presentazione di Manuela Ricci

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presentazione di Manuela Ricci
presentazione di Manuela Ricci
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è vietata ogni riproduzione
ISBN 978-88-8497-176-0
Editing
Anna Maria Cafiero Cosenza
Grafica
Costanzo Marciano
Referenze fotografiche
Archivio Casa Moretti, pp. 6, 8, 9, 32, 66, 67, 86, 92, 93,
129, 135
Gianni Fiorito, p. 139
Francesco Izzo, pp. 69, 85
Angelina Montefusco, pp. 58, 129
Pasquale Lubrano Lavadera, pp. 10, 14, 16, 19, 20-21,
24, 25, 26-27, 31, 35, 39, 42-43, 46, 48, 49, 51, 52, 53,
54-55, 56, 61, 68, 70, 71, 72, 75, 76-77, 83, 87, 89,
96-97, 104, 105, 111, 114, 115, 121, 125, 137,
140-141
Luigi Nappa, p. 138
Antonietta Pagano, pp. 59, 82
Vittorio Rubiu (a cura di), L’agave su lo scoglio, Electa
Napoli, Napoli 1987, pp. 41, 138
Angelo Salvemini, pp. 64, 65
Luigi Schiano, p. 17
Carmela Scotto di Minico, pp. 79, 119
in copertina
Fotomontaggio: Juliette Bertrand, Pizzago
e la Baia della Chiaia
Indice
con il patrocinio di
Comune di Procida
con il contributo di
Hotel La Scivola, Procida
Hotel La Vigna, Procida
Hotel&Centrobenessere Solcalante, Procida
Indrapur Cinematografica, Roma
La Casa sul Mare, Procida
Lido di Procida, Procida
Luigi Nappa Gallery, Procida
Sailitalia, Procida
Tirreno Residence, Procida
Ringraziamenti
A Manuela Ricci, Responsabile di “Casa Moretti”,
per la consultazione del prezioso epistolario tra
Juliette Bertrand e Marino Moretti, per le foto di
Archivio e per la presentazione di questo testo.
A Carmela Scotto di Minico, cugina di Caterina
Mancusi, testimone diretta del rapporto di Caterina
con Juliette a Procida e a Parigi, nonché dell’impegno
che la Bertrand profuse verso suo padre Pasquale
Scotto di Minico e gli altri contadini di Pizzago per
scongiurare l’esproprio delle terre nel 1963.
Ad Angelina Montefusco, per le notizie, le foto
e i ricordi sulla “Signorina Beltrand”; ad Antonietta
Pagano nella cui abitazione alloggiò Marino Moretti.
A Vincenzo Schiano di Colella Lavina, Procuratore
Onorario della Corte di Cassazione,
per le informazioni storiche su Villa Lavina.
7
Un luogo di poesia Manuela Ricci
13
Procida
33
“La veduta di Procida…mi piace molto”
33
“Un posto di bella vista e silenzioso”
47
Punta Pizzago
57
Tra i contadini di quelle terre
63
“Mi godo la mia terrazza, il mare…”
74
“La bellissima spiaggia dell’Olmo”
81
“Procida…l’hai scoperta tu”
89
“La tua predilezione per l’isola”
95
“La tranquillità di Procida”
100
“Splendida era l’isola in quei giorni”
103
“L’aria di Procida”
109
“Riposare a Pizzago”
113
“Tracciare una strada sulla nostra punta…”
118
“Beata la punta di Pizzago!”
123
“L’assoluto silenzio”
128
“Nella tua isola mitologica”
136
“Un tempo pensavo di riposare là”
142
Bibliografia
Un luogo di poesia
Manuela Ricci
Responsabile “Casa Moretti”
ccorre sempre porre l’accento sull’interazione di un luogo e
l’identità territoriale con la personalità di scrittori e
intellettuali e la materia di cui è fatta la loro opera, per
apprezzarne l’osmotico contributo e il valore che il genius loci
assume in relazione, appunto, al luogo dove è nato, vissuto o, più
semplicemente, ha operato un autore.
