo il rigetto dell'appello e la conferma della sentenza di primo grado.
Respinta, con ordinanza 21/12/2004 - 10/01/2005, la richiesta dell'appellante di sospensione
dell'esecutività della sentenza di primo grado, la causa veniva trattenuta in decisione all'udienza
del 30/04/2008, con termine alle parti ex art. 190 c.p.c. per il deposito di comparse conclusionali
e di memorie di replica.
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Motivi della decisione
1. Con il primo motivo l'appellante assume la mancanza di illiceità dell'articolo contestato, ritenendo quindi l'erroneità dei presupposti e della motivazione della sentenza impugnata.
In particolare rileva che l'articolo ha riportato gli estremi della denuncia penale, circostanza non
contestabile e non contestata dalla controparte, attenendosi quindi alla verità dei fatti come riportata nella denuncia, riferendo una notizia di rilevante interesse pubblico, con obiettività e
continenza espressiva e nel quale risultava comunque evidente che quanto narrato era desumibile dalla denuncia.
Va poi considerala, afferma ancora l'appellante, la "diversa specificità della critica rispetto alla
cronaca" poiché mentre la prima deve rigorosamente rispettare i principi di verità, interesse e
continenza, la seconda "per sua natura, si esprime nella valutazione personale di quegli elementi, tanto da poterne trarre proprie conclusioni fattuali e storielle, che potranno anche divergere da
quelle effettive", non potendosi comunque ritenere impedito "il diverso convincimento personale di chi analizza e valuta quel fatto". In ogni caso la giornalista non avrebbe "espresso alcun
particolare commento di critica al fatto correttamente riportato, come riconosciuto dallo stesso
tribunale".
2. Con il secondo motivo la Bo. assume che la pubblicazione non consentiva comunque di riferire la notizia in essa contenuta all'appellato né, nel giudizio di primo grado, era stato accertato
se il Ta. fosse riconoscibile nel medico oggetto della denuncia di cui si riferiva. Conseguentemente la valutazione del giudice di primo grado sull'agevole individuazione del Ta. da parte del
personale dell'ente e degli utenti del servizio previdenziale doveva ritenersi soggettiva e non
fondata su presupposti riscontrati e riscontrabili.
3. Con l'ultimo motivo, formulato in via subordinata ai precedenti, Ba.Bo. lamenta "la ingiustificata eccessiva liquidazione del danno operata dal Tribunale, in contraddizione rispetto alle sue
stesse motivazioni". Contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di primo grado il danno "andrebbe quantificato in misura minima e meramente simbolica, posta la assoluta assenza di concreto pregiudizio all'appellato".
4. I motivi d'appello vengono esaminati in ordine parzialmente diverso rispetto alla loro formulazione nell'atto di impugnazione per ragioni sistematiche.
In primo luogo va respinta la contestazione dell'appellante circa la riferibilità dell'articolo alla
persona del Ta.
Come è noto la giurisprudenza di legittimità ritiene che, in tema di risarcimento del danno causato da diffamazione a mezzo stampa, non è necessario che il soggetto passivo sia precisamente
e specificamente nominato, ma la sua individuazione deve avvenire, pur in assenza di un esplicito e nominativo richiamo, attraverso gli elementi della fattispecie concreta, tra cui si collocano
la natura e la portata dell'offesa, le circostanze narrate, oggettive e soggettive, i riferimenti personali, temporali e simili che, unitamente agli altri elementi emergenti dalla vicenda, vanno valutati complessivamente così da poter desumere, con ragionevole certezza, l'inequivoca individuazione dell'offeso (cfr., in tal senso, Cass. sez. III, 06/08/2007 n. 17180). Nell'articolo redatto
da Ba.Bo. il professionista che avrebbe effettuato la richiesta di "una mazzetta" (le parti virgolettate sono tratte dal testo dell'articolo) consistente in "dieci milioni per non presentare ricorso"
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era certamente il medico dell'INPS addetto alle valutazioni di invalidità ai tini pensionistici atteso che, nell'ambito della narrazione del fatto contenuta nell'articolo, si affermava che, in assenza
