216 - 219 SEVERINO FERRARI L`ultimo addio a un amico diletto è

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216 - 219 SEVERINO FERRARI L`ultimo addio a un amico diletto è
216 - 219
SEVERINO FERRARI
(25 MARZO 1856 - 24 DICEMBRE 1905)
L'ultimo addio a un amico diletto è penoso a profferire, ma non mi è lecito rifiutare questa pena e
non dare una parola, per quanto scarsa e tremante, a chi da tempo conversava con me tutti i giorni. Né il
parlare anche a nome dei colleghi dell' Università, e in vece degli amici lontani che mi sento vicini
nell'ora angosciosa, mi par così grave, com'è difficile il significare,
o l'adombrare soltanto, quanta gentile bontà si pianga, quanta armoniosa dottrina si perda in Severino
Ferrari.
Singolarissimo in lui fu questo, che, dove per molti son cose diverse o anche discordi la vita che
vivono e le arti che professano, in lui, parte per l'indole degli studi suoi, ma più per l'indole sua, nato ad
essi, la vita e l'arte eran tutta una cosa. Gli scrittori e i poeti pareva vivesser con lui nella famiglia,
dov'egli era sì caro sì buono sì lieto; popolavano la sua casa, arridevano alla sua mensa, preste sempre e
fiorite all'ospitalità e all' amicizia: e intanto poi egualmente i semplici e schietti modi domestici lo
seguivano fuori, non lo abbandonavano tra l'opera e nella scuola. Che se già un tempo aveva congiunte le
fervorose audacie della giovinezza con la nobiltà degl' intendimenti e la severità laboriosa degli studi, ora,
nella maturità posata, affinando più sempre l'ingegno e rendendo più perfetta la dottrina, serbava tutta la
sua amabilità modesta e rimessa. Se in una cosa eccedeva, era forse in quel suo vezzo di mostrar non
sapere o saper troppo poco, da che solo si riscoteva con impazienza sdegnosa udendo taluni, ignari o
inconsci, giudicare alto in quelle materie, trattar con baldanza quelle arti, che per lui eran sacre.
Ad altri è consueto e proprio esporre con più continuata facondia un capitolo di storia, con più grave
efficacia il frutto di una ricerca: ma a pochissimi la letteratura nostra, dagli inizi a oggi, fu mai così
esplorata e conosciuta com'era a lui, nei fatti e negli spiriti, e con tanta conoscenza di testi, con tanta
lettura di autori, con sì avveduta sagacia di criteri. E, mentre tutta l'abbracciava, molti erano e insigni i
luoghi ne' quali egli poteva arrestarsi e spaziare come signore, dovizioso di recondita erudizione e di
sicure notizie.
Come interprete di poeti e come poeta, finché sia vero che
orecchio ama placato
la Musa e mente arguta e cuor gentile,
chi potrebbe dubitare che Severino Ferrari fosse nato alla poesia? Altri può aver sortito di rendere più
facilmente e compiutamente il suo sentimento e il suo sogno: ma, come nessuno potea essere che le
ragioni dell'arte conoscesse più a dentro, e l'arte praticasse più discreto e delicato e devoto, così, credo, su
nessuna anima la poesia nostra, da Dante al Manzoni, dal Petrarca al Carducci, cantò più schietta e più
intiera che su quest'anima vivida e alacre sempre, che vibrava deliziosamente alla carezza di un verso
divino, come uno stelo fiorito agli zefiri, o, come quercia al turbine, fremeva commossa al tocco di una
strofe magnanima, al lampo di un pensiero sublime. Quanto a sé, egli ridicea volentieri:
il mio canto miglior sempre è quel desso,
quel che non feci mai.
E pure bei carmi avea fatti, e temperati di note schiettamente vive, altamente libere e umane: e,
ricercando per amore e con amore letteratura e poesia di popolo, ne avea dedotti numeri e modi al suo
canto, e mescolata quella freschezza alla freschezza nativa del suo spirito, quasi due ruscelli, sgorgati un
da lungi e un da presso, che si trovano poi e corrono insieme. Quel bacio che il vecchio padre buono
impresse su la bionda fronte della nuora novella, era agli occhi del figlio
un bacio che ogni giorno s'illumina e risplende.
E di simili versi, di simili ineffabili gentilezze i canti di Severino mi par che s'illuminino e risplendano
tutti. Ma non di essi, ora. L' ultimo giorno della dimora sua a Bologna, l’ultimo verso che udii dalle sue
labbra fu questo:
nel mezzo del cammin di nostra vita...
(ed egli era, aimè ! così presso alla fine!). E questo verso ancora mi ripeté quando l'abbracciai 1'ultima
volta, al cader di settembre, su quel colle pistoiese dal dolce nome che oggi tanto amaro echeggia sul
cuore. Così, col verso iniziale di quello che fu per lui il libro dei libri, si chiuse la serie infinita di versi
che, a gran diletto e conforto, avevo udito ripeter da lui; e quasi mi sembra in compendio l'affermazione
suprema delle sue dottrine e dei suoi gusti. Sicché ora, armonia degna di accompagnarlo, e a lui la più
diletta e desiderata, mi figuro di ascoltare ridesti i più bei canti de' massimi nostri poeti, e la voce del
nostro grande e caro maestro a intonarli come nessun recitatore mai potrebbe sperare, e a soggiunger poi i
canti suoi nuovi, pieni di antica bellezza e di augurato avvenire. Così mi par vedere l'amico soffermarsi e
volgersi anche una volta, sorridendo di quel suo sorriso consapevole e arguto agli splendori e ai suoni
dell'arte gloriosa d'Italia, che fu suo amore, suo onore. Questo onore certamente gli sopravvive. Ma è pur
vero che la sua più bella poesia era egli stesso, e quella mirabil concordia di bontà e d' ingegno, di
semplicità e di sapere, che lo faceva esser lui; mirabil concordia che ora è rotta e scomposta per sempre, e
che il cuore di chi lo conobbe e lo amò saluta con l'affettuoso e doloroso grido: addio, Severino!
GIUSEPPE ALBINI