Non è solo il valore culturale ma, se possibile, ancor più è il
significato emozionale di una terra quello che viene attribuito a
uno spazio geografico, a entrare in quello interiore dell’anima e a
nutrire, quindi, la pagina letteraria. E non è sempre un gioco di
consonanze, anzi, talvolta è proprio un incontro di antinomie e la
scoperta di una dimensione speculare o, comunque,
complementare rispetto a un temperamento o a un vissuto che fa
scoccare la scintilla. Vi sono, ancora, luoghi natii e luoghi
d’elezione, e spesso questi diventano fondamentali quanto e, forse,
più dei primi. E, infine, è l’opera di quanti il luogo lo vivono che
talora influenza la storia di una terra.
È il caso di Procida e della francese Juliette Bertrand, nativa di
Lione e trapiantata a Parigi che a un certo punto della vita
incontra l’amenità dell’isola partenopea. Certo, la bellezza di un
paesaggio stupefacente come quello trovato negli anni Cinquanta
a Procida dall’intellettuale d’oltralpe non avrebbe potuto lasciare
indifferente alcuno, e del resto in quegli anni molti scrittori ne
avevano già scoperto e cantato la fascinazione, ma il legame che
si creò tra i due fu senz’altro di eccezionale intensità.
O
nella pagina accanto
Casa Moretti a Cesenatico.
7
Marino Moretti e Juliette Bertrand
con Ines Moretti.
Propiziato da Cesare Brandi (ma l’amico Marino Moretti, già
legato a Napoli perché la sorella vi si era trasferita dopo il
matrimonio, ebbe pure qualche responsabilità), l’arrivo a Procida
di Juliette fu scandito da alcune tappe salienti che Pasquale
Lubrano Lavadera con puntigliosa precisione ripercorre in questo
volume. L’eccezionale disponibilità delle carte di Juliette a Marino
Moretti, giunte a Cesenatico a metà degli anni Novanta, grazie
all’erede Francois, a ricomporre un copioso dialogo epistolare, ha
permesso infatti di far luce su quella vicenda e darne nel dettaglio
uno spaccato interessante per restituire l’immagine dell’isola
quale veniva percepita da artisti e intellettuali dell’epoca.
Carteggio tanto vasto quanto prezioso per la molteplicità dei dati
che restituisce in merito ai rapporti dello scrittore romagnolo con
gli ambienti letterari francesi, in particolare quello editoriale e
della critica che all’epoca guardava con una sorta di diffidente
curiosità agli autori italiani. Ampiezza e ricchezza che
contemporaneamente hanno permesso, e meglio permetteranno
all’atto della pubblicazione integrale, il recupero di maggiori dati
sulla vicenda biografica (ivi compreso il suo complesso, e a tratti
controverso, rapporto con la terra e la cultura italiana) di Juliette
Bertrand, ancora tutta da scrivere insieme a una bibliografia
completa del suo lavoro, che si intuisce vastissimo. Ripercorrendo
le numerose altre corrispondenze di quegli anni con gli scrittori
italiani, conservate tra le sue carte ordinate dalla famiglia, ci si è
resi immediatamente conto dell’imponente lavoro svolto
dall’instancabile traduttrice, i cui interessi spaziavano dalla
letteratura all’arte, dalla storia alla medicina, con una tensione
ideale che pure mai divenne pregiudiziale.
Insieme alle ragioni più alte della letteratura e ai dettagli anche
minimi della loro vicenda biografica, il carteggio tra Juliette e
Marino ha comunque già restituito una ricchissima serie di
riflessioni, impressioni, giudizi sull’isola di Procida, in parte già
pubblicati da Lubrano Lavadera, che sono risultati utilissimi a
questa indagine. Con dovizia e acribia, ha saputo infatti
raccoglierli tutti quasi a ricomporre un diario dei giorni partenopei
di Juliette Bertrand.