del responsabile dell'ufficio legale, il pensionato era stato indirizzato "dal medico ... che, intanto, avrebbe potuto avviare la pratica". Considerando quanto emergente dalla sentenza di assoluzione del Ta. dal reato di tentata concussione (cfr. fasc. appellato di primo grado) risulta che
l'intera vicenda era certamente nota all'interno dell'ufficio I.N.P.S. in cui lavorava il medico atteso che nel corso del dibattimento erano stati sentiti i testi St.Bo., Gi.Di., avvocato, e Fo.Gi.,
infermiera, tutti dipendenti INPS, che avevano ciascuno riferito la parte della vicenda su cui erano rispettivamente e personalmente in grado di riferire così rendendo manifesta la diffusa conoscenza, all'interno della sede INPS, della riferibilità al Ta. della denuncia del pensionato. Peraltro, considerando che il Ta. svolgeva un'attività, medico I.N.P.S. addetto alle valutazioni delle
invalidità a fini pensionistici, che comportava il contatto con il pubblico degli utenti del relativo
servizio, la sua persona, come il professionista oggetto della denuncia del pensionato di cui si
riferiva nell'articolo, era quindi quanto meno individuabile da tutti coloro che, nel periodo in cui
venne pubblicato l'articolo, si erano rivolti all'INPS per ottenere il riconoscimento dell'invalidità. La certa riferibilità al Ta., da parte dell'intero personale I.N.P.S. e di una quota considerante
degli utenti del servizio rende quindi infondata la censura della Bo. circa la non identificabilità
del Ta. nel medico a cui si faceva riferimento nell'articolo.
5. Quanto all'asserita mancanza di illiceità dell'articolo contestato si osserva quanto segue.
In linea generale, per escludere la sussistenza del reato di diffamazione a mezzo stampa e, quindi, l'antigiuridicità del fatto devono sussistere: a. l'interesse al racconto, b. la correttezza formale
e sostanziale dell'esposizione dei fatti, in cui propriamente si sostanzia la c.d. continenza, nel
senso che l'informazione di stampa non deve trasmodare in "argomenta ad hominem" né assumere contenuto lesivo dell'immagine e del decoro; c. la corrispondenza tra la narrazione ed i fatti realmente accaduti, nel senso che deve essere assicurata l'oggettiva verità dei racconto che tollera soltanto inesattezze considerate irrilevanti se riferite a particolari di scarso rilievo e privi di
valore informativo (in tal senso, tra le altre, Cass. sez. III, 18/10/2005 n. 20140).
Con particolare riferimento alla continenza, il requisito di cui è stato ritenuto il mancato rispetto
da parte del giudice di primo grado, essa va "intesa in senso sostanziale e formale" nel senso che
"la esposizione dei fatti deve avvenire in modo misurato, deve, cioè, essere contenuta negli spazi strettamente necessari" (cfr. in tal senso Cass. sez. III, 06/08/2007 n. 17172). Ove "come accade frequentemente, la narrazione di determinati fatti sia esposta insieme alle opinioni dell'autore dello scritto, in modo da costituire nel contempo esercizio di cronaca e di critica, la valutazione della continenza non può essere condotta, sulla base dei soli criteri indicati, essenzialmente formali, dovendo, invece, lasciare spazio alla interpretazione soggettiva dei fatti esposti. Infatti, la critica mira non già ad informare, ma a fornire giudizi e valutazioni personali, e, se è vero che, come ogni diritto, anche quello in questione non può essere esercitato se non entro limiti
oggettivi fissati dalla logica concettuale e dall'ordinamento positivo, da ciò non può inferirsi che
la critica sia sempre vietata quando sia idonea ad offendere la reputazione individuale, richiedendosi, invece, un bilanciamento dell'interesse individuale alla reputazione con quello alla libera manifestazione del pensiero, costituzionalmente garantita. Siffatto bilanciamento è ravvisabi-
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le nella pertinenza della critica di cui si tratta all'interesse pubblico, cioè nell'interesse dell'opinione pubblica alla conoscenza non del fatto oggetto di critica, che è presupposto dalla stessa, e,
quindi, fuori di essa, ma di quella interpretazione del fatto, interesse che costituisce, assieme alla
correttezza formale (continenza), requisito per la invocabilità della esimente dell'esercizio del
diritto di critica" (in tal senso Cass. 17172/2007 cit. che richiama Cass. n. 9746 del 2000, n. 465
del 1996).