Un diario animato non soltanto dalla voce della protagonista, o da
quella del sodale di cui si ascoltano opinioni assonanti e partecipi,
ma anche da una serie di interlocutori i cui nomi risuonano dai
capitoli più significativi della nostra storia letteraria del
Novecento: da Aldo Palazzeschi a Piovene, da Antonio Baldini a
Moravia, da Giulio Caprin a Pratolini. Personaggi che arrivavano a
lambire, di quando in quando, Punta Pizzago con la loro letteratura
e a farne, grazie all’amica francese, luogo di poesia. Moretti, ad
esempio, ne pregustava tutta l’aura mitologica, lo splendore di una
natura selvaggia sia nel tumulto di una burrasca sia nella
tranquillità dei giorni più assolati, tanto preziosi per un ozio di
intellettuale operosità.
Quello stesso isolamento tra mare e sole, inizialmente invocato
dalla Bertrand, che diviene, tuttavia, a poco più di un quindicennio
di distanza motivo per lei di insicurezza e stanchezza creativa,
quando non di vera estenuante tristezza (siamo nel 1966). Ma ciò
non sorprende: Juliette era donna dal temperamento forte ma
anche umbratile. E come nell’amicizia con Moretti, le difficoltà di
conciliare il suo carattere diretto e impulsivo, sempre vivace, con
quello più introverso e diffidente dello scrittore romagnolo, incline
piuttosto a qualche malinconico ripiegamento, non riuscì a
mettere davvero in crisi la loro collaborazione, così la Bertrand
rimase, pur nella fatica di accettare i cambiamenti dell’isola, fedele
a Procida. E al mantenimento del suo status più naturale e
selvaggio, per il quale fortemente si adopererà sempre insieme a
Moretti: con più vera passione lei, con maggiore distacco, pur
nell’adesione, il poeta.
Piccole battaglie come quello verso l’establishment letterario che
poco (o troppo poco) aveva gratificato l’uno e l’altra, ed era stato
semmai foriero di frustrazione e amarezze. Ma lui, Marino, aveva
Marino Moretti negli anni Venti
nella sua casa di Cesenatico.
avvertito l’amica: «così ho dovuto convincermi che le sconfitte
sono in fondo più gradite delle vittorie, anche se così spesso
temute, perché creano intorno a noi il silenzio di cui abbiamo
tanto bisogno per essere veramente noi stessi mentre il successo
non è che clamore, invidia, applausi e inutili lodi». Juliette, tuttavia,
male aveva accettato le sue sconfitte, molto patito per un
successo che non era venuto: «siamo tutti compagni nel rifiutare
sdegnosamente la vita e…finire coll’accettarla e adattarcisi.
Forse perché siamo dei superstiti», e nella decisione di far rientro a
Parigi sullo scorcio degli anni Settanta si matura per lei, oramai
anziana, anche il definitivio abbandono dell’isola amata.
Sarà un addio alla vita.
nella pagina accanto
La Corricella da Terra Murata.
11
12
Procida
Terra Murata.
nella pagina accanto
La spiaggia della Chiaia
negli anni Cinquanta.
isola di Procida, la più piccola delle isole dell’arcipelago
partenopeo (solo 3,7 chilometri quadrati), grazie allo scrittore
francese Alphonse de Lamartine e al suo romanzo Graziella, è stata
conosciuta oltralpe fin dall’Ottocento da intellettuali, musicisti, poeti e
pittori, soprattutto francesi, che spesso hanno raggiunto l’isola, per
respirare la sua aria pura e bagnarsi nelle sue limpide acque e rivivere
l’atmosfera che si respira nelle pagine del romanzo:
L’
Svegliarci al grido delle rondini che sfioravano il nostro tetto di
foglie sulla terrazza dove avevamo dormito; ascoltare la voce
infantile di Graziella che cantava a mezza voce nella vigna per
timore di svegliare i due stranieri; scendere subito alla spiaggia
per tuffarci in mare e nuotare alcuni minuti in una piccola
insenatura dove la sabbia fine brillava attraverso l’acqua profonda
e trasparente e dove non penetravano né il movimento né la
spuma del mare aperto; risalire lentamente a casa asciugandoci e
riscaldando al sole i capelli e le spalle bagnati dalla nuotata; fare
colazione nella vigna con un pezzo di pane e di formaggio di
bufala che la ragazza ci portava e divideva con noi; bere l’acqua
limpida e fresca della sorgente che essa stessa attingeva con una
piccola giara oblunga di terracotta e che, arrossendo, inclinava sul
braccio mentre noi attaccavamo le labbra all’orifizio; aiutare poi la
famiglia nei mille lavoretti contadini in casa e nell’orto...Queste
erano le nostre occupazioni mattutine fino all’ora in cui il sole
dardeggiava a picco sul tetto, sull’orto, sul cortile, e ci obbligava a
13
cercare rifugio sotto i pergolati, dove la trasparenza e il riflesso
delle foglie di vite tingevano le ombre fluttuanti di una colore
caldo e lievemente dorato 1.
nella pagina accanto
L’Eldorado.
Ancora negli anni Cinquanta, nonostante l’isola sia segnata dalla
povertà e dalle ferite della Seconda guerra mondiale, per le solitarie
stradine dell’isola, si incontrano, sempre in estate, piccoli gruppi di
stranieri, ospiti della deliziosa Pensione Eldorado, situata in un
giardino coltivato a limoni e con vista sull’incantevole baia della
Chiaia, scoperta proprio in quegli anni anche da Elsa Morante e
Alberto Moravia, che vi soggiornano a lungo. A Procida la Morante
trova ispirazione per il romanzo L’isola di Arturo, Premio Strega 1957,
nelle cui pagine l’isola appare scontrosa e di solitaria bellezza:
Su per le colline verso la campagna, la mia isola ha straducce
solitarie chiuse fra muri antichi, oltre i quali si stendono frutteti e
vigneti che sembrano giardini imperiali. Ha varie spiagge dalla
sabbia chiara e delicata, e altre rive più piccole, coperte di ciottoli
e conchiglie, e nascoste fra grandi scogliere. Fra quelle rocce
torreggianti, che sovrastano l’acqua, fanno il nido i gabbiani e le
tortore selvatiche, di cui, specialmente al mattino presto, s’odono
le voci, ora lamentose, ora allegre. Là, nei giorni quieti, il mare è
tenero e fresco, e si posa sulla riva come una rugiada. Ah, io non
chiederei d’essere un gabbiano, né un delfino; mi accontenterei
d’essere uno scorfano, ch’è il pesce più brutto del mare, pur di
ritrovarmi laggiù, scherzare in quell’acqua…Mai, neppure nella
buona stagione, le nostre spiagge solitarie conoscono il chiasso
dei bagnanti che, da Napoli e da tutte le città, e da tutte le parti
del mondo, vanno ad affollare le altre spiagge dei dintorni. E se
per caso uno straniero scende a Procida, si meraviglia di non
trovarvi quella vita promiscua e allegra, feste e conversazioni per
le strade, e canti, e suoni di chitarre e mandolini…I procidani sono
scontrosi, taciturni. Le porte sono tutte chiuse, pochi si affacciano
1.
Alphonse de Lamartine, Graziella,
Garzanti, Milano 2009, pp. 41-42.
15
alle finestre, ogni famiglia vive fra le sue quattro mura, senza
mescolarsi alle altre famiglie 2.
Quando nel 1960 Moravia ritorna sull’isola, come inviato speciale della
rivista del Touring Club, Le vie d’Italia, in un articolo dal titolo, L’isola
di Graziella, così la descrive:
La mattina presto, l’approdo alla spiaggia della Chiaiolella,
a Procida, ha tutto l’incanto di quella verginità omerica che ormai,
giornalisti e scrittori pretendono non poter trovare se non in fondo
al Pacifico, in qualche remoto arcipelago di corallo. Una luce
severa si specchia dal cielo sereno; in cui il sole non è ancora
spuntato, nel mare perfettamente calmo.
La spiaggia è deserta, pochi pescatori accovacciati rammendano
in silenzio le reti distese sulla sabbia.(…) Procida non si vede, non
si vedono case: soltanto una costa gialla, a picco su un arenile
deserto. Sopra la costa nella luce che va imbiondendo, le vigne
dalle foglie lussureggianti, alcuni pini sottili, qualche quercia. Il
mare è disteso in una bonaccia bianca, oleosa con grandi tracce
serpentine quasi diafane, simili a indolenti strade di luce che si
dirigano verso l’orizzonte sereno 3.
in queste pagine
La Chiaiolella e il Lido
in due foto degli anni Cinquanta.