Nel caso in esame non può affermarsi che la esposizione dei fatti sia stata contenuta negli spazi
strettamente necessari né che la critica del giornalista sia stata espressa con correttezza formale.
Infatti la giornalista, pur riferendo nell'articolo che "sembra che il medico in questione sia stato
già sentito dagli inquirenti" non si preoccupa affatto di riferire la versione difensiva dei fatti, lasciando intendere che il medico, pur sentito nel corso delle indagini, non fosse stato in grado di
giustificarsi, circostanza certamente non veritiera alla luce della sentenza penale. Inoltre le successive affermazioni della giornalista quali "non è stato quindi preso ancora nessun provvedimento disciplinare nei suoi confronti" (con riferimento al medico denunciato) nonché che "la
vicenda ripropone il rovescio della medaglia dello scandalo dei falsi invalidi che ha coinvolto
tutto il Paese. Un invalido vero che si trova di fronte al ricatto di dover pagare una somma per
avere ciò che gli spetta di diritto" nonché, a chiusura dell'articolo, l'auspicio che "questa squallida storia veda punito il responsabile dell'estorsione anche per incoraggiare altri invalidi che si
sono trovati nella stessa situazione a denunciare i soprusi e a non cedere a questo tipo di "proposte indecenti"" da una parte presuppongono già accertata, in via definitiva, la colpevolezza del
denunciato, dall'altra insinuano nel comportamento di quest'ultimo, già gravissimo per sé stesso,
il valore di un abitudine all'illecito idonea a screditarne la figura di uomo e di professionista in
modo complessivo che trascende da quanto descritto nella denuncia del pensionato. La giornalista, senza rinunciare ad esprimere delle critiche all'operato del medico, per come emergente dalla denuncia, avrebbe comunque potuto inserire sia la versione difensiva dell'incolpato sia, comunque, elementi dubitativi che avessero reso palese che l'intera vicenda era ancora in fase di
verifica nel corso delle indagini preliminari e, in ogni caso, avrebbe dovuto limitarsi a giudizi
sull'episodio tali da non far ritenere già definitivo il giudizio di colpevolezza, poiché nessun
giudizio era ancora stato pronunciato.
Correttamente quindi il giudice ha ritenuto che nell'articolo in esame non fosse stato rispettato il
requisito della continenza sia nell'esercizio del diritto di cronaca che di critica. Il relativo motivo
d'appello deve pertanto essere respinto.
6. Con riferimento, infine, all'ammontare del risarcimento dei danni la valutazione del giudice di
primo grado appare immune da critiche risultando corretti gli elementi di riferimento come sopra riportati e rilevando che la richiesta di liquidazione in "misura minima e meramente simbolica", poiché non vi sarebbe pregiudizio per l'appellato, non trova alcun riscontro negli atti. Al
contrario, la natura delle valutazioni espresse nella parte finale dell'articolo, la censura sul mancato allontanamento del professionista dalla sede I.N.P.S. nonostante quanto risultante dalla denuncia, il riferimento alle "proposte indecenti" fanno emergere un effettivo pregiudizio per
l'immagine umana e professionale del medico incolpato e di cui si tratta nell'articolo tale da rendere proporzionato il risarcimento fissato nella misura di Euro 25.000,00.
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7. Tutti i motivi d'appello devono quindi essere respinti mentre le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte, definitivamente pronunciando sull'appello proposto da Ba.Bo. avverso la sentenza del
Tribunale di Roma n. 30577/2003, pubblicata il 26/09/2003, così provvede:
- respinge l'appello e, per l'effetto,
- conferma la sentenza impugnata.
Condanna l'appellante alla rifusione delle spese di lite in favore dell'appellata liquidandole in
Euro 2.356,00 di cui Euro 486,00 per diritti e Euro 1.770,00 per onorari oltre il 12,5% su diritti
e onorari a titolo di rimborso forfetario spese generali nonché IVA e CA.
Così deciso in Roma il 17 settembre 2009.
Depositata in Cancelleria il 23 febbraio 2009.
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