Di Procida, come luogo omerico, parla lo scrittore Toti Scialoja, che
intravede in certe usanze dell’isola proprio i costumi e le movenze dei
personaggi dell’Iliade e dell’Odissea:
I coloni al tempo della vendemmia, si inerpicavano su per lunghe
scale a pioli, strettissime, e in cima alle piante di vite
cominciavano a turno a cantare. C’era uno in lontananza che
cominciava a emettere un suono lungo, modulato, lamentoso
come un richiamo. Un suono che alternava continuamente il
maggiore e il minore, secondo una scala armonica assolutamente
orientale. A un certo punto anche un vendemmiatore più vicino
2.
Elsa Morante, L’isola di Arturo,
3.
Alberto Moravia, L’isola di
Einaudi, Torino 1957, pp. 8-10.
Graziella, in “Le vie d’Italia”,
dicembre 1960, p. 1564.
18
nella pagina accanto
Casa di pescatori in via Pizzago.
nelle pagine seguenti
La Corricella.
4.
Giancarlo Cosenza e Mimmo
Jodice, Procida un’architettura del
mediterraneo, CLEAN, Napoli 1993,
pp. 10-11.
dava inizio al suo grido; e il primo taceva. Poi ne arrivava un terzo,
da qualche altra parte. Così il canto si moltiplicava e si inseguiva
per tutta la campagna e l’intera isola pareva trasformarsi nel
sogno. Io da ragazzo questi canti li ho ascoltati per ore. Così come
ho udito questi canti così ho visto i pozzi, e i bindoli, e il ciuco
bendato camminare in tondo intorno al palo della cremagliera,
mentre la carrucola saliva dal pozzo e, giunta sulla cima,
rovesciava l’acqua nei canali scavati a terra per irrigare l’orto.
Come al tempo di Omero…Di certo fino a mezzo secolo fa, era
ancora determinante nel costume dei procidani l’antico rancore,
l’antica diffidenza dei contadini per il sole e dei pescatori per il
mare, Nemici entrambi perché ingannevoli, traditori. Tuffarsi
nell’acqua del mare o sdraiarsi a prendere il sole avrebbe
rappresentato la trasgressione di un tabù ancestrale. Così le
spiagge erano deserte. Solo al tramonto, sulla sabbia di Ciraccio o
Ciracciello, arrivavano i figli dei vetturini portando i cavalli scossi
sotto mano. Si spogliavano, ignudi saltavano sulle groppe
cavalcando a bisdosso, con grida e colpi di pugno, li avviavano
verso il mare. I cavalli non facevano molta resistenza,
camminavano sul fondale basso fino a bagnarsi la pancia. Allora
davano in smanie, i ragazzi si buttavano giù dalla groppa e si
mettevano a schizzare acqua sui cavalli che si rigiravano e
impennavano sollevando grande schiuma; tornati a riva si
rovesciavano sulla sabbia ancora calda, scalciando nell’aria in
modo festoso. Come vedete ho parlato di Omero, e non a
sproposito 4.
Ma c’è un di più che rende Procida fascinosa e mitica: l’architettura
tipicamente mediterranea, purtroppo non tutelata a sufficienza,
nonostante la presenza di studi e di monografie tesi a valorizzare
l’esistente e a indicarne la preziosità storica e culturale.
Tra le monografie, la più significativa in questo senso è quella di
Giancarlo Cosenza, corredata da stupende foto di Mimmo Jodice e da
un’introduzione di Toti Scialoja, da cui il passo precedentemente
riportato. Essa ci aiuta a scoprire la valenza culturale di tutta
l’architettura spontanea di Procida:
La storia dell’abitazione a Procida partecipa all’ampia esperienza
edilizia sorta nel vicino Oriente e lungo le sponde meridionali del
Mediterraneo…e dove il processo produttivo dell’abitazione
collettiva, anche in questa parte del golfo di Napoli, si consolida
nel tempo lungo e nel riproporsi costante dei metodi impiegati
per edificare. E gli uomini, committenti o esecutori, lo affrontano
con criteri estranei all’accaparramento di risorse o a procedure di
profitto.
In questa vicenda l’uomo produce quanto occorre per le proprie
esigenze e il proprio ricovero; non vi è sfruttamento perché è
improponibile sottrargli parte del suo lavoro. Questa condizione
consente una stabile situazione di equilibrio dell’ambiente
trasformato, una concreta qualità degli spazi e la totale razionalità
nell’articolazione dei volumi. Non si tratta di riscuotere la
massima qualità del reddito, ma di ottenere un luogo riparato per
tutti…Così l’abitazione assume nel procedere storico il senso di
risoluzione dei bisogni reali della vita in comune: definisce i
legami interni a ciascuna famiglia, il modo di vivere, la
funzionalità come successione dei vari atti connessi alla vicenda
quotidiana…Così pure la creatività ricchissima di incessanti
innovazioni, ripetute anche ma sempre con ulteriori soluzioni
compositive, qualifica l’uso della materia prima: tufo, pozzolana,
lapillo e calce. E con i materiali nell’architettura di Procida si
mette in gioco, insieme a misure, proporzioni, particolari, il dato
figurativo del colore. La tavolozza cromatica dei gialli, dei rosa,
degli azzurri mescolati con la calce diviene un segno di
importanza decisiva…Il colore, come segno ultimo
dell’architettura, nasce dalla terra lavorata, diviene partecipe
dell’ambiente trasformato dall’uomo e incide come ulteriore
23
nella pagina accanto
La Baia del Carbogno in una foto
degli anni Sessanta.
sollecitazione compositiva, fortemente accentuata dai materiali
utilizzati e dal singolo dettaglio esecutivo, anche come riferimento
decorativo 5.
Ed è proprio questo elemento compositivo di originalità,
armoniosamente unito alla natura delle rocce vulcaniche, che
suggerisce a Moravia, nella sua peregrinazione intorno all’isola, una
penetrante descrizione:
Da un semicerchio vulcanico all’altro, da una punta all’altra, nella
mattina serena, sul mare cangiante e liscio che ogni tanto riflette
tanta luce da confondesi col cielo, la barca giunge finalmente
all’ultimo golfo, in vista alla rocca eccelsa del penitenziario, sotto
la quale si sbriciola come un teschio sforacchiato di occhiaie, la
parte occidentale dell’abitato dell’isola. Da lontano la vista è
senza dubbio orientale, di un oriente da Mille e una notte, che si
stupisce di ritrovare così magicamente intatto. La corsa stessa
della barca, nonostante il battere del motore, nel momento che
appaiono l’abitato multicolore e la rocca che lo sovrasta, assume
un aspetto leggendario; involontariamente guardo i miei
compagni quasi aspettandomi di vederli vestiti di sete e di velluti,
con veli e turbanti, adagiati sopra cuscini. Eppure questa è
Procida, isola del golfo di Napoli, dalla bellezza ancora
sconosciuta…Le case, al solito, di cento colori pallidi e leggiadri,
strette le une alle altre, con le facciate tutte terrazze, poggi e scale,
guardano a una ripa su cui, tirata in secco sulla sabbia, si allinea
una flotta di barche da pesca. L’occhio, come la barca si avvicina,
sale dalla spiaggia alle case, ne contempla con stupore l’aspetto
di rovina multicolore, segue poi certe linee ascendenti di strade a
gradoni scavati nella roccia, si sofferma sul belvedere sotto il
rettangolo giallo dell’opificio del carcere, si arrampica su per i
contrafforti che inquadrano le rupi fino alle file di finestre della
prigione, ascende all’ultima terrazza sormontata a sua volta da
in queste pagine
La “Casa di Graziella” a Pizzago.
nelle pagine seguenti
Veduta verso il porto della
Chiaiolella con Vivara.
Sullo sfondo Ischia.
5.
Ibidem, pp. 35-39.